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Autore: Amor31    28/05/2018    2 recensioni
[The Alienist]Un anno è passato dalla risoluzione del caso Beecham, ma la passione per i meccanismi della mente continua ad essere viva in Sara.
Cosa potrebbe andare storto, allora, quando lei e John si ritrovano a sperimentare insieme un test psicologico?
- ATTENZIONE! SPOILER PER CHI NON HA ANCORA FINITO LA PRIMA STAGIONE -
- John Moore/Sara Howard, non fatemi sentire sola -
- Storia vincitrice del contest “Creazione sperimentale di intimità interpersonale” indetto da ame tsuki sul Forum di EFP -
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Schuyler Moore, Sara Howard
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Tutto ciò che (non) sappiamo di noi

 

La finestra del salotto era appena aperta. Le lunghe tende bianche ondeggiavano nel leggero vento di settembre, gonfiandosi e sgonfiandosi al ritmo del suo respiro, accarezzando di soppiatto lo schienale della poltrona su cui era seduta.
Sara Howard leggeva. Roosevelt era riuscito a convincerla a prendere un giorno di riposo, cosa che lei non si sarebbe mai azzardata a fare. Il Commissario le aveva spiegato che non solo aveva diritto a riprendere le forze dopo mesi di sforzi – non tanto fisici quanto mentali – ma che, tra tutti gli impiegati del Dipartimento di Polizia, era di sicuro tra i pochi che meritavano una pausa. Così Sara, sospirando, si era arresa alle insistenze del suo superiore e a malincuore era rimasta a casa per tutto il giorno, passeggiando irrequieta tra il salotto e la camera da pranzo, tra la propria stanza e la cucina. Attorno alle due del pomeriggio aveva pranzato, ostinandosi a ribadire che era abituata a non mangiare proprio sul posto di lavoro; poi, vinta dall'inconsueto caldo che dalla fine di giugno non aveva smesso di opprimere tutta New York, aveva deciso di rifugiarsi in salotto per provare a riposare, sperando invano che dalla finestra potesse trapelare un soffio di aria fresca.
Inizialmente aveva preso posto sul divano, limitandosi a togliere le scarpe e a distendere le gambe sui cuscini; poi, innervosita dall'afa e dalla noia, era salita in camera da letto e aveva portato via dal ripiano del comodino un libro dalla rigida copertina in pelle sul cui frontespizio spiccava, in caratteri gotici e dorati, un lungo titolo elaborato.
Era quindi tornata al piano di sotto e si era accomodata sulla poltrona, lasciandovi aderire perfettamente la schiena e trovando la posizione più comoda per poter leggere. Erano passate poco meno di due ore da quando aveva iniziato e il tempo era letteralmente volato. Aveva divorato un centinaio di pagine, raramente intervallate da qualche piccola immagine esplicativa, e si stava accingendo a cominciare un nuovo capitolo quando sentì qualcuno bussare al portone di casa.
Non ci fu bisogno di chiamare nessuno: Tessie, la sua anziana cameriera, si era accorta dell'ospite in visita pur standosene rintanata nel retro della casa, probabilmente a pulire l'argenteria e le stoviglie usate per il pranzo. Sara percepì i suoi passi leggeri attraversare l'atrio e fermarsi davanti alla porta, che venne aperta con uno scatto.
-Signor Moore! Prego, entrate pure!-.
-Buon pomeriggio, Tessie. La signorina Howard è in casa?-.
-Certamente, vi riceverà subito-.
Sara chiuse gli occhi e sospirò, sorpresa. Per quale motivo John si era presentato a casa sua senza alcun preavviso? Con quel caldo, poi! Il sole doveva avergli bruciato il cervello. Con quale scusa avrebbe giustificato la sua visita improvvisa? 
-Signorina, c'è il signor Moore alla porta-.
Tessie si era affacciata sulla soglia del salotto. Sara si voltò a guardarla con aria interrogativa: -Ebbene?-.
-Volete che lo faccia accomodare? O preferite venire a dargli il benvenuto di persona?-.
-Desidera qualcosa in particolare?-.
-Non lo so, signorina. Mi ha solo chiesto di voi-.
Sara inspirò a fondo. Chiuse per un secondo gli occhi e, alzatasi, abbandonò il libro sulla seduta della poltrona: -Dammi solo un attimo, tra poco sarò da lui. Digli di aspettare-.
La cameriera assentì con un cenno della testa e si congedò con un piccolo inchino. Dal canto suo, Sara si concesse un paio di minuti prima di uscire dal salotto per andare incontro all'amico. Non aveva molta voglia di vederlo, anzi. Da quando era uscito allo scoperto, dichiarandole un amore che lei non credeva fosse completamente vero, Sara aveva sempre cercato di mantenere una certa distanza, complice anche il fatto che, purtroppo, ormai si sentiva in lieve imbarazzo quando lui era nelle vicinanze. Adesso, però, quell'uomo – lo stesso uomo a cui ultimamente pensava fin troppo spesso – era in casa sua, proprio fuori dalla stanza in cui lei sedeva. Inspirando di nuovo, Sara si preparò a raggiungerlo, lisciando una piega della gonna poco prima di uscire dal salotto.
-John-, lo salutò. L’uomo era in piedi e stava spostando il peso da una gamba all'altra. Era rimasto vicino alla porta, in attesa della giovane padrona di casa.
-Sara!-, rispose con il suo solito tono entusiasta. Le si avvicinò di qualche passo e lei gli tese la mano, ostentando un modo di fare fin troppo formale dopo tutto quello che avevano passato insieme: -Non ci vediamo da un po'. Come stai?-.
-Bene, ti ringrazio. Anche se questo caldo non mi aiuta-.
-Oh, sì, è tremendo. Mai visto un settembre così afoso qui a New York. C'è chi dice che la temperatura sia molto simile a quella delle zone più aride del Messico-.
Sara non replicò a quell'osservazione. -Proprio per questo mi chiedo come mai tu sia uscito di casa. Tua nonna non ha protestato?-.
-Mia nonna protesta sempre, dovresti saperlo. Ma quando le ho detto che sarei venuto da te ha cambiato atteggiamento. C'è mancato poco che non mi spingesse fuori dal cancello!-.
Il sorriso di John la insospettì. C'era qualcosa di strano, qualcosa che le stava nascondendo. Ma cosa?
-E come mai hai pensato di farmi visita?-.
-Se devo essere sincero, sono passato prima al Dipartimento. Ero sicuro di trovarti lì, ma mi hanno detto che...-.
Sara sgranò gli occhi: -Dimmi che non sei davvero stato a Mulberry Street-.
-Be', sì, invece. Pensavo...-.
-Ti costava tanto avvertirmi? Con una telefonata, magari, o un biglietto! Ah, ma perché sei andato alla Polizia? Te l'ho già detto in passato, non voglio che i colleghi si facciano strane idee sul mio conto-.
-Ma cosa c'è di male? Ci conosciamo da una vita e abbiamo lavorato insieme al caso Beecham. Insomma, non credo che la mia presenza al Dipartimento sia scandalosa o sconveniente per te-.
Sara si passò una mano sul viso. -E quindi sei venuto qui-.
-Esattamente-.
-Perché? È successo qualcosa di grave? Qualcuno è morto o scomparso o rapito o...-.
-Niente di tutto questo-, provò a rassicurarla con un accenno di sorriso. -Volevo vederti. Tutto qui-.
Sara rimase in silenzio e lui continuò: -Possiamo parlare o vuoi che me ne vada?-.
Si sorprese di se stessa nel constatare che l'espressione di John riusciva sempre ad addolcirla. Perfino quando qualcosa dentro di sé le diceva che sarebbe stato meglio dirgli di andarsene, soprattutto dopo quella famigerata mezza dichiarazione che le aveva rivolto appena un anno prima.
-Vieni-, lo invitò alla fine, -sediamoci in salotto-.
L'uomo la seguì e lei gli fece cenno di accomodarsi sul divano. -Ti offro qualcosa? Una tazza di tè freddo, magari?-.
-No-, rifiutò con garbo, prendendo posto dove gli era stato indicato, -ti ringrazio. Forse più tardi, ma non adesso-.
Sara annuì e gli sedette di fronte, spostando il libro e tenendolo sul grembo. Per un secondo provò una strana sensazione di imbarazzo, come se non sapesse di cosa parlare con il suo amico di lunga data. La verità era che negli ultimi mesi aveva anche cercato di evitarlo, per quanto possibile, e l'ultima volta che si erano visti, chiacchierando per poco più di cinque minuti di fila, era stata nel periodo di Pasqua, quando Sara, per uno slancio di cortesia che sapeva nascondesse altro, era andata a far visita alla nonna di John. In realtà, al suo arrivo a casa Moore, lui non c'era e ciò, anche solo per un secondo, le aveva lasciato addosso una goccia di delusione. La nonna di John l'aveva trattenuta per una buona ora, offrendole tè e pasticcini; quando era finalmente arrivato il momento di congedarsi, la porta d'ingresso della villa era stata aperta ed era entrato John, il cappello calcato sulla fronte e l'aria infastidita di chi ha appena avuto un battibecco con qualcuno. Aveva salutato la nonna dall'atrio e solo entrando in salotto si era accorto della presenza di Sara. Come per magia, la ragazza aveva notato, l'espressione corrucciata del suo viso si era distesa in un sorriso accogliente e le si era avvicinato con un entusiasmo tale che lei aveva temuto potesse abbracciarla. E probabilmente lo avrebbe fatto, se nella stanza non ci fosse stata anche sua nonna. Il suo arrivo, comunque, l'aveva costretta a fermarsi ulteriormente e dunque avevano parlato del più e del meno. Da quel momento in poi, però, i loro contatti si erano ridotti fino all'estinzione. Motivo per cui, adesso, Sara non sapeva da dove iniziare.
-Non ti aspettavo-, riuscì solo ad articolare, dandosi mentalmente della stupida per un'uscita così sciocca.
-Sì, lo so. Se la cosa ti infastidisce, posso anche andarmene-, fece per alzarsi.
Sara lo bloccò con un gesto della mano, distendendo il braccio davanti a sé: -No, non volevo dire... Siediti, per favore-.
John tornò al suo posto e rimase a fissarla. Lei gli restituì la stessa occhiata.
-Ti ho disturbata? Stavi riposando?-.
-Sì e no. Non stavo dormendo, se è questo che intendi, ma più o meno cercavo di distrarmi dalla quotidianità, visto che il Commissario Roosevelt mi ha praticamente obbligata a prendermi un giorno di pausa-.
John ridacchiò: -Ti ci voleva un'intimazione del Capo della Polizia per capirlo!-.
-È che preferisco lavorare piuttosto che starmene in casa senza far niente-, corrugò le sopracciglia. -È da stamattina che mi sento prigioniera-.
-Se vuoi, possiamo uscire. Il parco o il cinematografo... Più il cinematografo, in effetti, dato il caldo. Che ne dici?-.
-Che non so neanch'io cosa fare-, sbuffò, lasciando le spalle cadere a ridosso dello schienale della poltrona. -Dopo pranzo ho deciso che avrei letto, a dire il vero-, gli mostrò il retro del libro che teneva sulle gambe.
-Cos'è?-.
-Un trattato di psicologia. Oh, ti prego, John, non guardarmi così!-.
-E come dovrei guardarti? Insomma, Sara, forse dovresti leggere qualcosa di più... Leggero o almeno che sia davvero riposante, non un mattone sulle patologie della mente umana-.
-Non si parla di patologie. E comunque è molto interessante, qualsiasi cosa ne pensi-.
-Bene, allora, mettimi alla prova. Trova qualcosa che potrebbe affascinare anche me-, la sfidò lui.
-Se è così che la metti, d'accordo-. Sara sfogliò con cura le pagine che aveva già letto, sbirciando poi le successive alla ricerca di qualcosa che potesse entusiasmare entrambi. -È un saggio pieno di test, tanto per cominciare. Sono praticamente certa che ce ne sia ben più di uno da poterti somministrare-.
-Bada che stai parlando come Laszlo-, la redarguì lui.
-Sei tu che mi hai sfidato-, ribatté, senza alzare gli occhi dal libro. 
Passarono alcuni minuti prima che la ricerca iniziasse a dare i suoi frutti. Sara gli propose un test della personalità, che John rifiutò categoricamente con la scusa del "Conosco fin troppo bene i miei problemi, grazie", e uno sull'associazione di colori e immagini. Niente.
-È impossibile, neghi tutto di proposito-, sbottò Sara, che non aveva alcuna intenzione di darsi per vinta. 
-Allora lascia cercare anche me-, propose John, alzandosi e prendendo posto sul bracciolo della poltrona su cui sedeva lei. -Chissà, magari hai tralasciato qualcosa che a te non piace, ma con cui io potrei divertirmi-.
-Fai poco lo spiritoso. Ma se proprio ci tieni, ecco a te-. Gli porse il libro e incrociò le braccia sul petto, in attesa. Vide John studiare l'esterno del volume per una manciata di secondi, rigirandoselo tra le mani come a volergli prendere le misure, e poi lo aprì, facendo scorrere lo sguardo lungo l'indice degli argomenti. Sara notò un piccolo sorriso furbo piegargli il lato sinistro della bocca e per un attimo ebbe paura di quale potesse essere la tematica che lo aveva colpito.
-Vediamo un po'-, disse John tra sé e sé, aprendo il libro a metà e raggiungendo una pagina di cui Sara inizialmente non riuscì a capire il numero. -Capitolo undici-, scandì lui, passandole di nuovo il saggio, -"Rapporti interpersonali e sfera emotiva". Sembra interessante, non credi?-.
Di nuovo quel suo sorrisetto che sembrava dirle Scacco matto. Sara distolse lo sguardo dal suo viso e si concentrò sulla pagina davanti a sé, leggendo rapidamente l'introduzione. In cuor suo si disse che non avrebbe mai dovuto concedere a John il permesso di giocare con lei in quel modo. Sapeva già dove sarebbe finita la conversazione e malgrado fosse un anno che pensava e ripensava a ciò che lui le aveva detto – e a quei baci, soprattutto – si ostinava ancora a rinnegare ciò che il tempo le aveva fatto fiorire nell'animo.
-Bene-, disse lei, usando un tono che lasciasse trasparire tutta la sua ironia, -è di questo che vuoi parlare?-.
-Pare coinvolgente, no? Ma aspetta-, e John prese una seconda volta il volume, sfogliandolo, -questo è solo l'incipit del capitolo. Chissà se c'è qualche... Trovato!-. Puntò il dito su un titolo in corsivo e lesse a voce alta: -"Creazione sperimentale di intimità interpersonale". Che ne dici?-.
Sara sospirò: era inutile ribellarsi, a quel punto. E in fondo non voleva che quella luce divertita negli occhi di John si spegnesse. Oh, ma cosa andava a pensare?
-Fammi vedere di cosa si tratta, almeno-.
Il libro tornò per la terza volta tra le sue mani. -È uno studio di quest'anno-, spiegò Sara, leggendo, -gennaio 1897. Il Dottor Arthur Aron si è posto l'obiettivo di scoprire se sia possibile creare un contesto artificiale in cui due sconosciuti possano legare tra loro e costruire un’amicizia profonda, o addirittura un rapporto romantico, in meno di un’ora-.
-Ora sì che sono tutto orecchi!-, esclamò John. 
Sara cercò di non prestargli attenzione e continuò: -Ha organizzato una serie di esperimenti con alcune coppie di persone che non si conoscevano. I due volontari entravano in una stanza vuota e si sedevano l'uno di fronte all’altro, cominciando a rispondere a una lista di trentasei domande, fornita dal Dottore. Una volta terminato, dovevano guardarsi negli occhi per quattro minuti. La durata dell’incontro non doveva superare i quarantacinque minuti-.
-E ha funzionato?-, la incalzò lui.
-A quanto pare sì, ma per una sola coppia. Si sono sposati dopo sei mesi-. Solo dopo aver precisato quell'ultimo punto, Sara si morse la lingua: non avrebbe dovuto dirlo.
-Be', se l'esperimento è riuscito almeno per due persone, vuol dire che è attendibile-.
-Una coppia su cento-, sottolineò lei.
-Ma sempre una, non nessuna. Dai-, John si alzò dal bracciolo e le si pose di fronte, -facciamolo anche noi-.
Sara scosse la testa: -Non è affatto una buona idea, lo sai-.
-Perché no? Tu stessa hai detto di aver deciso di leggere, oggi pomeriggio, e che in alternativa non sapresti cosa fare. Se vuoi davvero allontanare i pensieri dalla vita quotidiana, cosa c'è di meglio di un vecchio amico e un test con cui giocare?-.
Se era quello il modo con cui voleva convincerla, aveva sbagliato approccio. Era proprio quel motivo – la compresenza fatale di vecchio amico e test sull'intimità interpersonale – a invitarla a fuggire dalla stanza – meglio ancora, dalla casa – per evitare qualsiasi complicazione che, ne era sicura, sarebbe sorta con il progressivo andare avanti delle domande.
-Mi avvalgo della facoltà di non rispondere, lì dove lo riterrò opportuno-, ci tenne a precisare, mentre John esultava per la sua mezza vittoria. -E tu, ovviamente, sei libero di fare la stessa cosa-.
-D'accordo, come vuoi. Posso sedermi qui?-, indicò l'altra poltrona a due metri di distanza da quella su cui sedeva lei. -Così saremo l'uno di fronte all'altra, come secondo le indicazioni-.
Sara alzò le spalle e John si accomodò. -Se non ti dispiace, leggerò io la prima domanda-.
Lui annuì. E il test ebbe inizio.
-Il questionario è diviso in tre parti-, disse ancora Sara, con lo stesso tono con cui avrebbe spiegato le regole di un gioco da tavolo. -Pian piano si toccano argomenti sempre più personali, perciò...-.
-Siamo liberi di non rispondere, l'hai già detto. Tranquilla, non ti obbligherò a parlare di nulla che non vuoi-.
-Bene-. Sara cercò di tranquillizzarsi, ma di fatto non seppe riuscirci. -Allora-, sospirò, -cominciamo. Domanda numero uno: Chi vorresti avere come ospite a cena, se potessi scegliere tra tutte le persone al mondo?-.
La risposta di John fu fulminea: -Probabilmente Joseph Pulitzer. Ma anche William Hearst non sarebbe male. Certo, se potessi invitarli entrambi...-.
-Non credo che sarebbe una cena tranquilla-, obiettò Sara. 
-Lo so bene. Ma il loro modo di fare giornalismo è troppo affascinante e mi interesserebbe molto vederli interagire per poter capire esattamente in quali aspetti differisce o si somiglia la loro idea di informazione. Con l'occasione, potrei perfino approfittare per chiedere se hanno bisogno di un illustratore nelle loro redazioni-.
-Lavori saltuariamente per il New York Times. Non sei soddisfatto?-.
John sorrise: -Sei tu ad insegnarmi che nella vita bisogna essere ambiziosi e, giustamente, hai notato che la mia è solo un'occupazione saltuaria. Meglio puntare a qualcosa di stabile e ben retribuito, non credi? Senza contare che, sotto la guida di uno dei due, potrei anche ambire a diventare a mia volta giornalista-. 
Sara sembrò pensarci: -Mh... Forse, se ci rifletto un po' su, riuscirei a convincermi che hai il fisico giusto per una professione simile-.
-Il fisico giusto? Che intendi dire?-.
Stavolta fu Sara a sorridere: -Nulla. Ma adesso tocca a me rispondere e senza alcun dubbio dico Florence Nightingale. La sua intraprendenza mi ha sempre ispirato e in parte è anche per merito suo se per un lungo periodo ho prestato servizio come infermiera. Ha rivoluzionato una parte della scienza medica, salvando la vita di centinaia di soldati altrimenti destinati a morire più per le infezioni che non per le ferite riportate in battaglia. Sarei davvero onorata di averla come ospite per cena e probabilmente finirei per chiederle qualche consiglio sul modo in cui si è fatta valere in un mondo di soli uomini. Ciò detto, andiamo avanti. Se continuiamo ad essere così lenti, impiegheremo ben più dei quarantacinque minuti previsti-.
-Hai fretta?-, le chiese John.
-No, ma se devo proprio essere costretta a rispondere al resto delle domande, voglio che almeno siano rapide e il più possibile indolori-.
-Be', questo dipenderà da cosa ci chiederà il Dottor Aron. Mi auguro che non abbia il caratteraccio di Laszlo, altrimenti ci sarà da penare-.
Sara annuì distrattamente e lesse la domanda successiva: -Ti piacerebbe essere famoso? Per che cosa?-.
John era già pronto a rispondere, ma fu lei a continuare: -No, a dire il vero. Però se dovessi esserlo o diventarlo, mi piacerebbe che fosse per la mia professione, per aver risolto casi all'apparenza impossibili-.
-Allora lo hai realizzato in parte-, intervenne lui. -Dopo Beecham...-.
-Non che nessuno di noi si sia preso il merito di averlo fermato, visto che gli onori sono andati a una delle persone più spregevoli che abbia mai conosciuto-, una smorfia le contrasse il volto.
-Purtroppo, però, era la cosa giusta da fare. Se Roosevelt non avesse preso una simile decisione, a quest'ora probabilmente ti avrebbero estromessa dal Dipartimento con l'accusa di omicidio. E che la tua fosse legittima difesa, be'... A nessun giudice di New York sarebbe importato-.
-Questo perché New York è una città in cui le donne vengono trattate alla stregua di animali-, Sara si infiammò. -Ma un giorno le cose cambieranno e allora spero di esserci per poter guardare le facce di tanti farsi livide di rabbia-.
John restò a fissarla e Sara si sentì di nuovo in imbarazzo: -Scusa-, esalò, distogliendo lo sguardo e portandolo verso la tenda che oscillava leggera nel vento, -non ti ho nemmeno permesso di rispondere-.
-Oh, ci mancherebbe! Se il test sta facendo emergere il tuo carattere e, soprattutto, la voglia di parlare, preferisco stare zitto e ascoltare-. Le rivolse un sorriso pieno e poi diede il suo responso alla domanda: -Sì, comunque, mi piacerebbe essere famoso. Chissà quante donne cadrebbero ai miei piedi-, aggiunse, solleticandosi il mento come fingendo di stare in sovrappensiero.
-John, sii serio...-.
-D'accordo, d'accordo. Non c'è bisogno di essere gelosa-, le fece l'occhiolino, facendola infuriare.
-Non sono gelosa. Visto che hai tenuto tanto a fare questo test, sarebbe opportuno che...-.
-Sara, sto scherzando-.
Lei ammutolì, le guance vagamente accese di rosa. John proseguì, stavolta con serietà: -Mi piacerebbe essere famoso per aver fatto qualcosa di buono. Se penso  ai ragazzi del Paresis Hall o dello Slide o degli altri bordelli aperti in questa città, ecco, vorrei poterli aiutare tutti così da farli uscire dal giro. Meritano un futuro migliore e sarei disposto a offrirglielo di tasca mia. Sarei felice di essere riconosciuto per strada solo per questo motivo-.
Sara non disse nulla. Si limitò a guardarlo, forse per un secondo di troppo, e si chiese se John avesse capito che la risposta l'aveva colpita.
-Qual è la prossima domanda?-, la sua voce la riscosse dai pensieri.
Sara si schiarì la voce: -Ti capita mai di provare quello che devi dire prima di fare una telefonata? Perché?-.
-Rispondi prima tu, se vuoi-, la invitò John. 
-Mai-, sentenziò lei. -L'unica volta in cui ho fatto qualcosa di simile è stata quando mi sono preparata un biglietto con le domande da porre al direttore dell'ospedale psichiatrico e poi del St. Elizabeth, giusto per assicurarmi di non dimenticare niente-.
-Come se si potesse dimenticare...-.
-Non volevo lasciare nulla al caso-, puntualizzò Sara. -E poi, se avessi scordato qualcosa e fossi stata costretta richiamare, non sarei sembrata professionale o competente e no, grazie, non ci tengo affatto-.
-Sai, Sara-, intervenne John, -dovresti cercare di perdonarti le sviste. Sei umana, dopotutto-.
-Non posso permettermi di caderci, nelle sviste-, replicò lei. -Tu, invece?-.
-A volte sì, lo ammetto. Se lo faccio, è perché l'interlocutore dall'altra parte mi mette in soggezione-.
-Sul serio?-, Sara ne fu sorpresa. -Non credevo che fossi il tipo che si lascia intimidire da una telefonata-, aggiunse con un sorriso.
Notò l'espressione di John passare dal serio all'imbarazzata: -Credi che sia una debolezza, un qualcosa di cui vergognarsi?-, chiese lui.
-No, affatto-, lo rassicurò. -Te l'ho detto, sono solo stupita che sia proprio tu a farlo. Ti capita spesso?-.
-Nell'ultimo periodo-.
-Adesso però sono curiosa. Chi potrà mai mettere a disagio il signor John Schuyler Moore?-.
Lui aveva tenuto gli occhi abbassati fin da quando le aveva chiesto un parere; poi, rialzandoli, disse semplicemente: -Tu, per esempio-.
Ci fu un momento di pausa durante il quale Sara deglutì a vuoto. E senza alcun preavviso, John calcò ulteriormente la sua risposta: -Solo tu-.
Fuori dalla finestra proveniva il cinguettio di un passerotto appollaiato nel folto della siepe che delimitava il terreno della villa. Oltre al suo pigolio, nessun altro suono disturbava la quiete settembrina del quartiere. Tutto sembrava essersi fermato, immobile all'ascolto della risposta di John. Sara impiegò due lunghi minuti prima di riprendere a parlare. Due minuti in cui aveva lasciato vagare gli occhi dal viso di lui alle sue scarpe lucide, per posarsi poi sul tavolino che teneva alla propria sinistra e infine tornare sulla pagina del libro che aveva avuto la brutta idea di mostrargli.
-Com’è un giorno “perfetto”, secondo te?-, domandò di colpo. La sua voce aveva spezzato l'aria come lo sparo di una pistola e per evitare che John parlasse – le mancava il coraggio di sentire le sue parole – lo anticipò, fingendo che non fosse accaduto nulla: -Mh. Non ci ho mai pensato-.
Lui intervenne: -Non c'è stata l'opportunità di viverne tanti, ultimamente-.
-Al di là dell'anno appena passato, intendo. Ci sarebbero dei giorni felici, ma la domanda non chiede questo-.
-Puoi sempre raccontare un episodio, se ti va-, la incoraggiò John.
Sara esitò. Per due motivi, principalmente: sia perché non riusciva a pensare a momenti pienamente gioiosi sia perché la risposta che lui aveva dato alla terza domanda l'aveva completamente destabilizzata. E sì che sapeva che John era innamorato – che parola grossa! – di lei, ma non si era di certo aspettata che potesse avere su di lui un effetto simile. Addirittura prepararsi una chiamata al telefono!
-Il giorno in cui mio padre mi ha proposto di imparare ad usare le armi da fuoco-, si risolse a dire. -Non hai idea di quanto mi sia sentita felice quando sono riuscita a centrare il bersaglio per la prima volta. Ecco, quello è stato un giorno perfetto. Forse potrebbe esserlo anche oggi se facessi qualcosa che ho sempre desiderato fare, magari non da sola-.
-Posso offrirmi volontario?-.
Sara accennò un sorriso: -Accetteresti a prescindere?-.
John la guardò alzando un sopracciglio, divertito: -Ho accettato di accompagnarti dai Santorelli quando c'era la possibilità di essere aggrediti dagli altri coinquilini o dagli uomini di Connor. Ti ho seguita nell'indagine quando nessuno ci credeva più oltre te. Perciò credo di essere pronto a tutto, dopo questo-.
-Un punto per te-, gli concesse lei. -Il tuo? Come sarebbe un giorno perfetto?-, domandò, temendo nel profondo del cuore che potesse darle una risposta simile a quella già fornita in precedenza.
-Uno qualsiasi con la mia famiglia-, John fu sintetico. -E non parlo dei miei genitori, ma di quella che voglio costruirmi da solo-.
Sara rise, tenendo però gli occhi fissi sulla pagina del saggio: -Penso che sarebbe il giorno perfetto di tua nonna. Accerchiata da nipoti, magari-.
-No, il suo sarebbe il mio matrimonio con una ragazza scelta da lei, possibilmente-, spiegò lui. -Mi dispiace per lei, ma se mai si realizzerà, il suo sogno sarà completo a metà-.
-Avresti il cuore di farla scontenta?-.
-Sì, se significa sposare la ragazza che io ho scelto di amare-.
Sara si trovò a fronteggiare un altro nodo alla gola. Per tentare di far passare quella sensazione, si schiarì la voce, tossendo appena, e proseguì con la quinta domanda: -Quand’è statal’ultima volta che hai cantato tra te e te? E davanti a qualcun altro?-. 
-Sono curioso della tua risposta-, ammise John.
-E perché mai?-.
-Perché da una parte ti ci vedo mentre canti, ma dall'altra non sembri proprio il tipo-.
-Ieri sera-, confessò Sara, imbarazzata. -Ma ogni volta che Tessie entrava in stanza, smettevo subito-.
-Molto da te-, ridacchiò lui. -Davvero, non sapevo che cantassi-.
-Canticchiare in casa tra sé e sé non vuol dire essere capaci-. 
-Se la metti in questo modo, anch'io canticchio. L'ho fatto stamattina, per esempio. E anche mentre venivo da te-.
-Nel bel mezzo della strada? Ti avranno preso per matto-, Sara sgranò gli occhi, stupita.
-Sicuramente vale per la parte di domanda che chiede se l'ho fatto davanti a qualcun altro-, John rise. Poi avanzò una proposta: -Ti andrebbe di cantare insieme?-.
Lei agitò le mani, restia: -No, John. Non sono capace-.
-Se hai paura di essere stonata, stai pur tranquilla. Non stai parlando con un tenore!-.
-Mi... Imbarazza-, ammise lei, facendo uno sforzo incredibile per dire la verità.
-Oh!-, sorrise lui. -Chi è intimidito, adesso?-.
Sara non replicò. Sentiva le guance scottarle e al pensiero che mancassero ancora ben trentuno domande alla fine del test sentì il capo vorticarle.
-Passiamo al prossimo quesito, d'accordo?-, la rassicurò John. Doveva aver notato il suo disagio e per questo la stava incitando a cambiare argomento. Cosa che Sara non si fece ripetere una seconda volta. Ma prima che potesse leggere la domanda, lui si alzò, le si avvicinò e le prese il libro: -È un problema se ci alterniamo nella lettura?-.
Sara scosse la testa e John andò a sedersi di nuovo. -Bene, allora. Siamo alla numero sei. Se tu avessi la possibilità di vivere fino a 90 anni mantenendo la mente o il corpo di un trentenne per gli ultimi 60 anni della tua vita, quale sceglieresti tra i due?-.
Sara rispose senza nemmeno pensarci: -La mente-.
-Ma non si può vivere bene senza un corpo sano-, le fece notare John.
-Non si può farlo nemmeno con una mente alterata. Dovresti averlo imparato, dopo tutte le lezioni di Kreizler-.
-Non hai considerato il fatto che una mente agile soffrirebbe doppiamente nel non riconoscere le capacità di cui il corpo era dotato fino ai trent'anni-.
Sara soppesò quell'obiezione. -Questo è vero-, ammise. -Ma in fondo non sono soddisfatta nemmeno adesso del mio fisico; mi converrebbe comunque puntare sul cervello-.
-E cosa ci sarebbe di male nel tuo fisico?-. Il tono di John le era risultato sorpreso.
-Non mi piaccio molto-, sintetizzò. 
-Forse dovresti lasciare giudicare gli altri-.
-John...-.
-Posso assicurarti che sei meravigliosa. E quella mente a cui tieni tanto ti rende ancor più speciale. Per quanto mi riguarda, ti troverei attraente a prescindere dalla scelta-.
L'imbarazzo tornò prepotentemente a morderle la bocca dello stomaco, bruciandole gli zigomi. -Ti ringrazio-, sussurrò appena, sperando che non l'avesse sentita. Poi, con voce più alta, chiese: -Quindi tu sei per il corpo, giusto?-.
-Lo sono proprio come tu lo sei per la mente. Sinceramente – e Laszlo me l'ha fatto capire in più di un'occasione, con quel suo modo di fare che spazientirebbe perfino i Santi del Paradiso – non credo di poter fare molto affidamento sulle mie capacità intellettive-.
-Stai dicendo che ti reputi stupido?-. Stavolta era stata lei ad usare un tono sorpreso.
-Non io in prima persona, ma chi mi sta intorno. Ammettilo, lo pensi anche tu-.
Quell'insinuazione la fece inalberare: -Se pensi che io abbia questo parere, John, non hai capito niente di me. Forse non hai un intuito spiccato, ma questo non vuol dire che la tua mente non valga nulla-.
-Oh, be', consolante-, replicò ironico.
-Hai un cervello emotivo, John-, spiegò Sara con decisione. -Sei empatico, sai riconoscere negli altri gioia e sofferenza e riesci a gioire e soffrire con loro. Abilità che amo molto e che di sicuro non troverai facilmente nel Dottor Kreizler-.
Quelle due frasi dovevano averlo colpito. I loro occhi si incontrarono e nessuno dei due distolse lo sguardo. Nemmeno dopo che John le ebbe chiesto se lo credeva davvero, domanda a cui lei rispose con un netto "Assolutamente sì".
-Be'-, riprese lui, spezzando gli attimi di silenzio che si era preso per riflettere sul senso delle parole di Sara, -allora mi toccherà leggere la numero sette. Oh, perfetto, quanta gioia!-.
-Cosa dice?-.
-Hai un presentimento segreto sul modo in cui morirai?-.
-Se devo essere sincera...-. Sara si fermò, prese fiato e poi parlò di nuovo, facendosi coraggio poco alla volta: -Ho avuto paura di cadere nella stessa trappola di mio padre e suicidarmi, ma poi ho capito che, se volevo vivere secondo i suoi insegnamenti, avrei dovuto combattere e continuare a vivere. Quindi no, nessun presentimento segreto-.
John annuì: -Nemmeno io, però... Ricordi la sera in cui ci siamo radunati tutti al Delmonico's?-.
-Quando? Per la lettera ricevuta dalla signora Santorelli?-.
-Esattamente. Quando ci siamo resi conto che eravamo stati contattati dal killer, ho a lungo pensato che chiunque di noi sarebbe potuto morire per mano sua, visto che sapeva perfettamente dove abitiamo o lavoriamo. Immaginavo che mi avrebbero ritrovato in un vicolo qualsiasi con l'addome squarciato e due buchi al posto degli occhi-.
-Ho avuto paura anch'io, quella sera. Per un paio di giorni mi sono guardata sempre le spalle con circospezione. Poi però mi sono lasciata dietro la suggestione e ho impiegato ancora più forza per portare avanti le indagini-.
-Si vede proprio che sono il nipote di mia nonna-, John rise. -Lei non riusciva a prendere sonno al pensiero che Jessy Pomeroy girasse a piede libero per Boston. E sì che anche lui uccideva solo bambini... Perfino quando è stato arrestato ha continuato a tenere la porta della sua stanza chiusa con un doppio giro di chiave. Era davvero convinta che sarebbe stata assassinata da lui!-.
Sara trattenne una risata, sforzandosi per essere comprensiva nei confronti dell'anziana signora Moore. -Cosa dice la prossima domanda?-, gli chiese alla fine.
-Elenca tre cose che tu e il tuo partner sembra abbiate in comune-.
-A questa è semplice rispondere-, si lasciò scappare lei. -L'orgoglio, poco ma sicuro. Ma anche la tenacia e il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno-. 
-Sì, in effetti-, concordò John. -Tu sei più tenace di me, però-.
-Ne hai altre tre?-.
Lui ci pensò un po' su: -Forse la timidezza. Cioè, in generale non siamo persone timide, ma c'è qualcosa che ci trattiene. Non hai anche tu questa impressione?-.
-Dipende da cosa intendi-, Sara corrugò le sopracciglia.
-Be', insomma, quando parliamo delle nostre vite private non ci sentiamo mai completamente liberi di esprimerci. O almeno questa è la mia impressione-.
Sara rifletté e annuì debolmente: -Forse perché abbiamo paura di aprirci l'una all'altro e viceversa?-.
-Tu hai paura?-.
L'insistenza garbata di John la spinse a dire la verità: -A volte sì-.
-Anch'io-.
Cadde ancora il silenzio, che lui interruppe: -Se le cose stanno così, ne manca solo una terza. E credo di avercela: ci prendiamo cura delle persone a cui teniamo e finiamo per preoccuparci troppo-.
-Condivido, soprattutto per quanto riguarda la preoccupazione-, assentì Sara.
-Qualche esempio?-.
-La tua partenza per Boston. La tua e del dottor Kreizler, voglio dire-, si corresse subito. -Temevo che ti... vi sarebbe potuto accadere qualcosa di male e in fondo non avevo completamente torto, visto l'agguato che vi hanno teso. Cadere da un ponte con tutta la carrozza... Se ci penso rabbrividisco-, disse, scrollando le spalle.
-Ero preoccupato anch'io per te-, confessò John sulla sua stessa scia. -Ti ho lasciato sola, non c'erano nemmeno gli Isaacson con te... E quando la carrozza è precipitata nel torrente, sei stata la prima persona a cui ho pensato. È stata proprio la preoccupazione a darmi la forza di trascinare via Laszlo e raggiungere il treno per New York. Avevo uno scopo, al di là dell'indagine, ed era tornare da te-.
Sara distolse lo sguardo da lui ancora una volta. Dannato test, maledisse, e sciocca lei che aveva finito per dire di sì al gioco di John.
Lui, d'altro canto, continuò come se non le avesse confessato apertamente e per la terza volta ciò che sentiva per lei: -Per quali cose della tua vita ti senti più fortunato o grato?-.
Anche stavolta la risposta di Sara fu fulminea: -Vivere nel 1897. Fino a dieci anni fa non avrei potuto nemmeno mettere piede al Dipartimento di Polizia, mentre adesso sono la segretaria del Commissario. Impensabile davvero-.
-Sei grata solo per il lavoro?-, le chiese John. 
-Sono libera di non rispondere, ricordi? Forza, tocca a te, adesso-. 
-Mi sento fortunato e grato per essere uscito da più periodi bui, riuscendo a farmi forza da solo o con l'aiuto di persone che sono diventate davvero importanti per me. Tutto qui. Domanda dieci-, declamò, come per evitare che Sara gli chiedesse di approfondire l'argomento appena toccato, -Se potessi cambiare qualcosa del modo in cui sei stato cresciuto, quale sarebbe?-. 
-Assolutamente niente-, lei scosse la testa. -Non potrei essere più fiera del modo in cui mio padre mi ha cresciuta-.
-Io invece vorrei che mia madre mi stesse più vicina. Da bambino ho sentito molto la sua mancanza. D'altra parte, mio padre non desiderava nemmeno che trascorressi troppo tempo in sua compagnia: temeva che sarei diventato debole e troppo sentimentale. Ha fallito comunque-, affermò John con decisione.
-Non mi sembra proprio che tu sia debole-, obiettò Sara.
Lui sospirò: -Per "debole" intendeva una persona che non può fare a meno di esternare i propri sentimenti ed emozioni. E sinceramente sono proprio questi due elementi che mi hanno sempre affascinato-.
-Lo vedi?-, Sara gli rivolse un sorriso sincero. -Non potevi non diventare amico del Dottor Kreizler. Apprezzate la stessa cosa, ma in maniera differente-.
-Molto differente, direi-, precisò John. -Prossima domanda. Prenditi quattro minuti e racconta al tuo partner la storia della tua vita il più possibile in dettaglio-.
Il panico si impadronì di colpo di Sara: -Dobbiamo rispondere per forza a questa domanda?-.
-No, se non vuoi. E lo capisco, non sei tenuta a farlo-, la rassicurò, comprensivo. Poi, vedendola riflettere su cosa fare, le disse che, se preferiva, poteva rispondere lui, nel frattempo. 
-No, non ce ne sarà bisogno-, lo fermò. Si concesse un minuto di pausa, prese un bel respiro e lentamente iniziò a raccontare: -Sono nata poco lontana da New York, in quella che ai tempi era la residenza estiva della mia famiglia, e poi mi sono trasferita qui in città. Mio padre, uomo d'affari, mi ha cresciuta insegnandomi a non fermarmi mai di fronte a nessun ostacolo. Mia madre è morta quando ero ancora solo una bambina. Poco più che dodicenne, ho perso anche mio padre. È vero, non è morto per un incidente di caccia; si è suicidato. Non gliel'ho e non me lo sono mai perdonato-.
Si prese una piccola pausa e notò John farle cenno di fermarsi. Sara però scosse la testa e proseguì senza ulteriore esitazione: -Non avendo alcun parente in vita, mi hanno rinchiusa in un sanatorio fino ai diciotto anni. È stato un periodo difficile, fatto di dolore e frustrazione. Ma è proprio in queste circostanze che ho deciso che, una volta uscita, avrei preso in mano la mia vita, consacrandola alla ricerca di verità e giustizia. Ho frequentato il college, mi sono laureata con ottimi voti e ho ottenuto un posto presso il Dipartimento di Polizia: l'ho meritato, ma dentro di me c'è sempre una vocina ad insinuare che sia tutto dovuto alla conoscenza che il Commissario Roosevelt aveva di mio padre. Ad ogni modo, ho dimostrato di meritare ben più del ruolo di segretaria portando avanti un'indagine che inizialmente sembrava priva di alcuno sbocco risolutivo. E adesso sono seduta qui, chiedendomi dove ci porterà questo strano test-.
John tentò invano di nascondere un sorriso sentendo quell'ultima frase: agli occhi di Sara non sfuggiva alcun dettaglio. Poi parlò: -Lo meriti davvero: hai condotto magistralmente i passaggi cruciali dell'indagine ed è stato un piacere poterti aiutare, malgrado gli innumerevoli pericoli corsi da tutti noi-. Le sorrise e continuò: -Grazie per la schiettezza con cui hai risposto alla domanda. Non dovevi sentirti...-.
-Ormai è andata così. Vuoi parlare tu, adesso?-.
John raccolse le idee prima di raccontare: -Sono nato e cresciuto a New York, ma per un periodo ho vissuto nella campagna del New Jersey. Ho avuto una vita simile a quella condotta da un qualsiasi membro della media e alta borghesia, ma non mi sono mai sentito pienamente a mio agio nel ruolo che mi era imposto. In casa avevo un dialogo vero e proprio solo con mio fratello George-.
Ci fu un momento di religioso silenzio, interrotto proprio da John con un sospiro: -È morto anni fa, un incidente in mare. Non sono riuscito a salvarlo dall'annegamento. A volte sogno di afferrargli la mano, ma l'oceano lo risucchia sempre verso il fondo e allora lo vedo sparire nel buio-.
Ancora silenzio. Sara vide il dolore della perdita deformargli i tratti del viso e a sua volta fu tentata di dirgli di fermarsi. John, però, proseguì con la stessa risolutezza che anche lei aveva dimostrato poco prima: -Dopo la sua morte, vivere con i miei genitori è diventato impossibile. Mi sono rifugiato da mia nonna, l'unica disposta ad accogliermi. Ho frequentato l'Università di Harvard e lì ho conosciuto Laszlo e Roosevelt. Bei tempi, quelli. E poi, be'... Ho incontrato Julia-.
Sara si chiese se la nuova pausa dovesse essere collegata alla reazione che John si aspettava da lei. In ogni caso, cercò di non tradire alcun pensiero o emozione in merito, restando ad ascoltare con aria il più possibile impassibile: -Dio, era così diversa da me, eppure la sentivo affine. Lunghi capelli castani mossi, due occhi verdi che semplicemente ammaliavano. Quando ha accettato la mia corte non riuscivo nemmeno a crederci. Julia Pratt che mi diceva sì! Non avrei osato immaginarlo nemmeno nel più roseo dei sogni-.
Stavolta per Sara fu più difficile trattenere delle smorfie di disappunto. Ci mancava solo che si facesse prendere da un'immotivata gelosia!
-Non è andata come speravo-, continuò John. -Le comprai un anello, volevo chiederle di sposarmi... Ma la sera scelta, quella in cui credevo che la mia vita sarebbe cambiata, prima che potessi donarle il gioiello mi disse di essersi innamorata di un altro. Mi ha spezzato il cuore, letteralmente. Ho faticato davvero tanto per superare il trauma che mi aveva inflitto. In un certo senso, quella sera la mia vita è cambiata sul serio, anche se non nel verso che mi auspicavo-. Mentre abbozzava un sorriso, Sara gli chiese se l'avesse mai più vista. Rispose prontamente: -No. So che è tornata a Washington e Laszlo mi ha chiesto se avessi intenzione di farle visita, quando siamo andati alla ricerca di informazioni su Rudolph Bunzl-.
-Cosa gli hai risposto?-. Un batticuore non da lei le stava animando il petto.
-Che non penso più a lei e che, pur volendola vedere, avrei dovuto avere l'intenzione di incontrarla. Cosa che non ho. Nella mia testa adesso c'è spazio per ben altro-. John la guardò intensamente e Sara abbassò gli occhi, invitandolo poi a leggere la domanda successiva.
-Siamo alla dodici. Se potessi svegliarti domani avendo acquisito una qualità o un’abilità, quale sarebbe?-. 
Risposero all'unisono: -Leggere il pensiero-.
-Be'-, disse John, mentre si specchiavano l'uno negli occhi dell'altra per la sorpresa di aver parlato insieme, -pare proprio che la pensiamo allo stesso modo. Però, riflettendoci meglio, non so fino a che punto potrebbe esserci utile-.
-Perché mai?-, domandò lei, incuriosita.
-Pensa al mal di testa continuo. Con tutti i pensieri degli altri che ti frullano nel cervello, dubito che si possa vivere in santa pace-.
Sara immaginò una soluzione possibile: -Dovrebbe essere un'abilità che si è in grado di controllare. Dovremmo essere capaci di decidere se, quando e con chi utilizzarla-.
-Uhm, in questo caso...-.
-La utilizzeresti con me?-, gli domandò in un soffio.
Lui rispose capovolgendo il quesito: -E tu?-.
-Avrei voluto farlo diversi mesi fa-, replicò Sara con un sospiro.
-Quando?-.
-Dai, passiamo alla prossima domanda-.
-Sara, davvero, quando?-, insistette lui, sorpreso e curioso. La ragazza, per tutta risposta, si alzò e gli sottrasse il libro come lui aveva fatto con lei. Senza proferire altro, Sara lesse, introducendo la seconda parte del questionario.
-Se potessi vedere in una sfera di cristallo la verità su te stesso, la tua vita, il futuro o qualsiasi altra cosa, che cosa vorresti sapere?-.
-Vorrei sapere per quale motivo avresti voluto leggermi il pensiero-, le sue proteste non accennavano a placarsi.
-John, una risposta seria-, disse Sara con tono perentorio.
-È questa-.
-D'accordo, salti la domanda tredici-.
-Niente affatto. Sei libera di non considerarla valida, ma ciò non significa che puoi esimerti dal dire la verità-, continuò John.
-Non fa parte delle domande del test-.
-Ma importa a me-.
Sara fece come se non avesse sentito e rispose al quesito: -Io invece vorrei sapere dove mi porterà il mio percorso, nel lavoro e nella vita-.
-Avresti delle preferenze?-, indagò lui.
-Nemmeno questa fa parte delle domande del test-.
John volse gli occhi al cielo, probabilmente stanco per la testardaggine mostrata dalla ragazza, e Sara sorrise, pronta a cimentarsi con la domanda successiva.
-Qual è il traguardo più importante che hai raggiunto nella tua vita, o il tuo più grande risultato? Per quanto mi riguarda, lavorare al Dipartimento e, soprattutto, aver chiuso il caso Beecham-.
John si accodò al suo responso: -Aver lavorato e contribuito a risolvere lo stesso caso-.
-Bene, abbiamo risposto rapidamente. Speriamo di essere veloci anche con le prossime domande. Per esempio, la sedici: Quali sono le cose che per te contano di più in un rapporto di amicizia?-.
-Mh, non vedo l'ora di sentirtelo dire-, ridacchiò John.
Sara non gli diede peso: -Sincerità e rispetto-.
-Io aggiungo fedeltà e stima reciproca, oltre a supportarsi a vicenda-.
-Perfetto. Diciassette: Qual è il tuo ricordo più caro?-.
John rispose per primo: -Mio fratello che insiste affinché mio padre mi compri un album da disegno per il compleanno. Fui estremamente felice di riceverlo. E poi George posò per me, mi chiese un ritratto. Per la prima volta mi sentii un vero, piccolo artista-.
Quel ricordo d'infanzia le fece increspare le labbra in un sorriso, poi fu il suo turno di parlare: -Una giornata con mio padre, cavalcammo per tutto il giorno. Dovevamo ancora trasferirci a New York-. Poi aggiunse: -Ottimo, stiamo acquistando velocità. Domanda diciotto: Qual è il tuo ricordo peggiore?-. 
John la fermò prima che potesse dire qualsiasi cosa: -Credo che ce ne siano fin troppi, non ti sembra?-.
-Siamo d'accordo a saltare la domanda?-.
-Non la stiamo saltando. Conosciamo benissimo le risposte. Ci sono cose che è meglio non rivangare, visto che non fanno fatica a riemergere da sole-.
Sara non poté non concordare con lui e lesse la diciannove: -Se tu sapessi che entro un anno improvvisamente morirai, cambieresti qualcosa del modo in cui stai vivendo? Perché?-.
-Finirei per farmi prendere dal panico-, ammise John, allargando le braccia. -Sicuramente vorrei cambiare la mia vita, ma alla fine non ci riuscirei-.
Sara ci pensò un po' su prima di rispondere: -Cercherei di farmi scivolare le cose addosso. Proverei a prendermela di meno, diciamo così-.
-Potrebbe non essere un cattivo proposito, in effetti-, lui le diede ragione. -Prossima domanda?-.
-Che cosa significa l’amicizia per te?-, lesse Sara. 
-A voi la parola, signorina Howard-, la invitò formalmente John.
Lei prese un bel respiro: -Quando è vera, è forse il legame più forte tra quelli possibili. Amicizia significa comprendersi e stare accanto all'altra persona sempre, soprattutto nei momenti difficili. Ci si dice tutto, affrontando il rischio di litigare, ma poi si fa sempre la pace-.
-Non credo più nell'amicizia, almeno nell'accezione a cui tu hai appena fatto riferimento. E  comunque vorrei solo farti notare che la descrizione che hai fatto assomiglia spaventosamente a quella che si potrebbe dare del concetto di amore-, puntualizzò John.
-Solo in parte-, ribatté lei. -L'amore presuppone una profondità che tocca aspetti diversi rispetto all'amicizia. Non si bacia un amico, solo per fare un esempio. Non sulla bocca, intendo. E non si prova alcuna attrazione fisica per lui o per lei. Cosa c'è?-.
John stava sorridendo, divertito: -Mi è parso di percepire un tremolio nella tua voce-.
-Niente affatto!-, esclamò, anche se quella negazione non era comunque riuscita a smorzarle il colore sulle guance. -Oh, John, possibile che non si possa fare un discorso serio con te, quando si parla di amicizia, amore e...-.
-Il sesso è forse esclusivo del rapporto amoroso? Se così fosse, metà degli uomini di questa città sarebbero innamorati di prostitute, magari incrociate una sola volta-.
Sara si stupì del linguaggio che lui aveva appena usato. L'ultima volta che qualcuno aveva pronunciato la parola sesso – ed era stata proprio lei, nell'ambito del caso Beecham – gli sguardi degli uomini presenti in sala erano finiti tutti su di lei, come se avesse proferito la peggiore delle sconcezze. Ora, invece, John l'aveva detta come se nulla fosse e parlandole con tranquillità. Doppiamente strano, dato che fino a un anno prima, se avesse potuto, l'avrebbe tenuta lontana da tutti gli scandali e le sozzure del mondo. -Allora a cosa lo associ?-, gli domandò alla fine, sicura che, se si fosse dimostrata impassibile di fronte all'argomento, lui lo avrebbe ben presto abbandonato.
-Laszlo direbbe che è solo un atto governato da istinti che si possono più o meno controllare. E in parte sono d'accordo con lui-, spiegò John, facendo sfoggio di una sicurezza e di un approccio scientifico che poco gli si addicevano. -C'è un'espressione precisa per indicare ciò che vuoi dire ed è l'unica che accetto: fare l'amore. È la sola che si può realizzare se c'è un vero e profondo legame tra due persone. In questo senso, sono d'accordo con te-.
Ora sì che lo riconosceva! -Molto romantico, John-, disse, nascondendo il viso dietro il libro e provando a sfoggiare un tono sarcastico. -Mi chiedo da dove tiri fuori certe riflessioni-.
-Credo dipenda dall'ispirazione e dal contesto. Probabilmente anche dall'interlocutrice-, aggiunse lui. E mentre sentiva le orecchie andarle letteralmente a fuoco, letto con gli occhi il quesito successivo, tese il libro all'amico, pregandolo di continuare al suo posto.
-Va bene, d'accordo-, annuì lui, alzandosi e andando a prendere il saggio. -Dunque, a questa abbiamo risposto prima... Ah, sì: Che ruolo hanno nella tua vita l’amore e l’affetto?-.
Sara non riuscì a trattenersi: -Ci risiamo!-, esclamò, stanca di tornare sempre sulla stessa tematica. -In linea generale dovrebbero essere importanti, ma al momento sono decisamente in secondo piano-.
-Questo è certo-, annuì John. -E sbagli a lasciarli indietro rispetto al lavoro. Per me sono stati sempre al primo posto, ma forse è anche per questo che ho sofferto al punto da finire per farmi del male da solo. Ma comunque... Domanda ventidue: Elencate, alternandovi, cinque caratteristiche positive dell’altro. Vuoi iniziare tu?-.
-Sei così curioso di sapere la risposta?-.
-Abbastanza, in effetti-.
Sara inspirò profondamente: -Dunque... L'empatia. La generosità. Sai ridere di te stesso, quando vuoi. L'umiltà e... La quinta l'ho già detta in un'altra occasione-.
Sapeva benissimo che John avrebbe capito a cosa si stesse riferendo e, visto il contesto, non aveva alcuna voglia di ripetersi. Lui, però, la incalzò lo stesso, sfoggiando il suo miglior sorriso furbo: -Potresti ripeterla? Non sono sicuro di ricordarla-.
-John, lo sai-.
-Potrei averla dimenticata o magari ricordo male-.
Sara sospirò. Quando John si metteva in testa di fare orecchie da mercante era inutile perderci tempo. Tanto valeva rispondere. Tolto il dente, tolto il dolore. -Sei affascinante. Contento, adesso?-.
-Vi ringrazio, signorina Howard-, replicò lui, evidentemente entusiasta di aver ascoltato di nuovo quel primo complimento che lei gli aveva rivolto un anno prima. 
-Tocca a te-, lo incitò Sara, sinceramente curiosa di sentire cosa avrebbe detto. In effetti John non deluse affatto le sue aspettative, anzi.
-Ambiziosa. Intraprendente. Sicura di sé. Estremamente intelligente e intrigante-.
-Oh-.
-Non ti ritrovi nella descrizione?-.
-No, solo... Intrigante?-, chiese lei, vivamente stupefatta.
-Come hai detto prima-, e John sorrise, -non risponderò alla tua domanda. Però possiamo leggere la prossima. Hai un rapporto stretto con la tua famiglia? Pensi che la tua infanzia sia stata più felice della media?-.
-Posso rispondere solo a metà, visto che non ho parenti in vita-, disse Sara. -Nonostante la morte di mia madre, mio padre si è assicurato che avessi l'infanzia più felice possibile. La definirei normale-.
-Normale?-, John strabuzzò gli occhi. -A dodici anni hai imparato a sparare e prima ancora a cavalcare. Di solito non sono attività che dei genitori permettono alle figlie femmine-.
-Sono stata fortunata ad avere un padre di larghe vedute, allora. E adesso parla tu-.
-Be'-, cominciò John, -è risaputo che ho tagliato qualsiasi legame con la mia famiglia. Mia nonna è un'eccezione, ma solo perché mi ha accolto in casa sua e accudito come un figlio. Non mi ha nemmeno mai fatto pesare la morte di mio fratello e per questo gliene sarò sempre grato. Come ti dicevo anche prima, ho avuto un'infanzia repressa, sotto certi aspetti. Mio padre considerava me e George come adulti in miniatura, perciò non posso dire di aver goduto appieno dei miei primi anni di vita. Però la sera, quando io e mio fratello eravamo nella nostra stanza per prepararci a dormire, giocavamo quanto più possibile finché non crollavamo sui letti per la stanchezza. In quei momenti mi sentivo il bambino più felice del mondo. E... Bene, ti confermo che la prossima sarà l'ultima domanda a proposito delle nostre famiglie. Era ora, in effetti-. Si schiarì la voce e lesse: -Che rapporto hai con tua madre?-.
-Me la ricordo come se fosse uscita fuori da un sogno, in realtà, ma so di aver avuto un ottimo rapporto con lei prima che morisse-, rimembrò Sara. -Mi intrecciava i capelli, sedeva con me per terra per giocare con le bambole. A volte facevamo finta di essere grandi signore che prendevano il tè insieme. Avrei voluto averla vicino nell'adolescenza, ma purtroppo non è stato possibile-.
-Il mio rapporto con lei, invece, è praticamente nullo-, confermò ancora John, sulla scia della domanda a cui aveva risposto che, potendo cambiare qualcosa, avrebbe voluto la donna più vicino a sé nell'infanzia. -E oggi la mia conoscenza si limita al fatto di saperla viva, da qualche parte in campagna insieme a mio padre. Non mi interessa nulla della sua vita, visto che lei non si è mai data pena per la mia-.
Sara avrebbe voluto dirgli qualcosa. Che le dispiaceva per tutto: per suo fratello, per i suoi genitori, per la mancata accettazione che avevano dimostrato nei suoi confronti. Eppure il silenzio pensieroso di John la fece desistere: non voleva mostrarsi impietosita, perché di fatto non era quello che provava. No, sentiva solo una grande pena, un dolore che in parte era anche suo. Perché se era vero che i suoi erano morti, avendola però sempre amata, i genitori di John, al contrario, si erano dimostrati insensibili verso i loro figli e con lui in particolare. Nella tragedia della vita, erano entrambi orfani e lasciati a loro stessi.
-Domanda venticinque-, la voce di John interruppe le sue riflessioni. -Ognuno dica tre frasi con il “noi”. Per esempio: “Siamo entrambi in questa stanza e ci sentiamo…”-.
Sara parlò ancor prima di rifletterci pienamente su: -Stiamo facendo un test che non avremmo mai dovuto iniziare...-.
-Non avresti dovuto leggere quel libro, allora-, replicò lui con un sorriso.
-Non vedo il nesso tra le due cose-.
-Non potevi non avere la curiosità di provarlo, anche solo per vedere se e come funziona-, le fece notare John.
-Questo è vero, ma non pensavo che sarei finita a farlo con te-.
-Nemmeno io pensavo che, venendo da qui, avrei impiegato metà pomeriggio in un'intervista doppia-.
-Ma non ti sei tirato indietro nel proporla, no?-.
-Ero troppo curioso delle tue risposte. E credo che per te sia valsa la stessa cosa, altrimenti non avresti nemmeno iniziato a fornirmele-, John chiuse il discorso, senza smettere di sorridere.
Sara scosse la testa e continuò -Siamo interessati a ciò che abbiamo da dire...-.
-Lo vedi?-, la interruppe di nuovo, come se l'avesse colta con le mani nel sacco. -L'hai appena ammesso!-.
Lei sospirò: -Siamo insieme-.
-Quest'ultima frase mi piace molto-, annuì John, che evidentemente aveva deciso di farla innervosire sul serio. -Vediamo... Ci stiamo raccontando la verità come mai abbiamo fatto prima. Ci stiamo ascoltando reciprocamente, mettendo al primo posto la comprensione. Ci stiamo studiando-.
-Chi ha detto che ti sto studiando?-, domandò lei, sorpresa.
-Sara, c'è bisogno di dirlo? È palese. Altrimenti a cosa servirebbe questo test?-.
-Non sei una cavia, non...-.
-Ma è un esperimento. E di solito i risultati vanno studiati, o sbaglio?-.
Un altro punto per lui. Mentre Sara glielo assegnava mentalmente, John lesse dal saggio: -Completa questa frase: “Vorrei avere qualcuno con cui poter condividere…”-.
Risposero nello stesso momento, stavolta però dando responsi diversi. Sara disse "La giornata", lui "La vita".
-Se ci pensi bene-, parlò John, intervenendo per primo dopo un nuovo momento di silenzio imbarazzato, -di fatto sono due aspetti dello stesso concetto. Mi hai sorpreso, con questa risposta-.
-Solo perché amo il mio lavoro non significa che metterei da parte il pensiero di una famiglia-, ci tenne a precisare Sara.
-Allora immagini in grande-.
-Cosa? No, John, intendevo dire...-.
-Che la persona con cui condivideresti la giornata sarebbe la stessa con cui costruire una famiglia. Ho capito male?-.
Sara arrossì e si sforzò di non abbassare gli occhi: -Non è detto che le due cose debbano coincidere. La prima potrebbe essere anche un'amica-.
-O un amico. In quest'ultimo caso, potrebbe esserci una sovrapposizione dei due piani-. Ammiccò, furbo, e Sara restò in silenzio. John si alzò e le passò il libro, facendosi dare il cambio nella lettura.
-Spiega al tuo partner le cose di te che sarebbe importante che sapesse, se diventaste molto amici-, scandì lei.
-Avanti, Sara-, le lasciò spazio. -C'è qualcosa in particolare che dovrei sapere?-.
La ragazza fu rapida: -Non tollero pettegolezzi e commenti, negativi o positivi che siano, su altre persone. E non sopporto chi rifiuta di accettare le opinioni altrui solo perché dà per certe le proprie convinzioni-.
-Stai parlando di Laszlo, lo so-.
-Be', con lui ho toccato il fondo-, ammise lei.
John proseguì: -Sono due aspetti che conoscevo già. Mentre tu, di me, cosa dovresti sapere...? Mh, non ne ho idea. Credo di essere abbastanza trasparente con il mio modo di fare-.
-Forse dovrei sapere che è meglio non accennare mai alla tua famiglia o alla tua ex fidanzata-, gli consigliò Sara.
-Sì, in effetti. Perfetto, se hai risposto tu al posto mio...-.
-Significa che ti conosco abbastanza bene-.
-Significa che siamo già molto amici. Anche io sapevo in partenza cosa avresti risposto-, le sorrise John. -Prossima domanda?-.
-Di’ al tuo partner che cosa ti piace di lui/lei; sii molto onesto/a, e di’ anche cose che in genere non diresti a una persona che hai appena conosciuto-.
-Niente di più semplice-, sentenziò lui. -Mi piacciono la tua forza e determinazione. La voglia di fare. Il fatto di dire sempre la tua, senza dare peso a ciò che potrebbero pensare gli altri. Il modo in cui ti brillano gli occhi quando sei felice o sai di avere ragione. E il tuo sorriso quando ti senti in imbarazzo, proprio come adesso-.
Le aveva puntato gli occhi dritti nelle pupille e Sara si sentì trafitta. Cercò di trovare le parole per poter rispondere a sua volta in modo adeguato e quando le trovò disse: -La tua attenzione ai dettagli. Essendo un illustratore deve venirti praticamente naturale, ma è un aspetto che apprezzo molto. La tua sensibilità, a volte perfino eccessiva. Il modo in cui prendi sempre le parti di chi credi sia in difficoltà. I tuoi occhi. Li trovo estremamente espressivi. Basta guardarli per sapere cosa provi-, si arrischiò a dire, ben consapevole di essersi gettata nella fossa del leone.
-E adesso? Cosa sto provando?-, la interrogò lui, senza toglierle lo sguardo di dosso. Uno sguardo estremamente intenso, da cui Sara si sentiva allo stesso tempo attratta e respinta.
Di nuovo in imbarazzo, articolò debolmente: -A dire la verità, in questo momento posso solo dirti cosa sento io. Mi stai letteralmente trapassando con lo sguardo e mi sento un po' a disagio-.
Fu quella ammissione a convincerlo a rivolgere altrove i propri occhi e Sara lo ringraziò tra sé e sé per quel piccolo gesto di cortesia. D'altra parte aveva chiarito con John alcune dinamiche e quello sguardo insistente, di fatto ammaliante, rientrava tra gli atteggiamenti che lui avrebbe dovuto moderare nei suoi confronti. Non perché a Sara dispiacessero, ma perché le facevano perdere il controllo. E l'autocontrollo era tutto ciò di cui aveva bisogno in un mondo dominato da uomini.
-Siamo arrivati alla domanda ventinove-, lo informò. -Racconta un episodio imbarazzante della tua vita-.
-Non c'è bisogno di raccontarlo, dato che eri presente-. Sara gli rivolse un'occhiata interrogativa e lui spiegò: -Quando mi sono svegliato sul divano del quartier generale, dopo la notte al Paresis Hall. Mi hai guardato con un misto di sospetto e delusione... Non hai idea di quanto mi sia vergognato in quel momento-.
-In me non c'era né sospetto né delusione. Ero solo molto preoccupata e mi tormentava il pensiero di ciò che ti avessero fatto in quel bordello-, chiarì lei.
-Sul serio?-.
-Sì. Mi sentivo molto rammaricata: la sera prima, entrando in carrozza, avevo pregato Kreizler di insistere per accompagnarti a casa, ma lui non mi ha dato ascolto. Perciò la mattina successiva, vedendoti in quello stato, ho provato pura rabbia. Non avrei dovuto lasciarti andare, non a quell'ora e con un serial killer a piede libero-.
Era certa che John avrebbe immagazzinato quelle informazioni. Ad ogni modo, le domandò: -Un tuo momento imbarazzante?-.
Oh, sì, Sara ne aveva uno che valeva la pena raccontare. Un momento che, più che imbarazzo, le aveva trasmesso il puro senso dello schifo. Perciò non si fece pregare e raccontò: -Una volta, al Dipartimento, sono entrata nella stanza di Connor per dargli un avviso da parte di Roosevelt. Quando ho aperto la porta, però, l'ho trovato intento ad urinare-.
Per la seconda volta da quando avevano iniziato quello strano test, John strabuzzò gli occhi: -Cosa?-, esclamò.
Sara lo interruppe e proseguì, mentre lui restava sempre più a bocca aperta nel sentirla parlare: -Gli ho detto ciò che dovevo e la sua risposta è stata un indecente "Faccia attenzione, signorina Howard. Pare che ci sia un grosso ratto che gira nel Dipartimento, pronto a sgusciare sotto le gonne delle signore". Non ti specifico a cosa alludeva, visto che mi ha rivolto la parola tenendo le braghe calate e i genitali in bella mostra-.
-Quel figlio...!-, notò John stringere i pugni, il viso rosso di ira repressa e risentimento. -E cosa hai fatto? L'hai detto a Roosevelt?-.
-No-, rispose lei pacatamente. -A pensarci bene, sei il primo a cui racconto questo episodio-.
-Avresti dovuto denunciarlo, non fargliela passare liscia. Quel verme meritava...-.
-La risposta che gli ho dato. L'ho guardato dall'alto in basso, mettendo da parte qualsiasi impulso di vergogna o ribrezzo, e gli ho detto che tutto ciò che vedevo era un piccolo topolino rosa. Ho chiuso la porta e me ne sono andata, sentendolo sghignazzare insieme ai suoi compari-.
John era esterrefatto: -Ti sei fatta valere. Ma questo non cambia il fatto che ti abbia insultata e molestata verbalmente. Se lo avessi saputo prima...-.
-Cosa avresti fatto? Non sei mai stato il tipo di uomo che inizia una rissa-.
-No-, ammise lui, -ma avrei avuto un altro buon motivo per vederlo morto-.
-Il passato è passato e non vale la pena perdere tempo a rivangarlo, come dicevamo anche prima. Perciò andiamo avanti: Quando è stata l’ultima volta che hai pianto di fronte a un’altra persona? E da solo/a? Ti dispiace se rispondo prima io?-.
-Niente affatto-, scosse la testa John.
-Quando sono andata a trovare il Dottor Kreizler per convincerlo a tornare ad indagare. Lui mi ha raccontato del suo passato ed io, be'... Mi sono commossa. E gli ho parlato della morte di mio padre. Ho pianto per entrambi, credo-.
-Non me lo avevi detto-. Il tono di John tradiva una piccola quantità di delusione e disappunto.
-C'era altro a cui pensare e ad essere sincera volevo che la cosa restasse tra me e lui, soprattutto per il fatto che sono stata io la prima a cercare dettagli sul suo braccio. Devo averlo ferito molto e me ne sono rammaricata. Ma adesso, a distanza di un anno, è più facile parlarne. Ecco perché ho ritenuto giusto dirtelo-.
-E quando è stata l'ultima volta che hai pianto da sola?-, domandò lui.
-Anni fa. Dovevo ancora iniziare il college, se non sbaglio. Stavo attraversando ancora un periodo difficile. Ma adesso è il tuo turno, ho praticamente monopolizzato il discorso-.
-Monopolizzato mi sembra una parola grossa. Credo proprio di essere io quello che ha parlato di più, fino ad ora-, valutò rapidamente John. 
-Dai, vai avanti-.
-Diciamo pure che di solito evito di piangere in presenza di qualcuno. Immagino che sia legato ai retaggi dell'infanzia. Non è difficile, quindi, pensare all'ultima volta che mi sono concesso un pianto e... Sarò prevedibile o romantico, chiamami pure come vuoi, ma c'entra sempre Julia. Oltre tre anni fa, quindi. Ah, no, aspetta! C'è stata la morte di Mary, come posso dimenticarlo? Ero in lacrime ancor prima di accorgermene. E in compagnia, quando è morto mio fratello. Più vedevo mia madre disperarsi, meno riuscivo a trattenere le lacrime. È stata anche l'unica occasione in cui mio padre mi ha perdonato una tale dimostrazione di sentimenti, in effetti-.
Il fatto che la prima persona a cui avesse pensato fosse la famigerata Julia Pratt la fece risentire. Non avrebbe dovuto, in realtà, perché, come ostinava a ripetersi, John era solo suo amico, un vecchio amico, però... Niente da fare, quella risposta le aveva comunque solleticato una corda che non sarebbe dovuta esistere.
-Posso leggere io la prossima domanda?-, le chiese lui. Sara assentì con un cenno della testa e gli passò il libro, poi John lesse: -Di’ al tuo partner qualcosa che già ti piace di lui/lei-.
-È una domanda simile a quella di poco fa-, notò la ragazza. 
-Alla numero ventotto, già-, confermò lui. -Forse prima alludeva solo a fattori meramente estetici?-. 
-Può darsi. Qualunque sia il caso, abbiamo già risposto-.
-Allora continuiamo. Numero trentadue: Qual è – se esiste – l’argomento su cui non si può scherzare, per te?-.
-Credo proprio che tu conosca già la risposta-, Sara si lasciò andare a una risata. 
-Il lavoro. Senza alcun dubbio-, rispose prontamente John. Lei annuì, lui riprese la parola: -Probabilmente anche tu puoi rispondere senza difficoltà al mio posto-.
-Direi gli affetti e le relazioni in generale-.
Le rivolse un unico complimento: -Bingo, detective-. Poi proseguì: -... Ecco: Se stasera morissi senza poter più comunicare con nessuno, qual è la cosa che rimpiangeresti di non aver detto a qualcuno? Perché non gliel’hai ancora detta?-.
La risposta di Sara semplicemente le scivolò via dalle labbra con una leggerezza di cui si stupì lei per prima. -Rimpiangerei di non averti detto quanto sei diventato importante per me. Rimpiangerei di non averti ringraziato per essermi stato accanto in tutti i momenti di difficoltà, perfino i più pericolosi. E se non l'ho ancora fatto, è perché mi pare sempre di sbattere la testa contro un muro quando provo a esprimere ad alta voce i miei pensieri più nascosti-.
L'espressione trionfante di John si commentava da sola: -Dio benedica il Dottor Aron per aver inserito questa domanda nella lista, allora!-, esclamò entusiasta, sorridendo apertamente. Era incredibile, si disse Sara, come bastasse una sua sola parola a farlo sprizzare di felicità. -Io invece-, continuò lui, -rimpiangerei di non averti mai detto quanto ti trovo straordinaria. E... Sì, questo-.
Era evidente che si fosse trattenuto dal dire molto di più. -Sei sicuro che non ci sia altro?-, gli chiese Sara.
-Anche io ho dei muri che non riesco ancora ad abbattere-, si limitò a replicare lui, lasciando cadere quel discorso per passare alla domanda trentaquattro: -La tua casa prende fuoco con dentro tutto quello che possiedi. Dopo aver salvato le persone che ami e gli animali, hai il tempo per fare un’ultima corsa dentro e portare via un solo oggetto. Quale sarebbe? Perché?-.
Sara sapeva che la sua risposta sarebbe risultata scontata, ma di fatto si sarebbe comportata proprio come stava per dire: -La pistola di mio padre. È la prima cosa che mi viene in mente. Ha un valore affettivo troppo alto-.
-Io porterei via la macchina da scrivere. Se andasse distrutta, non potrei più chiederti di insegnarmi ad usarla-, spiegò John.
-Potresti comprarne un'altra-, suggerì lei.
Lui scosse la testa: -Non sarebbe la stessa cosa. L'ho presa ad un'asta per i bambini orfani e vittime di violenza; inoltre, è con lei che voglio provare a diventare uno scrittore. E poi tu sei stata la prima e l'unica a cui ho confessato questo proposito non appena l'ho portata a casa. Quindi sì, la porterei via con me perché è troppo importante-.
-Quante domande mancano?-, gli chiese Sara dopo qualche secondo.
-Siamo alle ultime due-.
-Bene. Cosa dicono?-.
-Questa è la trentacinque: -Qual è il membro della tua famiglia la cui morte ti colpirebbe di più? Perché?-.
-Ma non erano finite le domande sulla famiglia?-, obiettò Sara.
John sbuffò con disapprovazione: -Eh, lo credevo anch'io. È perfino inutile rispondere-, continuò lui. -Purtroppo è un'esperienza che abbiamo già vissuto-. 
-E che non vorrei mai ripetere-.
-Possiamo sempre rispondere al perché, ma in entrambi i casi è di facile intuizione-.
-Rispondo io per te e poi tu al posto mio?-, propose Sara.
-Mi sembra un'ottima idea-, assentì John.
Lei si schiarì la voce, presa dalla paura di farlo solo soffrire. Però, vedendolo ben deciso ad ascoltare, i suoi timori si diradarono poco per volta e parlando acquistò maggior sicurezza: -La morte di tuo fratello ti ha colpito non solo perché era molto giovane, ma soprattutto perché era l'unico in famiglia con cui avevi la possibilità di esprimerti senza essere giudicato. Era una parte di te e perdendolo hai sentito qualcosa nel tuo animo spezzarsi. C'è più di solo sangue ad accumunare due fratelli-.
-Sei sicura di non aver mai pensato di lavorare con Laszlo?-, le chiese, lanciandole un'occhiata sinceramente colpita per l'accuratezza dell'analisi, e Sara rise. -Perché sono sicuro che saresti bravissima-.
-Ti ringrazio, John, ma non sarebbe fattibile. La mente umana mi affascina, questo è vero, ma non ne farei mai una professione. Rispondi tu, adesso-, gli lasciò spazio.
Anche lui si prese del tempo e Sara si domandò se a sua volta non temesse di addolorarla. Allora lo invitò a parlare con un semplice battito di ciglia e John disse: -Tuo padre è stato la persona più importante della tua vita. Ti ha fatta sentire una sua pari, ti ha istruito come un altro genitore avrebbe fatto con un figlio maschio. Non ha mai posto differenze tra te e un tuo coetaneo, anzi, ha fatto sì che tu crescessi libera da qualsiasi preconcetto. La sua morte ti ha devastata sia perché ti ha lasciato completamente sola sia perché hai temuto che non ce l'avresti fatta a vivere in un mondo dominato, come diceva lui, da uomini. Hai avuto paura perché sapevi che il suo sostegno ti avrebbe sempre aiutata ad andare avanti e quando è venuto meno hai sentito tutte le tue certezze crollare e morire insieme a lui. Fortunatamente, però, i suoi insegnamenti erano già ben radicati ed eccoti qui oggi, Miss Sara Howard, prima donna in forza al Dipartimento di Polizia di New York. Tuo padre sarebbe stato fiero di te-.
Sara era commossa. Non credeva che le sue parole potessero intaccarla così tanto e invece si ritrovò ad asciugarsi un paio di lacrime; poi si costrinse a sorridere e, cercando di spezzare la tensione, disse: -Sono ancora in tempo per cambiare la risposta alla domanda trenta? Sto piangendo adesso e di fronte a te-.
Prima che potesse rendersene ben conto, John aveva lasciato la poltrona su cui si era accomodato e, venutole vicino, l'aveva aiutata ad alzarsi. Si erano guardati negli occhi e poi lui, accarezzandole una guancia e spazzando via un'ultima lacrima, l'aveva abbracciata e stretta a sé. Solo in un'altra occasione si erano trovati così vicini e in quel caso era stata proprio Sara a lanciarsi contro il suo petto, senza però che John la tenesse come stava facendo adesso. Probabilmente allora era stato così spiazzato dalla reazione della ragazza da non riuscire nemmeno a muoversi. Ora, invece, consapevole di se stesso, dei suoi sentimenti e di quello che stava sconquassando il cuore di Sara, la stringeva, cingendole la vita con entrambe le braccia, e la invitava silenziosamente ad appoggiarsi a lui, come se il suo petto fosse stato il posto più sicuro del mondo. E per Sara, in quei minuti che trascorse ad ascoltare il battito regolare del cuore di John, lo fu davvero.
Quando finalmente si separarono, non senza essersi prima guardati di nuovo negli occhi – come a volersi sincerare nel silenzio che l'uno comprendeva appieno ciò che provava l'altra – fu Sara a leggere l'ultima domanda. Dopo essersi passata una mano sul viso, disse: -Parla di un tuo problema personale e chiedi al partner un consiglio su come lui o lei affronterebbe questo problema. Chiedigli anche di descriverti come gli sembra che tu ti senta rispetto al problema di cui hai scelto di parlare-.
-Ho un'altra idea-, propose John, andato a riprendere il proprio posto sulla poltrona. -Evidenziamo dei problemi che vediamo l'uno nell'altra e poi aggiungiamo quelli che percepiamo noi stessi-.
-Sì, perché no? Ci sarà da imparare ancora di più-, concordò lei.
-Precisamente-.
-Vuoi che cominci io?-.
John la invitò a parlare con un gesto della mano e Sara iniziò: -Dovresti moderare l'apprensione nei miei confronti. Si è già molto smussata rispetto a quando abbiamo iniziato a lavorare al caso Beecham, però dovresti comunque prestare attenzione a non sottovalutare le mie possibilità. So contenere la mia emotività o almeno è quello che tento di fare-, precisò, dato che aveva appena finito di piangere sulla sua spalla. -Fino a un anno fa ti avrei detto di moderare l'uso dell'alcol, anzi, di smettere completamente di bere, ma non c'è alcun bisogno che lo ripeta: hai già risolto da solo questo problema. E credo che sia sotto controllo anche l'abitudine a frequentare...-.
-Non vedo una prostituta da oltre un anno, se è questo che intendi. E non ci tengo a tornare in quel giro-.
Sara non poté fare a meno di sorridere, compiaciuta: -Bravo, John-.
-Mentre tu, invece-, intervenne lui, -dovresti fare attenzione alle sigarette. Sì, lo so, fumo anch'io, ma dovremmo diminuire pian piano la dose di tabacco. Un'altra cosa: dato che me ne hai parlato tu per prima, dovresti lavorare su quel blocco a cui accennavi poco fa. Quello che ti impedisce di esprimere i tuoi sentimenti, ecco-.
-Effettivamente quello è il mio problema personale più grande-, confermò Sara. -Non hai idea di quanto sia faticoso, per me, conviverci. Mi fa sentire in procinto di soffocare o addirittura mi dà l'impressione di avere un peso sul cuore. Tu cosa faresti?-.
-In realtà non so darti un vero consiglio, visto che anch'io, come ti ho detto, affronto la stessa difficoltà-, John allargò le braccia. -Però probabilmente la soluzione sta nel parlarne per cercare di aprirsi un po' alla volta, proprio come abbiamo fatto oggi. Credo che potresti darmi questo identico suggerimento a tua volta-.
Sara annuì: -Analizzarlo insieme e discuterne. Sì, immagino che sia la cosa migliore da fare-.
Mentre finiva la frase, la pendola del piano superiore rintoccò con la sua voce grave. Erano le sei del pomeriggio.
-Altro che quarantacinque minuti!-, esclamò John. -Saranno passate più di due ore da quando abbiamo cominciato il test-.
-Ma finalmente lo abbiamo finito-, sentenziò Sara, osando stiracchiare le braccia. -E devi ammettere che non ti sei annoiato più di tanto, o sbaglio?-.
-Vuoi che te la dia vinta, non è così?-.
-Voglio solo la verità-, gli sorrise. -E te lo leggo negli occhi-.
-Oh, ma davvero? Passami un secondo il libro, per favore-.
Sara glielo porse e John ripassò rapidamente la lista a cui avevano appena terminato di rispondere. Poi, mentre Sara si alzava per fare un breve giro del salotto e sgranchire le gambe, disse soltanto: -Ne abbiamo saltata una-.
-Come sarebbe a dire?-, esclamò lei, correndo da John. 
-Sì-, confermò lui. -Guarda tu stessa-.
L'amico aveva ragione: -Non abbiamo segnato la domanda quattordici-, sussurrò Sara, gli occhi sbarrati al pensiero di dovervi rispondere.
-E cosa dice?-, chiese lui, pur sapendo esattamente quale fosse il contenuto del quesito.
A Sara non restò che leggerla: -C’è qualcosa che sogni di fare da tanto tempo? Perché non l’hai fatto?-.
John era di nuovo in piedi, a mezzo metro da lei. -Vuoi che risponda davvero?-.
No che non lo voleva. Ma forse sì. Però sarebbe stato meglio di no. Dio, aveva superato praticamente indenne la bellezza di trentacinque domande e adesso si scopriva che ne avevano tralasciata una? Proprio quella, tra tante possibili?
-Forse no-, gli disse. -Ma dopo più di due ore passate a interrogarci reciprocamente, in fondo voglio saperlo-.
John le rivolse la stessa, identica occhiata che l'aveva trafitta non molto prima. Sara si rese conto di aver deglutito a vuoto ancora una volta. -Sei pronta a qualsiasi verità? Anche la più scomoda?-, le chiese conferma. 
-Sì-.
-Anche se quello che dirò non dovesse piacerti?-.
Sara annuì con un cenno della testa.
-D'accordo, allora-. Vide John raccogliere tutto il suo coraggio con entrambe le mani, inspirare profondamente e dire in un soffio: -Baciarti. Ho perso il conto di quanto tempo è passato dalla prima volta che ho provato il bisogno di farlo. È un sogno che continuo a portarmi dentro dalla fine delle indagini, da quel giorno in cui Roosevelt ci ha interrotti. E mi tormento tutti i giorni perché so che, al momento, è un sogno che non si può realizzare-.
Sara non parlava. Il solo ascoltarlo la faceva avvampare. -Perché non l'hai fatto?-, ripeté parzialmente la domanda, senza neanche accorgersene.
-Perché ho paura di essere respinto ancora una volta, che tu preferisca un altro uomo o che non mi voglia vedere più. E tra tutte queste possibilità, preferisco averti come amica che rischiare di perderti-.
Ora la distanza tra di loro si era sensibilmente ridotta. Si guardavano senza interruzioni, troppo attratti l'uno dall'altra per combattere contro loro stessi.
-Stupido di un John-, sussurrò lei. -Non mi perderesti mai-.
-Ah, Sara, sappiamo entrambi che se io mi dichiarassi di nuovo tu rideresti, aggiungendo che mi piace sempre scherzare e che non c'è nulla di serio in quello che ti ho detto-.
-Potresti provarci adesso-.
-A fare cosa?-.
-A dichiararti, se è ciò che vuoi-.
La fronte di John adesso sfiorava la sua. Percepiva il suo respiro caldo sulle guance, mentre la sua voce profonda l'avvolgeva, alienandola da tempo e spazio.
-Non giocare con me, non potrei sopportarlo una seconda volta-. 
-Fallo-.
John la guardò e Sara si domandò se avesse notato che nei suoi occhi c'era risolutezza, uno scintillio diverso da quello di eccitazione che li illuminava quando era soddisfatta per qualcosa o per un'intuizione all'interno di un'indagine. Erano entrambi in attesa.
-Sara Howard-, iniziò John, la fronte a contatto con quella bianca di lei, -ci conosciamo fin da quando eravamo poco più che bambini. Ti ho vista crescere e diventare la splendida donna che sei oggi. Per me sei ispirazione, un modello da seguire, un esempio di quelle virtù che faccio tanta fatica a conquistare. Su tutto, però, sei il primo pensiero che mi sveglia al mattino e l'ultimo che accompagna il sonno alla sera. Da mesi convivo con questo sentimento e di giorno in giorno sento di non riuscire più a contenerlo. Vengo da te con il cuore in mano e l'anima esposta: ti dono entrambi. Saranno tuoi per sempre se solo lo vorrai. Perciò – e John si inginocchiò, prendendole una mano – Sara Howard, vorresti sposarmi?-.
Sara restò in silenzio, mentre lui la guardava dal basso. Poi, dopo attimi che a lui dovettero sicuramente apparire lunghi come secoli, lei parlò: -Sai, anch'io ho qualcosa che sogno di fare da molto tempo. Una cosa che non ho fatto perché non mi era mai stata chiesta seriamente-. John vide un sorriso distenderle pian piano le labbra e Sara, emozionata come poche altre volte nella vita, disse: -Sognavo di dirti sì. Sì, sì, mille volte sì-.
Con uno scatto, John si rialzò, le afferrò i fianchi, facendola volteggiare in aria e poi, di nuovo con i piedi a terra, adesso stretti l'uno all'altra, la baciò come non aveva ancora mai osato fare.
Sara, ridendo e soffiando sulla sua bocca, notò: -Avremmo dovuto guardarci negli occhi per quattro minuti, l'hai dimenticato?-.
-Al diavolo il test!-, sbottò lui, troppo felice per pensare a qualsiasi altra cosa che non riguardasse Sara. -Attendo questo momento da un anno e adesso non aspetterò altri quattro minuti per poterti baciare di nuovo!-.
Mantenne la promessa. Le sue labbra furono ancora su quelle di Sara, prima con dolcezza, poi con maggior passione. E infine, tenendola stretta a sé, nella luce aranciata del tramonto che trapelava dalla finestra, ammise, felice di essere stato sconfitto nella sfida che lui stesso aveva lanciato: -Hai vinto. E devo anche ammettere che il test ha funzionato-.

 

   
 
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