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Autore: Luana89    13/06/2018    1 recensioni
Nessuno può dire cosa succede in quel sottile processo di cambiamento tra la persona che eri e la persona che diventi. Nessuno, oltre te, può tracciare la linea immaginaria dell'inferno. Nessuna mappa. Nessuna via indicativa. Sei semplicemente uscito dall'altra parte, e non ti resta che camminare e sperare. In molti provano a scombinarmi i pensieri, a capire cosa ci sia dentro quel lerciume coperto da strati di capelli e ossa. Fottuti idioti. Nessuno entrerà mai nel mio castello. Nessuno ne varcherà mai nemmeno i cancelli. O forse si, forse tu?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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I


I cancelli della prigione si chiusero dietro la mia schiena lasciandomi finalmente solo. Solo e libero. Chiusi gli occhi respirando a pieni polmoni la ritrovata libertà, il sole tiepido di Ottobre riscaldò il mio viso donandomi una sensazione di pace così finta da risultare quasi reale. Quando riaprii gli occhi un raggio dispettoso accecò la mia vista, vidi i suoi capelli rossicci scossi dal vento e non seppi muovere un solo passo nella sua direzione. Era un’illusione? Così bella e perfetta, ferma sul marciapiede opposto, a fissarmi con occhi pieni di affetto e felicità. Sorrisi alzando un braccio nella sua direzione, il suo sorriso bastò a oscurare la palla infuocata sopra di noi. 
Fissai il semaforo rosso accanto a lei, quando il verde abbagliò i miei occhi attraversai andandole incontro; mentre colmavo quella distanza di pochissimi istanti il mio cervello venne sbalzato a un’epoca talmente lontana da non sentirla quasi più mia. 




Il ventilatore impolverato e guasto girava lentamente senza donarmi il minimo refrigerio. Steso sul divano consunto della mia casa osservavo mia madre seduta sul tavolo graffiato in legno, la mano tremante tagliava con destrezza la cocaina poggiata in maniera disordinata sulla superficie lercia. Nonostante i miei dieci anni l’infanzia è qualcosa che non ho mai sperimentato davvero, un senso pressante di disagio fece formicolare la mia pelle costringendomi ad alzarmi. Aprii il frigorifero alla ricerca di qualcosa da mangiare, lo trovai vuoto come sempre. 
«Non c’è nulla da mangiare..» la mia voce atona non sembrò attirare la sua attenzione. «Ho detto—»
«So cosa hai detto». La voce sottile di mia madre disturbò quella finta calma. Chiusi il frigo mettendomi le scarpe bucate e sporche, uscendo da lì senza dire altro. Per lei avrei fatto di tutto, persino rubare del cibo che poi le avrei portato senza che nessun ringraziamento mi accogliesse. O peggio senza che nessun ‘’come te lo sei procurato’’ mi fosse domandato. Suppongo di aver iniziato così la mia discesa in quel mondo, passavo le mie giornate a bighellonare con James e Peter, rubavamo cose di poco conto, i soldi degli altri ragazzini, la frutta al mercato. Giocavamo nel campetto da basket malmesso del quartiere, e sembrava bastarci. Poi arrivò Luke, spacciava droga nella zona e non so esattamente in che modo passò dal dare la droga a mia madre a darle il cazzo. Non so se sia chiaro ciò che voglio dire. Lo odiai sin dal primo momento, nessuno era mai riuscito a frapporsi tra me e lei, tranne lui. Mia madre non avrebbe mai ritirato sicuramente il premio ‘’miglior mamma dell’anno’’ ma a me andava bene così, mi andavano bene i suoi sguardi affettuosi quando non era strafatta, le sue carezze tra i miei capelli quando mi poggiavo sulle sue cosce piene di lividi. Il modo in cui mi chiamava ‘’amore mio’’ con quella voce simile al vetro più sottile, temevo sempre di vederla decomporsi sotto ai miei occhi. L’arrivo di Luke cambiò tutto, la vita dentro quella casa divenne irrespirabile, vi erano solo liti, percosse e urla. I suoi ‘’amore mio’’ adesso sussurrati quasi temesse di essere sentita, le carezze sparite. Il mio amore ristagnò  in pancia, divenne una palude e infine si inacidì. 
A quindici anni provammo la prima canna, seduti sui muretti appena imbrattati, io James e Peter ce la passavamo sorridendo come dei coglioni. A quell’età mi bastava del fumo e dell’alcool comprato illegalmente per sentirmi .. felice? Non so. La felicità è un concetto troppo utopico, troppo perverso per un'esistenza come la mia. Forse mi sentivo semplicemente più presente, più ancorato alla mia vita di quanto non lo fossi solitamente. I furti si centuplicarono, dal cibo passammo alle auto in un circolo vizioso senza fine. 
A sedici anni vennero gli assistenti sociali, mi strapparono da quella casa affidandomi a una famiglia a me sconosciuta: I Wilson. Fu così che conobbi Alice. Una ragazzina di appena quattordici anni dalla vita perfetta, almeno secondo il modesto parere di un sedicenne nella merda fino al collo. I suoi capelli simili alle foglie in autunno, con riflessi abbaglianti. Aveva gli occhi più grandi che avessi mai visto, scandagliavano dentro la tua anima senza permesso lasciandoti scombussolato e forse fu questo a conquistarmi subito, a costringermi quasi nel darle la mia totale fiducia. Eppure dall’altra parte della città, in una New York totalmente diversa da quella c’era ancora mia madre. La sognavo ogni notte, la sua voce sottile cristallizzata dentro di me, artigli profondi sul mio cuore. Il padre di Alice era un generale dell’esercito dall’aria parecchio severa, eppure aveva gli stessi occhi dolci della figlia, sembrava mi avesse preso a cuore per un motivo a me sconosciuto. Mi aiutava con i compiti, mi comprava abiti nuovi e costosi, mi portava alle cene di famiglia senza chiedere nulla in cambio. 
Mia madre però continuava ad apparirmi nei sogni. 
Fuggii da quella casa perfetta sei mesi dopo, non riuscivo più a guardarmi allo specchio. Il mio personale castello di vetro ululava ferito, e le sue urla avevano la voce di mia madre. I Wilson non sembravano voler mollare però la presa su di me nonostante tutto, mi cercavano spesso nonostante pensassi di non meritarlo, e forse senza la presenza di Alice avrei fatto perdere le mie tracce del tutto. 

«Come mi sta?». Fece una piroetta davanti lo specchio del negozio. 
«Non male..» sorrisi mesto e bugiardo, le stava d’incanto. Alice adesso aveva sedici anni, io diciotto ed ero già al mio secondo richiamo giudiziario. La mia vita non sembrava volersi assestare, vivevo ancora con mia madre e quel bastardo di Luke, continuavo ancora a vederla perdersi e decomporsi di fronte a me sentendomi impotente. Tutto finì (o forse iniziò) davvero una notte, Luke tornò ubriaco come suo solito e stavolta non sembrava volersi limitare ai semplici ceffoni che riservava a mia madre. No stavolta in mano teneva un coltello. Non so cosa scattò esattamente nella mia mente, forse anni di soprusi e repressioni, anni di odio covato e mai esternato del tutto. Mi avventai contro di lui, i miei occhi non vedevano altro che la sua merdosa figura ributtante di fronte a me. I miei diciott’anni prevalsero sui suoi quaranta, quando gli assestai una testata sul naso vidi il sangue grondare da ogni parte, ma non era ancora abbastanza. Afferrai i suoi capelli unti sbattendogli più volte la testa contro il tavolo. Contro quel fottutissimo tavolo nella quale si rimpinzava come un porco e si scopava mia madre sapendo che io li avrei sentiti. Quando si accasciò afferrai il coltello, ero pronto a finirlo del tutto ma l’urlo di mia madre mi fermò. Non l’avevo mai sentita urlare, era come se la sua voce fosse cambiata e la mia palude d’odio ribollì avvelenandomi.
«Vattene via. Vattene via prima che riprenda i sensi». La sua disperazione mi raggiunse ferendomi.
«Non posso lasciarti da sola.. vieni con me». L’afferrai per il braccio ma il suo scossone mi obbligò a mollare la presa, la vidi cadere rovinosamente accanto al corpo svenuto. Non riuscivo a crederci. 
«Salvati tu. Appena riprenderà i sensi.. ti ucciderà. Amore mio, ascoltami..». Gettai il coltello a terra, la mia faccia una maschera di pietra lineata in più punti. Avanzai a grandi passi verso il comò in soggiorno buttando all’aria vestiti e oggetti finché non trovai una busta gialla. L’afferrai mettendomela dentro la tasca interna del giubbotto, tornai in camera mia riempiendo appena un borsone di pochi abiti. Quando tornai lei giaceva ancora accanto a lui. 
«Tornerò da te». Mi fissò con quel viso scavato e smunto. 
«Spero tu non debba farlo mai più.» 



I nostri visi adesso vicinissimi si scrutavano con curiosità, alla ricerca di chissà quali cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi due anni. Non ne troverà, è venuta quasi a ogni colloquio portandomi cibo, oggetti, sigarette, osservando il modo in cui lentamente recuperavo la mia vita dentro quella cella troppo angusta. 
«Sei più alta o sbaglio?». La presi in giro bonariamente beccandomi una delle sue occhiate incendiarie. 
«Sei più stupido o sbaglio?». Le mani sui fianchi, la punta della scarpa ticchettava ritmicamente sull’asfalto rovente. 
«Come sta tuo padre?» Stuart Wilson era rimasto vedovo qualche mese dopo il mio ingresso in prigione, avevo assistito al loro dolore attraverso quelle odiose sbarre. 
«Se la cava, ha una figlia in grado di far tutto». Mostrò i muscoli inesistenti sulle braccia candide strappandomi una risatina, le circondai le spalle trascinandola rozzamente lungo la via. 
«Sentiamo braccio di ferro, qual è la prima meta?». Un pizzicotto mi colpì il fianco, non mollai la presa. 
«Casa tua, non oso immaginare come sia ridotta dopo tutto questo tempo». Non volevo pensarci neppure io in effetti, il fatto che Alice chiamasse quella topaia dove vivevo ‘’casa’’ era uno dei tanti motivi per cui la trovavo adorabile. Alla soglia dei suoi quasi ventitré anni era una giovane donna brillante, frequentava il college, aveva parecchi spasimanti (a detta sua) e un futuro come medico. Alle volte mi domandavo cosa ci facesse una così con uno come me. Un rifiuto umano che non era stato in grado di costruire nulla di decente nella propria vita, la mia unica abilità erano le auto. Il mio unico e grande amore. Le fottevo per poi portarle a James che sapientemente se ne prendeva cura, aggiustandole per far si che io potessi correrci alle corse clandestine. 
«Jay, mi senti?». La fissai sbattendo le palpebre, un mezzo sorrisino si formò sull’angolo destro delle mie labbra. 
«Ho voglia di una pizza, sai da quanto non ne mangio?» 
«James era sicuro lo avresti detto, suppongo ti stia aspettando insieme a Peter». Annuii soddisfatto della sua risposta velocizzando il passo. Quattro anime un po’ scalcinate, una di esse senza nulla in comune con le altre. Alice si era avvicinata a loro per causa mia, eppure erano riusciti ad accoglierla senza remore o riserve. Tra me e lei non c’era stato mai nulla, nulla più di un bacio. Lo ricordava? La fissai intensamente e fui tentato di chiederglielo, esitai e persi così il momento.
«Siamo arrivati». Indicò la Mercedes parcheggiata poco distante, mi bloccai sul posto e un nuovo ricordo affiorò dentro di me. Somigliava alla prima auto che rubai a Chicago. 



Un diciottenne in fuga, senza un luogo dove andare, senza un punto di riferimento. Che vita potrebbe mai vivere? La mia, sicuramente. Usai parte dei soldi per spostarmi e dormire in motel squattrinati, arrivando a Chicago dieci giorni dopo la mia fuga. Quando non hai neppure un misero pasto ad accoglierti la sera, o un tetto su cui dormire, comprendi sul serio quanto velocemente i soldi finiscano. Lasciai la mia famiglia e ne ritrovai un’altra lì. Vivevano ammassati nei sottopassaggi abbandonati, molti avevano qualche anno più di me altri erano dei cinquantenni senza denti e senno. Eppure mi abituai presto, nonostante i miei abiti puzzassero di urina e sudore, nonostante non mi lavassi da settimane, a me bastava. O forse fu la disperazione a convincermene. Pensavo spesso ad Alice, le avevo lasciato un misero messaggio in segreteria, chissà cosa faceva? Mi pensava mai? Ripensavo spesso all’ultima volta in cui l’avevo vista, mangiava un gelato seduta su una panca, parlando degli esami imminenti. Fingevo di ascoltarla pensando all’ultima auto rubata, avrei dovuto correre quella sera. Mi pentii di non essere stato più presente quella volta, di non aver ascoltato bene la sua voce un’ultima volta. O di non aver accarezzato i suoi capelli sempre lucidi e profumati. Serrai i denti con un’improvvisa voglia di piangere, fissando le fiamme che si spandevano dal bidone maleodorante vicino a me. 
«Sei nuovo?». Una voce femminile mi strappò dai miei pensieri, la fissai e il mio mondo sembrò scuotersi lasciando cadere calcinacci ovunque. Aveva gli occhi grandi come lei, la pelle chiara e i capelli scuri. 
«Ha importanza?». La mia voce roca sembrò divertirla, mi si avvicinò passandomi una fiaschetta che puzzava di rum, l’afferrai bevendone una lunga sorsata. 
«Come ti chiami?»
«Jay, tu?». Il mio nome completo era Jayden, ironico come il suo significato fosse ‘’il Signore ha sentito’’. Forse quando io urlavo lui era impegnato da qualche altra parte. 
«Shanti». Mi sorrise, aveva i denti stranamente bianchi e dritti. Mi piaceva. O forse mi ricordava lei, ma lo capii troppo tardi. Davvero troppo tardi. Quando le nostre mani si unirono sentii una scossa partire da dentro, le aveva così fredde. 
Scoprii poco dopo che Shanti aveva ventitré anni, viveva per le strada da cinque anni circa nonostante il motivo mi fosse sconosciuto. Sapeva come cavarsela in ogni situazione, sapeva come taccheggiare i passanti e io come fottere le auto. In poco tempo racimolammo abbastanza soldi per affittarci una specie di loculo dai muri marci. Il secondo giorno in quella casa portò lì la mia condanna più grande. La mia colpa. Il mio peccato e la mia croce. Le sue mani tremanti uscirono qualcosa avvolto in una stoffa gialla e stinta, quando l’aprì riconobbi subito il contenuto: eroina
«Da quanto ti fai?». Il mio tono non conteneva tracce di interesse o giudizio, fu questo forse a spingerla a punirmi per il resto della mia vita. 
«Pochi mesi, vuoi provare?». Mi fissò, ancora quegli occhi enormi a rovistarmi dentro. 
«Quella merda? No grazie». Soffiai fuori una risata sprezzante, non ero un santo e nella mia vita di merda ne avevo provato ..ma quella. 
«Hai qualcosa da perdere? Il modo in cui ti senti dopo.. questa vita è comunque una matassa maleodorante di merda, perché non sopperirne un po’ il dolore?». Avrei dovuto dirle allora che io qualcosa da perdere l’avevo. Aveva lunghi capelli setosi, e gli occhi più belli che avessi mai visto. Perché non lo feci? Forse perché quando sei solo e abbandonato ricordarti di chi ami viene difficile. O forse perché le ultime parole di mia madre continuavano a pugnalarmi al petto, con lo stesso coltello abbandonato sul pavimento quella notte infernale. 
La mia discesa all’inferno iniziò quel giorno, mentre l’ago bucava la mia pelle e la mia mente si perdeva in un vortice squassante. 
  
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