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Autore: Dexter Bell    30/05/2018    1 recensioni
Un viaggio in una valle lontana per sconfiggere un'ennesima creatura delle tenebre conduce Caron in un luogo inaspettato, dove nessuna delle sue spade potrà nulla contro ciò che l'attende.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il Requiem Funebre di Caron'
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Requiem della Lama

 

Con passi misurati, ma inarrestabili, Caron seguiva il serpeggiare del sentiero appena riconoscibile sotto la coltre di sterpi che lo aveva ormai avvolto. Era certo molto tempo che nessuno calcava quella via, ma ciò non giungeva inaspettato alla Cacciatrice. Era proprio per quello che era diretta lì, alla valle oltre il Passo dei Goblin Rossi. Da ormai settant’anni, infatti, nemmeno le infide creature che davano il nome al passo osavano avventurarsi in quel luogo. L’avevano però seguita, credendosi non visti, per molte leghe, acquattati dietro le rocce, in attesa che si fermasse, spinta ad accamparsi dalla stanchezza. Come sempre, però, Caron aveva poco amore per il riposo e una volta che i suoi inseguitori si erano resi conto di quali fossero i suoi veri intenti, avevano subito fatto ritorno alle loro grotte.

Dicono infatti che i goblin non digeriscano la carne dei pazzi… E persino i goblin sanno che solo i pazzi camminano di loro spontanea volontà verso la valle di Khelob… L’avevano così lasciata finalmente sola, a immergersi in uno di quei pochi pensieri non colmi di odio o tristezza che si concedeva prima di una battaglia. Caron pensava ora a quale delle sue compagne avrebbe chiamato a sé in combattimento: pensava a quale lama avrebbe impugnato per porre fine all’esistenza della sua preda.

I poteri dell’oltretomba che le creature non-morte brandiscono rendono infatti tali mostruosità sovente invulnerabili all’acciaio delle armi dei mortali. Nemmeno il desiderio di vendetta che brucia nel cuore di Caron può rendere un semplice pezzo di metallo in grado di perforare le protezioni arcane dei non-morti più potenti. Ma quello stesso desiderio l’aveva invece spinta alla ricerca delle lame incantate per portare a termine le sue condanne, lame forgiate in tempi remoti da stregoni folli o da sacerdoti visionari.

Così Caron aveva potuto squarciare in due gli enormi spiriti della carestia con la gigantesca Xugoliath, la spada dell’Eterna Veglia, la cui lama è larga quattro palmi ed è lunga più di quanto un uomo sia alto.

Con Ajanta, la Divoratrice di Incantesimi, aveva prosciugato le energie magiche che sigillavano le tombe dei sacerdoti non-morti di Sama-Skamuridan.

Le mani della Cacciatrice non avevano mai esitato nemmeno ad impugnare le armi confinate in luoghi oscuri perché considerate maledette. Pur di abbattere la sua preda aveva rotto il sigillo che rinchiudeva la Lama dal Taglio Nero che sapeva imprigionare le energie vitali di coloro che da essa venivano uccisi.

Aveva persino osato estrarre Moreanar, la Fiamma Nera, dal cuore della Fortezza dei Sepolti… E con essa aveva fermato gli incantesimi blasfemi pronunciati dagli stregoni cadaveri.

Tuttavia, Caron aveva scarsa conoscenza di cosa stesse ora per affrontare; per questo ancora non sapeva il nome della sorella d’acciaio che l’avrebbe accompagnata in battaglia. Aveva consultato eremiti e saggi, ma poco avevano saputo dirle della maledizione che gravava sulla valle. Da più di mezzo secolo, infatti, chiunque vi si fosse addentrato non aveva mai più fatto ritorno. Caron si era persino messa sulle tracce dei figli di coloro che vivevano nella valle quando ancora non era considerata maledetta, ma aveva trovato solo dei canuti anziani che raccontavano dell’emigrazione dei loro genitori da un luogo diventato arido e ingrato dopo la morte del re Khelob. Chi si intendeva di araldica e storia nobiliare le aveva riferito che le informazioni erano scarse sulla vicenda: nessuno di “colto” aveva lasciato la valle prima che si perdessero i contatti. Per il poco che si poteva dedurre dai documenti degli altri regni vicini antecedenti a tale periodo, sembrava che il re fosse morto per una congiura.

Tutto questo era poco, ma per Caron formava già un quadro sufficientemente chiaro: una congiura significa un tradimento e un tradimento genera il rancore. Il rancore è uno dei più potenti ingredienti a cui attingono i sortilegi che forzano i portali del regno dei morti. Una terra che d’improvviso diventa crudele con i suoi abitanti è spesso segno di uno spirito maligno che vi si radica. Era probabilmente contro questo che andava a scontrarsi Caron, ma cosa potesse e quale fosse il suo punto debole, ancora lo ignorava. Nessuna spedizione aveva infatti fatto ritorno, nemmeno un solo sopravvissuto in fin di vita o pazzo… i maghi di più di un palazzo reale avevano pensato di risparmiare vite umane spiando oltre il confine delle montagne con le loro sfere di cristallo, ma avevano scovato solo un buon motivo per tenersi ancor più alla larga da quel posto.

Tutto ciò che si poteva vedere appena superati i crinali rocciosi era infatti una distesa di terra brulla e secca, spazzata da un vento sferzante e polveroso. Un luogo dove non crescevano che sterpi rinsecchiti e non vivevano che insetti dal coriaceo carapace. Era certo che nessun uomo potesse sopravvivere a lungo in un simile posto, come era certo che una simile inclemenza non potesse essere una semplice sciagura del clima. Era una maledizione divina… o quella di uno spirito rancoroso.

Caron ne era adesso avvolta: la maschera le consentiva di non soffocare per la polvere che il vento secco sollevava e la magia del suo manto nero impediva ai granelli di schiantarsi su di lei. Senza di esso il vento sarebbe stato come il tocco della pelle di uno squalo. Il terreno era altrettanto aspro: una strana ghiaia lo copriva. Non era l’insieme di ciottoli levigati dal tempo che solitamente evoca la parola, era piuttosto come se grosse pietre fossero state frantumate in pezzi irregolari e squadrati, fatti apposta per franare e lottare fra loro ogni volta che vi si appoggiava il piede sopra, rendendo il passo estremamente incerto. Il versante montuoso era poi una distesa indistinguibile di pietra sbriciolata e erba rinsecchita, completamente priva di punti di riferimento in cui era quindi facile perdersi, il suo profilo fatto di ripidissimi e imprevedibili avvallamenti contrastati da impervi promontori che costringevano il cammino in un continuo salire e scendere.

Non era difficile immaginare che gli spedizionieri dei diversi lustri passati non avessero avuto bisogno di alcun agguato per incontrare la propria fine. Perdersi in un simile luogo era già di per sé una condanna a morte. Ben prima che qualunque cosa si nascondesse in quella valle maledetta si fosse fatto avanti a minacciare gli esploratori, i cavalli o i muli che portavano equipaggiamento e vettovaglie sarebbero stati tempestati da quella sabbia ferrosa e sferzante portata dal vento. I loro occhi a stento coperti dai paraocchi e i loro musi sarebbero stati torturati da quell’incessante turbine secco e soffocante fino a quando, ormai incapaci di resistere, avrebbero scartato imbizzarriti, cercando di sottrarsi al giogo dei loro padroni. Ma il gesto brusco avrebbe sottoposto i loro zoccoli a una prova troppo dura ed essi avrebbero perso la presa su quella distesa sconnessa di sassi, finendo così per cadere e rovinare a valle insieme a una piccola frana di ghiaia tagliente e a una nuvola di polvere che il vento avrebbe subito gettato negli occhi degli avventurieri. I più agili di questi ultimi si sarebbero destreggiati in una rapida discesa per cercare di riprendere le bestie, ma avrebbero raggiunto gli animali da soma solo là dove il fianco della montagna decideva improvvisamente di risalire e li avrebbero trovati morti… o con una zampa spezzata, che sarebbe stata la stessa cosa. A quel punto, guardandosi attorno, non avrebbero visto altro che quel mucchio di sassi aggrovigliato dagli sterpi secchi che spuntavano in abbondanza dagli anfratti, perfetti per avvolgersi intorno alle caviglie e far fare agli uomini la stessa fine dei muli. Voltandosi indietro non avrebbero probabilmente nemmeno più visto i compagni che erano rimasti indietro e, sopra di loro, l’incessante tempesta di polvere avrebbe persino nascosto il cielo o lo avrebbe reso marrone come l’acqua torbida. In ogni caso si sarebbero trovati incapaci di ritrovare la strada del ritorno. L’arsura di quel caldo secco, la fame e la sete avrebbero presto fatto il loro lavoro, aggiungendo un’altra spedizione alla lista di quelle partite ma mai tornate.

Caron aveva affrontato molti viaggi prima di questo, ma solo durante la traversata del deserto di Amun-Kharak si era trovata a scontrarsi con un ambiente tanto crudele. Allora era sopravvissuta solo perché la sua tenacia e determinazione nel portare a spalla il corpo di suo fratello, privo di conoscenza, aveva dimostrato la sua forza d’animo e l’incuranza per la propria incolumità. Ciò aveva risvegliato la benevolenza degli spiriti del deserto, che l’avevano salvata e le avevano fatto dono del suo manto nero. Ora l’incantamento posto su di esso scongiurava il pericolo che Caron si avvicinasse alla morte come era successo allora, ma questo era tutto ciò che poteva fare per aiutarla a scovare la sua preda. Forse la sua migliore possibilità di riuscita giaceva nella speranza che i ruoli si invertissero: affamato da decenni di digiuno, sarebbe forse stato lo spettro a trovare lei per saziare la sua fame immonda… E allora lei avrebbe potuto colpire.

Perciò, vigile come ogni istante della sua vita, Caron scrutava attorno a sé incessantemente. Gli spettri, infatti, possono sorprendere le proprie vittime non solo alle spalle, ma piombando dall’alto come rapaci o persino sorgendo dal terreno che attraversano con la stessa facilità con cui i vivi attraversano l’aria.

Inerpicandosi all’erta sull’ennesimo crinale, la Cacciatrice percepì il vento calare leggermente e accolse la cosa con piacere, non tanto per il ridursi del fastidioso sferzare da cui la magia comunque la proteggeva, ma perché il suo sibilo si faceva meno intenso e la polvere più rada, permettendole di udire e vedere meglio eventuali pericoli. Il calo fu progressivo fino al punto in cui il vento non cessò del tutto e il pulviscolo non ingombrò più la vista. Proprio allora, però, proprio quando si avverarono le condizioni perfette per percepire un imprevisto, proprio in quel momento, Caron fu colta di sorpresa.

Appena oltre quell’ultima cresta la valle si mostrava alla vista incredula della Cacciatrice. Aveva visto distese di tombe che avrebbero soffocato il cuore del più coraggioso, pozzi sacrificali annegati in tanto sangue da riempire un mare, grovigli di corpi smembrati che avrebbero potuto riempire i granai delle capitali, ma nel guardare ciò che giaceva sotto di lei, Caron non poté che arrestare il passo.

La Valle era verde.

Verde come lo smeraldo più bello.

Nel suo grembo un lago azzurro.

Azzurro come lo zaffiro più prezioso.

Il vento si sollevò di nuovo, ma nulla aveva a che fare con il tormento di polvere che l’aveva avvolta. Era gentile. E fresco. Una carezza dolce sulla pelle, portava un profumo morbido. Sapeva di fiori e dell’erba accarezzata dalla rugiada.

Sopra di lei il cielo era blu. Qualche batuffolo bianco serviva al sole per giocare a nascondino, ma era solo per divertimento: l’ombra era gradevole come la luce. L’aria era tiepida e fresca allo stesso tempo.

Sotto, la valle era coperta di un bosco verde rigoglioso. Sempre con quel tocco delicato il vento frusciava tra le foglie degli alberi con una melodia che era tanto tenera da poter cullare un bambino. Dal versante opposto della valle scendeva un fiume dalle acque cristalline; scivolava adagio tra il verde, come per non disturbare le sonnolente radici che abbeverava e proseguiva fino al centro della valle dove si adagiava in un grande letto, trasformandosi in un lago. Lì le sue acque erano ancora più quiete; come uno specchio rimandavano agli occhi il dipinto del cielo reso appena appena più brillante dai giochi di luce che il sole spargeva qua e là con generosità.

Dalla riva di quel meraviglioso lago si alzava piano piano un pennacchio di fumo. Usciva dal comignolo di un tetto fatto di tegole rosse nascosto tra il verde delle fronde. Come se fosse il bardo di quel luogo, il vento portò con sé anche l’aroma della legna da ardere e quello della brace, lasciandolo aleggiare accanto alla Cacciatrice, raccontandole di un piccolo e nascosto rifugio di quiete.

Corrugati nell’espressione di chi non comprende, gli occhi di Caron scrutavano il verde bosco alla ricerca di qualcosa che la mettesse in guardia, che le rivelasse un pericolo, che le dicesse di afferrare la spada… Ma l’unica cosa che vide furono delle bellissime farfalle dalle ali coloratissime che si librarono in volo a poca distanza da lei, per poi riprendere a ridiscendere il crinale e tornare là dove erba e fiori cominciavano a crescere. Con il suo passo atletico, la Traghettatrice le seguì fino a giungere dove la china perdeva pendenza per diventare valle. Lì i suoi piedi poggiarono infine su un terreno morbido, coperto da un manto di un verde intenso ma incredibilmente non selvaggio. L’erba si piegava ritmicamente seguendo il soffio del vento, mimando le onde di un mare di smeraldo che andavano a infrangersi sugli alberi del bosco frondoso che cresceva rigoglioso a poca distanza.

Ancora incerta, Caron attraversò il prato quasi abbagliata da tanto splendore, cercando i segni di un inganno che però non trovava. Trovò invece un sentiero che si addentrava nel bosco, poco battuto, ma visibile, generosamente, ma gentilmente, contornato da quell’erba smeraldina che si mischiava a un sottobosco quasi… soffice. I suoi colori erano infatti una punteggiatura di foglie e fiori selvatici di una bellezza e una semplicità incantevole su cui altre bellissime farfalle si adagiarono per suggere il nettare, incuranti della visitatrice.

Ripresero poi il volo conducendo lo sguardo della Cacciatrice nel folto intreccio di rami che il bosco creava sopra di lei, il colore del legno a fare da trama all’intreccio di foglie il cui verde era esaltato dal controluce del sole, alto nel cielo blu. Quello spettacolo la invitò a proseguire, muovendo i passi sul sentiero, che si addentrava, avvicinandosi piano piano, al suono dell’acqua che scorre e al profumo della legna da ardere. E, sempre con l’indugio nel cuore per l’inaspettata scoperta di quel luogo, Caron fece un passo dopo l’altro su quella strada, saziando il suo sguardo che non conosceva che campi di battaglia di quella rigogliosa foresta che non sembrava conoscere odio.

Fu quando il sentiero raggiunse uno steccato di legno che il suo cuore si strinse un poco per la prima volta… Si strinse perché infine quella sensazione vaga ma intensa che l’aveva pervasa nel vedere la valle stava infine diventando comprensibile anche alla sua mente, diventando un pensiero compiuto, una consapevolezza: lei conosceva quel luogo. No, non vi era di certo mai stata. Non lo aveva mai visto raffigurato in alcun dipinto. Eppure lo conosceva. Al di là di ogni dubbio. Non conosceva il suo verde, il suo azzurro, il suo blu, i suoi profumi o i suoi rumori… Non conosceva i lineamenti di quella valle uno per uno… Ma il volto intero, il suo sguardo, era per lei inconfondibile… Era un luogo disperso, lontano da tutti e da ogni cosa… Era un grembo segreto che poteva accudire anche il passo stanco di chi non conosce che la veglia e che non ha abbraccio in cui cullarsi. Era il luogo in cui perdersi, il posto in cui persino il più terribile rimorso, il più pesante peccato avrebbe lasciato quieta la propria preda.

Ora riconosceva quel vento tiepido… Era il vento che le carezzava la pelle senza chiederle, senza ricordarle quanto sangue avesse versato, quanto dolore avesse inghiottito.

Ora riconosceva l’acqua che scorreva tranquilla… Era il fiume che l’avrebbe dissetata nonostante le torture che aveva subito e che si era inflitta.

Ora riconosceva il profumo che proveniva da quella casa… Era il pane che avrebbe potuto mangiare senza pensare di dover presto tornare a vagare senza meta.

Le foglie, i fiori, il vento e le nuvole… Quel luogo di lei conosceva tutto… Eppure non la odiava… Quel vento gentile con i suoi aromi e il suo tepore stava cercando dentro di lei l’angolo più nascosto del suo cuore… quello che ancora poteva credere al suo sussurro… che diceva… “Tu puoi essere perdonata…”.

Avvolta in quella rivelazione, Caron se ne distolse solo all’udire un nuovo suono raggiungerla sulla soglia dello steccato che racchiudeva il giardino della casa dal tetto rosso, di cui ormai intravvedeva la sagoma appena oltre gli alberi più vicini. Caron udì delle voci.

Erano voci allegre. Felici. Gentili. Ridevano e scherzavano… Voci che non aveva mai udito. Non voci di stregoni. Non voci di banditi. Voci normali.

Chiamata da esse come dal canto delle sirene, Caron varcò la soglia del piccolo cancelletto in legno per poter vedere quel luogo, il cuore di quel bosco, il cuore di quella valle…

Gli alberi si aprirono intorno a lei, lasciando spazio alla vista senza però dimenticarsi di intrecciarsi in alto con le loro chiome verdi, regalando al terreno quella meravigliosa trama di ombre e luci e all’udito la melodia del vento che frusciava tra le loro fronde. Incastonata tra i corpi di quei verdi guardiani, la casa fece infine mostra di sé.

Fu senza pretese che si fece vedere… Le finestrelle, fatte di un’intelaiatura in legno scuro che ospitava piccoli rombi di vetro colorato come un arcobaleno, erano l’aspetto più vistoso di quella semplice casa di campagna e, difatti, forse sapendolo, alcune si nascondevano dietro a persiane rosse. Rosse come le tegole che si potevano intravvedere appena prima che il tetto fosse abbracciato dai rami degli alberi…

Lo sguardo di Caron fu rubato per alcuni istanti dalla casa, percependo con chiarezza quella sensazione di quiete trovare il suo fulcro in quel… rifugio… Poi le voci le giunsero ancora e gli occhi si distolsero per guardare lo spazio aperto che stava innanzi alla costruzione.

C’era una festa… o un pranzo… Non importava davvero… C’erano delle persone felici. Fu questo che percepì Caron posando lo sguardo sulle figure da cui provenivano le voci. Delle giovani donne sedevano intorno a un tavolo di legno imbandito con una tovaglia a quadri bianchi e rossi, su di esso i piatti semplici di chi può vivere nel folto di un simile bosco, nei piatti i gusti di cibi altrettanto modesti, ma di un aroma e di un’accoglienza che nemmeno i più grandi banchetti imperiali avrebbero potuto eguagliare. Nessuna ragazza la vide soffermarsi ad ammirare la scena, tutte prese in una conversazione leggera e serena come può esserla solo quella della famiglia più felice. Caron non udiva davvero le parole che le giovani si scambiavano… Sentiva solo che risuonavano allo stesso ritmo di quella sensazione che le avvolgeva ritmicamente il cuore da quando aveva varcato quella soglia… Quelle erano parole di pace, di felicità, parole che anche se avesse ascoltato scandite sillaba per sillaba, non avrebbe mai potuto davvero comprendere… Eppure giungeva così chiaro al suo cuore il loro vero significato… “Siamo a casa, siamo felici”.

Così sicura sul campo di battaglia, Caron si scoprì invece così incerta in quel cortile così quieto. Le sue gambe, sempre tanto rapide a cogliere l’iniziativa negli scontri, ora erano come di pietra e non sapevano cosa fare… E la sua mente, così certa su cosa fosse meglio fare per sconfiggere mostri abominevoli, ora non riusciva a decidere… Doveva attendere? Doveva lasciare che fossero loro a vederla? Avrebbe dovuto aspettare la loro reazione a quell’intruso così cupo? O doveva farsi avanti, per scoprire cosa fosse quel luogo e chi fossero quelle persone?

A ogni battito del suo cuore, Caron pensava che la scelta sarebbe stata fatta per lei, che in un qualunque istante una delle ragazze avrebbe versato nel bicchiere di una delle sue sorelle l’acqua limpida che riposava nella caraffa al centro del tavolo e avrebbe notato quella macchia nera avvolta da catene d’argento là, sulla soglia del cortile… E poi… E poi non sapeva… E forse non voleva sapere… Forse non voleva che si voltassero… Forse non voleva scoprire se quel luogo poteva davvero non provare orrore di lei.

Ma i battiti del cuore di Caron si susseguivano e nulla accadeva; nessuna sembrava accorgersi di lei… E fu proprio allora, proprio quando Caron decise che avrebbe dovuto sconvolgere le quiete figure con la visita di un ospite inatteso, che quel luogo la colse nuovamente di sorpresa riservandole la stessa identica decisione.

Anziché per riempire il bicchiere di una sua vicina, una delle ragazze si volse indietro, verso la porta di legno della casa, e chiamò a gran voce il nome di una sua compagna. Chiamò quel nome perché la ragazza si unisse a loro. Lo chiamò perché con sé portasse il pane fresco… Ma di tutto questo Caron non ascoltò nulla… se non il nome che la voce aveva chiamato… perché aveva chiamato “Amabel”.

Più di qualunque sortilegio che le avessero mai lanciato contro, quel nome paralizzò ogni muscolo del corpo di Caron, fatta eccezione per il cuore che prese a battere più forte che in qualunque battaglia. Quel semplice nome era stato in grado di schiudere un forziere nell’animo della Cacciatrice la cui chiave pensava fosse per sempre andata perduta. Dentro di esso Caron pensava di aver sepolto la Speranza. Quell’assurda e incomprensibile convinzione che i miracoli, alle volte, possano accadere davvero…

Mentre tentava di tenere a freno con la razionalità un’emozione che pensava a lei così estranea, Caron capì quanto fosse futile quel suo tentativo non appena da dentro la casa giunse la voce che rispondeva all’appello della compagna. Era lontana… e difficile da distinguere chiaramente… Ma… Davvero… Le somigliava… Somigliava a quella voce che, unica, le aveva dato il suo vero nome… Quella voce che, morente su quel maledetto altare sacrificale, le aveva detto… “Io ti perdono”.

Solo quello fu sufficiente a contorcerle il cuore in un palpito che non aveva mai conosciuto… Fu sufficiente a incrinare la diga di razionalità dietro cui ancora cercava di arginare la Speranza. Poi la voce si mostrò e quel Torrente le invase l’animo nella sensazione più terribile e magnifica che avesse mai provato.

Amabel corse fuori dalla casa dal tetto rosso… Un cesto di pagnotte tra le braccia; la fragranza del pane fresco veleggiava nel vento insieme al profumo dei suoi capelli dorati. Gli stessi capelli che Caron aveva accarezzato, macchiati di sangue, in quell’unico e ultimo abbraccio prima che Amabel morisse. Su di essi ora il sole giocava con riflessi che non potevano essere descritti, creando colori tanto belli che solo il blu profondo e intenso che apparteneva agli occhi della ragazza poteva eguagliare. Era lo stesso blu che Caron sognava ogni notte, quel blu negli occhi che ancora non rinunciavano all’affetto mentre si spegnevano guardandola, chiusi per sempre dalle torture che Caron stessa aveva inflitto per obbedire alla volontà del suo crudele padre. Ora invece brillavano più del sole… Brillavano sereni più del cielo oltre la coltre di rami. Brillavano felici come il sorriso che le bellissime labbra disegnavano.

Ed era un sorriso così diverso… Diverso da quello in cui aveva potuto cullarsi quando Caron era ancora avvolta da un corpo di bambina… L’unico sorriso che aveva mai visto sul volto quasi adulto di Amabel era quello che tentava di rivolgerle nonostante gli spasmi causati dal veleno di cui il suo corpo era imbevuto… Sì: quella era la prima volta che vedeva Amabel sorridere nella sua veste di ragazza e non di fanciulla… Ed era Felice… Ed era Bellissima… E, fuor di ogni dubbio… Era Amabel…

Non appena quel pensiero si completò nella sua mente, Caron sentì un calore indescrivibile avvolgerla e, per la prima volta da quando aveva messo piede in quella valle, non si sentì più un’estranea… si sentì davvero a casa. La Speranza appena scaturita dal suo cuore inquieto divenne infine Felicità, la Felicità che Caron pensava persa per sempre. L’istinto guerriero si affievolì fino a svanire, acquietato dal fremere del cuore, e con esso svanì la magia che fissava la Maschera d’Argento al volto della Cacciatrice, lasciando che anche quello schermo cadesse. Pronte, le Catene magiche si animarono e afferrarono l’oggetto al volo, riponendolo in una tasca del mantello senza che la loro padrona né glielo ordinasse, né se ne rendesse conto, ora solo rapita da quella visione che per lei era tutto.

A Caron sarebbe stata sufficiente quella visione… Continuò ad assaporarne ogni istante, dilatandolo all’infinito, cogliendo ogni passo di Amabel, ogni piega dei suoi capelli, ogni linea del suo viso, ogni eco della sua risata, senza desiderare altro, ogni pensiero svanito… Ma il vento prese di nuovo a giocare con lei e soffiò su Amabel in modo impertinente, scompigliandole la bella chioma e mandando una ciocca dorata sul viso. La ragazza si fermò portando il cesto del pane sotto un braccio e con l’altra mano si risistemò la frangia… E nel fare questo scosse il capo… E nel fare questo vide Caron…

Fu quello l’istante più lungo, l’attimo più bello e terribile che la Cacciatrice avesse mai vissuto; la felicità più grande nell’incrociare lo sguardo di chi credeva persa per sempre e la paura più sconfinata che qualcosa distruggesse quel momento… Che Amabel non la riconoscesse o che riconoscendola la odiasse per quel che le aveva fatto o che Caron fosse davvero diventata un fantasma e, come le altre ragazze, anche Amabel finisse per ignorarla o per scambiarla per un alito di vento appena percettibile nell’ombra dell’intreccio dei rami.

E invece… Invece Amabel la vide… E Sorrise… Sorrise ancor di più… Sorrise con il suo sorriso più bello… E lasciò la cesta… E chiamò il suo nome… Chiamò “Millishea!!”

…E le corse incontro.

Gli occhi tremanti di Caron, che cercavano di ricordare come richiamare le lacrime, sconosciute al Traghettatore del Regno dei Morti, fissarono la dolce figura di Amabel correrle incontro mentre le labbra tentavano di schiudersi per dire qualcosa senza però riuscire a pronunciare alcunché. Riusciva solo a trattenere il suo cuore dal non impazzire nonostante si colmasse a ogni passo di tutte le lacrime di felicità che gli occhi non riuscivano a piangere fino quasi a scoppiare. E ogni passo Amabel chiamava quel nome che doveva essere morto insieme a lei e Caron non riusciva ad udire altro. Non udiva le voci sorprese delle altre ragazze alla sua vista, né vedeva la felicità dipingersi sui loro volti per quella visita inaspettata. Vedeva solo Amabel che ad ogni passo le era un passo più vicina…

Caron si abbeverò a quella visione come un uomo perso nel deserto può fare con un pozzo colmo di acqua fresca. E nel vederla correrle incontro, Caron gioiva per il più bel dono che potesse immaginare… non solo poteva vedere Amabel sorridere… Ma Amabel sorrideva a lei… Correndole incontro, Amabel era felice… Felice di riabbracciarla.

Amabel corse da lei fino a che non le separarono che un paio di passi, poi si arrestò, forse colta dagli stessi dubbi e dalla stessa incredulità di Caron. Forse si stava chiedendo se potesse essere vero quel momento, se Millishea l’avesse riconosciuta, se ancora si ricordasse di lei. Tutti questi pensieri visibili a Caron nei grandi occhi blu e allo stesso tempo sovrastati da una gioia che non voleva farsi imbrigliare da alcun dubbio. Così Amabel, tenera e sincera proprio come Caron l’aveva sempre ricordata ogni giorno della sua vita, tornò subito a sorridere e spalancò le braccia, nella dolce e silenziosa richiesta di essere accolta… E, lentamente, con incertezza, anche le braccia di Caron si sollevarono, mentre nei suoi occhi la più grande felicità si mischiava alla più grande paura.

Ora, pensava la Traghettatrice, ora tutto svanirà… Come ogni inganno del destino, anche questo momento mi sfuggirà proprio nel momento in cui sembra tutto perfetto… Proprio mentre le mie braccia staranno per stringerla, mi desterò dal sogno… Oppure le Catene prenderanno a vibrare, avvertendomi dell’inganno di questo spettro e tornerò a brandire la spada…

Ma come per scacciare le paure di Caron, Amabel le si gettò tra le braccia cercando la sua spalla con il capo, cingendola alla vita, scaldandola con la sua tenerezza, inebriandola con il suo profumo. Caron percepì ogni sensazione, ancora aspettandosi un inganno… Ma… Vero. Era tutto vero… Questo ennesimo stupore fu tale che la bloccò come fosse una statua, incapace persino di chiudere l’abbraccio, lasciandola con le braccia sospese e lo sguardo perso nel vuoto mentre Amabel si stringeva a lei, felice.

“Millishea! Millishea, sei arrivata davvero! Quasi non credevo più alle parole dell’Angelo! Ma lui aveva detto che saresti tornata, che ti avrebbe riportata da noi!” Ancora stordita, Caron abbassò a fatica lo sguardo, cercando quello di Amabel, senza sapere cosa dire. Ma la ragazza aveva sempre saputo leggere il suo cuore e quando sollevò a sua volta il capo, sentendola ancora tesa, comprese subito lo stupore e la domanda che le risiedeva nell’animo “Millishea… – Le disse con uno sguardo pieno di gratitudine – …Un Angelo mi ha riportata indietro… Mi ha raccolta nel viaggio oltre la vita per ricondurmi qui… Lo ha fatto perché… Perché tu sei cambiata. Il tuo sacrificio, la tua ribellione, la tua battaglia contro chi vuol far soffrire gli altri… Nel vedere quanto sei stata disposta a soffrire per espiare il tuo peccato, il Cielo non è potuto rimanere a guardare… Come tu hai ucciso tuo padre per impedire che altre vite fossero spente, un Angelo ha cercato quelle che lo stregone aveva già distrutto per riparare al male fatto… E mi ha ridato la vita… L’ha ridata a tutte noi, rompendo il maleficio che tuo padre aveva fatto su di noi… E ci ha portate qui… in un angolo di paradiso dove solo con la benedizione di un Angelo si può entrare… e mi ha detto che un giorno anche tu saresti arrivata… E ora finalmente sei qui.” Rituffando il capo sulla spalla di Caron, Amabel strinse ancora l’abbraccio per esprimere la gratitudine che le parole non potevano raccontare. Poi, sentendo che ancora era rigida, Amabel lasciò i pensieri del passato per coinvolgerla in più giocosi propositi “Millishea, vieni! Ho fatto il pane fresco e Lisa ha preparato il suo piatto speciale! Siediti con noi, ti devo raccontare tante cose e poi… Sei già stata al lago? C’è un posto bellissimo in cui ci si può tuffare e…” Incominciò senza poi più riuscire a contenere l’entusiasmo… E fu allora che Caron capì. Capì che non sarebbe mai arrivato nessuno spettro e nessun nemico a svegliarla da quel bellissimo sogno. Che, se avesse stretto le braccia intorno ad Amabel, avrebbe potuto davvero rimanere lì con lei… per sempre.

Capì di aver confuso la speranza e la paura… Perché non temeva che qualcosa si frapponesse fra lei e quel sogno… Perché non sperava che fosse tutto vero… In verità era esattamente il contrario: sperava che qualcuno che avrebbe potuto odiare, fosse anche solo il Destino, le impedisse di cogliere quella felicità… e temeva che, invece, quel qualcuno non sarebbe mai giunto. Lo temeva perché, in cuor suo, Caron sapeva che quello era il luogo in cui un giorno avrebbe voluto arrivare e fermarsi per sempre… Ma, in cuor suo, Caron sapeva che il tempo… che quel giorno, non era ancora giunto… E, per questo, sperava che qualcuno la costringesse lontano anziché lasciarla a scegliere, ancora una volta, tra ciò che sapeva essere giusto… e ciò che invece le avrebbe fatto conoscere il volto della felicità.

Ma oramai non sarebbe più potuto giungere nessuno.

C’erano solo lei, Amabel e quella bellissima casetta dalle tegole rosse…

E solo suo fu quindi il compito di poggiare le mani sulle spalle dolci di Amabel separandola un poco da sé, per rivolgerle uno sguardo in cui il ghiaccio del suo cuore tornava a riaffacciarsi, senza però nascondere quanto la sua visione ancora la scaldasse. La voce melodiosa che le spiegava quante cose avrebbero potuto fare assieme si spense insieme al suo sorriso, comprendendo subito che Millishea avrebbe pronunciato parole tristi che dovevano essere udite.

“Addio, Amabel… Io… Devo ripartire” Trovò solo il coraggio di dire prima di voltarle le spalle e tornare sul sentiero che lì l’aveva condotta. Fu la volta di Amabel di rimanere con una incredula disperazione negli occhi, incapace di reagire, ma prima che pochi passi fossero trascorsi, si fece forza e la chiamò di nuovo

“Millishea! Aspetta! Non andare! Ti prego, rimani qui con noi!” Caron si fermò senza tornare a guardarla, sapendo che non avrebbe sopportato di vederla triste.

“Amabel… Grazie davvero… Ma… Ci sono ancora molte cose che devo… che posso fare… Non posso ancora fermarmi. Un giorno… Un giorno, te lo prometto… Tornerò da te. Fino a quel giorno, ti prego… continua a riposare in questo mio cuore” Disse con l’ultima goccia di dolcezza che era rimasta dentro di lei. Poi i suoi passi ripresero e la portarono via lasciando dietro di lei la casa dal tetto rosso, il lago azzurro, il bosco verde e Amabel che la guardava andare via come paralizzata dalla sua determinazione.

Tornando gelida come sempre, la mano di Caron andò alla maschera e la pose di nuovo sul suo viso, dando con quel gesto il suo silenzioso addio a quel suo sogno. Mentre ancora calcava il sentiero all’interno del bosco, i tacchi dei suoi stivali tornarono a sollevare la polvere di un terreno brullo e il vento tornò a spazzarla lontano con rabbia e crudeltà; il suo manto tornò a danzare abbracciato a quel turbine ululante e i suoi occhi tornarono a essere offuscati dalla tempesta di pietrisco sollevata nell’aria. Prima che dieci passi fossero compiuti, l’illusione della valle fiorita scomparve del tutto, lasciando Caron a calpestare il terreno irregolare delle rovine del palazzo della Valle di Khelob. Davanti a lei non c’erano più fiori multicolori o alberi rigogliosi, ma solo poche colonne spezzate che testimoniavano come quel luogo una volta dovesse essere stato la magnifica sala di un palazzo ormai completamente scomparso. Tra i resti delle colonne, il trono su cui ancora sedeva il cadavere essiccato di Re Khelob, il petto scheletrico trafitto da una spada che non sembrava essere stata toccata dal tempo o dalla maledizione della valle. Dietro il trono, il vento spirava furiosamente e senza posa, trascinando un’enorme quantità di polvere in un vortice che, invero, aveva le fattezze di un gigantesco viso. Il viso di un uomo nobile solcato dall’età. Il viso di Re Khelob. Il viso dello Spettro della Valle. Ma diversamente dai volti spettrali che la Cacciatrice aveva incontrato… Questo non era furioso, né iracondo… Era triste… Caron si fermò innanzi ad esso; abbandonato il tepore di quel sogno, il suo cuore ed il suo sguardo erano tornati glaciali come sempre.

“Tu… – Pronunciò il vento con un eco sordo ma roboante – Perché sei tornata? Ho letto il tuo cuore… Sono certo di averti condotto nel luogo che desideravi più di ogni altra cosa al mondo… E non è stato perché hai pensato a un inganno che hai fatto ritorno… Ho letto chiaramente che, dopo tanto dubitare, il mio sogno ti aveva convinta… Ma proprio allora… Proprio allora gli hai voltato le spalle… Io, Re Khelob, ucciso dai miei stessi figli, tradito dai miei stessi amici per la brama di potere, reso schiavo del mio odio e della mia vendetta, incatenato da essi a una vita eterna che non conosce riposo… Io… Ho pena per te Cacciatrice” Disse con la voce di vento che a più riprese si interrompeva come se fosse sul punto di piangere “Nell’istante della mia morte e ogni momento da allora, il mio spirito è vissuto schiavo del disgusto per la vita: la congiura che mi ha ucciso mi aveva rivelato che essa è un crogiuolo di menzogne e sofferenze che gli dei ci hanno assegnato solo per divertirsi nel vederci ingannati e impotenti. Per questo ho privato di questo infame dono tutti i miei sudditi… Per questo ho condotto le loro anime in un sogno che li avrebbe cullati in un mondo giusto e senza sofferenze, riparando agli errori degli dei. E nessuno di essi è mai tornato… Tranne te… Tu… Tu che più di tutti avresti dovuto capire quanto è odiosa e dolorosa la vita… Tu hai rifiutato il mio dono… Io… io ti avrei protetta… Ti avrei accudita… Avrei impedito al dolore che ti porti nel cuore di farti ancora del male…” Le confessò lo spettro con i lineamenti di sabbia che davvero sembravano quelli di un amorevole padre in pena per la figlia, senza che questo smuovesse Caron dalla sua fredda contemplazione “Se non potessi leggere nel tuo cuore come un libro aperto penserei che hai rifiutato il mio dono perché sei un carceriere più crudele di qualunque spettro e che mai ti saresti permessa di essere felice…” Continuò senza che Caron dicesse una parola, certa che Khelob potesse davvero leggere nella sua mente e nel suo cuore e, per questo, fosse del tutto inutile parlare “…E se così fosse mi avresti comunque distrutto. Io che mi sono sempre considerato l’uomo dall’odio più grande per la vita, potrei solo svanire al cospetto di una donna che detesta la propria esistenza al punto di non permettersi neppure di rinunciarvi per sfuggire alla tortura. E invece… Solo io, tra le tue prede, ho visto il tuo cuore. Solo io so che sei tornata perché, anche se odi la tua vita… Desideri proteggere quella degli altri… E che più della tua, desideri la felicità altrui… E se tu… che sei stata ferita e sfregiata dalla vita almeno quanto me, hai deciso di lasciare il mio sogno perfetto per amore altrui… Allora forse significa che la vita che tanto ho odiato vale davvero la pena di essere vissuta. In questo, Traghettatore del Regno dei Morti, tu mi hai ben più che distrutto. Tu mi hai sconfitto” Confessò il Re Spettrale quasi con sollievo, mentre il vento cominciava a calare rendendo più evanescente il volto di polvere. “Tanti sono stati gli sciacalli che hanno cercato i miei tesori. Diversi sono stati i campioni che sono venuti per porre fine alla mia maledizione. Tutti loro per uccidermi di nuovo avevano portato con sé spade incantate e armi magiche… Ma nessuna di esse… E nessuna di quelle che porti con te… Avrebbe mai potuto essere affilata e letale più del tuo cuore triste e innamorato. È con quello, non con una lama, che tu hai reso a Re Khelob la pace di un riposo eterno…” E con quelle parole il vento cessò del tutto, lasciando che la sabbia tornasse al suolo e il rumore svanisse. L’ultimo brano dello spirito di Khelob abitò il suo corpo defunto per qualche istante; afferrò con la mano scheletrica l’elsa della spada che lo inchiodava al trono e la estrasse. La lama, come il vento della valle, spirò un’ultima volta e si dissolse poi in mille granelli di polvere lasciando solo l’elsa intarsiata nella mano del re “Ben più di questa, la tua forza d’animo ha trafitto il mio cuore. Perciò, a memoria di quanto hai fatto per me, io ti dono una Spada Senza Lama… Il suo filo invisibile trafiggerà lo spirito di coloro che sfuggono la vita e la morte proprio come tu hai fatto con me…” Poi anche il cadavere tornò allo scorrere del tempo disperdendosi come polvere negli ultimi aliti di vento, lasciando solo l’Elsa imbevuta della magia di Khelob.

Caron la afferrò mentre cadeva, prima che toccasse terra e la scrutò senza ancora dire una parola e lì, dove la lama d’acciaio avrebbe dovuto essere, l’aria vibrava con uno strano bagliore appena percettibile…

…E guardando attraverso di esso, Caron vide il verde intenso di una rigogliosa valle… Il tetto rosso di una casa modesta… E un piccolo comignolo fumante accarezzato da un vento dolce e profumato…

Solo allora le sue labbra si schiusero lasciando sfuggire un sussurro malinconico…

 

“Un giorno… Un giorno, te lo prometto… Tornerò da te …”




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