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Autore: Mari Lace    21/05/2018    2 recensioni
Terza classificata al contest The crack- The ship - The canon! Get ready! - II edizione indetto da missredlights sul forum di EFP. [Premio Miglior Canon!]
Mort mi sorrise; Milla mi buttò direttamente le braccia al collo. «Mi sei mancato», mi sussurrò in quella sua strana lingua così musicale. Una lingua che in quei mesi avevo imparato a conoscere.
Certo, non ero assolutamente in grado di affrontare una conversazione in italiano, ma le frasi base le capivo. Quelle tre parole poi le conoscevo bene ormai. «Anche tu, ragazzina» mormorai, incantato.
(...)
«Qualcosa che non fa per il buon vecchio Mort? Devo preoccuparmi?» scherzai, sempre più curioso.
«Chissà», fu la sua non-risposta. Sfuggente come un’ombra.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Milla, Morten, Ryan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ungheria: musica, dolci e…

 

 

 

Budapest Ferihegy, 9 agosto, ore 13:00

 

Scesi dall’aereo, finalmente. Nove ore di volo possono essere davvero stancanti, a maggior ragione se non riuscite a chiudere occhio per l’eccitazione.

Avevo degli ottimi motivi per essere eccitato, una volta tanto. Uno di loro, il principale, mi stava aspettando all’ingresso dell’aeroporto, in compagnia di un danese sui vent’anni. Avevo già visto Morten, ma anche stavolta non potei fare a meno di notare quanto sembrasse perfetto. Non a caso ne ero stato geloso, una volta, e mi considero tutt’ora fortunato a non averlo come rivale.

Fu, però, la figura accanto a lui a mozzarmi il fiato.

Milla, la fonte della mia agitazione, era persino più bella di quanto ricordassi. In quel momento stava ridendo, probabilmente ad una battuta di Mort. Mi affrettai a raggiungerli.

«Ragazzi…»

Mort mi sorrise; Milla mi buttò direttamente le braccia al collo. «Mi sei mancato», mi sussurrò in quella sua strana lingua così musicale. Una lingua che in quei mesi avevo imparato a conoscere.

Certo, non ero assolutamente in grado di affrontare una conversazione in italiano, ma le frasi base le capivo. Quelle tre parole poi le conoscevo bene ormai. «Anche tu, ragazzina» mormorai, incantato.

Non mi ero reso conto di quanto davvero mi fosse mancato stringerla tra le braccia fino a quel momento. Lasciai il bagaglio e ricambiai l’abbraccio.

Ci separammo poco dopo; guardai Mort, imbarazzato per averlo quasi ignorato. «È bello vederti».

«Anche per me», mi rispose nel suo solito tono apparentemente distaccato, anche lui in inglese.

Spostai lo sguardo dall’uno all’altro; avevamo molte cose da dirci, ma in quel momento calò il silenzio.

Pensai io a spezzarlo. «Sto morendo di fame» annunciai, profondo come sempre. Era vero, però.

Milla scoppiò a ridere. Posò lo sguardo sulla mia non trascurabile valigia. «Prima passiamo in hotel».

Uscii dall’aeroporto figurandomi già uno scomodo viaggio in autobus in cui avrei cercato disperatamente di non urtare nessuno; quando vidi Morten fermarsi di fronte ad una Station Wagon bianca ed aprirla stentai a crederci.

«È tua?» mormorai. Era troppo bello per essere vero.

Mort mi guardò divertito. «L’ho noleggiata», spiegò. Mi aiutò poi a sistemare la valigia nel portabagagli.

Mentre mi accomodavo sul sedile posteriore pensai che tutto sommato non mi dispiaceva, che il mio amico danese fosse così perfetto.

~

Dopo una rapida sosta in albergo mi portarono in un ristorantino “nascosto” in una delle vie minori per evitare i prezzi esagerati del centro; lungo il tragitto mi guardai intorno: Budapest era veramente meravigliosa, totalmente diversa dalla mia New York. Gli edifici erano pittoreschi, antichi, e in questo senso mi ricordava un po’ l’Italia, ma trasmettevano qualcosa di completamente diverso. Moltissime le costruzioni allungate, sembrava che chiunque avesse costruito quella città avesse voluto toccare il cielo con le sue creazioni. Notai, comunque, che erano presenti diversi stili. Forse era proprio questa mescolanza a rendermela diversa dall’Italia; o forse ero solo troppo affamato per avere pensieri di senso compiuto.

Al ristorante imitai Morten ed ordinai un gulasch, praticamente una zuppa a base di patate e carote; la condii abbondantemente con la paprica. Milla invece ordinò un piatto di cui non colsi il nome, consistente in uno spezzatino di carne con gnocchetti all’uovo.

Approfittammo di quel momento per aggiornarci sulle vite di ognuno; parlare dal vivo è davvero tutta un’altra cosa. Notai con piacere che l’inglese di Milla era migliorato, nonostante l’accento italiano fosse sempre riconoscibile.

L’accento di Mort, invece, era quasi impercettibile: se mi avesse detto di essere madrelingua inglese - britannico magari - gli avrei creduto.

Dissi loro dello stupefacente risultato che avevo ottenuto all’esame finale - io, il caso quasi perso! -, ma tenni per me una certa informazione. A Milla l’avrei detto più avanti, in un momento un po’ più… speciale, speravo; Mort invece lo sapeva già, mi ero consigliato con lui in precedenza.

La cucina ungherese mi lasciò un’impressione molto buona.

Uscendo dal ristorante pensavo che avremmo girato un po’ la città, ma la mia stanchezza doveva essere evidente perché i miei amici insistettero perché tornassi in hotel e mi riposassi un po’.

«Ho bisogno che tu sia ben sveglio stasera», mi sussurrò Milla in inglese.

Non capii a cosa alludesse ma non protestai. D’altra parte il viaggio mi aveva davvero stremato.

«Non divertitevi troppo, senza di me» mi raccomandai scherzosamente prima di rimanere solo nella mia stanza. A disfare la valigia avrei pensato al risveglio, decisi infilandomi nel letto.

~

Dormii poco più di un paio d’ore; svuotai diligentemente i bagagli e mi preparai per uscire. Scelsi d’indossare un paio di jeans e una maglietta di cui andavo particolarmente fiero, un’edizione limitata decorata con una cover dei Pink Floyd.

Aprii la porta della stanza e mi ritrovai di fronte a dei bellissimi occhi verdi che, vedendomi, si riempirono di stupore. «Stavo per bussare», mi spiegò Milla. Sorrise. «Tempismo perfetto!»

Mi persi a pensare che avere il suo sorriso davanti, non in foto, era bellissimo… per questo ci misi qualche secondo di troppo a rispondere. Nel frattempo lei mi guardava vagamente divertita.

Mormorò qualcosa in italiano, ma non riuscii a capire bene. Qualcosa a proposito di un gatto ed una lingua… probabilmente avevo sentito male.

«Dove mi porti?» le chiesi, ricomponendomi.

«È una sorpresa!» dichiarò lei afferrandomi una mano. Mi lasciai trascinare fuori dall’albergo senza opporre resistenza; si fermò solo davanti ad un’apertura sotterranea del marciapiede. L’entrata della metro, probabilmente.

«Dov’è Morten?» chiesi, realizzando solo in quel momento l’assenza del danese.

Milla iniziò a scendere le scale. «Preferiva non venire stasera. Ha detto che non fa per lui».

«Qualcosa che non fa per il buon vecchio Mort? Devo preoccuparmi?» scherzai, sempre più curioso.

«Chissà», fu la sua non-risposta. Sfuggente come un’ombra.

La seguii dentro alla stazione. Non ne avevo mai vista una così: la struttura era più o meno moderna, ma a stupirmi furono le colonne. Più che portanti mi sembrarono decorative: il corpo era semplice, un rettangolo color mattone decorato solo da una doppia colonna di cerchi sporgenti al centro. La parte “fuori contesto”, strana ma bellissima, era quella superiore – capitello, credo si chiami. Mi lasciò a bocca aperta.

«Che fai? Dai, vieni, prendiamo il treno».

La voce di Milla mi riportò alla realtà. Effettivamente era appena arrivato un treno - giallo! - in stazione. Mi affrettai ad entrarci.

«Non posso ancora sapere dove andiamo?»

Lei scosse la testa con decisione. C’era qualcosa di strano, però; sembrava… agitata?

Notai che non riusciva a star ferma un attimo, ora si torturava le mani, ora giocherellava con una ciocca di capelli… se avesse potuto si sarebbe messa a saltellare, indovinai.

Scendemmo dopo solo tre fermate.

Senza più fare domande, la seguii per le strade di Budapest, che sembrava conoscere stranamente bene per essere lì soltanto da due giorni. Immaginai che avesse già provato, e memorizzato, quel percorso. Doveva essere qualcosa a cui teneva molto.

Arrivammo ad un ponte; Milla vi salì.

Era imponente: chiunque volesse attraversarlo non poteva ignorare l’enorme leone di pietra al suo inizio. Sotto, il Danubio scorreva tranquillo.

Non avevo idea di cosa ci aspettasse dall’altra parte del ponte. Lo chiesi a Milla, senza sperare più di tanto in una risposta. Mi stupì, invece.

«Obudai szyget, ovvero Isola della vecchia Buda», mi spiegò. «È l’isola in mezzo al Danubio più grande della città. C’è una famosa statua di pescatori, la vedrai tra poco».

Notai che continuava a torturarsi le mani.

Arrivammo all’altra estremità del ponte e ammirai i monumenti; non solo la statua, c’era anche un palazzo che trovai davvero bello. Milla, però, mi lasciò solo pochi minuti per godermi il panorama: subito dopo ripartì verso la nostra misteriosa destinazione.

Notai la presenza di molte bancarelle ai lati delle strade che percorrevamo; strade che divenivano sempre più affollate.

Svoltò in quella che sembrava una piazza e si fermò di colpo; le finii addosso. «Potevi avvisare...» mormorai.

Lei non mi rispose. Da dov’ero non potevo vederla in faccia, quindi mi spostai alla sua destra.

Mi sembrò concentratissima. Studiava la piazza come se ne dipendesse della sua vita.

Seguii il suo sguardo e, finalmente, capii.

Al centro della piazza c’era un palco: era circondato da centinaia di persone.

In quel momento si stavano esibendo tre ragazzi, ma da quella distanza e con il rumore della folla non riuscivo a sentire nulla. Milla aveva ripreso a torturarsi le mani con più frenesia di prima.

Non l’avevo mai vista così agitata, neanche sulla Scacchiera. Eppure lì la posta in gioco era stata un po’ più alta di un concerto.

Si mordicchiò un labbro. «C’è troppa gente», disse piano. Quasi non la sentii. Controllò l’orologio come, mi resi conto, nell’ultima mezz’ora aveva fatto spesso.

«Si esibisce qualcuno in particolare?» domandai. Sono sempre stato bravo ad enunciare ovvietà.

Lei sospirò e si decise a fissarmi. «Il mio gruppo preferito» mi spiegò. «Mi dispiace, avrei dovuto prevederlo… È che… Ieri sera c’erano meno persone».

L’ultima parte della frase fu coperta da un urlo delle persone intorno a noi; vidi i ragazzi lasciare il palco ed essere rimpiazzati da un uomo, probabilmente il presentatore della serata.

Vidi lo sguardo di Milla accendersi d’eccitazione e incertezza allo stesso tempo. Certo da lì non ci saremmo goduti molto lo spettacolo. Fu quello a farmi decidere.

«Ho visto di peggio» affermai deciso afferrandole la mano. Non so se mi avesse sentito.

Iniziai a farmi strada tra le centinaia di persone accalcate, forte delle mie esperienze agli eventi della mia città. Quello era niente, o quasi: mi era capitato di addentrarmi in folle anche più numerose. La mia unica preoccupazione era finire separato da Milla, perciò strinsi la sua mano il più forte possibile finché non arrivammo a pochi metri dal palco; lì allentai leggermente la stretta.

Non era stato facile, ma l’espressione di pura felicità che scorsi sul volto di Milla mi ripagò completamente della fatica. Mentre lei osservava i suoi idoli salire sul palco, io rimasi a fissare lei.

Era bellissima, e non solo per i capelli rossi e i grandi occhi verdi, caratteristiche che al nostro primo faccia a faccia mi avevano colpito subito.

Ad essere bellissima era soprattutto la sua espressione, in quel momento. Partì la prima canzone e lei iniziò a ballare, imitata da quasi tutto il resto del pubblico. Io, però, avevo occhi solo per lei.

Le luci colorate del palco le illuminavano il volto ora di un colore, ora di un altro, mettendo in risalto ora i suoi occhi, ora la bocca, ora le guance… Ero come ipnotizzato.

In più si muoveva bene, Milla, notai sorridendo quando riuscii a smettere di fissarle il volto.

Ricordai che era stata proprio lei a proporre l’Ungheria come luogo del nostro incontro: doveva aver avuto in mente il concerto fin da subito. Avrei dovuto immaginarlo, sapevo bene che la musica era la sua passione.

La mia invece era lei; lo sapevo già, ma in quegli attimi lo avvertii con una chiarezza nuova.

Mi unii al suo ballo e, nel momento di pausa tra una canzone e l’altra, avvicinai la bocca al suo orecchio, sussurrandole il pensiero che aveva prepotentemente invaso la mia testa: «Sei stupenda».

Mi sembrò che arrossisse, ma forse era solo un altro effetto delle luci del palco.

Ballammo così altre cinque canzoni. Uscire dalla folla fu quasi più faticoso che entrarci.

Ci allontanammo dai rumori della piazza, stremati ma contenti.

Milla si sedette sulla prima panchina che trovammo; davanti a noi c’era una bellissima aiuola che poteva vantare fiori di praticamente qualsiasi colore.

La raggiunsi; era accaldata ed aveva tutti i capelli fuori posto. Dubitavo di essere in condizioni migliori.

Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, troppo impegnati a riprendere fiato.

Come sempre, pensai io a rompere il ghiaccio: «È stato divertente».

Lei sorrise; il rosso delle sue guance rese ancora più bello quel sorriso… ma forse era il mio cervello che, andato definitivamente in tilt, mi permetteva solo di ammirarla.

«Moltissimo», confermò.

Ci guardammo negli occhi per qualche secondo. Non potevo più resistere: feci quel che avevo desiderato dal momento in cui aveva iniziato a ballare. Azzerai la distanza tra le nostre labbra e lei mi rispose senza esitazione.

Sapeva di cannella.

Sentii le sue braccia passarmi intorno al collo e stringermi come a volersi accertare che non sparissi; se non avessi avuto la bocca occupata, l’avrei rassicurata dicendo che non andavo da nessuna parte.

Interruppi il bacio solo quando mi mancò l’aria. Le accarezzai i capelli, beandomi del suo sguardo.

Era rossissima, ora, e non più per il ballo.

«Ti sono piaciuti?» mi chiese.

La fissai inebetito per una manciata di secondi; mi era piaciuto cosa, il bacio?

No, idiota, i cantanti, mi risposi da solo. La verità era che non avevo prestato troppa attenzione alla musica, concentrato com’ero su di lei. Comunque era a loro che dovevo l’ottimo umore di Milla; vederla mostrare le sue emozioni così apertamente come quella sera era un evento più unico che raro – nascondersi, d’altra parte, è nella natura dell’ombra.

«Certo» risposi. Se il mio tono tradì incertezza lei parve non accorgersene.

Passammo il resto della serata a parlare di musica e skate, di tutto e di niente, e lasciatemelo dire: fu semplicemente magico.

~

Un po’ meno magico fu risvegliarsi la mattina seguente, vista l’ora che ci vide tornare in hotel.

Con un curioso senso di benessere contrastato solo da un leggero mal di testa, mi alzai a mezzogiorno.

Afferrai il cellulare e trovai dieci chiamate perse da mia madre.

In un altro momento forse mi sarei indispettito, ma allora mi limitai a scriverle che stavo bene, in aeroporto non mi aveva rapito nessuno, e di non preoccuparsi per il ritardo della mia risposta; per quest’ultimo diedi la colpa al jet lag.

Feci in tempo solo a lavarmi i denti prima di sentir bussare alla mia porta.

Sulla soglia trovai Mort, perfettamente sveglio, vestito e profumato.

Mi scrutò con curiosità, ma non chiese niente. «Milla dorme ancora», mi informò. «Sto andando in aeroporto ad aspettare Satsuki. Voi potete farvi un giro e mangiare qualcosa, nel frattempo» mi consigliò.

Esitai a rispondere. Saremmo dovuti andare tutti insieme a prenderla, ma con me in pigiama e Milla ancora nel mondo dei sogni avremmo solo rischiato di non farle trovare nessuno.

«Va bene. Grazie Mort».

«A dopo, Ryan».

~

Poco più tardi, dopo essermi vestito, vidi Milla uscire dalla sua stanza.

Mi guardò assonnata.

«Ho trovato una nota di Mort, è andato…» iniziò, ma non la lasciai finire.

«In aeroporto, lo so. Ti va di mangiare qualcosa?»

«Assolutamente sì».

Uscimmo dall’hotel e ci infilammo in una stradina. Le architetture di Budapest continuavano a lasciarmi a bocca aperta, era veramente una città bellissima.

Milla si fermò davanti a una bancarella; mi avvicinai. Fu facile capire cos’avesse attirato la sua attenzione: l’uomo dietro al bancone stava lavorando un impasto, permettendo a tutti di assistere.

Ricavò due piccoli cilindri e, uno alla volta, li avvolse intorno ad uno strumento che non avevo mai visto prima in cucina: una specie di rullo tenuto in alto da un sostegno metallico.

Fatto questo prese due barattoli e ne sparse il contenuto su entrambi i rulli, poi li mise su una specie di forno aperto; potevo vedere le fiamme lambirli.

Qualsiasi cosa ci avesse sparso sopra iniziò presto a sciogliersi, dorando l’impasto. Era a dir poco invitante.

«Che cos’è?» sentii chiedere a Milla.

Vidi l’ungherese sorriderle. «Si chiama trdelnik, signorina, è un nostro dolce tradizionale».

Lei mi guardò speranzosa. «Ti va di pranzare con questo?»

Come dire di no con i suoi occhi verdi puntati addosso? Annuii.

L’uomo prese due dolci già pronti e ce li incartò, augurandoci un buon pasto. Lo ringraziammo e pagammo, per poi andare alla ricerca di un posto in cui consumarli.

Trovammo un parco perfetto a questo scopo. Sedemmo sull’erba.

Addentai il trdelnik. Se avessi dovuto descriverlo avrei usato due parole, soffice e dolce; in più sapeva di cannella, il che mi riportò con la mente alla sera prima. Mi riscoprii a fissare le labbra di Milla.

Scossi la testa e la guardai. Era già a metà del suo dolce.

«Ehi, mangi troppo in fretta» la sgridai scherzosamente. Lei mi ignorò.

Finimmo il pasto in silenzio.

«Buonissimo», disse Milla alla fine. C’era qualcosa di strano però; non saprei dire il perché, ma il suo tono non mi convinse del tutto.

«A che pensi?» le chiesi.

Lei non mi guardò. «A niente in particolare; sono felice di essere qui».

Iniziai a preoccuparmi sul serio: era chiaro che mi stesse nascondendo qualcosa.

Ero deciso a scoprire cosa, però.

L’ombra sfugge, ma nemmeno lei può fuggire il fuoco.

Mi misi davanti a lei, oscurandole il panorama con la mia faccia. Se fosse scappata l’avrei quasi capita.

«Davvero, Milla, che è?»

Sobbalzò stupita nel sentirmi usare la sua lingua, l’italiano. Sperai davvero di non aver fatto errori.

Abbassò gli occhi e si mordicchiò il labbro.

Alla fine cercò il mio sguardo e cedette. «Sono davvero felice di essere qui, Ryan, è solo che…» fece una pausa e sospirò. «Mi sei mancato in questi mesi, nonostante tutte le chiamate, anche video, che abbiamo fatto mi sei mancato da impazzire. Vorrei solo godermi questi giorni, ma… se penso che dopodomani riparto, e non so quando ci rivedremo…» non finì la frase, ma non ce n’era bisogno.

Avevo colto il messaggio.

Stupendola, sorrisi. «Potremmo rivederci prima di quanto pensi» dichiarai.

Mi guardò scettica. «Non vedi più il futuro, a quanto ne so».

Il mio sorriso s’incrinò leggermente; sulla Scacchiera avevo effettivamente potuto vedere il futuro in un paio di occasioni, ma quest’abilità si era rivelata più nociva che utile.

Comunque continuai. «Ho finito le superiori» dissi.

«Quindi?»

Decisamente non era un’appassionata di deduzioni, la mia ragazza. Decisi di non farla aspettare oltre.

Le presi la mano. «Vengo a studiare in Italia, Milla» annunciai. La vidi sgranare gli occhi. «Mi hanno già accettato per il corso di architettura all’università di Firenze».

Mi guardò incerta: sembrava non riuscire a decidere se credermi o meno. Forse le sembrava troppo bello per essere vero?

«Dai, dì qualcosa» l’esortai. «Cosa stai provando in questo momento?»

Mi guardò negli occhi. «È vero?» mormorò. Non riuscii a decifrare il suo tono.

«Certo», risposi. Non era esattamente quella la reazione che mi ero aspettato. «Non sei felice?»

Lei mi buttò le braccia al collo e mi baciò.

Quando si staccò notai che aveva le lacrime agli occhi, ma sorrideva.

Un sorriso bellissimo, forse anche più di quello del concerto.

«Non sono mai stata così felice, prima» mi rispose per poi tornare a baciarmi.










NdA

Buongiorno cari lettori!

Non so bene che pensare di questa OS, lascio a voi i commenti.

Dirò solo che normalmente rifuggo la prima persona, ma in questo caso ho lasciato parlare Ryan per coerenza con i romanzi originali.

Questa storia è stata scritta per il contest di missredlights, e risponde ad alcuni prompt; "Estate, Szyget Festival, Luci colorate, Passione" e la frase: "Cosa stai provando in questo momento?".

Grazie mille a chi mi lascerà un parere.

Alla prossima!

Mari

  
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