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Autore: Nirvana_04    13/05/2018    4 recensioni
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.

Questa storia è ambientata al di là dell'Antica Venasta, oltre i Monti a est di Cahar, in un tempo che si perde nelle trame della leggenda e sfocia nel mito che sta all'origine dell'antico legame tra Puèsigath e Agabar; e narra dell'amore senza tempo di Arket e Adelaya, divenuto trastullo di dei e portatore di dolore per mortali ed eterni.
Queste note selvagge lacrimano ancora
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
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Arket tese l’arco, la freccia incoccata, e poi lo abbassò senza scagliare, sconsolato e timoroso dell’ira degli dei. Non per sé, ma per Adelaya.
«Non avrrei prrovato neanche dolorre» gli rilevò il dio corvo.
«No» gli confermò lui a capo chino, «ne proviamo abbastanza noi al posto vostro.»
Zeptum non lo derise come suo solito, ma gli si fece più vicino. S’inginocchiò vicino a lui e mormorò: «Più a szud, felica, un altrro po’ più a szud.»
Arket sollevò le mani verso di lui, alla cieca, ma non per ferirlo o aggredirlo: gli stava mostrando i segni del tempo impetuoso. «Non ho più tempo.» Sentiva il peso di una vecchiaia che non aveva ancora vissuto, la stanchezza di una vita che non aveva ancora affrontato. Anche Adelaya soffriva le sue stesse pene? A che vita il suo egoismo l’aveva condannata? Non sarebbe stato più misericordioso restituirla al fango, recidere quel cappio intorno al suo bellissimo collo? «Non ce n’è più per noi.»
«Alzzati, non ho ancora finito con te. Mi serrvi.» Le parole del dio corvo furono seguite da lampi di fuoco nel cielo. Lo scrosciare di un’improvvisa pioggia li colse allo scoperto, infradiciandoli. Anche le ciocche bianche del dio si piegarono sotto il peso dell’acqua. Quelle del felica, invece, spente e ingrigite, erano già diventate una poltiglia aggrovigliata sul suo capo blu. Se li sarebbe strappati con forza, se solo la disperazione non lo avesse privato dell’impeto per farlo. «Alzati» ripeté Zeptum, «szeguimi.»
Le parole del dio erano dure, determinate. C’era pietà in esse? No, eppure Arket riconobbe la nota acuta che lo esortava: era paura, era disperazione, dolore, rimorso, e forse un baluginio di speranza. In quel folle gioco, il dio aveva scommesso molto e puntato tutto, glielo si poteva leggere negli occhi tondi e rapaci.
Arket si aggrappò a quei sentimenti, fece leva sulle gambe malferme e iniziò a barcollare dietro le ali del corvo bianco. Con il viso rivolto all’insù e l’aspetto di uno spaventapasseri spelacchiato, caracollò alla cieca dietro quella scia di luci e piume candide, senza prestare attenzione alle radici che sbucavano traditrici, ai rami bassi degli alberi, alle fosse nascoste nel terreno impervio. Più volte cadde, e tutte le volte si rialzò, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua guida. Temeva che se avesse smesso di pregare con gli occhi, i sentimenti del dio si sarebbero liberati come cani senza guinzaglio, e lui si sarebbe ritrovato per l’ennesima volta a seguire il vuoto derisorio di un dio troppo distante dalle sue pene.
Gli dei, tutti quanti, stavano guardando, partecipando alle sue pene. Una tempesta si abbatté sulla terra, talmente forte e veemente da cambiare forma al mondo. Il suolo divenne fango e si plasmò sotto il potere di Puèsigath, sradicando alberi e creando letti marroni in cui i piedi del felica scivolavano sempre più giù, sempre più a sud. Il fuoco distruttivo di Sefta scivolò come fiumi di lava, portando con sé colline e montagne, prosciugando fiumi altrimenti impetuosi e letti di torrenti troppo grandi per essere guadati. C’era luce intorno a lui, Yara la stava facendo risplendere a giorno perché egli non perdesse mai la vista. La visione di un mondo che stava per essere distrutto lo attanagliò fin sotto la pelle, come le dita di un estraneo che mettevano a nudo la sua anima. Poteva lasciare che il mondo implodesse pur di giungere a lei?
Arket pregò perché avvenisse in fretta, tutto questo, così che egli potesse riabbracciare la sua Adelaya. Più nulla contava: non il suo dovere di Nabaik, non il suo onore di felica, non la sua fede nel timore degli dei.
Mentre tutto intorno a lui mutava, mentre il mondo che conosceva spariva per sempre, Arket vide se stesso per quello che era: fango. Volubile, imperfetto, codardo. Poteva vedere l’arroganza del guerriero che era stato bruciare insieme alle cortecce degli alberi che minavano a tagliargli la strada. Sentì l’accidia dietro cui si nascondeva per evitare conflitti o decisioni scomode in nome di una volontà superiore scivolargli via di dosso. Abbandonò tra i ruggiti della tempesta le urla di guerra e tutte le altre parole che avevano composto la sua vita – famiglia, amici, persone indifese, sovrani – e un’unica nota vibrò nel suo cuore: Adelaya.
Quale valore poteva avere la vita senza di lei? Quale onore nel preservare quell’esistenza se lui non poteva averla accanto a sé? E sarebbe stato onorevole fingere che l’amore verso gli altri e se stesso fosse consolatorio di fronte alla sua perdita? Arket abbracciò la sua viltà, diede in pasto agli dei ogni cosa pur di riavere la sua amata. Se avesse avuto il potere di un dio, gridò gli occhi rivolti sempre a Zeptum, avrebbe distrutto tutto per far vivere solo lei. Cos’altro, altrimenti, poteva giustificare tanto dolore e tanta forza, se non un amore talmente forte da distruggere tutto? L’amore non salva, l’amore non crea; l’amore frantuma montagne, incenerisce l’aria. L’amore è fuoco che divampa, e il fuoco divora tutto nel suo cammino. Se Arket avesse avuto il fuoco, avrebbe azzannato la strada che lo separava da Adelaya.
Ma il fuoco che aveva era la sua passione, ed essa era mortale, come lui. I suoi piedi nel fango sprofondarono e la luce lo accecò. I suoi occhi lacrimarono nel tentativo di rimanere fissi sul corvo, ma alla fine crollò, semplicemente. Il vento aveva cessato di soffiare, ogni suono giungeva a lui come da dietro gli spessi lembi di una tenda. Arket scoprì di aver raggiunto i luoghi della morte, di trovarsi sulla loro soglia, dove aveva condannato Adelaya ad attendere il suo arrivo. La sua impudenza gli si mostrò attraverso il vuoto di quei luoghi: non c’erano profumi – non il profumo dell’erba, del vento, dei fiori – che Adelaya amava tanto; non c’erano i suoni – l’acqua del ruscello, il volo degli uccelli, la musica dei suonatori di tamburi che nella loro valle rullavano dentro a grandi grotte, per far sì che sembrasse che la stessa terra vibrasse -  che la sua amata adorava ascoltare. E non c’era alcuna via da seguire, nessuna traccia di lei, come se Morte avesse già ghermito tutto ciò che di lei egli poteva riconoscere. Stava cercando di acciuffare un fantasma.
«Corragio, felica. Non ho ancora finito con te.» Il corvo era di nuovo un fanciullo, freddo come il ghiaccio, e come il ghiaccio vicino alla fiamma stava per sciogliersi. «Mostrra lorro la felicità che szi prrova nello starre inszieme.»
«Quanto?» non aveva bisogno di aggiungere altro; lui capì.
«Alzzati.»
«Dammi la forza!» lo supplicò.
Ma Zeptum fece schioccare le labbra come il rostro di un rapace, indignato. «Sztiamo ancorra giocando, felica. Alzzati.»
Già, questo era solo un gioco per gli dei; un gioco che li era sfuggito di mano. Il dio corvo era un fanciullo implume, imberbe, che era atterrato su Vita come una lancia di ghiaccio in mezzo a un lago ghiacciato: egli voleva spezzare la lastra congelata, ma la sostanza di cui era fatto era troppo simile a quella che voleva distruggere perché egli potesse riuscirci. Zeptum aveva bisogno di lui, lo stava usando… ma non ancora per molto.
«Non arriverò in tempo.» Arket pronunciò la verità, la sputò su se stesso prima ancora che verso gli dei. «Non arriverò in tempo!» ruggì verso il cielo, e nonostante la tempesta imperversasse al di là della foresta una mano divina aveva ormai smorzato ogni altro suono al suo interno. Che importanza aveva alzarsi… loro dovevano capire quello che lui aveva già capito. Era importante, e c’era poco tempo. «Avete perso… io ho perso. Sono consumato, non potete più usarmi» si guardò le mani e le mostrò a loro. «Quanto mi rimane? Un’ora, pochi minuti, meno di quanto impiega l’ultimo raggio a scomparire all’orizzonte?» Arket gettò le armi, spezzò il suo arco, afferrò il pugnale e lo scagliò in mezzo alle fiamme alle sue spalle, sfregiandole simbolicamente, con la lama che ne squarciava per un solo istante la danza. Poi esse ripresero a vorticare intorno a lui. «Io morirò, tornerò fango e nel fango ci sarà la mia Adelaya. Voi continuerete a essere, e questo fango voi dovrete rimodellare. Avete perso. Avete perso!»
«Continua ad avanzarre» lo sollecitò a cipiglio arcato Zeptum.
«E sprecare il mio fiato qui, dove ella non può sentire che pronuncio il suo nome? Cosa vuoi dimostrare, mio dio?» Arket strisciò ai piedi del dio corvo. Dopo quattordici anni passati a lanciargli contro le sue maledizioni, fu con gli occhi imploranti che gli rivolse la sua ultima preghiera: «Dà ciò che resta della mia vita ad Adelaya, così che il mio amore sappia che il mio ultimo pensiero è stato per lei. Lascia che il vento suoni la sua arpa, così che ella sappia quanto io ancora la ami. Volendola per me, l’ho strappata ai suoni della terra, ai profumi del mondo. Lascia che io le faccia dono della vita, della vera vita, quella che la faceva ridere, che l’abbracciava anche quando io non ero con lei. Tu che sei il saggio inverno, che tutto congeli e nulla dissolvi, tu che per infinito volere cammini da solo e rifiuti la compagnia della tua gemella divinità, non lasciare che la mia promessa sposa svanisca nella solitudine di questi boschi senza sentire la carezza del vento, spirito delle nostre terre.
«Vuoi che io la raggiunga, ma anche tu devi accettare il fatto che questo non ha da essere. Sono troppo lontano, e troppo tempo hai perso a giocare con me. Vi siete illusi che fossimo noi a soffrire, ma siete voi che non conoscerete consolazione. Siamo troppo piccoli e troppo sciocchi, io per primo da quando ho pensato di potervi sfidare. Ma la nostra piccolezza, la nostra ignoranza, ci permette di dimenticare, di mutare, di provare gioia dopo il dolore, di fermare l’odio con il nostro amore. Voi siete condannati a non conoscere la consolazione di mani fragili, la gioia di una vita che potrebbe finire in un istante. Voi ricorderete questo.»
Zeptum avanzò di un passo e poi si fermò. Sefta era tra le fiamme, impugnava la lama che il felica aveva lanciato contro il suo potere. Yara sedeva su una roccia e piangeva, le sue lacrime di latte spensero il fuoco e nutrirono la terra. E anche Not, il saggio e l’imprudente dio dei fiumi che salivano a monte e dei venti che non muovevano alcuna foglia, anche lui era sceso su Vita.
Vide il potere di Zeptum sprofondare nel fango, sporcarsi: suo padre – il dio che lo aveva creato – era lì, stava fermando la sua collera, la sua determinazione. Gli stava dicendo: “anche un dio deve cambiare per sopravvivere”. Puésigath era stanco, ma scrollò il capo e la terra tremò, si sfaldò e minacciò di far sprofondare ogni cosa.
Arket vide la sua piccola arroganza, e questa lo riportò di nuovo sotto quella tenda di quindici anni prima, dove con il corpo di Adelaya tra la braccia aveva sfidato gli dei a giocare con lui, e ripeté: «Not, Yara, Zeptum e Sefta, e Puèsigath, tu che tra tutti sei il più volubile» non c’era rancore, solo preghiera, la stessa fede che Adelaya aveva riposto in lui, «se è una vittoria che cercate, ascoltatemi, vi imploro. Il mio tempo è finito, quello di Adelaya doveva cessare molti anni fa. L’invidia per la vostra immortalità mi ha accecato.» Anche con le palpebre chiuse, poteva immaginare la perplessità scolpita sui loro volti perfetti. Continuò mentre le lacrime di Yara che cadevano dal cielo ripulivano il suo viso: «La mia vita è sempre stata sua, lasciate che almeno in questo noi possiamo trovare la felicità.»
E Not allargò le falde del suo mantello, e il vento soffiò tra i rami rinsecchiti. E Yara pianse, e la pioggia cadde a bagnare le foglie secche. E la capricciosa Sefta, che reggeva il simbolo di quello sfregio, si strinse nelle sue vesti e alzò la lama a protezione del suo viso, come se quell’alito di vita in quel luogo potesse ferirla. Il fango si modellò a figura mostruosa dietro Zeptum e lo abbracciò. Ad Arket parve di sentire la voce di Puésigath gorgogliare: «Lascia andare la pedina, Zeptum.»
Vide il dio corvo lanciare un’occhiata sospetta a sua sorella, ma la sua diffidenza si dissipò nell’istante in cui il suono di un’arpa squarciò la muraglia di nebbia.
Arket sentì le note selvagge illuminare la sua strada: erano voraci come il fuoco, affilate come ghiaccio; erano volubili come creta e ottenebravano i sensi con la loro soave potenza. Arket sentì la carezza delle dita di Adelaya sfiorare il suo viso.
«Non temere» disse Not con fare rassicurante, «adesso le risponderai.»
L’ultima nota vibrò dentro la sua anima: aveva ritrovato la strada di casa.
 
 
 
 
Può l’odio alimentare un sentimento come l’amore?
Sefta e Zeptum erano nati per non potersi mai toccare, mai vedere, mai soffrirsi. Erano l’equilibrio, e per governarlo non era concesso loro camminare insieme. Sefta portava distruzione, corrodeva persino l’acciaio; Zeptum cristallizzava ogni cosa nell’imperitura durezza del gelo. Ciò che Sefta amava, Zeptum lo rendeva intoccabile. Ciò che Zeptum voleva, Sefta distruggeva. Due note stonate si attraggono come due soli, e tutto ciò che sta in mezzo a loro viene risucchiato. E cosa può l’amore di due esseri mortali su entità eterne e irraggiungibili?
Le leggende dicono che soffrirono tutti la morte di Adelaya. Tutti sentirono la morte di Arket. Il popolo felica agonizzò, come se una lama fosse entrata in ogni singolo petto, e si dice che l’aria per un attimo venne risucchiata sui monti, perché persino gli dei trattennero il fiato, e allora i felichi annasparono, cadendo in ginocchio.
Sefta distrusse la pedina del fratello: non per collera, non per capriccio, ma per amore. La stessa lama di Arket, che quindici anni prima aveva già reclamato la sua vita davanti agli occhi degli dei, affondò nel suo costato e gli rubò l’ultima nota.
Zeptum soffiò, e le foglie stormirono e la vita di Arket galoppò tra le nebbie, verso Adelaya, più veloce di quanto non avrebbe fatto se avesse continuato a risiedere nel corpo mortale. Le mani della fanciulla si tesero per accoglierla mentre il vento faceva vibrare le corde della sua arpa. Ella sentì sul suo viso l’aria dei monti, udì lo scorrere a valle dei fiumi, percepì la braccia di Arket sorreggerla di nuovo.
La vita di Adelaya si spense pochi istanti dopo quella del suo amato.
Dicono che Zeptum e Sefta ritornino in quei luoghi di tanto in tanto. Le leggende poco ricordano di questi due divinità se non che…
Il dolore della dea degli eventi nefasti fu così grande da bruciare il suo stesso tempio, la delusione del dio corvo così profonda da gelare i seggi della terra senza tempo. Sefta non cercò più l’adulazione degli uomini, la cui collera verso i tanti soprusi patiti fu terribile, e travolse ogni loro mausoleo e ogni loro tempio. Il culto degli dei gemelli si dissolse come sabbia nel deserto trasportata dalla tempesta.
Not e Yara lasciarono quei luoghi di dolore e attraversarono i confini di quel campo di gioco. Crearono altri popoli al di fuori della Cinta, spinti dalla voglia di giostrare secondo le loro regole quelle vite: il Dio muto lavorò con costanza la pietra bianca, forgiando un popolo valoroso e saggio, con cui egli amava comunicare e intrecciare sfide; mentre Yara si divertì a lavorare con l’argilla, a miscelarne le diverse sfumature, e diede vita a un popolo iracondo, tracotante e guerrafondaio, un popolo senza una vera identità, ma che aveva la passione nelle vene e il coraggio di chi non si arrende e di chi non si piega, e non si spezza, e non si inchina, e mai si guarda indietro.
Di Arket e Adelaya rimane un blando ricordo nella mente dei felichi.
Puésigath, che da lontano aveva guardato i suoi stessi figli giocare e litigarsi le bambole di fango e soffrire per esse, discese un’ultima volta su Vita e si mostrò a Tohri. A lui narrò dell’amore di suo fratello e della bellissima fanciulla che aveva aspettato nella solitudine dei luoghi senza voce. Con il felica, il grande dio sancì che metà di uno non venisse più spezzata, impedendo che altri commettessero lo sbaglio di cercare l’equilibrio nella solitudine di due metà. Alle creature di fango donò il campo di Vita, poiché gli dei erano stati indegni di amministrarne le leggi, e ignoranti nel capirne la pericolosità.
Nei luoghi freddi dove dimorano oggi gli dei, le lire continuano a suonare le leggiadre note di quel canto selvaggio che su Vita avevano fatto vibrare il cuore del mortale Arket e quello della bellissima Adelaya.




 
N.d.A.

Lo so, questa storia ha molti difetti e non è esattamente quello che avevo in mente all'inizio; però ogni volta che ho provato a cambiare qualcosa o ad aggiungere qualche particolare, mi fermavo a guardare la pagina. Forse è semplicemente nata così: imperfetta, come gli dei di questa storia e come i suoi due protagonisti. Però, rileggendola, devo dire che non mi dispiace tanto.
Spero sia riuscita nell'intento più importante: emozionarvi e farvi riflettere.
Grazie ancora a tutti voi!
   
 
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