Tutto ciò
che (non)
sappiamo di noi
La finestra del salotto era
appena
aperta. Le lunghe tende bianche ondeggiavano nel leggero vento di
settembre,
gonfiandosi e sgonfiandosi al ritmo del suo respiro, accarezzando di
soppiatto
lo schienale della poltrona su cui era seduta.
Sara Howard
leggeva. Roosevelt era
riuscito a convincerla a prendere un giorno di riposo, cosa che lei non
si
sarebbe mai azzardata a fare. Il Commissario le aveva spiegato che non
solo
aveva diritto a riprendere le forze dopo mesi di sforzi – non
tanto fisici
quanto mentali – ma che, tra tutti gli impiegati del
Dipartimento di Polizia,
era di sicuro tra i pochi che meritavano una pausa. Così
Sara, sospirando, si
era arresa alle insistenze del suo superiore e a malincuore era rimasta
a casa
per tutto il giorno, passeggiando irrequieta tra il salotto e la camera
da
pranzo, tra la propria stanza e la cucina. Attorno alle due del
pomeriggio
aveva pranzato, ostinandosi a ribadire che era abituata a non mangiare
proprio
sul posto di lavoro; poi, vinta dall'inconsueto caldo che dalla fine di
giugno
non aveva smesso di opprimere tutta New York, aveva deciso di
rifugiarsi in
salotto per provare a riposare, sperando invano che dalla finestra
potesse
trapelare un soffio di aria fresca.
Inizialmente aveva
preso posto sul
divano, limitandosi a togliere le scarpe e a distendere le gambe sui
cuscini;
poi, innervosita dall'afa e dalla noia, era salita in camera da letto e
aveva
portato via dal ripiano del comodino un libro dalla rigida copertina in
pelle sul
cui frontespizio spiccava, in caratteri gotici e dorati, un lungo
titolo
elaborato.
Era quindi tornata
al piano di sotto
e si era accomodata sulla poltrona, lasciandovi aderire perfettamente
la
schiena e trovando la posizione più comoda per poter
leggere. Erano passate
poco meno di due ore da quando aveva iniziato e il tempo era
letteralmente
volato. Aveva divorato un centinaio di pagine, raramente intervallate
da
qualche piccola immagine esplicativa, e si stava accingendo a
cominciare un
nuovo capitolo quando sentì qualcuno bussare al portone di
casa.
Non ci fu bisogno
di chiamare
nessuno: Tessie, la sua anziana cameriera, si era accorta dell'ospite
in visita
pur standosene rintanata nel retro della casa, probabilmente a pulire
l'argenteria e le stoviglie usate per il pranzo. Sara
percepì i suoi passi
leggeri attraversare l'atrio e fermarsi davanti alla porta, che venne
aperta
con uno scatto.
-Signor Moore!
Prego, entrate pure!-.
-Buon pomeriggio,
Tessie. La
signorina Howard è in casa?-.
-Certamente, vi
riceverà subito-.
Sara chiuse gli
occhi e sospirò,
sorpresa. Per quale motivo John si era presentato a casa sua senza
alcun
preavviso? Con quel caldo, poi! Il sole doveva avergli bruciato il
cervello.
Con quale scusa avrebbe giustificato la sua visita improvvisa?
-Signorina,
c'è il signor Moore alla
porta-.
Tessie si era
affacciata sulla soglia
del salotto. Sara si voltò a guardarla con aria
interrogativa: -Ebbene?-.
-Volete che lo
faccia accomodare? O
preferite venire a dargli il benvenuto di persona?-.
-Desidera qualcosa
in particolare?-.
-Non lo so,
signorina. Mi ha solo
chiesto di voi-.
Sara
inspirò a fondo. Chiuse per un
secondo gli occhi e, alzatasi, abbandonò il libro sulla
seduta della poltrona:
-Dammi solo un attimo, tra poco sarò da lui. Digli di
aspettare-.
La cameriera
assentì con un cenno
della testa e si congedò con un piccolo inchino. Dal canto
suo, Sara si
concesse un paio di minuti prima di uscire dal salotto per andare
incontro
all'amico. Non aveva molta voglia di vederlo, anzi. Da quando era
uscito allo
scoperto, dichiarandole un amore che lei non credeva fosse
completamente vero,
Sara aveva sempre cercato di mantenere una certa distanza, complice
anche il
fatto che, purtroppo, ormai si sentiva in lieve imbarazzo quando lui
era nelle
vicinanze. Adesso, però, quell'uomo – lo stesso
uomo a cui ultimamente pensava
fin troppo spesso – era in casa sua, proprio fuori dalla
stanza in cui lei
sedeva. Inspirando di nuovo, Sara si preparò a raggiungerlo,
lisciando una
piega della gonna poco prima di uscire dal salotto.
-John-, lo
salutò. L’uomo era in
piedi e stava spostando il peso da una gamba all'altra. Era rimasto
vicino alla
porta, in attesa della giovane padrona di casa.
-Sara!-, rispose
con il suo solito
tono entusiasta. Le si avvicinò di qualche passo e lei gli
tese la mano,
ostentando un modo di fare fin troppo formale dopo tutto quello che
avevano
passato insieme: -Non ci vediamo da un po'. Come stai?-.
-Bene, ti
ringrazio. Anche se questo
caldo non mi aiuta-.
-Oh, sì,
è tremendo. Mai visto un settembre
così afoso qui a New York. C'è chi dice che la
temperatura sia molto simile a
quella delle zone più aride del Messico-.
Sara non
replicò a
quell'osservazione. -Proprio per questo mi chiedo come mai tu sia
uscito di
casa. Tua nonna non ha protestato?-.
-Mia nonna protesta
sempre, dovresti saperlo. Ma
quando le
ho detto che sarei venuto da te ha cambiato atteggiamento.
C'è mancato poco che
non mi spingesse fuori dal cancello!-.
Il sorriso di John
la insospettì.
C'era qualcosa di strano, qualcosa che le stava nascondendo. Ma cosa?
-E come mai hai
pensato di farmi
visita?-.
-Se devo essere
sincero, sono passato
prima al Dipartimento. Ero sicuro di trovarti lì, ma mi
hanno detto che...-.
Sara
sgranò gli occhi: -Dimmi che non
sei davvero stato a Mulberry Street-.
-Be',
sì, invece. Pensavo...-.
-Ti costava tanto
avvertirmi? Con una
telefonata, magari, o un biglietto! Ah, ma perché sei andato
alla Polizia? Te
l'ho già detto in passato, non voglio che i colleghi si
facciano strane idee
sul mio conto-.
-Ma cosa
c'è di male? Ci conosciamo
da una vita e abbiamo lavorato insieme al caso Beecham. Insomma, non
credo che
la mia presenza al Dipartimento sia scandalosa o sconveniente per te-.
Sara si
passò una mano sul viso. -E
quindi sei venuto qui-.
-Esattamente-.
-Perché?
È successo qualcosa di
grave? Qualcuno è morto o scomparso o rapito o...-.
-Niente di tutto
questo-, provò a
rassicurarla con un accenno di sorriso. -Volevo vederti. Tutto qui-.
Sara rimase in
silenzio e lui
continuò: -Possiamo parlare o vuoi che me ne vada?-.
Si sorprese di se
stessa nel
constatare che l'espressione di John riusciva sempre ad addolcirla. Perfino
quando qualcosa dentro di sé le
diceva che sarebbe stato meglio dirgli di andarsene, soprattutto dopo
quella
famigerata mezza dichiarazione che le aveva rivolto appena un anno
prima.
-Vieni-, lo
invitò alla fine,
-sediamoci in salotto-.
L'uomo la
seguì e lei gli fece cenno
di accomodarsi sul divano. -Ti offro qualcosa? Una tazza di
tè freddo,
magari?-.
-No-,
rifiutò con garbo, prendendo
posto dove gli era stato indicato, -ti ringrazio. Forse più
tardi, ma non
adesso-.
Sara
annuì e gli sedette di fronte,
spostando il libro e tenendolo sul grembo. Per un secondo
provò una strana
sensazione di imbarazzo, come se non sapesse di cosa parlare con il suo
amico
di lunga data. La verità era che negli ultimi mesi aveva
anche cercato di
evitarlo, per quanto possibile, e l'ultima volta che si erano visti,
chiacchierando per poco più di cinque minuti di fila, era
stata nel periodo di
Pasqua, quando Sara, per uno slancio di cortesia che sapeva nascondesse
altro,
era andata a far visita alla nonna di John. In realtà, al
suo arrivo a casa
Moore, lui non c'era e ciò, anche solo per un secondo, le
aveva lasciato
addosso una goccia di delusione. La nonna di John l'aveva trattenuta
per una
buona ora, offrendole tè e pasticcini; quando era finalmente
arrivato il
momento di congedarsi, la porta d'ingresso della villa era stata aperta
ed era
entrato John, il cappello calcato sulla fronte e l'aria infastidita di
chi ha
appena avuto un battibecco con qualcuno. Aveva salutato la nonna
dall'atrio e
solo entrando in salotto si era accorto della presenza di Sara. Come
per magia,
la ragazza aveva notato, l'espressione corrucciata del suo viso si era
distesa
in un sorriso accogliente e le si era avvicinato con un entusiasmo tale
che lei
aveva temuto potesse abbracciarla. E probabilmente lo avrebbe fatto, se
nella
stanza non ci fosse stata anche sua nonna. Il suo arrivo, comunque,
l'aveva
costretta a fermarsi ulteriormente e dunque avevano parlato del
più e del meno.
Da quel momento in poi, però, i loro contatti si erano
ridotti fino
all'estinzione. Motivo per cui, adesso, Sara non sapeva da dove
iniziare.
-Non ti aspettavo-,
riuscì solo ad
articolare, dandosi mentalmente della stupida per un'uscita
così sciocca.
-Sì, lo
so. Se la cosa ti
infastidisce, posso anche andarmene-, fece per alzarsi.
Sara lo
bloccò con un gesto della
mano, distendendo il braccio davanti a sé: -No, non volevo
dire... Siediti, per
favore-.
John
tornò al suo posto e rimase a
fissarla. Lei gli restituì la stessa occhiata.
-Ti ho disturbata?
Stavi riposando?-.
-Sì e
no. Non stavo dormendo, se è
questo che intendi, ma più o meno cercavo di distrarmi dalla
quotidianità,
visto che il Commissario Roosevelt mi ha praticamente obbligata a
prendermi un
giorno di pausa-.
John
ridacchiò: -Ti ci voleva
un'intimazione del Capo della Polizia per capirlo!-.
-È che
preferisco lavorare piuttosto
che starmene in casa senza far niente-, corrugò le
sopracciglia. -È da
stamattina che mi sento prigioniera-.
-Se vuoi, possiamo
uscire. Il parco o
il cinematografo... Più il cinematografo, in effetti, dato
il caldo. Che ne
dici?-.
-Che non so
neanch'io cosa fare-,
sbuffò, lasciando le spalle cadere a ridosso dello schienale
della poltrona.
-Dopo pranzo ho deciso che avrei letto, a dire il vero-, gli
mostrò il retro
del libro che teneva sulle gambe.
-Cos'è?-.
-Un trattato di
psicologia. Oh, ti
prego, John, non guardarmi così!-.
-E come dovrei
guardarti? Insomma,
Sara, forse dovresti leggere qualcosa di più... Leggero o almeno che sia davvero riposante, non un mattone sulle
patologie della mente umana-.
-Non si parla di
patologie. E
comunque è molto interessante, qualsiasi cosa ne pensi-.
-Bene, allora,
mettimi alla prova.
Trova qualcosa che potrebbe affascinare anche me-, la sfidò
lui.
-Se è
così che la metti, d'accordo-.
Sara sfogliò con cura le pagine che aveva già
letto, sbirciando poi le
successive alla ricerca di qualcosa che potesse entusiasmare entrambi.
-È un
saggio pieno di test, tanto per cominciare. Sono praticamente certa che
ce ne
sia ben più di uno da poterti somministrare-.
-Bada che stai
parlando come Laszlo-,
la redarguì lui.
-Sei tu che mi hai
sfidato-, ribatté,
senza alzare gli occhi dal libro.
Passarono alcuni
minuti prima che la
ricerca iniziasse a dare i suoi frutti. Sara gli propose un test della
personalità, che John rifiutò categoricamente con
la scusa del "Conosco
fin troppo bene i miei problemi,
grazie",
e uno sull'associazione di colori e immagini. Niente.
-È
impossibile, neghi tutto di
proposito-, sbottò Sara, che non aveva alcuna intenzione di
darsi per
vinta.
-Allora lascia
cercare anche me-,
propose John, alzandosi e prendendo posto sul bracciolo della poltrona
su cui
sedeva lei. -Chissà, magari hai tralasciato qualcosa che a
te non piace, ma con
cui io potrei divertirmi-.
-Fai poco lo
spiritoso. Ma se proprio
ci tieni, ecco a te-. Gli porse il libro e incrociò le
braccia sul petto, in
attesa. Vide John studiare l'esterno del volume per una manciata di
secondi,
rigirandoselo tra le mani come a volergli prendere le misure, e poi lo
aprì,
facendo scorrere lo sguardo lungo l'indice degli argomenti. Sara
notò un
piccolo sorriso furbo piegargli il lato sinistro della bocca e per un
attimo
ebbe paura di quale potesse essere la tematica che lo aveva colpito.
-Vediamo un po'-,
disse John tra sé e
sé, aprendo il libro a metà e raggiungendo una
pagina di cui Sara inizialmente
non riuscì a capire il numero. -Capitolo undici-,
scandì lui, passandole di
nuovo il saggio, -"Rapporti
interpersonali e sfera emotiva". Sembra interessante, non
credi?-.
Di nuovo quel suo
sorrisetto che
sembrava dirle Scacco
matto.
Sara
distolse lo sguardo dal suo viso e si concentrò sulla pagina
davanti a sé,
leggendo rapidamente l'introduzione. In cuor suo si disse che non
avrebbe mai
dovuto concedere a John il permesso di giocare con lei in quel modo.
Sapeva già
dove sarebbe finita la conversazione e malgrado fosse un anno che
pensava e
ripensava a ciò che lui le aveva detto – e a quei
baci, soprattutto – si
ostinava ancora a rinnegare ciò che il tempo le aveva fatto
fiorire nell'animo.
-Bene-, disse lei,
usando un tono che
lasciasse trasparire tutta la sua ironia, -è di questo che
vuoi parlare?-.
-Pare coinvolgente,
no? Ma aspetta-,
e John prese una seconda volta il volume, sfogliandolo, -questo
è solo
l'incipit del capitolo. Chissà se c'è qualche...
Trovato!-. Puntò il dito su un
titolo in corsivo e lesse a voce alta: -"Creazione sperimentale di
intimità interpersonale". Che ne
dici?-.
Sara
sospirò: era inutile ribellarsi,
a quel punto. E in fondo non voleva che quella luce divertita negli
occhi di
John si spegnesse. Oh, ma cosa andava a pensare?
-Fammi vedere di
cosa si tratta,
almeno-.
Il libro
tornò per la terza volta tra
le sue mani. -È uno studio di quest'anno-, spiegò
Sara, leggendo, -gennaio
1897. Il Dottor Arthur Aron si è posto l'obiettivo di
scoprire se sia possibile
creare un contesto artificiale in cui due sconosciuti possano legare
tra loro e
costruire un’amicizia profonda, o addirittura un rapporto
romantico, in meno di
un’ora-.
-Ora sì
che sono tutto orecchi!-,
esclamò John.
Sara
cercò di non prestargli
attenzione e continuò: -Ha organizzato una serie di
esperimenti con alcune
coppie di persone che non si conoscevano. I due volontari entravano in
una
stanza vuota e si sedevano l'uno di fronte all’altro,
cominciando a rispondere
a una lista di trentasei domande, fornita dal Dottore. Una volta
terminato,
dovevano guardarsi negli occhi per quattro minuti. La durata
dell’incontro non
doveva superare i quarantacinque minuti-.
-E ha funzionato?-,
la incalzò lui.
-A quanto pare
sì, ma per una sola
coppia. Si sono sposati dopo sei mesi-. Solo dopo aver precisato
quell'ultimo
punto, Sara si morse la lingua: non avrebbe dovuto dirlo.
-Be', se
l'esperimento è riuscito
almeno per due persone, vuol dire che è attendibile-.
-Una coppia su
cento-, sottolineò
lei.
-Ma sempre una, non
nessuna. Dai-,
John si alzò dal bracciolo e le si pose di fronte,
-facciamolo anche noi-.
Sara scosse la
testa: -Non è affatto
una buona idea, lo sai-.
-Perché
no? Tu stessa hai detto di
aver deciso di leggere, oggi pomeriggio, e che in alternativa non
sapresti cosa
fare. Se vuoi davvero allontanare i pensieri dalla vita quotidiana,
cosa c'è di
meglio di un vecchio amico e un test con cui giocare?-.
Se era quello il
modo con cui voleva
convincerla, aveva sbagliato approccio. Era proprio quel motivo
– la
compresenza fatale di vecchio amico e
test sull'intimità interpersonale – a invitarla a
fuggire dalla stanza – meglio
ancora, dalla casa – per evitare qualsiasi complicazione che,
ne era sicura,
sarebbe sorta con il progressivo andare avanti delle domande.
-Mi avvalgo della
facoltà di non
rispondere, lì dove lo riterrò opportuno-, ci
tenne a precisare, mentre John
esultava per la sua mezza vittoria. -E tu, ovviamente, sei libero di
fare la
stessa cosa-.
-D'accordo, come
vuoi. Posso sedermi
qui?-, indicò l'altra poltrona a due metri di distanza da
quella su cui sedeva
lei. -Così saremo l'uno di fronte all'altra, come secondo le
indicazioni-.
Sara
alzò le spalle e John si
accomodò. -Se non ti dispiace, leggerò io la
prima domanda-.
Lui
annuì. E il test ebbe inizio.
-Il questionario
è diviso in tre
parti-, disse ancora Sara, con lo stesso tono con cui avrebbe spiegato
le
regole di un gioco da tavolo. -Pian piano si toccano argomenti sempre
più
personali, perciò...-.
-Siamo liberi di
non rispondere,
l'hai già detto. Tranquilla, non ti obbligherò a
parlare di nulla che non
vuoi-.
-Bene-. Sara
cercò di
tranquillizzarsi, ma di fatto non seppe riuscirci. -Allora-,
sospirò,
-cominciamo. Domanda numero uno: Chi
vorresti avere come ospite a cena, se potessi scegliere tra tutte le
persone al
mondo?-.
La risposta di John
fu fulminea:
-Probabilmente Joseph Pulitzer. Ma anche William Hearst non sarebbe
male.
Certo, se potessi invitarli entrambi...-.
-Non credo che
sarebbe una cena
tranquilla-, obiettò Sara.
-Lo so bene. Ma il
loro modo di fare
giornalismo è troppo affascinante e mi interesserebbe molto
vederli interagire
per poter capire esattamente in quali aspetti differisce o si somiglia
la loro
idea di informazione. Con l'occasione, potrei perfino approfittare per
chiedere
se hanno bisogno di un illustratore nelle loro redazioni-.
-Lavori
saltuariamente per il New York Times. Non sei soddisfatto?-.
John sorrise: -Sei
tu ad insegnarmi
che nella vita bisogna essere ambiziosi e, giustamente, hai notato che
la mia è
solo un'occupazione saltuaria. Meglio puntare a qualcosa di stabile e
ben
retribuito, non credi? Senza contare che, sotto la guida di uno dei
due, potrei
anche ambire a diventare a mia volta giornalista-.
Sara
sembrò pensarci: -Mh... Forse,
se ci rifletto un po' su, riuscirei a convincermi che hai il fisico
giusto per
una professione simile-.
-Il fisico giusto?
Che intendi
dire?-.
Stavolta fu Sara a
sorridere: -Nulla.
Ma adesso tocca a me rispondere e senza alcun dubbio dico Florence
Nightingale.
La sua intraprendenza mi ha sempre ispirato e in parte è
anche per merito suo
se per un lungo periodo ho prestato servizio come infermiera. Ha
rivoluzionato
una parte della scienza medica, salvando la vita di centinaia di
soldati
altrimenti destinati a morire più per le infezioni che non
per le ferite
riportate in battaglia. Sarei davvero onorata di averla come ospite per
cena e
probabilmente finirei per chiederle qualche consiglio sul modo in cui
si è
fatta valere in un mondo di soli uomini. Ciò detto, andiamo
avanti. Se
continuiamo ad essere così lenti, impiegheremo ben
più dei quarantacinque
minuti previsti-.
-Hai fretta?-, le
chiese John.
-No, ma se devo
proprio essere
costretta a rispondere al resto delle domande, voglio che almeno siano
rapide e
il più possibile indolori-.
-Be', questo
dipenderà da cosa ci
chiederà il Dottor Aron. Mi auguro che non abbia il
caratteraccio di Laszlo,
altrimenti ci sarà da penare-.
Sara
annuì distrattamente e lesse la
domanda successiva: -Ti
piacerebbe essere
famoso? Per che cosa?-.
John era
già pronto a rispondere, ma
fu lei a continuare: -No, a dire il vero. Però se dovessi
esserlo o diventarlo,
mi piacerebbe che fosse per la mia professione, per aver risolto casi
all'apparenza impossibili-.
-Allora lo hai
realizzato in parte-,
intervenne lui. -Dopo Beecham...-.
-Non che nessuno di
noi si sia preso
il merito di averlo fermato, visto che gli onori sono andati a una
delle
persone più spregevoli che abbia mai conosciuto-, una
smorfia le contrasse il
volto.
-Purtroppo,
però, era la cosa giusta
da fare. Se Roosevelt non avesse preso una simile decisione, a
quest'ora
probabilmente ti avrebbero estromessa dal Dipartimento con l'accusa di
omicidio. E che la tua fosse legittima difesa, be'... A nessun giudice
di New
York sarebbe importato-.
-Questo
perché New York è una città
in cui le donne vengono trattate alla stregua di animali-, Sara si
infiammò.
-Ma un giorno le cose cambieranno e allora spero di esserci per poter
guardare
le facce di tanti farsi livide di rabbia-.
John
restò a fissarla e Sara si sentì
di nuovo in imbarazzo: -Scusa-, esalò, distogliendo lo
sguardo e portandolo
verso la tenda che oscillava leggera nel vento, -non ti ho nemmeno
permesso di
rispondere-.
-Oh, ci
mancherebbe! Se il test sta
facendo emergere il tuo carattere e, soprattutto, la voglia di parlare,
preferisco stare zitto e ascoltare-. Le rivolse un sorriso pieno e poi
diede il
suo responso alla domanda: -Sì, comunque, mi piacerebbe
essere famoso. Chissà
quante donne cadrebbero ai miei piedi-, aggiunse, solleticandosi il
mento come
fingendo di stare in sovrappensiero.
-John, sii
serio...-.
-D'accordo,
d'accordo. Non c'è
bisogno di essere gelosa-, le fece l'occhiolino, facendola infuriare.
-Non sono gelosa.
Visto che hai
tenuto tanto a fare questo test, sarebbe opportuno che...-.
-Sara, sto
scherzando-.
Lei
ammutolì, le guance vagamente
accese di rosa. John proseguì, stavolta con
serietà: -Mi piacerebbe essere
famoso per aver fatto qualcosa di buono. Se penso ai ragazzi
del Paresis
Hall o
dello Slide o degli altri bordelli
aperti in
questa città, ecco, vorrei poterli aiutare tutti
così da farli uscire dal giro.
Meritano un futuro migliore e sarei disposto a offrirglielo di tasca
mia. Sarei
felice di essere riconosciuto per strada solo per questo motivo-.
Sara non disse
nulla. Si limitò a
guardarlo, forse per un secondo di troppo, e si chiese se John avesse
capito
che la risposta l'aveva colpita.
-Qual è
la prossima domanda?-, la sua
voce la riscosse dai pensieri.
Sara si
schiarì la voce: -Ti capita mai di provare
quello che devi
dire prima di fare una telefonata? Perché?-.
-Rispondi prima tu,
se vuoi-, la
invitò John.
-Mai-,
sentenziò lei. -L'unica volta
in cui ho fatto qualcosa di simile è stata quando mi sono
preparata un
biglietto con le domande da porre al direttore dell'ospedale
psichiatrico e poi
del St. Elizabeth, giusto per assicurarmi di non dimenticare niente-.
-Come se si potesse
dimenticare...-.
-Non volevo
lasciare nulla al caso-,
puntualizzò Sara. -E poi, se avessi scordato qualcosa e
fossi stata costretta
richiamare, non sarei sembrata professionale o competente e no, grazie,
non ci
tengo affatto-.
-Sai, Sara-,
intervenne John,
-dovresti cercare di perdonarti le sviste. Sei umana, dopotutto-.
-Non posso
permettermi di caderci,
nelle sviste-, replicò lei. -Tu, invece?-.
-A volte
sì, lo ammetto. Se lo
faccio, è perché l'interlocutore dall'altra parte
mi mette in soggezione-.
-Sul serio?-, Sara
ne fu sorpresa.
-Non credevo che fossi il tipo che si lascia intimidire da una
telefonata-,
aggiunse con un sorriso.
Notò
l'espressione di John passare
dal serio all'imbarazzata: -Credi che sia una debolezza, un qualcosa di
cui
vergognarsi?-, chiese lui.
-No, affatto-, lo
rassicurò. -Te l'ho
detto, sono solo stupita che sia proprio tu a farlo. Ti capita spesso?-.
-Nell'ultimo
periodo-.
-Adesso
però sono curiosa. Chi potrà
mai mettere a disagio il signor John Schuyler Moore?-.
Lui aveva tenuto
gli occhi abbassati
fin da quando le aveva chiesto un parere; poi, rialzandoli, disse
semplicemente: -Tu, per esempio-.
Ci fu un momento di
pausa durante il
quale Sara deglutì a vuoto. E senza alcun preavviso, John
calcò ulteriormente
la sua risposta: -Solo tu-.
Fuori dalla
finestra proveniva il
cinguettio di un passerotto appollaiato nel folto della siepe che
delimitava il
terreno della villa. Oltre al suo pigolio, nessun altro suono
disturbava la
quiete settembrina del quartiere. Tutto sembrava essersi fermato,
immobile
all'ascolto della risposta di John. Sara impiegò due lunghi
minuti prima di
riprendere a parlare. Due minuti in cui aveva lasciato vagare gli occhi
dal
viso di lui alle sue scarpe lucide, per posarsi poi sul tavolino che
teneva
alla propria sinistra e infine tornare sulla pagina del libro che aveva
avuto
la brutta idea di mostrargli.
-Com’è
un giorno “perfetto”, secondo te?-, domandò di
colpo. La sua voce aveva
spezzato l'aria come lo sparo di una pistola e per evitare che John
parlasse –
le mancava il coraggio di sentire le sue parole – lo
anticipò, fingendo che non
fosse accaduto nulla: -Mh. Non ci ho mai pensato-.
Lui intervenne:
-Non c'è stata
l'opportunità di viverne tanti, ultimamente-.
-Al di
là dell'anno appena passato,
intendo. Ci sarebbero dei giorni felici, ma la domanda non chiede
questo-.
-Puoi sempre
raccontare un episodio,
se ti va-, la incoraggiò John.
Sara
esitò. Per due motivi,
principalmente: sia perché non riusciva a pensare a momenti
pienamente gioiosi
sia perché la risposta che lui aveva dato alla terza domanda
l'aveva
completamente destabilizzata. E sì che sapeva che John era
innamorato – che parola grossa! – di lei, ma non
si
era di certo aspettata che potesse avere su di lui un effetto simile.
Addirittura prepararsi una chiamata al telefono!
-Il giorno in cui
mio padre mi ha
proposto di imparare ad usare le armi da fuoco-, si risolse a dire.
-Non hai
idea di quanto mi sia sentita felice quando sono riuscita a centrare il
bersaglio per la prima volta. Ecco, quello è stato un giorno
perfetto. Forse
potrebbe esserlo anche oggi se facessi qualcosa che ho sempre
desiderato fare,
magari non da sola-.
-Posso offrirmi
volontario?-.
Sara
accennò un sorriso:
-Accetteresti a prescindere?-.
John la
guardò alzando un
sopracciglio, divertito: -Ho accettato di accompagnarti dai Santorelli
quando
c'era la possibilità di essere aggrediti dagli altri
coinquilini o dagli uomini
di Connor. Ti ho seguita nell'indagine quando nessuno ci credeva
più oltre te.
Perciò credo di essere pronto a tutto, dopo questo-.
-Un punto per te-,
gli concesse lei.
-Il tuo? Come sarebbe un giorno perfetto?-, domandò, temendo
nel profondo del
cuore che potesse darle una risposta simile a quella già
fornita in precedenza.
-Uno qualsiasi con
la mia famiglia-,
John fu sintetico. -E non parlo dei miei genitori, ma di quella che
voglio
costruirmi da solo-.
Sara rise, tenendo
però gli occhi
fissi sulla pagina del saggio: -Penso che sarebbe il giorno perfetto di
tua
nonna. Accerchiata da nipoti, magari-.
-No, il suo sarebbe
il mio matrimonio
con una ragazza scelta da lei, possibilmente-, spiegò lui.
-Mi dispiace per
lei, ma se mai si realizzerà, il suo sogno sarà
completo a metà-.
-Avresti il cuore
di farla
scontenta?-.
-Sì, se
significa sposare la ragazza
che io ho scelto di amare-.
Sara si
trovò a fronteggiare un altro
nodo alla gola. Per tentare di far passare quella sensazione, si
schiarì la
voce, tossendo appena, e proseguì con la quinta domanda: -Quand’è statal’ultima volta
che hai cantato tra te e te?
E davanti a qualcun altro?-.
-Sono curioso della
tua risposta-,
ammise John.
-E
perché mai?-.
-Perché
da una parte ti ci vedo
mentre canti, ma dall'altra non sembri proprio il tipo-.
-Ieri sera-,
confessò Sara,
imbarazzata. -Ma ogni volta che Tessie entrava in stanza, smettevo
subito-.
-Molto da te-,
ridacchiò lui.
-Davvero, non sapevo che cantassi-.
-Canticchiare in
casa tra sé e sé non
vuol dire essere capaci-.
-Se la metti in
questo modo, anch'io
canticchio. L'ho fatto stamattina, per esempio. E anche mentre venivo
da te-.
-Nel bel mezzo
della strada? Ti
avranno preso per matto-, Sara sgranò gli occhi, stupita.
-Sicuramente vale
per la parte di
domanda che chiede se l'ho fatto davanti a qualcun altro-, John rise.
Poi
avanzò una proposta: -Ti andrebbe di cantare insieme?-.
Lei
agitò le mani, restia: -No, John.
Non sono capace-.
-Se hai paura di
essere stonata, stai
pur tranquilla. Non stai parlando con un tenore!-.
-Mi... Imbarazza-, ammise lei, facendo uno
sforzo incredibile per dire la
verità.
-Oh!-, sorrise lui.
-Chi è intimidito,
adesso?-.
Sara non
replicò. Sentiva le guance
scottarle e al pensiero che mancassero ancora ben trentuno domande alla
fine
del test sentì il capo vorticarle.
-Passiamo al
prossimo quesito,
d'accordo?-, la rassicurò John. Doveva aver notato il suo
disagio e per questo
la stava incitando a cambiare argomento. Cosa che Sara non si fece
ripetere una
seconda volta. Ma prima che potesse leggere la domanda, lui si
alzò, le si
avvicinò e le prese il libro: -È un problema se
ci alterniamo nella lettura?-.
Sara scosse la
testa e John andò a
sedersi di nuovo. -Bene, allora. Siamo alla numero sei. Se tu avessi la
possibilità di vivere fino a 90 anni mantenendo la
mente o il corpo di un trentenne per gli ultimi 60 anni della tua vita,
quale
sceglieresti tra i due?-.
Sara rispose senza
nemmeno pensarci:
-La mente-.
-Ma non si
può vivere bene senza un
corpo sano-, le fece notare John.
-Non si
può farlo nemmeno con una
mente alterata. Dovresti averlo imparato, dopo tutte le lezioni di
Kreizler-.
-Non hai
considerato il fatto che una
mente agile soffrirebbe doppiamente nel non riconoscere le
capacità di cui il
corpo era dotato fino ai trent'anni-.
Sara
soppesò quell'obiezione. -Questo
è vero-, ammise. -Ma in fondo non sono soddisfatta nemmeno
adesso del mio
fisico; mi converrebbe comunque puntare sul cervello-.
-E cosa ci sarebbe
di male nel tuo
fisico?-. Il tono di John le era risultato sorpreso.
-Non mi piaccio
molto-,
sintetizzò.
-Forse dovresti
lasciare giudicare
gli altri-.
-John...-.
-Posso assicurarti
che sei meravigliosa.
E quella mente a cui tieni tanto ti rende ancor più
speciale. Per quanto mi
riguarda, ti troverei attraente a prescindere dalla scelta-.
L'imbarazzo
tornò prepotentemente a
morderle la bocca dello stomaco, bruciandole gli zigomi. -Ti
ringrazio-, sussurrò
appena, sperando che non l'avesse sentita. Poi, con voce più
alta, chiese:
-Quindi tu sei per il corpo, giusto?-.
-Lo sono proprio
come tu lo sei per
la mente. Sinceramente – e Laszlo me l'ha fatto capire in
più di un'occasione,
con quel suo modo di fare che spazientirebbe perfino i Santi del
Paradiso – non
credo di poter fare molto affidamento sulle mie capacità
intellettive-.
-Stai dicendo che
ti reputi
stupido?-. Stavolta era stata lei ad usare un tono sorpreso.
-Non io in prima
persona, ma chi mi
sta intorno. Ammettilo, lo pensi anche tu-.
Quell'insinuazione
la fece
inalberare: -Se pensi che io abbia questo parere, John, non hai capito
niente
di me. Forse non hai un intuito spiccato, ma questo non vuol dire che
la tua
mente non valga nulla-.
-Oh, be',
consolante-, replicò
ironico.
-Hai un cervello
emotivo, John-,
spiegò Sara con decisione. -Sei empatico, sai riconoscere
negli altri gioia e
sofferenza e riesci a gioire e soffrire con loro. Abilità
che amo molto e che
di sicuro non troverai facilmente nel Dottor Kreizler-.
Quelle due frasi
dovevano averlo
colpito. I loro occhi si incontrarono e nessuno dei due distolse lo
sguardo.
Nemmeno dopo che John le ebbe chiesto se lo credeva davvero, domanda a
cui lei
rispose con un netto "Assolutamente sì".
-Be'-, riprese lui,
spezzando gli
attimi di silenzio che si era preso per riflettere sul senso delle
parole di
Sara, -allora mi toccherà leggere la numero sette. Oh,
perfetto, quanta
gioia!-.
-Cosa dice?-.
-Hai
un presentimento segreto sul modo in cui morirai?-.
-Se devo essere
sincera...-. Sara si
fermò, prese fiato e poi parlò di nuovo,
facendosi coraggio poco alla volta:
-Ho avuto paura di cadere nella stessa trappola di mio padre e
suicidarmi, ma
poi ho capito che, se volevo vivere secondo i suoi insegnamenti, avrei
dovuto
combattere e continuare a vivere. Quindi no, nessun presentimento
segreto-.
John
annuì: -Nemmeno io, però...
Ricordi la sera in cui ci siamo radunati tutti al Delmonico's?-.
-Quando? Per la
lettera ricevuta
dalla signora Santorelli?-.
-Esattamente.
Quando ci siamo resi
conto che eravamo stati contattati dal killer, ho a lungo pensato che
chiunque
di noi sarebbe potuto morire per mano sua, visto che sapeva
perfettamente dove
abitiamo o lavoriamo. Immaginavo che mi avrebbero ritrovato in un
vicolo
qualsiasi con l'addome squarciato e due buchi al posto degli occhi-.
-Ho avuto paura
anch'io, quella sera.
Per un paio di giorni mi sono guardata sempre le spalle con
circospezione. Poi
però mi sono lasciata dietro la suggestione e ho impiegato
ancora più forza per
portare avanti le indagini-.
-Si vede proprio
che sono il nipote
di mia nonna-, John rise. -Lei non riusciva a prendere sonno al
pensiero che
Jessy Pomeroy girasse a piede libero per Boston. E sì che
anche lui uccideva
solo bambini... Perfino quando è stato arrestato ha
continuato a tenere la
porta della sua stanza chiusa con un doppio giro di chiave. Era davvero
convinta che sarebbe stata assassinata da lui!-.
Sara trattenne una
risata,
sforzandosi per essere comprensiva nei confronti dell'anziana signora
Moore.
-Cosa dice la prossima domanda?-, gli chiese alla fine.
-Elenca
tre cose che tu e il tuo partner sembra abbiate in comune-.
-A questa
è semplice rispondere-, si
lasciò scappare lei. -L'orgoglio, poco ma sicuro. Ma anche
la tenacia e il
desiderio di aiutare chi ne ha bisogno-.
-Sì, in
effetti-, concordò John. -Tu
sei più tenace di me, però-.
-Ne hai altre tre?-.
Lui ci
pensò un po' su: -Forse la
timidezza. Cioè, in generale non siamo persone timide, ma
c'è qualcosa che ci
trattiene. Non hai anche tu questa impressione?-.
-Dipende da cosa
intendi-, Sara
corrugò le sopracciglia.
-Be', insomma,
quando parliamo delle
nostre vite private non ci sentiamo mai completamente liberi di
esprimerci. O
almeno questa è la mia impressione-.
Sara
rifletté e annuì debolmente:
-Forse perché abbiamo paura di aprirci l'una all'altro e
viceversa?-.
-Tu hai paura?-.
L'insistenza
garbata di John la
spinse a dire la verità: -A volte sì-.
-Anch'io-.
Cadde ancora il
silenzio, che lui
interruppe: -Se le cose stanno così, ne manca solo una
terza. E credo di
avercela: ci prendiamo cura delle persone a cui teniamo e finiamo per
preoccuparci troppo-.
-Condivido,
soprattutto per quanto
riguarda la preoccupazione-, assentì Sara.
-Qualche esempio?-.
-La tua partenza
per Boston. La tua e
del dottor Kreizler,
voglio dire-, si
corresse subito. -Temevo che ti... vi
sarebbe potuto accadere qualcosa di male e in fondo non avevo
completamente
torto, visto l'agguato che vi hanno teso. Cadere da un ponte con tutta
la
carrozza... Se ci penso rabbrividisco-, disse, scrollando le spalle.
-Ero preoccupato
anch'io per te-,
confessò John sulla sua stessa scia. -Ti ho lasciato sola,
non c'erano nemmeno
gli Isaacson con te... E quando la carrozza è precipitata
nel torrente, sei
stata la prima persona a cui ho pensato. È stata proprio la
preoccupazione a
darmi la forza di trascinare via Laszlo e raggiungere il treno per New
York.
Avevo uno scopo, al di là dell'indagine, ed era tornare da
te-.
Sara distolse lo
sguardo da lui
ancora una volta. Dannato test, maledisse, e sciocca lei che aveva
finito per
dire di sì al gioco di John.
Lui, d'altro canto,
continuò come se
non le avesse confessato apertamente e per la terza volta
ciò che sentiva per
lei: -Per
quali cose della tua vita ti
senti più fortunato o grato?-.
Anche stavolta la
risposta di Sara fu
fulminea: -Vivere nel 1897. Fino a dieci anni fa non avrei potuto
nemmeno
mettere piede al Dipartimento di Polizia, mentre adesso sono la
segretaria del
Commissario. Impensabile davvero-.
-Sei grata solo per
il lavoro?-, le
chiese John.
-Sono libera di non
rispondere,
ricordi? Forza, tocca a te, adesso-.
-Mi sento fortunato
e grato per
essere uscito da più periodi bui, riuscendo a farmi forza da
solo o con l'aiuto
di persone che sono diventate davvero importanti per me. Tutto qui.
Domanda
dieci-, declamò, come per evitare che Sara gli chiedesse di
approfondire
l'argomento appena toccato, -Se potessi
cambiare qualcosa del modo in cui sei stato cresciuto, quale sarebbe?-.
-Assolutamente
niente-, lei scosse la
testa. -Non potrei essere più fiera del modo in cui mio
padre mi ha cresciuta-.
-Io invece vorrei
che mia madre mi
stesse più vicina. Da bambino ho sentito molto la sua
mancanza. D'altra parte,
mio padre non desiderava nemmeno che trascorressi troppo tempo in sua
compagnia: temeva che sarei diventato debole e troppo sentimentale. Ha
fallito
comunque-, affermò John con decisione.
-Non mi sembra
proprio che tu sia
debole-, obiettò Sara.
Lui
sospirò: -Per "debole"
intendeva una persona che non può fare a meno di esternare i
propri sentimenti
ed emozioni. E sinceramente sono proprio questi due elementi che mi
hanno
sempre affascinato-.
-Lo vedi?-, Sara
gli rivolse un
sorriso sincero. -Non potevi non diventare amico del Dottor Kreizler.
Apprezzate la stessa cosa, ma in maniera differente-.
-Molto
differente, direi-, precisò John. -Prossima domanda. Prenditi quattro minuti e
racconta al tuo partner la storia della tua
vita il più possibile in dettaglio-.
Il panico si
impadronì di colpo di
Sara: -Dobbiamo rispondere per forza a questa domanda?-.
-No, se non vuoi. E
lo capisco, non
sei tenuta a farlo-, la rassicurò, comprensivo. Poi,
vedendola riflettere su
cosa fare, le disse che, se preferiva, poteva rispondere lui, nel
frattempo.
-No, non ce ne
sarà bisogno-, lo
fermò. Si concesse un minuto di pausa, prese un bel respiro
e lentamente iniziò
a raccontare: -Sono nata poco lontana da New York, in quella che ai
tempi era
la residenza estiva della mia famiglia, e poi mi sono trasferita qui in
città.
Mio padre, uomo d'affari, mi ha cresciuta insegnandomi a non fermarmi
mai di
fronte a nessun ostacolo. Mia madre è morta quando ero
ancora solo una bambina.
Poco più che dodicenne, ho perso anche mio padre.
È vero, non è morto per un
incidente di caccia; si è suicidato. Non gliel'ho e non me
lo sono mai
perdonato-.
Si prese una
piccola pausa e notò
John farle cenno di fermarsi. Sara però scosse la testa e
proseguì senza
ulteriore esitazione: -Non avendo alcun parente in vita, mi hanno
rinchiusa in
un sanatorio fino ai diciotto anni. È stato un periodo
difficile, fatto di
dolore e frustrazione. Ma è proprio in queste circostanze
che ho deciso che,
una volta uscita, avrei preso in mano la mia vita, consacrandola alla
ricerca
di verità e giustizia. Ho frequentato il college, mi sono
laureata con ottimi
voti e ho ottenuto un posto presso il Dipartimento di Polizia: l'ho
meritato,
ma dentro di me c'è sempre una vocina ad insinuare che sia
tutto dovuto alla
conoscenza che il Commissario Roosevelt aveva di mio padre. Ad ogni
modo, ho
dimostrato di meritare ben più del ruolo di segretaria
portando avanti
un'indagine che inizialmente sembrava priva di alcuno sbocco
risolutivo. E
adesso sono seduta qui, chiedendomi dove ci porterà questo
strano test-.
John
tentò invano di nascondere un
sorriso sentendo quell'ultima frase: agli occhi di Sara non sfuggiva
alcun
dettaglio. Poi parlò: -Lo meriti davvero: hai condotto
magistralmente i
passaggi cruciali dell'indagine ed è stato un piacere
poterti aiutare, malgrado
gli innumerevoli pericoli corsi da tutti noi-. Le sorrise e
continuò: -Grazie
per la schiettezza con cui hai risposto alla domanda. Non dovevi
sentirti...-.
-Ormai è
andata così. Vuoi parlare
tu, adesso?-.
John raccolse le
idee prima di
raccontare: -Sono nato e cresciuto a New York, ma per un periodo ho
vissuto
nella campagna del New Jersey. Ho avuto una vita simile a quella
condotta da un
qualsiasi membro della media e alta borghesia, ma non mi sono mai
sentito
pienamente a mio agio nel ruolo che mi era imposto. In casa avevo un
dialogo
vero e proprio solo con mio fratello George-.
Ci fu un momento di
religioso
silenzio, interrotto proprio da John con un sospiro: -È
morto anni fa, un
incidente in mare. Non sono riuscito a salvarlo dall'annegamento. A
volte sogno
di afferrargli la mano, ma l'oceano lo risucchia sempre verso il fondo
e allora
lo vedo sparire nel buio-.
Ancora silenzio.
Sara vide il dolore
della perdita deformargli i tratti del viso e a sua volta fu tentata di
dirgli
di fermarsi. John, però, proseguì con la stessa
risolutezza che anche lei aveva
dimostrato poco prima: -Dopo la sua morte, vivere con i miei genitori
è
diventato impossibile. Mi sono rifugiato da mia nonna, l'unica disposta
ad
accogliermi. Ho frequentato l'Università di Harvard e
lì ho conosciuto Laszlo e
Roosevelt. Bei tempi, quelli. E poi, be'... Ho incontrato Julia-.
Sara si chiese se
la nuova pausa
dovesse essere collegata alla reazione che John si aspettava da lei. In
ogni
caso, cercò di non tradire alcun pensiero o emozione in
merito, restando ad
ascoltare con aria il più possibile impassibile: -Dio, era
così diversa da me,
eppure la sentivo affine. Lunghi capelli castani mossi, due occhi verdi
che
semplicemente ammaliavano. Quando ha accettato la mia corte non
riuscivo
nemmeno a crederci. Julia Pratt che mi diceva sì! Non avrei
osato immaginarlo
nemmeno nel più roseo dei sogni-.
Stavolta per Sara
fu più difficile
trattenere delle smorfie di disappunto. Ci mancava solo che si facesse
prendere
da un'immotivata gelosia!
-Non è
andata come speravo-, continuò
John. -Le comprai un anello, volevo chiederle di sposarmi... Ma la sera
scelta,
quella in cui credevo che la mia vita sarebbe cambiata, prima che
potessi
donarle il gioiello mi disse di essersi innamorata di un altro. Mi ha
spezzato
il cuore, letteralmente. Ho faticato davvero tanto per superare il
trauma che
mi aveva inflitto. In un certo senso, quella sera la mia vita
è cambiata sul
serio, anche se non nel verso che mi auspicavo-. Mentre abbozzava un
sorriso,
Sara gli chiese se l'avesse mai più vista. Rispose
prontamente: -No. So che è
tornata a Washington e Laszlo mi ha chiesto se avessi intenzione di
farle
visita, quando siamo andati alla ricerca di informazioni su Rudolph
Bunzl-.
-Cosa gli hai
risposto?-. Un
batticuore non da lei le stava animando il petto.
-Che non penso
più a lei e che, pur
volendola vedere, avrei dovuto avere l'intenzione di incontrarla. Cosa
che non
ho. Nella mia testa adesso c'è spazio per ben altro-. John
la guardò
intensamente e Sara abbassò gli occhi, invitandolo poi a
leggere la domanda
successiva.
-Siamo alla dodici.
Se
potessi svegliarti domani avendo
acquisito una qualità o un’abilità,
quale sarebbe?-.
Risposero
all'unisono: -Leggere il
pensiero-.
-Be'-, disse John,
mentre si
specchiavano l'uno negli occhi dell'altra per la sorpresa di aver
parlato
insieme, -pare proprio che la pensiamo allo stesso modo.
Però, riflettendoci
meglio, non so fino a che punto potrebbe esserci utile-.
-Perché
mai?-, domandò lei,
incuriosita.
-Pensa al mal di
testa continuo. Con
tutti i pensieri degli altri che ti frullano nel cervello, dubito che
si possa
vivere in santa pace-.
Sara
immaginò una soluzione
possibile: -Dovrebbe essere un'abilità che si è
in grado di controllare.
Dovremmo essere capaci di decidere se, quando e con chi utilizzarla-.
-Uhm, in questo
caso...-.
-La utilizzeresti
con me?-, gli
domandò in un soffio.
Lui rispose
capovolgendo il quesito:
-E tu?-.
-Avrei voluto farlo
diversi mesi fa-,
replicò Sara con un sospiro.
-Quando?-.
-Dai, passiamo alla
prossima
domanda-.
-Sara, davvero,
quando?-, insistette
lui, sorpreso e curioso. La ragazza, per tutta risposta, si
alzò e gli
sottrasse il libro come lui aveva fatto con lei. Senza proferire altro,
Sara
lesse, introducendo la seconda parte del questionario.
-Se
potessi vedere in una sfera di cristallo la verità su te
stesso, la tua vita,
il futuro o qualsiasi altra cosa, che cosa vorresti sapere?-.
-Vorrei sapere per
quale motivo
avresti voluto leggermi il pensiero-, le sue proteste non accennavano a
placarsi.
-John, una risposta
seria-, disse
Sara con tono perentorio.
-È
questa-.
-D'accordo, salti
la domanda
tredici-.
-Niente affatto.
Sei libera di non
considerarla valida, ma ciò non significa che puoi esimerti
dal dire la
verità-, continuò John.
-Non fa parte delle
domande del
test-.
-Ma importa a me-.
Sara fece come se
non avesse sentito
e rispose al quesito: -Io invece vorrei sapere dove mi
porterà il mio percorso,
nel lavoro e nella vita-.
-Avresti delle
preferenze?-, indagò
lui.
-Nemmeno questa fa
parte delle
domande del test-.
John volse gli
occhi al cielo,
probabilmente stanco per la testardaggine mostrata dalla ragazza, e
Sara
sorrise, pronta a cimentarsi con la domanda successiva.
-Qual
è il traguardo più importante che hai raggiunto
nella tua vita, o il tuo più
grande risultato?
Per quanto mi riguarda, lavorare al Dipartimento e,
soprattutto, aver chiuso il caso Beecham-.
John si
accodò al suo responso: -Aver
lavorato e contribuito a risolvere lo stesso caso-.
-Bene, abbiamo
risposto rapidamente.
Speriamo di essere veloci anche con le prossime domande. Per esempio,
la
sedici: Quali
sono le cose che per te
contano di più in un rapporto di amicizia?-.
-Mh, non vedo l'ora
di sentirtelo
dire-, ridacchiò John.
Sara non gli diede
peso: -Sincerità e
rispetto-.
-Io aggiungo
fedeltà e stima reciproca,
oltre a supportarsi a vicenda-.
-Perfetto.
Diciassette: Qual
è il tuo ricordo più caro?-.
John rispose per
primo: -Mio fratello
che insiste affinché mio padre mi compri un album da disegno
per il compleanno.
Fui estremamente felice di riceverlo. E poi George posò per
me, mi chiese un
ritratto. Per la prima volta mi sentii un vero, piccolo artista-.
Quel ricordo
d'infanzia le fece
increspare le labbra in un sorriso, poi fu il suo turno di parlare:
-Una
giornata con mio padre, cavalcammo per tutto il giorno. Dovevamo ancora
trasferirci a New York-. Poi aggiunse: -Ottimo, stiamo acquistando
velocità.
Domanda diciotto: Qual
è il tuo ricordo
peggiore?-.
John la
fermò prima che potesse dire
qualsiasi cosa: -Credo che ce ne siano fin troppi, non ti sembra?-.
-Siamo d'accordo a
saltare la
domanda?-.
-Non la stiamo
saltando. Conosciamo
benissimo le risposte. Ci sono cose che è meglio non
rivangare, visto che non
fanno fatica a riemergere da sole-.
Sara non
poté non concordare con lui
e lesse la diciannove: -Se tu sapessi che
entro un anno improvvisamente morirai, cambieresti qualcosa del modo in
cui
stai vivendo? Perché?-.
-Finirei per farmi
prendere dal
panico-, ammise John, allargando le braccia. -Sicuramente vorrei
cambiare la
mia vita, ma alla fine non ci riuscirei-.
Sara ci
pensò un po' su prima di
rispondere: -Cercherei di farmi scivolare le cose addosso. Proverei a
prendermela di meno, diciamo così-.
-Potrebbe non
essere un cattivo
proposito, in effetti-, lui le diede ragione. -Prossima domanda?-.
-Che
cosa significa l’amicizia per te?-, lesse Sara.
-A voi la parola,
signorina Howard-,
la invitò formalmente John.
Lei prese un bel
respiro: -Quando è
vera, è forse il legame più forte tra quelli
possibili. Amicizia significa
comprendersi e stare accanto all'altra persona sempre, soprattutto nei
momenti
difficili. Ci si dice tutto, affrontando il rischio di litigare, ma poi
si fa
sempre la pace-.
-Non credo
più nell'amicizia, almeno
nell'accezione a cui tu hai appena fatto riferimento. E
comunque vorrei
solo farti notare che la descrizione che hai fatto assomiglia
spaventosamente a
quella che si potrebbe dare del concetto di amore-,
puntualizzò John.
-Solo in parte-,
ribatté lei.
-L'amore presuppone una profondità che tocca aspetti diversi
rispetto all'amicizia.
Non si bacia un amico, solo per fare un esempio. Non sulla bocca,
intendo. E
non si prova alcuna attrazione fisica per lui o per lei. Cosa
c'è?-.
John stava
sorridendo, divertito: -Mi
è parso di percepire un tremolio nella tua voce-.
-Niente affatto!-,
esclamò, anche se
quella negazione non era comunque riuscita a smorzarle il colore sulle
guance.
-Oh, John, possibile che non si possa fare un discorso serio con te,
quando si
parla di amicizia, amore e...-.
-Il sesso
è forse esclusivo del
rapporto amoroso? Se così fosse, metà degli
uomini di questa città sarebbero
innamorati di prostitute, magari incrociate una sola volta-.
Sara si
stupì del linguaggio che lui
aveva appena usato. L'ultima volta che qualcuno aveva pronunciato la
parola sesso – ed era stata
proprio lei,
nell'ambito del caso Beecham – gli sguardi degli uomini
presenti in sala erano
finiti tutti su di lei, come se avesse proferito la peggiore delle
sconcezze.
Ora, invece, John l'aveva detta come se nulla fosse e parlandole con
tranquillità. Doppiamente strano, dato che fino a un anno
prima, se avesse
potuto, l'avrebbe tenuta lontana da tutti gli scandali e le sozzure del
mondo.
-Allora a cosa lo associ?-, gli domandò alla fine, sicura
che, se si fosse
dimostrata impassibile di fronte all'argomento, lui lo avrebbe ben
presto
abbandonato.
-Laszlo direbbe che
è solo un atto
governato da istinti che si possono più o meno controllare.
E in parte sono
d'accordo con lui-, spiegò John, facendo sfoggio di una
sicurezza e di un
approccio scientifico che poco gli si addicevano. -C'è
un'espressione precisa
per indicare ciò che vuoi dire ed è l'unica che
accetto: fare
l'amore.
È la sola che si può realizzare se c'è
un vero e
profondo legame tra due persone. In questo senso, sono d'accordo con
te-.
Ora sì
che lo riconosceva! -Molto
romantico, John-, disse, nascondendo il viso dietro il libro e provando
a
sfoggiare un tono sarcastico. -Mi chiedo da dove tiri fuori certe
riflessioni-.
-Credo dipenda
dall'ispirazione e dal
contesto. Probabilmente anche dall'interlocutrice-, aggiunse lui. E
mentre
sentiva le orecchie andarle letteralmente a fuoco, letto con gli occhi
il
quesito successivo, tese il libro all'amico, pregandolo di continuare
al suo
posto.
-Va bene,
d'accordo-, annuì lui,
alzandosi e andando a prendere il saggio. -Dunque, a questa abbiamo
risposto
prima... Ah, sì: Che ruolo hanno nella
tua vita l’amore e l’affetto?-.
Sara non
riuscì a trattenersi: -Ci
risiamo!-, esclamò, stanca di tornare sempre sulla stessa
tematica. -In linea
generale dovrebbero essere importanti, ma al momento sono decisamente
in
secondo piano-.
-Questo
è certo-, annuì John. -E
sbagli a lasciarli indietro rispetto al lavoro. Per me sono stati
sempre al
primo posto, ma forse è anche per questo che ho sofferto al
punto da finire per
farmi del male da solo. Ma comunque... Domanda ventidue: Elencate, alternandovi,
cinque caratteristiche positive dell’altro.
Vuoi iniziare tu?-.
-Sei
così curioso di sapere la
risposta?-.
-Abbastanza, in
effetti-.
Sara
inspirò profondamente:
-Dunque... L'empatia. La generosità. Sai ridere di te
stesso, quando vuoi.
L'umiltà e... La quinta l'ho già detta in
un'altra occasione-.
Sapeva benissimo
che John avrebbe
capito a cosa si stesse riferendo e, visto il contesto, non aveva
alcuna voglia
di ripetersi. Lui, però, la incalzò lo stesso,
sfoggiando il suo miglior
sorriso furbo: -Potresti ripeterla? Non sono sicuro di ricordarla-.
-John, lo sai-.
-Potrei averla
dimenticata o magari
ricordo male-.
Sara
sospirò. Quando John si metteva
in testa di fare orecchie da mercante era inutile perderci tempo. Tanto
valeva
rispondere. Tolto il dente, tolto il dolore. -Sei affascinante.
Contento,
adesso?-.
-Vi ringrazio,
signorina Howard-,
replicò lui, evidentemente entusiasta di aver ascoltato di
nuovo quel primo
complimento che lei gli aveva rivolto un anno prima.
-Tocca a te-, lo
incitò Sara,
sinceramente curiosa di sentire cosa avrebbe detto. In effetti John non
deluse
affatto le sue aspettative, anzi.
-Ambiziosa.
Intraprendente. Sicura di
sé. Estremamente intelligente e intrigante-.
-Oh-.
-Non ti ritrovi
nella descrizione?-.
-No, solo... Intrigante?-, chiese lei, vivamente
stupefatta.
-Come hai detto
prima-, e John
sorrise, -non risponderò alla tua domanda. Però
possiamo leggere la prossima. Hai un rapporto stretto con
la tua famiglia?
Pensi che la tua infanzia sia stata più felice della media?-.
-Posso rispondere
solo a metà, visto
che non ho parenti in vita-, disse Sara. -Nonostante la morte di mia
madre, mio
padre si è assicurato che avessi l'infanzia più
felice possibile. La definirei
normale-.
-Normale?-, John
strabuzzò gli occhi.
-A dodici anni hai imparato a sparare e prima ancora a cavalcare. Di
solito non
sono attività che dei genitori permettono alle figlie
femmine-.
-Sono stata
fortunata ad avere un
padre di larghe vedute, allora. E adesso parla tu-.
-Be'-,
cominciò John, -è risaputo che
ho tagliato qualsiasi legame con la mia famiglia. Mia nonna
è un'eccezione, ma
solo perché mi ha accolto in casa sua e accudito come un
figlio. Non mi ha
nemmeno mai fatto pesare la morte di mio fratello e per questo gliene
sarò
sempre grato. Come ti dicevo anche prima, ho avuto un'infanzia
repressa, sotto
certi aspetti. Mio padre considerava me e George come adulti in
miniatura,
perciò non posso dire di aver goduto appieno dei miei primi
anni di vita. Però
la sera, quando io e mio fratello eravamo nella nostra stanza per
prepararci a
dormire, giocavamo quanto più possibile finché
non crollavamo sui letti per la
stanchezza. In quei momenti mi sentivo il bambino più felice
del mondo. E...
Bene, ti confermo che la prossima sarà l'ultima domanda a
proposito delle
nostre famiglie. Era ora, in effetti-. Si schiarì la voce e
lesse: -Che
rapporto hai con tua madre?-.
-Me la ricordo come
se fosse uscita
fuori da un sogno, in realtà, ma so di aver avuto un ottimo
rapporto con lei
prima che morisse-, rimembrò Sara. -Mi intrecciava i
capelli, sedeva con me per
terra per giocare con le bambole. A volte facevamo finta di essere
grandi
signore che prendevano il tè insieme. Avrei voluto averla
vicino nell'adolescenza,
ma purtroppo non è stato possibile-.
-Il mio rapporto
con lei, invece, è
praticamente nullo-, confermò ancora John, sulla scia della
domanda a cui aveva
risposto che, potendo cambiare qualcosa, avrebbe voluto la donna
più vicino a
sé nell'infanzia. -E oggi la mia conoscenza si limita al
fatto di saperla viva,
da qualche parte in campagna insieme a mio padre. Non mi interessa
nulla della
sua vita, visto che lei non si è mai data pena per la mia-.
Sara avrebbe voluto
dirgli qualcosa.
Che le dispiaceva per tutto: per suo fratello, per i suoi genitori, per
la
mancata accettazione che avevano dimostrato nei suoi confronti. Eppure
il
silenzio pensieroso di John la fece desistere: non voleva mostrarsi
impietosita, perché di fatto non era quello che provava. No,
sentiva solo una
grande pena, un dolore che in parte era anche suo. Perché se
era vero che i
suoi erano morti, avendola però sempre amata, i genitori di
John, al contrario,
si erano dimostrati insensibili verso i loro figli e con lui in
particolare.
Nella tragedia della vita, erano entrambi orfani e lasciati a loro
stessi.
-Domanda
venticinque-, la voce di
John interruppe le sue riflessioni. -Ognuno
dica tre frasi con il “noi”. Per esempio:
“Siamo entrambi in questa stanza e ci
sentiamo…”-.
Sara
parlò ancor prima di rifletterci
pienamente su: -Stiamo facendo un test che non avremmo mai dovuto
iniziare...-.
-Non avresti dovuto
leggere quel
libro, allora-, replicò lui con un sorriso.
-Non vedo il nesso
tra le due cose-.
-Non potevi non
avere la curiosità di
provarlo, anche solo per vedere se e come funziona-, le fece notare
John.
-Questo
è vero, ma non pensavo che
sarei finita a farlo con te-.
-Nemmeno io pensavo
che, venendo da
qui, avrei impiegato metà pomeriggio in un'intervista
doppia-.
-Ma non ti sei
tirato indietro nel
proporla, no?-.
-Ero troppo curioso
delle tue
risposte. E credo che per te sia valsa la stessa cosa, altrimenti non
avresti
nemmeno iniziato a fornirmele-, John chiuse il discorso, senza smettere
di
sorridere.
Sara scosse la
testa e continuò
-Siamo interessati a ciò che abbiamo da dire...-.
-Lo vedi?-, la
interruppe di nuovo,
come se l'avesse colta con le mani nel sacco. -L'hai appena ammesso!-.
Lei
sospirò: -Siamo insieme-.
-Quest'ultima frase
mi piace molto-,
annuì John, che evidentemente aveva deciso di farla
innervosire sul serio.
-Vediamo... Ci stiamo raccontando la verità come mai abbiamo
fatto prima. Ci
stiamo ascoltando reciprocamente, mettendo al primo posto la
comprensione. Ci
stiamo studiando-.
-Chi ha detto che
ti sto studiando?-,
domandò lei, sorpresa.
-Sara,
c'è bisogno di dirlo? È
palese. Altrimenti a cosa servirebbe questo test?-.
-Non sei una cavia,
non...-.
-Ma è un
esperimento. E di solito i
risultati vanno studiati, o sbaglio?-.
Un altro punto per
lui. Mentre Sara
glielo assegnava mentalmente, John lesse dal saggio: -Completa questa frase:
“Vorrei avere qualcuno con cui poter
condividere…”-.
Risposero nello
stesso momento,
stavolta però dando responsi diversi. Sara disse "La
giornata", lui
"La vita".
-Se ci pensi bene-,
parlò John,
intervenendo per primo dopo un nuovo momento di silenzio imbarazzato,
-di fatto
sono due aspetti dello stesso concetto. Mi hai sorpreso, con questa
risposta-.
-Solo
perché amo il mio lavoro non
significa che metterei da parte il pensiero di una famiglia-, ci tenne
a
precisare Sara.
-Allora immagini in
grande-.
-Cosa? No, John,
intendevo dire...-.
-Che la persona con
cui
condivideresti la giornata sarebbe la stessa con cui costruire una
famiglia. Ho
capito male?-.
Sara
arrossì e si sforzò di non
abbassare gli occhi: -Non è detto che le due cose debbano
coincidere. La prima
potrebbe essere anche un'amica-.
-O un amico. In quest'ultimo caso,
potrebbe esserci una sovrapposizione dei
due piani-. Ammiccò, furbo, e Sara restò in
silenzio. John si alzò e le passò
il libro, facendosi dare il cambio nella lettura.
-Spiega
al tuo partner le cose di te che sarebbe importante che sapesse, se
diventaste
molto amici-,
scandì lei.
-Avanti, Sara-, le
lasciò spazio.
-C'è qualcosa in particolare che dovrei sapere?-.
La ragazza fu
rapida: -Non tollero
pettegolezzi e commenti, negativi o positivi che siano, su altre
persone. E non
sopporto chi rifiuta di accettare le opinioni altrui solo
perché dà per certe
le proprie convinzioni-.
-Stai parlando di
Laszlo, lo so-.
-Be', con lui ho
toccato il fondo-,
ammise lei.
John
proseguì: -Sono due aspetti che
conoscevo già. Mentre tu, di me, cosa dovresti sapere...?
Mh, non ne ho idea.
Credo di essere abbastanza trasparente con il mio modo di fare-.
-Forse dovrei
sapere che è meglio non
accennare mai alla tua famiglia o alla tua ex fidanzata-, gli
consigliò Sara.
-Sì, in
effetti. Perfetto, se hai
risposto tu al posto mio...-.
-Significa che ti
conosco abbastanza
bene-.
-Significa che
siamo già molto amici.
Anche io sapevo in partenza cosa avresti risposto-, le sorrise John.
-Prossima
domanda?-.
-Di’
al tuo partner che cosa ti piace di lui/lei; sii molto onesto/a, e
di’ anche
cose che in genere non diresti a una persona che hai appena conosciuto-.
-Niente di
più semplice-, sentenziò
lui. -Mi piacciono la tua forza e determinazione. La voglia di fare. Il
fatto
di dire sempre la tua, senza dare peso a ciò che potrebbero
pensare gli altri.
Il modo in cui ti brillano gli occhi quando sei felice o sai di avere
ragione.
E il tuo sorriso quando ti senti in imbarazzo, proprio come adesso-.
Le aveva puntato
gli occhi dritti
nelle pupille e Sara si sentì trafitta. Cercò di
trovare le parole per poter
rispondere a sua volta in modo adeguato e quando le trovò
disse: -La tua
attenzione ai dettagli. Essendo un illustratore deve venirti
praticamente
naturale, ma è un aspetto che apprezzo molto. La tua
sensibilità, a volte
perfino eccessiva. Il modo in cui prendi sempre le parti di chi credi
sia in
difficoltà. I tuoi occhi. Li trovo estremamente espressivi.
Basta guardarli per
sapere cosa provi-, si arrischiò a dire, ben consapevole di
essersi gettata
nella fossa del leone.
-E adesso? Cosa sto
provando?-, la
interrogò lui, senza toglierle lo sguardo di dosso. Uno
sguardo estremamente
intenso, da cui Sara si sentiva allo stesso tempo attratta e respinta.
Di nuovo in
imbarazzo, articolò
debolmente: -A dire la verità, in questo momento posso solo
dirti cosa sento
io. Mi stai letteralmente trapassando con lo sguardo e mi sento un po'
a
disagio-.
Fu quella
ammissione a convincerlo a
rivolgere altrove i propri occhi e Sara lo ringraziò tra
sé e sé per quel
piccolo gesto di cortesia. D'altra parte aveva chiarito con John alcune
dinamiche e quello sguardo insistente, di fatto ammaliante, rientrava
tra gli
atteggiamenti che lui avrebbe dovuto moderare nei suoi confronti. Non
perché a
Sara dispiacessero, ma perché le facevano perdere il
controllo. E
l'autocontrollo era tutto ciò di cui aveva bisogno in un
mondo dominato da
uomini.
-Siamo arrivati
alla domanda
ventinove-, lo informò. -Racconta un
episodio imbarazzante della tua vita-.
-Non c'è
bisogno di raccontarlo, dato
che eri presente-. Sara gli rivolse un'occhiata interrogativa e lui
spiegò:
-Quando mi sono svegliato sul divano del quartier generale, dopo la
notte al Paresis
Hall. Mi
hai guardato con un
misto di sospetto e delusione... Non hai idea di quanto mi sia
vergognato in
quel momento-.
-In me non c'era
né sospetto né
delusione. Ero solo molto preoccupata e mi tormentava il pensiero di
ciò che ti
avessero fatto in quel bordello-, chiarì lei.
-Sul serio?-.
-Sì. Mi
sentivo molto rammaricata: la
sera prima, entrando in carrozza, avevo pregato Kreizler di insistere
per
accompagnarti a casa, ma lui non mi ha dato ascolto. Perciò
la mattina
successiva, vedendoti in quello stato, ho provato pura rabbia. Non
avrei dovuto
lasciarti andare, non a quell'ora e con un serial killer a piede
libero-.
Era certa che John
avrebbe
immagazzinato quelle informazioni. Ad ogni modo, le domandò:
-Un tuo momento
imbarazzante?-.
Oh, sì,
Sara ne aveva uno che valeva
la pena raccontare. Un momento che, più che imbarazzo, le
aveva trasmesso il
puro senso dello schifo. Perciò non si fece pregare e
raccontò: -Una volta, al
Dipartimento, sono entrata nella stanza di Connor per dargli un avviso
da parte
di Roosevelt. Quando ho aperto la porta, però, l'ho trovato
intento ad
urinare-.
Per la seconda
volta da quando
avevano iniziato quello strano test, John strabuzzò gli
occhi: -Cosa?-,
esclamò.
Sara lo interruppe
e proseguì, mentre
lui restava sempre più a bocca aperta nel sentirla parlare:
-Gli ho detto ciò
che dovevo e la sua risposta è stata un indecente "Faccia
attenzione,
signorina Howard. Pare che ci sia un grosso ratto che gira nel
Dipartimento,
pronto a sgusciare sotto le gonne delle signore". Non ti specifico a
cosa
alludeva, visto che mi ha rivolto la parola tenendo le braghe calate e
i
genitali in bella mostra-.
-Quel figlio...!-,
notò John
stringere i pugni, il viso rosso di ira repressa e risentimento. -E
cosa hai
fatto? L'hai detto a Roosevelt?-.
-No-, rispose lei
pacatamente. -A
pensarci bene, sei il primo a cui racconto questo episodio-.
-Avresti dovuto
denunciarlo, non
fargliela passare liscia. Quel verme meritava...-.
-La risposta che
gli ho dato. L'ho
guardato dall'alto in basso, mettendo da parte qualsiasi impulso di
vergogna o
ribrezzo, e gli ho detto che tutto ciò che vedevo era un
piccolo topolino rosa.
Ho chiuso la porta e me ne sono andata, sentendolo sghignazzare insieme
ai suoi
compari-.
John era
esterrefatto: -Ti sei fatta
valere. Ma questo non cambia il fatto che ti abbia insultata e
molestata
verbalmente. Se lo avessi saputo prima...-.
-Cosa avresti
fatto? Non sei mai
stato il tipo di uomo che inizia una rissa-.
-No-, ammise lui,
-ma avrei avuto un
altro buon motivo per vederlo morto-.
-Il passato
è passato e non vale la
pena perdere tempo a rivangarlo, come dicevamo anche prima.
Perciò andiamo
avanti: Quando
è stata l’ultima volta che
hai pianto di fronte a un’altra persona? E da solo/a? Ti dispiace se
rispondo prima io?-.
-Niente affatto-,
scosse la testa
John.
-Quando sono andata
a trovare il
Dottor Kreizler per convincerlo a tornare ad indagare. Lui mi ha
raccontato del
suo passato ed io, be'... Mi sono commossa. E gli ho parlato della
morte di mio
padre. Ho pianto per entrambi, credo-.
-Non me lo avevi
detto-. Il tono di
John tradiva una piccola quantità di delusione e disappunto.
-C'era altro a cui
pensare e ad
essere sincera volevo che la cosa restasse tra me e lui, soprattutto
per il
fatto che sono stata io la prima a cercare dettagli sul suo braccio.
Devo
averlo ferito molto e me ne sono rammaricata. Ma adesso, a distanza di
un anno,
è più facile parlarne. Ecco perché ho
ritenuto giusto dirtelo-.
-E quando
è stata l'ultima volta che
hai pianto da sola?-, domandò lui.
-Anni fa. Dovevo
ancora iniziare il
college, se non sbaglio. Stavo attraversando ancora un periodo
difficile. Ma
adesso è il tuo turno, ho praticamente monopolizzato il
discorso-.
-Monopolizzato mi
sembra una parola
grossa. Credo proprio di essere io quello che ha parlato di
più, fino ad ora-,
valutò rapidamente John.
-Dai, vai avanti-.
-Diciamo pure che
di solito evito di
piangere in presenza di qualcuno. Immagino che sia legato ai retaggi
dell'infanzia. Non è difficile, quindi, pensare all'ultima
volta che mi sono
concesso un pianto e... Sarò prevedibile o romantico,
chiamami pure come vuoi,
ma c'entra sempre Julia. Oltre tre anni fa, quindi. Ah, no, aspetta!
C'è stata
la morte di Mary, come posso dimenticarlo? Ero in lacrime ancor prima
di accorgermene.
E in compagnia, quando è morto mio fratello. Più
vedevo mia madre disperarsi,
meno riuscivo a trattenere le lacrime. È stata anche l'unica
occasione in cui
mio padre mi ha perdonato una tale dimostrazione di sentimenti, in
effetti-.
Il fatto che la
prima persona a cui
avesse pensato fosse la famigerata Julia Pratt la fece risentire. Non
avrebbe
dovuto, in realtà, perché, come ostinava a
ripetersi, John era solo suo amico,
un vecchio amico, però... Niente da fare, quella risposta le
aveva comunque
solleticato una corda che non sarebbe dovuta esistere.
-Posso leggere io
la prossima
domanda?-, le chiese lui. Sara assentì con un cenno della
testa e gli passò il
libro, poi John lesse: -Di’ al tuo
partner qualcosa che già ti piace di lui/lei-.
-È una
domanda simile a quella di
poco fa-, notò la ragazza.
-Alla numero
ventotto, già-, confermò
lui. -Forse prima alludeva solo a fattori meramente
estetici?-.
-Può
darsi. Qualunque sia il caso,
abbiamo già risposto-.
-Allora
continuiamo. Numero
trentadue: Qual
è – se esiste –
l’argomento su cui non si può scherzare, per te?-.
-Credo proprio che
tu conosca già la
risposta-, Sara si lasciò andare a una risata.
-Il lavoro. Senza
alcun dubbio-,
rispose prontamente John. Lei annuì, lui riprese la parola:
-Probabilmente
anche tu puoi rispondere senza difficoltà al mio posto-.
-Direi gli affetti
e le relazioni in
generale-.
Le rivolse un unico
complimento:
-Bingo, detective-. Poi proseguì: -... Ecco: Se stasera morissi senza
poter più comunicare con nessuno, qual è la
cosa che rimpiangeresti di non aver detto a qualcuno? Perché
non gliel’hai
ancora detta?-.
La risposta di Sara
semplicemente le
scivolò via dalle labbra con una leggerezza di cui si
stupì lei per prima.
-Rimpiangerei di non averti detto quanto sei diventato importante per
me.
Rimpiangerei di non averti ringraziato per essermi stato accanto in
tutti i
momenti di difficoltà, perfino i più pericolosi.
E se non l'ho ancora fatto, è
perché mi pare sempre di sbattere la testa contro un muro
quando provo a esprimere
ad alta voce i miei pensieri più nascosti-.
L'espressione
trionfante di John si
commentava da sola: -Dio benedica il Dottor Aron per aver inserito
questa
domanda nella lista, allora!-, esclamò entusiasta,
sorridendo apertamente. Era
incredibile, si disse Sara, come bastasse una sua sola parola a farlo
sprizzare
di felicità. -Io invece-, continuò lui,
-rimpiangerei di non averti mai detto
quanto ti trovo straordinaria. E... Sì, questo-.
Era evidente che si
fosse trattenuto
dal dire molto di più. -Sei sicuro che non ci sia altro?-,
gli chiese Sara.
-Anche io ho dei
muri che non riesco
ancora ad abbattere-, si limitò a replicare lui, lasciando
cadere quel discorso
per passare alla domanda trentaquattro: -La
tua casa prende fuoco con dentro tutto quello che possiedi. Dopo aver
salvato
le persone che ami e gli animali, hai il tempo per fare
un’ultima corsa dentro
e portare via un solo oggetto. Quale sarebbe? Perché?-.
Sara sapeva che la
sua risposta
sarebbe risultata scontata, ma di fatto si sarebbe comportata proprio
come
stava per dire: -La pistola di mio padre. È la prima cosa
che mi viene in
mente. Ha un valore affettivo troppo alto-.
-Io porterei via la
macchina da
scrivere. Se andasse distrutta, non potrei più chiederti di
insegnarmi ad
usarla-, spiegò John.
-Potresti comprarne
un'altra-,
suggerì lei.
Lui scosse la
testa: -Non sarebbe la
stessa cosa. L'ho presa ad un'asta per i bambini orfani e vittime di
violenza;
inoltre, è con lei che voglio provare a diventare uno
scrittore. E poi tu sei
stata la prima e l'unica a cui ho confessato questo proposito non
appena l'ho
portata a casa. Quindi sì, la porterei via con me
perché è troppo importante-.
-Quante domande
mancano?-, gli chiese
Sara dopo qualche secondo.
-Siamo alle ultime
due-.
-Bene. Cosa
dicono?-.
-Questa
è la trentacinque: -Qual è il membro
della tua famiglia la cui
morte ti colpirebbe di più? Perché?-.
-Ma non erano
finite le domande sulla
famiglia?-, obiettò Sara.
John
sbuffò con disapprovazione: -Eh,
lo credevo anch'io. È perfino inutile rispondere-,
continuò lui. -Purtroppo è
un'esperienza che abbiamo già vissuto-.
-E che non vorrei
mai ripetere-.
-Possiamo sempre
rispondere al
perché, ma in entrambi i casi è di facile
intuizione-.
-Rispondo io per te
e poi tu al posto
mio?-, propose Sara.
-Mi sembra
un'ottima idea-, assentì
John.
Lei si
schiarì la voce, presa dalla
paura di farlo solo soffrire. Però, vedendolo ben deciso ad
ascoltare, i suoi
timori si diradarono poco per volta e parlando acquistò
maggior sicurezza: -La
morte di tuo fratello ti ha colpito non solo perché era
molto giovane, ma
soprattutto perché era l'unico in famiglia con cui avevi la
possibilità di
esprimerti senza essere giudicato. Era una parte di te e perdendolo hai
sentito
qualcosa nel tuo animo spezzarsi. C'è più di solo
sangue ad accumunare due
fratelli-.
-Sei sicura di non
aver mai pensato
di lavorare con Laszlo?-, le chiese, lanciandole un'occhiata
sinceramente
colpita per l'accuratezza dell'analisi, e Sara rise. -Perché
sono sicuro che
saresti bravissima-.
-Ti ringrazio,
John, ma non sarebbe
fattibile. La mente umana mi affascina, questo è vero, ma
non ne farei mai una
professione. Rispondi tu, adesso-, gli lasciò spazio.
Anche lui si prese
del tempo e Sara
si domandò se a sua volta non temesse di addolorarla. Allora
lo invitò a
parlare con un semplice battito di ciglia e John disse: -Tuo padre
è stato la
persona più importante della tua vita. Ti ha fatta sentire
una sua pari, ti ha
istruito come un altro genitore avrebbe fatto con un figlio maschio.
Non ha mai
posto differenze tra te e un tuo coetaneo, anzi, ha fatto sì
che tu crescessi
libera da qualsiasi preconcetto. La sua morte ti ha devastata sia
perché ti ha
lasciato completamente sola sia perché hai temuto che non ce
l'avresti fatta a
vivere in un mondo dominato, come diceva lui, da uomini. Hai avuto
paura perché
sapevi che il suo sostegno ti avrebbe sempre aiutata ad andare avanti e
quando
è venuto meno hai sentito tutte le tue certezze crollare e
morire insieme a
lui. Fortunatamente, però, i suoi insegnamenti erano
già ben radicati ed eccoti
qui oggi, Miss Sara Howard, prima donna in forza al Dipartimento di
Polizia di
New York. Tuo padre sarebbe stato fiero di te-.
Sara era commossa.
Non credeva che le
sue parole potessero intaccarla così tanto e invece si
ritrovò ad asciugarsi un
paio di lacrime; poi si costrinse a sorridere e, cercando di spezzare
la
tensione, disse: -Sono ancora in tempo per cambiare la risposta alla
domanda
trenta? Sto piangendo adesso e di fronte a te-.
Prima che potesse
rendersene ben
conto, John aveva lasciato la poltrona su cui si era accomodato e,
venutole
vicino, l'aveva aiutata ad alzarsi. Si erano guardati negli occhi e poi
lui,
accarezzandole una guancia e spazzando via un'ultima lacrima, l'aveva
abbracciata e stretta a sé. Solo in un'altra occasione si
erano trovati così
vicini e in quel caso era stata proprio Sara a lanciarsi contro il suo
petto,
senza però che John la tenesse come stava facendo adesso.
Probabilmente allora
era stato così spiazzato dalla reazione della ragazza da non
riuscire nemmeno a
muoversi. Ora, invece, consapevole di se stesso, dei suoi sentimenti e
di
quello che stava sconquassando il cuore di Sara, la stringeva,
cingendole la
vita con entrambe le braccia, e la invitava silenziosamente ad
appoggiarsi a
lui, come se il suo petto fosse stato il posto più sicuro
del mondo. E per
Sara, in quei minuti che trascorse ad ascoltare il battito regolare del
cuore
di John, lo fu davvero.
Quando finalmente
si separarono, non
senza essersi prima guardati di nuovo negli occhi – come a
volersi sincerare
nel silenzio che l'uno comprendeva appieno ciò che provava
l'altra – fu Sara a
leggere l'ultima domanda. Dopo essersi passata una mano sul viso,
disse: -Parla
di un tuo problema personale e chiedi
al partner un consiglio su come lui o lei affronterebbe questo
problema.
Chiedigli anche di descriverti come gli sembra che tu ti senta rispetto
al
problema di cui hai scelto di parlare-.
-Ho un'altra idea-,
propose John,
andato a riprendere il proprio posto sulla poltrona. -Evidenziamo dei
problemi
che vediamo l'uno nell'altra e poi aggiungiamo quelli che percepiamo
noi
stessi-.
-Sì,
perché no? Ci sarà da imparare
ancora di più-, concordò lei.
-Precisamente-.
-Vuoi che cominci
io?-.
John la
invitò a parlare con un gesto
della mano e Sara iniziò: -Dovresti moderare l'apprensione
nei miei confronti.
Si è già molto smussata rispetto a quando abbiamo
iniziato a lavorare al caso
Beecham, però dovresti comunque prestare attenzione a non
sottovalutare le mie
possibilità. So contenere la mia emotività o
almeno è quello che tento di
fare-, precisò, dato che aveva appena finito di piangere
sulla sua spalla.
-Fino a un anno fa ti avrei detto di moderare l'uso dell'alcol, anzi,
di
smettere completamente di bere, ma non c'è alcun bisogno che
lo ripeta: hai già
risolto da solo questo problema. E credo che sia sotto controllo anche
l'abitudine a frequentare...-.
-Non vedo una
prostituta da oltre un
anno, se è questo che intendi. E non ci tengo a tornare in
quel giro-.
Sara non
poté fare a meno di
sorridere, compiaciuta: -Bravo, John-.
-Mentre tu,
invece-, intervenne lui,
-dovresti fare attenzione alle sigarette. Sì, lo so, fumo
anch'io, ma dovremmo
diminuire pian piano la dose di tabacco. Un'altra cosa: dato che me ne
hai
parlato tu per prima, dovresti lavorare su quel blocco a cui accennavi
poco fa.
Quello che ti impedisce di esprimere i tuoi sentimenti, ecco-.
-Effettivamente
quello è il mio
problema personale più grande-, confermò Sara.
-Non hai idea di quanto sia
faticoso, per me, conviverci. Mi fa sentire in procinto di soffocare o
addirittura mi dà l'impressione di avere un peso sul cuore.
Tu cosa faresti?-.
-In
realtà non so darti un vero
consiglio, visto che anch'io, come ti ho detto, affronto la stessa
difficoltà-,
John allargò le braccia. -Però probabilmente la
soluzione sta nel parlarne per
cercare di aprirsi un po' alla volta, proprio come abbiamo fatto oggi.
Credo
che potresti darmi questo identico suggerimento a tua volta-.
Sara
annuì: -Analizzarlo insieme e
discuterne. Sì, immagino che sia la cosa migliore da fare-.
Mentre finiva la
frase, la pendola
del piano superiore rintoccò con la sua voce grave. Erano le
sei del
pomeriggio.
-Altro che
quarantacinque minuti!-,
esclamò John. -Saranno passate più di due ore da
quando abbiamo cominciato il
test-.
-Ma finalmente lo
abbiamo finito-,
sentenziò Sara, osando stiracchiare le braccia. -E devi
ammettere che non ti
sei annoiato più di tanto, o sbaglio?-.
-Vuoi che te la dia
vinta, non è
così?-.
-Voglio solo la
verità-, gli sorrise.
-E te lo leggo negli occhi-.
-Oh, ma davvero?
Passami un secondo
il libro, per favore-.
Sara glielo porse e
John ripassò
rapidamente la lista a cui avevano appena terminato di rispondere. Poi,
mentre
Sara si alzava per fare un breve giro del salotto e sgranchire le
gambe, disse soltanto:
-Ne abbiamo saltata una-.
-Come sarebbe a
dire?-, esclamò lei,
correndo da John.
-Sì-,
confermò lui. -Guarda tu
stessa-.
L'amico aveva
ragione: -Non abbiamo
segnato la domanda quattordici-, sussurrò Sara, gli occhi
sbarrati al pensiero
di dovervi rispondere.
-E cosa dice?-,
chiese lui, pur
sapendo esattamente quale fosse il contenuto del quesito.
A Sara non
restò che leggerla: -C’è
qualcosa che sogni di fare da tanto
tempo? Perché non l’hai fatto?-.
John era di nuovo
in piedi, a mezzo
metro da lei. -Vuoi che risponda davvero?-.
No che non lo
voleva. Ma forse sì.
Però sarebbe stato meglio di no. Dio, aveva superato
praticamente indenne la
bellezza di trentacinque domande e adesso si scopriva che ne avevano
tralasciata una? Proprio
quella,
tra
tante possibili?
-Forse no-, gli
disse. -Ma dopo più
di due ore passate a interrogarci reciprocamente, in fondo voglio
saperlo-.
John le rivolse la
stessa, identica
occhiata che l'aveva trafitta non molto prima. Sara si rese conto di
aver
deglutito a vuoto ancora una volta. -Sei pronta a qualsiasi
verità? Anche la
più scomoda?-, le chiese conferma.
-Sì-.
-Anche se quello
che dirò non dovesse
piacerti?-.
Sara
annuì con un cenno della testa.
-D'accordo,
allora-. Vide John
raccogliere tutto il suo coraggio con entrambe le mani, inspirare
profondamente
e dire in un soffio: -Baciarti. Ho perso il conto di quanto tempo
è passato
dalla prima volta che ho provato il bisogno di farlo. È un
sogno che continuo a
portarmi dentro dalla fine delle indagini, da quel giorno in cui
Roosevelt ci
ha interrotti. E mi tormento tutti i giorni perché so che,
al momento, è un
sogno che non si può realizzare-.
Sara non parlava.
Il solo ascoltarlo
la faceva avvampare. -Perché non l'hai fatto?-,
ripeté parzialmente la domanda,
senza neanche accorgersene.
-Perché
ho paura di essere respinto
ancora una volta, che tu preferisca un altro uomo o che non mi voglia
vedere
più. E tra tutte queste possibilità, preferisco
averti come amica che rischiare
di perderti-.
Ora la distanza tra
di loro si era
sensibilmente ridotta. Si guardavano senza interruzioni, troppo
attratti l'uno
dall'altra per combattere contro loro stessi.
-Stupido di un
John-, sussurrò lei.
-Non mi perderesti mai-.
-Ah, Sara, sappiamo
entrambi che se
io mi dichiarassi di nuovo tu rideresti, aggiungendo che mi piace
sempre
scherzare e che non c'è nulla di serio in quello che ti ho
detto-.
-Potresti provarci
adesso-.
-A fare cosa?-.
-A dichiararti, se
è ciò che vuoi-.
La fronte di John
adesso sfiorava la
sua. Percepiva il suo respiro caldo sulle guance, mentre la sua voce
profonda
l'avvolgeva, alienandola da tempo e spazio.
-Non giocare con
me, non potrei
sopportarlo una seconda volta-.
-Fallo-.
John la
guardò e Sara si domandò se
avesse notato che nei suoi occhi c'era risolutezza, uno scintillio
diverso da
quello di eccitazione che li illuminava quando era soddisfatta per
qualcosa o
per un'intuizione all'interno di un'indagine. Erano entrambi in attesa.
-Sara Howard-,
iniziò John, la fronte
a contatto con quella bianca di lei, -ci conosciamo fin da quando
eravamo poco
più che bambini. Ti ho vista crescere e diventare la
splendida donna che sei
oggi. Per me sei ispirazione, un modello da seguire, un esempio di
quelle virtù
che faccio tanta fatica a conquistare. Su tutto, però, sei
il primo pensiero
che mi sveglia al mattino e l'ultimo che accompagna il sonno alla sera.
Da mesi
convivo con questo sentimento e di giorno in giorno sento di non
riuscire più a
contenerlo. Vengo da te con il cuore in mano e l'anima esposta: ti dono
entrambi. Saranno tuoi per sempre se solo lo vorrai. Perciò
– e John si
inginocchiò, prendendole una mano – Sara Howard,
vorresti sposarmi?-.
Sara
restò in silenzio, mentre lui la
guardava dal basso. Poi, dopo attimi che a lui dovettero sicuramente
apparire
lunghi come secoli, lei parlò: -Sai, anch'io ho qualcosa che
sogno di fare da
molto tempo. Una cosa che non ho fatto perché non mi era mai
stata chiesta
seriamente-. John vide un sorriso distenderle pian piano le labbra e
Sara,
emozionata come poche altre volte nella vita, disse: -Sognavo di dirti
sì. Sì,
sì, mille volte sì-.
Con uno scatto,
John si rialzò, le
afferrò i fianchi, facendola volteggiare in aria e poi, di
nuovo con i piedi a
terra, adesso stretti l'uno all'altra, la baciò come non
aveva ancora mai osato
fare.
Sara, ridendo e
soffiando sulla sua
bocca, notò: -Avremmo dovuto guardarci negli occhi per
quattro minuti, l'hai
dimenticato?-.
-Al diavolo il
test!-, sbottò lui,
troppo felice per pensare a qualsiasi altra cosa che non riguardasse
Sara.
-Attendo questo momento da un anno e adesso non aspetterò
altri quattro minuti
per poterti baciare di nuovo!-.
Mantenne la
promessa. Le sue labbra
furono ancora su quelle di Sara, prima con dolcezza, poi con maggior
passione.
E infine, tenendola stretta a sé, nella luce aranciata del
tramonto che
trapelava dalla finestra, ammise, felice di essere stato sconfitto
nella sfida
che lui stesso aveva lanciato: -Hai vinto. E devo anche ammettere che
il test
ha funzionato-.