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Autore: yonoi    02/07/2018    8 recensioni
Un piccolo paese tra i boschi incappucciati di neve della Danimarca.
Nella mente di Indaco Hansen suona da sempre un'armonia tutta speciale, che solo lui è in grado di udire: il suo corpo risponde, e fin da quando ha imparato a reggersi sulle gambe, la danza è la sua dimensione, il suo destino e la sua gioia. Accanto a lui è cresciuto l'amico indivisibile, Larse Kruse. Larse è schivo e introverso, ma possiede anche lui un modo tutto speciale per comunicare il suo spirito: il disegno è la sua voce, la via di liberazione da tutte le sue inquietudini, dalle pene segrete, dal suo amore nascosto per Indaco Hansen. Indaco è il suo desiderio, l'oggetto dei suoi ritratti, ma Indaco è totalmente devoto alla sua danza.
La storia di un'amicizia, di un amore che si consuma nel silenzio, di un sopruso e un inganno, di una malattia che non lascia scampo, di un'antica e sinistra leggenda.
Prima classificata pari merito al contest "Zodiac game" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP; storia valutata al contest "Sense and Sensibility" indetto da Iamamorgenstern.
Seconda classificata al contest "Concorso a tema (l'amicizia) indetto da Dreamkath.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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La ballata di Heer Halewijn

 
“Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita.
Non essere ballerino, ma danzare.
Chi non conoscerà mai il piacere di entrare
in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi,
chi smette perché non ottiene risultati,
chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere,
non è entrato nella profondità della vita,
ed abbandonerà ogni qual volta la vita
non gli regalerà ciò che lui desidera.
È la legge dell’amore: si ama
perché si sente il bisogno di farlo,
non per ottenere qualcosa o essere ricambiati.
Altrimenti, si è destinati all’infelicità”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
 
            1. Prologo e Atto Primo- Il Signore delle Ombre

            Coricata sul suo giaciglio nella casa paterna, la giovane Maghtelt, figlia di cavalieri, ascoltava le voci nascoste nel buio: lo scricchiolio dei tarli e la dilatazione delle travi di legno, simile a un sospiro di dolore trattenuto; il fruscio del torrente dal vicino mulino, dove le acque si avvolgevano su se stesse come un pensiero ricorrente, che non dà pace; contro le imposte s’impigliava un filo di vento e dal bosco proveniva il verso della civetta, a tagliare la notte col suo carico di suggestioni e presagi.
            Nel suo cuore, Maghtelt portava una risoluzione: avrebbe ritrovato la sua amica d’infanzia, Emmeline, della quale si erano perdute le tracce dal giorno in cui si era avventurata nella selva di Heer Halewijn, il Signore delle Ombre.
            La selva era uno spaventoso labirinto di oscurità e alberi pietrificati: gualdrappe di muschio infido sulle rocce, un terreno paludoso che assorbiva ogni rumore, ingoiandolo in un silenzio di morte. A causa dell’intrico dei rami che formava una cupola sulla sua sommità, la luce del giorno non aveva mai accesso a quel luogo d’incanti, e neppure il chiarore limpido della notte.
            Si diceva che là vivessero strani animali, di specie sconosciute e mai viste prima d’allora: ranocchie dotate dell’uso della parola e addirittura in grado di predire il futuro; lumache dai corpi molli, viscidi e trasparenti, capaci di imitare le voci dei familiari e disorientare i viandanti, portandoli fuori strada; cervi dagli occhi dolci, che discorrevano anch’essi come esseri ragionevoli, ed erano in grado di intrattenere su molti argomenti le loro prede umane, per poi divorarne la carne sul fondo di una palude.            
            Il timore della gente aveva arricchito quel luogo di molte visioni, ma era Heer Halewjin a detenere la signoria di quel terrore: il suo maniero si ergeva sul costone di una montagna, lungo una roccia scarnificata dalle intemperie, che di là si levavano per riversarsi in grandine sui frutteti della valle.
            Un’ombra di caligine l’avvolgeva in un’oscurità perenne, interrotta dai lampi freddi dei fuochi fatui: in quell’atmosfera crepuscolare, del tutto deprivata della luce del sole, le piante crescevano completamente bianche, simili a spettri contro il cielo notturno.
            Riguardo alla persona di Sieuwert Halewijn, circolavano le dicerie più bizzarre.
            Si diceva fosse figlio illegittimo di un cavaliere, e che per ottenere ricchezza e potere avesse stipulato il più classico e scellerato dei patti: in luogo del tributo della vita e del sangue di vergini pure, aveva ottenuto da un misterioso Principe delle Rocce il governo della regione, un fascino senza pari e una disponibilità inesauribile di denaro. 
            Neppure si sapeva con certezza se Sieuwert Halewijn fosse una creatura di questo mondo o dell’altro, un’entità malvagia o un semplice essere umano esperto nelle arti magiche: né cosa ne era stato delle giovani scomparse lungo i sentieri accidentati della foresta.
            Si diceva che fossero state attirate da una melodia sospesa tra le fronde come un tranello, capace di avvincere le punte dei piedi, di avvolgere le braccia muovendole irresistibilmente nella danza. Catturate dal ballo, le ragazze finivano per cadere nell’abbraccio di Heer Halewijn, che le sacrificava senza risparmiare di loro neanche un capello: senza rendere alle famiglie nient’altro che il silenzio attorno alla loro sorte.
            Così si era compiuto il destino di Emmeline, sparita per incanto dal sentiero su cui si era avventurata in cerca di una particolare specie di funghi: i funghi d’ombra erano anch’essi candidi, come tutto ciò che cresceva in quel luogo privo di sole, e dotati di un ombrello che emanava una strana luminescenza. I loro corpi molli si diceva fossero in grado di riparare quasi istantaneamente le ferite più gravi.
            Che dalla selva infida di Heel Halewijn potesse scaturire qualcosa di buono, addirittura in grado di condurre alla guarigione, era quanto meno dubbio: sicché molti in paese avevano tentato di dissuadere Emmeline dal proposito di avventurarsi in quell’impresa. Ma neppure Maghtelt, l’amica fidata, era riuscita a distoglierla dall’idea di avventurarsi alla ricerca di quel fungo dall’apparenza cadaverica, per salvare il suo amato straziato in un incidente di caccia. 
            Una mattina prima dell’alba, mentre il villaggio era ancora immerso nella bruma e nel sonno, Emmeline aveva lasciato di soppiatto la casa dei genitori: di lei in breve si era perduta ogni traccia, malgrado l’allarme diffuso in tutto il villaggio e le ricerche serrate, effettuate dai pochi che avevano osato avventurarsi nel bosco.
            Un nastro zuppo di sangue trovato appeso a un ramo era l’unico segno che testimoniava il passaggio della ragazza in quel luogo di seduzioni e d’incanti, di danze irrefrenabili e uccisioni selvagge: lo stesso che la sventurata era solita portare avvolto attorno alla treccia, e che Maghtelt le aveva donato come pegno di amicizia.  
            Alla notizia della morte certa di Emmeline, il villaggio era sprofondato nell’afflizione: una volta di più, gli abitanti della valle avevano la prova che non sarebbero mai riusciti a liberarsi dalla tirannia di Heel Halewijn. In quel clima angoscioso, che gravava sul villaggio come una di quelle nubi che spesso si staccavano dalla cima della montagna, e andavano a riversare grandine sui raccolti, l’innamorato di Emmeline morì per il dolore causato dalla perdita dell’amata.
            Fu allora che Maghtelt prese la sua decisione: avrebbe riportato Emmeline a casa, ammesso che fosse viva, e in ogni caso avrebbe distrutto l’incantesimo che opprimeva l’intera vallata.
            -“Andrò nella foresta”- annunciò ai suoi, risoluta -“vi lascerò la testa, se sarà necessario, ma in ogni caso conquisterò la mia anima”-  
            Prima che fosse giorno Maghtelt si mise in viaggio portando con sé, come un amuleto di protezione e difesa, il nastro di Emmeline. Man mano che si inoltrava nel bosco, un silenzio di morte iniziava ad avvolgerla, simile a sabbie mobili colme di oscurità: già non udiva più il fruscio del vento alle spalle, né il canto del torrente che ruzzolava dalle rocce della montagna, docile fino al mulino. I voli delle farfalle, il loro levarsi come petali su un filo di vento, erano cessati a un tratto.
            Persino la luce si era affievolita nell’intrico dei rami, mentre iniziavano a comparire strane creature: lucertole di una strana materia trasparente palpitavano unte sui tronchi degli alberi, ragni dal pelo bianco zampettavano lungo traiettorie invisibili.
            Fu a quel punto che una strana melodia, simile a lacci pendenti dagli scheletri dei rami, incominciò a diffondersi, ambigua come una nebbia, e a vagare per i sentieri come un tranello. 
            Era una musica dolce, capace di evocare i più struggenti ricordi: Maghtelt vi riconobbe la voce di sua madre che le parlava chinandosi sulla culla, quella delle sorelle che la supplicavano di fare presto ritorno, quella dolce di Emmeline che implorava aiuto dal labirinto della foresta.
            Come scaturito dal fondo di uno stagno coperto da una muffa del colore del sangue, dalla cima di un masso precipitato in tempi remoti dalla montagna, da una radura di teneri fiori di campo, ovunque si insinuava l’eco del pianto di Emmeline: Maghtelt non poté fare a meno di seguirne le tracce, che insieme a un odore penetrante di marcio la spingevano a entrare sempre di più nel cuore insidioso della selva.
            Alle spalle di Maghtelt, come un’apparizione scaturita dalle profondità della terra, nel folto di una radura apparve infine Heer Halewijn. La ragazza cercò di non farsi sopraffare dal panico quando l’apparizione, uomo o entità che fosse, le mostrò un albero carico di teste mozzate, appese come frutti spaventevoli e minacciosi.
            Il fetore di putridume incombeva su di lei e la tenebra la circondava da ogni parte, rischiarata solo dal volto di Heer Halewijn: stringendo a sé il nastro di Emmeline, Maghtelt recuperò il dominio dei nervi, e la forza del suo coraggio. Fosse l’ultima impresa che le toccasse in vita, era più che decisa a rompere una volta per tutte quell’incantesimo.  
            Ritto di fronte a lei, Sieuwert Halewijn presentava vaghe sembianze di essere umano: la luminosità tenue che scaturiva a tratti dalle sue ciglia, simile a quella delle strane creature che infestavano il bosco, non aiutava a capire se il suo volto era quello severo di un uomo, o un viso dolce di donna. Ci volle un po’ di tempo prima che l’apparizione smettesse di oscillare incerta tra un sesso e l’altro, e acquistasse una propria stabilità nelle tenebre: si palesò quindi a Maghtelt nella forma di un giovinetto dal volto liscio, i capelli acconciati in due corna di trecce, gli occhi bianchi abbassati tra lunghe ciglia appuntite.  
            -“Sei giunta fin qui per morire”- Maghtelt udì queste parole chiare nella sua mente, pur senza avere veduto Heer Halewjin dischiudere le labbra.
            La musica la circondava da ogni parte.
            -“La tua bellezza, tuttavia è tale”- proseguì quella voce insinuante -“che io non posso fare a meno di onorarla, concedendoti di esprimere un ultimo desiderio: chiedi quello che vuoi, tranne la vita, e immediatamente sarai esaudita”-  
            -“Voglio morire nel modo più onorevole per una donna che, come me, proviene da una stirpe di cavalieri”- disse Maghtelt, altera -“la gente d’arme muore per mezzo delle armi. Quindi, voglio una spada”-
            -“Sarai accontentata”- rispose Herr Halewijn, e subito il bagliore sinistro di una lama si materializzò dal nulla nella sua mano. La giovane sorrise:
            -“Mio signore, la tua cortesia è così grande che io non posso essere da meno nei tuoi confronti. Perdonami se ti chiedo di levarti il mantello per uccidermi meglio”-
            Heer Halewijn aveva fretta di proseguire, perché il suo patto con il Principe delle Rocce reclamava incessantemente nuove vittime: un fiume di sangue doveva scorrere ogni giorno per consentirgli di mantenere il potere, il privilegio del fascino e della ricchezza. Tuttavia, la bellezza della giovane era così persuasiva, e così triste il suo destino ormai prossimo alla morte, che Heer Halewijn si prese il piacere di assecondarla.
            Levò quindi il mantello dalle sue nere spalle e si apprestò a vibrare il colpo, quando di nuovo lo interruppe la fanciulla:
            -“Mio signore, perdonami se intervengo ancora. Sarai più a tuo agio se ti leverai la giubba, e forse anche il cappello. Avrai maggior facilità di movimento”-
            Anche stavolta Heer Halewijn, irretito dal fascino della sua vittima, decise di accontentarla.
            Tra le ciglia ritorte, i suoi occhi si fecero ancor più luminosi. Levò giubba e cappello, pervaso da un’energia febbrile, e riprese daccapo a brandire la spada.
            Accorata, lo raggiunse la voce della ragazza:
            -“Non adirarti, oscuro signore, se la buona creanza m’impone un’ultima avvertenza. Togliti la camicia, sì che tu non debba macchiarla mentre mi uccidi”-
            Di nuovo Heer Halwijn non poté sottrarsi alla grazia di quella richiesta. Mentre era impegnato a sfilarsi la camicia e aveva le esili braccia avviluppate dal tessuto, rapida Maghtelt gli sottrasse la spada, e la levò decapitandolo di netto. Nascose poi la testa in un recipiente trovato poco lontano: molto probabilmente, si trattava del cesto di Emmeline, caduto dalle sue mani nel momento in cui la vita l’abbandonava, e poi rimasto là, nel verde della radura.
            Spiccata via dal tenero busto di adolescente, gli occhi spalancati e tuttora pervasi da un’eterea luminescenza, la testa di Heer Halewijn incominciò a disfarsi: recuperando il tempo che l’incantesimo aveva fermato per secoli, nel giro di pochi istanti la carne si sciolse in una pozza di larve, fino a restare un teschio dalle orbite vuote. Dentro al cesto di Emmeline, sopra a un letto di funghi altrettanto umidi e bianchi, rimase solo il cranio avvolto da due corna di trecce forti e nere: presto anch’esse sbiadirono coprendosi di una fitta trama di ragnatele, come se quella testa avesse riposato per centinaia di anni nell’oscurità di qualche segreta.
            Ma non era finita: un’identica sorte toccò al corpo da adolescente di Heer Halewijn, che iniziò a spogliarsi della carne e del sangue, mettendo a nudo i lunghi muscoli rossi, i tendini gialli e i nervi, fino a essere fagocitato dalla terra. Mano a mano che il sangue veniva risucchiato le zolle si muovevano, gorgogliavano anch’esse lasciando scaturire il profumo dell’erba durante un temporale, fertile e tonificante.
            In breve, la radura - e da lì, in pochi attimi, tutto il resto del bosco - si ricoprì di fiori, di roveti maturi di more e di lamponi, e lanciò in volo una manciata di farfalle, di uccelli che iniziarono a chiamarsi da un ramo all’altro.             
            Maghtelt era sconcertata, incerta tra la meraviglia e il terrore: chiuse il coperchio al cesto per non vedere più il cranio di Heer Halewijn, col suo ghigno e le corna gremite di ragni: e soprattutto per non sentire più quella voce che proveniva da secoli di morte, e ancora continuava a parlarle nella testa:
            -“Fammi uscire, ti prego”- le diceva con voce infantile e dolcissima, la stessa di sua madre, delle care sorelle, della povera Emmeline. E più Maghtelt cercava di tapparsi le orecchie, più la sentiva echeggiare nella sua mente, straziante nella sua tenera implorazione:
            -“Fammi uscire, ti supplico, amica mia, mia bella”- e non c’era alcun dubbio, quella era veramente la voce di Emmeline -“lasciami andare e permettimi di riunirmi al mio corpo”-
            Il Principe delle Rocce avrebbe certamente trovato la maniera per riportare in vita il suo servo fedele, fosse anche senz’anima:
            -“Tanto, l’anima mia”- diceva Heer Halewijn -“l’ho perduta da tempo, molti secoli fa”- 
            Pur con le lacrime agli occhi, nell’udire la voce struggente di Emmeline, Maghtelt riuscì a resistere: disponeva di sufficiente buon senso per ritenere assurdo, anzi pericoloso, mettersi  a dialogare con un cranio polveroso, che per di più gli usava la scortesia di parlare direttamente nella sua testa. 
            Nel frattempo, il corpo esanime di Heer Halewijn terminò anche i sussulti dell’ultima agonia, e il rivolo degli umori raggiunse anche l’albero delle teste mozzate. Al contatto con il calore del sangue, l’albero fu scosso fin dalle radici: sui teschi delle giovani, appesi per i capelli, la carne iniziò a crescere, quindi le membra si rivestirono di una parvenza di vita e gli occhi si aprirono.
            Sciolte dall’incantesimo, ornate nuovamente della serica trasparenza delle anime libere, le giovani danzarono attorno alla ragazza, prima di scomparire nell’ombra della radura. Da un angolo riposto, un trapestio annunciò il passo lieve di Emmeline col grembo colmo di funghi: le punte delle dita che levavano gli angoli candidi del grembiule erano rosa e già in procinto di dissolversi.
            Incontrando lo sguardo stupito di Maghtelt, quella dolce parvenza che era stata Emmeline chinò il capo e si unì ai ranghi delle compagne, che in lunga processione andavano a raggiungere il luogo del loro riposo.
            Quanto al capo reciso di Heer Halewijn, dal cesto in cui la giovane l’aveva rinchiuso continuò a supplicare di essere ricongiunto al resto del corpo.
            Maghtelt la coraggiosa rimase però sorda a tutte le suppliche, le proteste e le lacrime a cui l’oscuro cavaliere cercò di fare ricorso: con la calma serena di chi ha compiuto il proprio dovere, s’incamminò di nuovo per i sentieri del bosco.
            Sulla via del ritorno, lunghe lame di luce spezzarono per sempre la tetra oscurità dei crinali e delle radure. Sui rami finalmente liberati degli alberi ripresero le corse allegre degli scoiattoli, nei prati i voli repentini delle farfalle. Dagli alberi, gli uccelli si scambiavano i convenevoli come vecchie signore, sedute a filare in uno spicchio di sole.
            La testa di Herr Halewijn fu sepolta col cesto nel punto più profondo di un campo maledetto, e condannata a marcire nell’eterno silenzio. E solo chi si fosse ritrovato a passare per quel luogo nelle notti più cupe, avendo la ventura di porre attento l’orecchio tra il fragore del tuono e il sospiro del vento, avrebbe udito crescere in mezzo al campo un’erba priva di verde, pallida e che diceva:
            - “Dammi indietro il mio corpo, ridammi il mio potere, il fascino e la ricchezza…”.
 
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La soffitta era immersa in un tepore odoroso di legno e di polvere. Il tetto spiovente, come usava da quelle parti per fare scivolare i cumuli di neve, creava un’atmosfera raccolta e simile a un grembo: come un abbraccio caldo, dalle lunghe braccia di legno. Posata sulla mensola interna del davanzale, una lampada da campeggio allungava le ombre dietro alle cassepanche, da dove proveniva un lieve sentore di lavanda. Sui comignoli e i tetti scintillava un manto intatto, percorso solamente dalle piccole orme a salti degli uccelli.
            La luce della lampada lo accendeva di fragili cristalli di ghiaccio.
            All’interno, un pavimento di legno grezzo e una pozza di luce. Al centro, due ragazzi di circa tredici anni: il primo con le gambe allungate su per il muro e le braccia dietro la testa, un corpo nervoso e atletico, una certa difficoltà a restare fermo a lungo; l’altro a gambe incrociate, accovacciato dietro a un grande libro illustrato.
            Sul volto del ragazzo che stirava le membra allungandole sulla parete, la luce delineava la rilassatezza tipica di una lunga amicizia, la felicità intima di poter stare insieme.
            L’altro aveva le dita macchiate di colore - tracce d’inchiostro e tempera, le unghie rosicchiate. Un ritrarsi involontario ad ogni movimento, una traccia di malinconia intorno alle sopracciglia.   
            Si conoscevano da sempre, il ragazzo del libro e quello dalle lunghe membra allenate, perché ancora prima della loro amicizia c’era stata la vicinanza delle case dove erano nati: pitturate di arancio contro il grigio del cielo, le tipiche case a graticcio si aprivano su un cortile di cani, galline nelle stie, conigli e altri bambini con le ginocchia rotte, i capelli rapati per timore dei pidocchi, i calzoni rimboccati dei fratelli più grandi. All’epoca abitavano entrambi al pianoterra, e le porte di casa le avevano utilizzate soltanto nel periodo dei loro primi passi: quando ancora giravano sorretti dagli adulti, due mani sotto alle ascelle e i piedi grassocci e incerti. Non appena la presa si era fatta più stabile, avevano cominciato a scappare in cortile passando dalle finestre, il che comprendeva due divertimenti in uno: quello di trasgredire alle raccomandazioni di non farsi del male e quello, più avventuroso, di farselo sul serio cadendo su un piede storto, oppure nel tentativo di rimettersi in piedi. Comunque andassero le cose, a farne le spese erano i gomiti e le ginocchia crivellati da una ghiaia minuta, dura come pallottole.
            D’inverno, il divertimento consisteva nel ruzzolare dal davanzale sfruttando la neve ghiacciata: come slittino si usava qualsiasi materiale, dalle scatole di cartone alle gomme degli autocarri, che si andava a prelevare - per così dire - direttamente alla vicina base militare. Erano gli stessi rozzi pneumatici che in estate si appendevano agli alberi, per trasformarli in navi spaziali o velieri, nascondigli di pirati o semplici altalene.
            Ruzzolando d’inverno e scorticandosi le ginocchia in estate, i due erano cresciuti accarezzando le cucciolate dei conigli, trottando dietro ai pulcini, costruendo tunnel immaginifici nella neve, scatenandosi con la banda dei bambini del quartiere. Stretto tra case alte, il cortile era un pozzo buio anche d’estate: nelle sue pieghe d’ombra si celebravano le gesta di cow boys e indiani, invasioni di alieni da sperdute galassie, avventure di eroi dei cartoni animati, oppure semplicemente partite di pallone e nascondino dappertutto.  
            Durante il tempo del gioco, Indaco - così soprannominato per via degli occhi e dei lividi che aveva sempre addosso, incerti tra il blu e il viola - era il primo a scappare nel cortile con le sue gambe magre, schizzate di fango e da tutti i punti in cui era andato a sbattere contro a qualcosa. Da bambino, Indaco era fragile e pareva che le gambe lo reggessero appena, lunghe e secche com’erano: anche se c’era un nucleo di armonia nei suoi gesti, e quei suoi arti ossuti gli conferivano una strana eleganza da trampoliere.
            Se Indaco spiccava per la magrezza e i lividi che rimediava ovunque, sempre dentro alla mischia con quelle braccia secche e quelle gambe che non sapeva dove mettere, Larse pareva creato ad arte per sfuggire agli sguardi: composto e riservato, con gli occhi sempre bassi sotto a un velo di ciglia, persino il suo aspetto fisico pareva fatto apposta per restare in disparte con il naso infilato nell’album da disegno. Attorno a lui le scatole di matite e pennarelli parevano un piccolo esercito schierato a difesa.
            Quand’era anche lui in cortile, costretto dalla madre ad aggregarsi agli altri perché non crescesse strano e troppo isolato, Larse s’impegnava a fondo nell’arte in cui era maestro: quella di dare nell’occhio il meno possibile. Già favorito da lineamenti così fini da perdersi nell’ombra, col tempo aveva affinato la sua capacità di ripiegarsi in quattro dietro all’album degli schizzi, persino dietro al formato più ridotto. Le matite formavano davanti a lui come una palizzata, un appuntito arcobaleno di legno.
            Riusciva così a sottrarsi a qualsiasi invito a entrare nel gioco, e solo Indaco Hansen aveva la capacità di stanarlo dal suo mondo, entrandovi all’improvviso con l’impeto della sua gioia: Larse disegnava ed era tutt’uno con la pagina, al punto da non sentire neppure più le grida, le parole lanciate dietro al pallone, le risse, gli spintoni; era appena riuscito a rendersi invisibile al resto del mondo che Indaco arrivava, gettava all’aria lo steccato di matite, scompigliava i suoi fogli e violava il suo spazio con la sua presenza entusiasta.
            A quel punto, Larse non sapeva più come nascondersi.
            Privato del suo involucro, annullate tutte le distanze, aveva l’impressione che Indaco potesse leggergli in fondo agli occhi gli strani sentimenti che covava per lui da quando erano piccoli, e sedevano sui vasini cercando di gettarsi a terra a vicenda: per una sorta di dispetto che di lì a poco si sarebbe trasformato in amicizia.
            Per quanto fosse assurda una cosa del genere, Larse ne era convinto: aveva cominciato ad amare Indaco Hansen fin da quei pomeriggi trascorsi nella casa della nonna di lui, a fare i bisogni per ore e a mangiare biscotti al malto, a sbriciolarli ovunque portandoseli a spasso.
            All’epoca, Larse aveva imparato a dire sì e no dieci parole, storpiate alla maniera buffa dei bambinetti: eppure fin da allora aveva intuito che quello strano turbamento, che lo coglieva quando Indaco gli assestava i suoi spintoni a due mani, lasciandovi un’impronta di gioia inspiegabile, rientrava tra le cose da non dire a nessuno. Anzi, era la cosa segreta per eccellenza.
            Larse sapeva solo che per quanto badasse a nascondere il viso negli album da disegno, una coda inesorabile dei suoi occhi seguiva sempre Indaco, qualsiasi cosa stesse facendo: sia che fosse intento a saltare con la sua grazia ansiosa, come faceva a tre anni guardando i balletti in tivù, sia che mollasse a un tratto il pallone per correre da lui, rimediando calci e lividi dagli altri giocatori; sia che fosse pensoso com’era quella sera, con le gambe in verticale contro al muro della soffitta e la testa all’ingiù, incapace come al solito di star fermo un secondo.
            Larse interruppe la lettura, per osservarlo senza che l’altro se ne accorgesse: da quando frequentava l’Accademia in città, con un lavoro meticoloso Indaco aveva smussato tutti gli spigoli, e la sua magrezza sporgente si era trasformata in elasticità e tempra dei movimenti. Soltanto i lividi erano sempre gli stessi, e li aveva messi insieme daccapo - urtando contro i mobili mentre pensava ad altro - da quando era tornato per le vacanze di Natale. Vacanze che, in realtà, erano poco più di una pausa: tre giorni soltanto, per poi fare ritorno subito agli esercizi senza aver preso un etto, come si erano raccomandati gli insegnanti con l’indice puntato, seguito da certe occhiate che non ammettevano repliche:
            -“Niente frittelle allo sciroppo e niente panettone. Niente biscotti allo zenzero”-
            La classe degli allievi del secondo anno, ancora impegnata negli esercizi alla sbarra, assieme alle ginocchia aveva piegato anche lo sguardo.
            Quando Indaco aveva raccontato quell’episodio imitando il falsetto della Madame Grisi, col cesto da cucito di sua nonna in bilico sulla testa, ad imitare l’acconciatura dell’insegnante, Larse non l’aveva trovato affatto divertente. Non aveva detto nulla, ma era infastidito all’idea di una disciplina così esigente, capace di impadronirsi di una vita e di opprimerla con le sue restrizioni, i suoi divieti assoluti: in verità, provava un’aspra gelosia per la danza, e la considerava alla stregua di una rivale che per di più scorreva nel sangue stesso di Indaco Hansen.
            Dal canto suo, Indaco considerava quella raccomandazione completamente inutile, e non perché detestasse i biscotti allo zenzero: nessuna privazione gli era di peso, purché gli fosse data la possibilità di esprimersi attraverso la danza. In quella prospettiva, qualsiasi divieto assumeva il senso di una conquista: era un passo avanti per entrare più completamente nella sua arte.
            Persino in quel momento, in cui apparentemente oziava con le gambe stese sulla parete, Indaco in realtà era dentro alla danza: l’ascoltava scorrere dentro di sé come un fiume, e mentre con le braccia istintivamente ritornava a un movimento, a un passaggio di musica, socchiudeva le ciglia come sotto l’effetto potente di una carezza.
            Larse, che da dietro al libro non lo perdeva di vista, si sentì trafiggere a un tratto, senza sapere perché. Non fece in tempo a chiederselo, che con un balzo Indaco era già accanto a lui:
            -“Allora, l’hai trovata?”- gli chiese -“se il tuo libro contiene tutte le leggende, dovrebbe esserci anche quella di Heer Halewijn. È una storia olandese, ma la Madame Grisi dice che ne esistono diverse versioni, anche una scandinava”- alzò un poco le spalle -“a scuola, nessuno ne sa niente. Però…”- e qui allargò un sorriso tutto pieno di sogni  -“noi ci faremo lo spettacolo di fine anno. Ci pensi? Anzi, verrai a vedermi?”-
            -“Tu che ruolo avrai?”- le ciglia chine sul libro, Larse sfogliava le pagine per non sentire la punta delle orecchie infiammarsi ogni volta che l’amico accorciava le distanze. Proprio in quel momento, Indaco lo afferrò alle spalle con la presa sicura che stava sviluppando durante i lunghi mesi di esercizi alla sbarra:
            -“Te l’ho detto, io sarò l’albero. L’albero delle teste tagliate”- il suo respiro aveva l’aroma di quello zenzero che gli era proibito mangiare. Larse avvertì quel tepore arrivargli fin nello stomaco, e proseguire più in basso: capì che non avrebbe mai più mangiato zenzero senza risentire lo stesso turbamento. Nel frattempo, Indaco Hansen era già altrove: con una capriola, s’era di nuovo posizionato a testa in giù, con le gambe diritte e la schiena contro al muro, come un bizzarro pipistrello a riposo. Tra le labbra un’aria di musica, e nella mente i movimenti della danza: li ripassava con brevi gesti della mano, arrotolando quel filo di voce tra le sue dita.     
            -“Ti verrà il sangue alla testa”- brontolò Larse, infastidito dalle proprie sensazioni corporee.
            Dentro a quel libro di leggende da tutto il mondo, pesante di illustrazioni e dai bordi dorati, conservava innumerevoli biglietti con frasi più o meno esplicite, che non aveva mai avuto il coraggio di infilare nelle tasche di Indaco Hansen. Così, oltre all’impaccio delle emozioni, gli toccava anche quello di stare bene attento a non far scivolare dal libro i suoi pensieri, scritti convulsamente in momenti ben poco lucidi. 
            -“Ho trovato la storia”- annunciò tutt’a un tratto, già preparandosi al balzo con cui Indaco gli sarebbe arrivato praticamente addosso, per la gioia e la fretta di leggere per intero la ballata di Heer Halewijn.
            Sebbene Indaco studiasse danza da anni, molto gli era rimasto dell’irruenza sconclusionata della sua infanzia, che lo spingeva a gettarsi letteralmente in braccio al prossimo, senza badare al fatto che l’altro fosse fragile, oppure più innamorato. In quell’occasione, malgrado le scuse per gettarsi sul libro ci fossero tutte, Indaco non si mosse. Molto semplicemente, chiese all’amico di cominciare a leggere. Lo fece con una crudeltà involontaria, tipica di chi ignora i sentimenti dell’altro, e non gli dà alcun peso:
            -“Leggi, små mus, piccolo topo, mi piace la tua voce. Leggi cosa fa l’albero delle teste mozzate”-
            Larse diede una breve scorsa al testo, prima di pronunciarsi:
            -“L’albero non fa niente. Sta lì, semplicemente”-  
            -“E’ qui che ti sbagli. Io invece starò lì meravigliosamente”-
   
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La leggenda di Heer Halewijn, del suo patto con le tenebre e della lotta mortale con l’accorta fanciulla che aveva messo fine alla sua carriera di predatore di vergini e di ricchezze, era nata come ballata nella regione immaginifica delle Fiandre. Di là si era diffusa ad opera dei menestrelli nelle aree di cultura germanica, fino a raggiungere la penisola scandinava e i paesi del nord: nelle sue molteplici versioni, la favola nera di Sieuwert Halewijn era entrata nelle case danesi con le travi a vista e i muri degli stessi colori saporiti dei dolci, affacciate su canali di acque silenziose e cieli bianchi di neve. La si trovava nei libri illustrati e nelle raccolte di fiabe, come quelli che Larse leggeva per sfuggire alla malinconia e per accendere la fantasia dei suoi disegni.
            Sulla stessa vicenda, presso l’Accademia del Teatro dell’Opera proprio quell’anno era in corso di allestimento lo spettacolo di fine anno delle ultime classi, ormai prossime al diploma: nella coreografia, pensata per allievi che erano praticamente già ballerini professionisti, una parte era stata riservata eccezionalmente a Indaco Hansen, la promessa della scuola, di appena tredici anni.
            Si compiva così, con la puntualità tipica di tutte le profezie che si rispettino, la predizione rivolta a Indaco dalla maestra Carlotta Grisi, ancora al tempo dell’esame di ammissione all’Accademia:
            -“Turista, tu hai la stoffa e io son qui per tagliartela: tu mettici l’impegno, e vedremo di cavar fuori il puledro dall’asino”-
            L’anziana Madame Grisi era stata un’étoile del suo tempo, e dei suoi successi passati recava ancora un orgoglio sussiegoso e innumerevoli aneddoti: oltre all’ostinazione a voler trattenere, con l’artificio del trucco e i gioielli vistosi, una bellezza che era ormai soltanto un ricordo:
            -“Da giovane sono stata una prima ballerina”- ripeteva ai suoi allievi -“ho danzato al Palazzo dei congressi del Cremlino, davanti alla regina Elisabetta d’Inghilterra, ai reali di Spagna, di Svezia, di Norvegia: ho ricevuto gli applausi dei più grandi teatri d’Europa, e anche se queste cose ormai sono finite, io resterò sempre una prima ballerina, una grande ballerina”-
            Dal canto suo, Indaco ricordava quell’assolato pomeriggio di fine estate, in cui aveva appena compiuto dodici anni e i colori dell’autunno erano così intensi da fare male agli occhi: per le vie della capitale indugiava ancora il tepore dell’estate, nell’arancio e nel giallo delle foglie degli alberi che andavano a morire, danzando, lungo i ponti e i canali. Là sostavano gruppi di musicisti di strada, con le custodie degli strumenti posate a terra, le fodere scarlatte e dentro qualche moneta. C’erano i banchetti del mercatino delle pulci che esibivano insoliti pezzi d’antiquariato, borsette ricamate, catini da toilette posati su lunghe gambe di ferro battuto, trombe di vecchi grammofoni; i venditori di libri usati nascosti dietro a pile di edizioni economiche, copertine arricciate, tomi severi in pelle; famigliole a passeggio e militari in libera uscita si fermavano a osservare il lavoro dei pittori seduti ai cavalletti, con ai piedi le scatole dei pennelli e le tempere, sulla tela vedute dei canali in autunno, odore di solvente e stracci di tutti i colori.
            In contrasto con l’allegro movimento dei viali, snelli lungo i canali e avvolti in un pulviscolo che accendeva di schegge il pelo dell’acqua, il monumentale ingresso del Teatro dell’Opera pareva ancora più cupo, relegato in un’atmosfera fuori dal tempo.
            Era la prima volta che Indaco Hansen veniva nella capitale, dopo aver frequentato la scuola di ballo nella sua piccola realtà di provincia. Accompagnato dalla nonna, che a tratti lo prendeva per mano per infondere coraggio a entrambi, aveva attraversato infiniti corridoi con i soffitti a volta, le pareti drappeggiate da spifferi e tendaggi: nell’aria polverosa volteggiavano trame di esercizi al pianoforte, interrotte da una voce che intimava di ricominciare daccapo, facendo più attenzione.
            Era una voce perentoria e severa, di quelle che anche Indaco avrebbe udito spesso nel corso della sua permanenza in Accademia. Più oltre, il pianoforte aveva ceduto il passo a una cantante che eseguiva i vocalizzi, con uno slancio che a Indaco aveva ricordato i voli dei colibrì visti in televisione.
            Mentre abituava gli occhi alla penombra, per la prima volta aveva respirato l’odore di cera e  legno di un vero palcoscenico. Subito aveva avuto la netta sensazione di conoscerlo da sempre, quell’aroma pungente: in esso c’era il cuore di mandorla della colla, l’odore di segatura e di vernice a olio delle scenografie, il ricambio dell’aria che soffiava da chissà dove. C’era il sudore aspro delle sale di prova, il mistero racchiuso nelle potenti macchine da scena dietro alle quinte, e nei laboratori con le lampadine a filo, dove si preparavano i costumi di scena.  
            I corridoi che si perdevano nel buio, la sequenza di anditi da dove provenivano echi di canto e prove d’orchestra, tutto l’ambiente aveva risvegliato nell’anima di Indaco Hansen la strana impressione di ritrovarsi a casa: non si era mai sentito così familiare in un luogo, come se il paese dove era cresciuto, nel cortile di un caseggiato popolare, non fosse altro che un sogno. E lui se ne rendeva conto soltanto ora, destandosi improvvisamente.
            S’era quindi voltato verso la nonna Mette, che non si era mai spinta oltre le vie del quartiere, ed era persino più emozionata di lui. Indaco era sul punto di confidarle quelle sensazioni insolite, quando incapparono in una donna anziana e altezzosa, coperta di rughe come se indossasse una pelle di due taglie più grandi, le mani inanellate e le unghie laccate scure.
            Indossava un tailleur severo ma ai piedi calzava morbide scarpine da salto, e i capelli erano acconciati con uno chignon da étoile pronta a entrare in scena. Indaco sgranò gli occhi per la sorpresa: per lui che proveniva da un quartiere di periferia, a un passo dalla campagna, faceva uno strano effetto vedere un’anziana abbigliata in modo così bizzarro. Per di più, la donna era magra e piccina come certi folletti dispettosi delle leggende, e si comportava alla stessa maniera.
            Compensava evidentemente la mancanza di altezza - a dodici anni Indaco la superava di almeno due spanne - con un’autorità e un piglio formidabili:
            -“Voi cosa ci fate qua? Qui siamo dietro alle quinte, l’ingresso per le audizioni è dalla parte opposta. Ah, andiamo bene, iniziamo proprio bene!”-
            Incominciò a precederli attraverso labirinti semibui, ballatoi che rimbalzavano sotto ai passi, piani rialzati che tremavano come costruzioni di cartapesta. Mentre si arrampicava lesta come un furetto lungo scale che si perdevano nel buio, Madame Grisi scandiva con un tono da sergente maggiore le regole e i principi ferrei dell’Accademia:
            -“Qui non si fanno sconti, qui non si gira affatto con la testa nel sacco. La puntualità viene prima di tutto, puntualità e disciplina. Palcoscenico e applausi, questo non c’entra niente col fare il ballerino. Togliti dalle testa le luci della ribalta, i saggi di fine anno con il papà e la mamma, la danza è l’arte della fatica. E io, caro turista che giri per il teatro con il naso per aria, ce la metterò tutta per farti faticare, ammesso che tu riesca a passare l’esame, che non è mica detto”- e qui la Madame Grisi tirò un lungo sospiro per riprendere il fiato, perché malgrado tutta la grinta che esibiva, portava pur sempre a spasso sulle sue scarpette da salto settant’anni suonati.
            Si appoggiò un solo istante a un corrimano pericolosamente instabile, poi riprese di slancio:
            -“Il nostro primo compito sarà selezionarvi, tutto il primo anno sarà di selezione. Nel secondo continueremo la selezione, durante il terzo anche. Sarete esaminati ininterrottamente fino al diploma. E dopo il diploma, dimmi un po’, caro turista, cosa succederà?”-  
            Col fiato e le guance in fiamme, non tanto per lo sforzo quanto per la certezza di avere iniziato con i rimproveri ancora prima di essere ammesso ai corsi, Indaco la seguiva tirandosi dietro la nonna: a intervalli, le lanciava infinite raccomandazioni con gli occhi, perché non intervenisse peggiorando la situazione. Quando la Madame Grisi si fermò improvvisamente, voltandosi a fissarlo, Indaco Hansen, un metro e settanta di lunghe ossa che promettevano di crescere ancora, minacciò di travolgerla. Per non farlo, dovette frenare a sua volta, e farsi tamponare col naso dalla nonna:
            -“Cosa succederà, signora maestra? …un’altra selezione?”-
            Madame batté le mani com’era solita fare durante le lezioni, per segnare il tempo dei passi:
            -“Vedi? Quando uno la testa la tiene attaccata al collo, e non a ciondolare come una bandiera al vento, magari riesce pure a capire qualcosa. E sai cosa succede a chi ha due belle spalle come le tue, ma preferisce andarsene in giro da vagabondo, come hai fatto finora?”-
            Massaggiandosi il naso, dolente e indispettita, la nonna stava per obiettare che perdersi nei meandri di quell’infinito teatro non significava andarsene in giro sfaccendati, ma Indaco la bloccò, deciso a stare al gioco:
            -“Chi ha due spalle come le mie farebbe meglio, in quel caso, ad andare a scuola di nuoto”-
            Madame Grisi annuì, e insieme a lei dondolarono le collane, i braccialetti al polso, i pesanti orecchini che ad ogni movimento trascinavano i lobi sempre più pericolosamente verso il basso. Per un attimo, Indaco pensò che al prossimo cenno di compiacimento di Madame, quelle grosse sfere dorate si sarebbero staccate, trascinando con sé le orecchie mozze al suolo.  
            -“ E bravo, caro turista… ci siamo capiti al volo”- Madame lo disse non solo per la risposta semplice e senza pretese di Indaco Hansen, la stessa che il ragazzo si trovò poi a ripetere per tutti gli anni a venire, di fronte a insegnanti più o meno severi. Ma anche perché con il suo occhio esercitato, affinato dall’esperienza, l’aveva inquadrato in un attimo: e dalle doti naturali del corpo, dalla scioltezza e dal controllo dei movimenti aveva già capito che Malthe Hansen, soprannominato Indaco, era una promessa, e sarebbe stato una sfida interessante portarlo a esprimere al massimo le sue potenzialità.
            Poco dopo, ebbe luogo la prima delle infinite selezioni promesse da Madame: si svolse in una sala arredata soltanto da una sbarra alla parete e una teoria di specchi che moltiplicavano i movimenti dei ballerini. Al centro, un pianoforte con una donnina rattrappita sul sedile, della stessa apparente età geologica dell’insegnante. Madame Carlotta Grisi tenne il suo discorso inaugurale da una sedia posizionata in maniera strategica al centro della sala, brandendo una bacchetta che le sarebbe servita, in seguito, per chiarire al bisogno il concetto di mettersi in riga.    
            In quel momento, però, più della bacchetta pericolosamente oscillante di Madame, e persino più della severità del discorso, teso a presentare la danza nei suoi risvolti di sacrificio più tetri, a preoccupare Indaco era piuttosto il fatto di ritrovarsi in una classe di sole femmine.
            Intorno a lui, nella sala col pavimento di legno e una lunga sbarra che correva su tre pareti, sulla quarta uno specchio che ne rimandava l’immagine un poco intimidita, c’era un gruppetto di bambine abbigliate con una strana mescolanza di pagliaccetti e tutine, minuscoli tutù bianchi e rosa, i capelli rigorosamente tirati sulla fronte e acconciati a chignon: alcune arrampicate su scarpette da punta, con l’unico risultato di far sembrare le gambe ancora più fragili, i piedi più lunghi e impacciati.
            Incerte tra la timidezza e l’emozione, si stringevano le spalle una contro all’altra cercando di fare gruppo. In disparte, con la chiara intenzione di non volersi mischiare a quella covata di pulcini senza chioccia, un paio di adolescenti chiacchieravano pigramente: proprio da queste, dallo sguardo ben più tagliente e consapevole, arrivarono dritte su Indaco Hansen le prime occhiate altezzose e di compatimento.
            A Indaco tornò in mente quella frase che Larse soleva rinnovargli tutte le volte che il suo amore per la danza superava la soglia di tollerabilità dell’amico:
            -“Il ballo è roba da donne, e tu sei un maschio”-
            -“E cosa dovrebbe piacere, secondo te, a un maschio?”- domandava Indaco Hansen, con la pazienza di chi, in realtà, non si pone alcun dubbio.
            -“Il calcio. La corsa oppure il nuoto, insomma robe così. Non puoi passare la vita a saltellare in calzamaglia, è roba da finocchi. I ballerini maschi sono donne senza il tutù - come vedi, è persino qualcosa di meno rispetto alle donne vere. Qualcuno a cui manca qualcos’altro”-
            -“Io non sono finocchio”-
            -“Ti piacciono le femmine?”-
            -“A me piace la danza”-
            Eppure quella frase, è roba da finocchi, era destinata a tornare puntuale in varie occasioni: Larse gliela ripeté quando Indaco cominciò a frequentare le lezioni nella piccola scuola del paese; e ancora, a mo’ di saluto, il giorno della partenza per l’esame di ammissione al Teatro dell’Opera. In seguito, dopo aver imparato qualche cosa di più sulla vita dell’Accademia, Larse ritenne opportuno aggiornare il repertorio con una variante:
            -“… E come se non bastasse, da vecchio sarai come la Madame Grisi”- 
            Fino a quel momento, le battute di Larse non avevano avuto alcuna presa su Indaco: gli spiacevano solo perché dimostravano un incomprensibile risentimento da parte dell’amico, ma quanto al resto gli scivolavano addosso senza scalfirlo. La sua risposta, in genere, si limitava a ribadire la propria estraneità rispetto a qualsiasi tipo di ortaggio, oppure ad imitare le pose di Madame con l’aiuto di qualche orpello rimediato al momento, per simulare le strane acconciature della maestra. Con in testa il cestino da cucito di nonna Mette, e in mano una bacchetta cavata a una pianta in vaso, Indaco risolveva ogni altra questione con la voce in falsetto:
            -“Turista, sei tra noi o nel mondo dei sogni? Dritte quelle ginocchia, ricominciamo tutti dalla quinta posizione!”-  
            Mai come in quel momento, in cui si sentiva nervoso e fuori posto, le parole di Larse assumevano uno spessore inatteso, come il presentimento di lunghi mesi difficili.
            D’un tratto si rese conto che gli sarebbe bastato arretrare di un passo per infilare con molta discrezione la porta: con quella leggerezza che gli avrebbe permesso di salvare la faccia senza farsi notare né da Madame né dagli esaminatori, che proprio ora iniziavano a prendere posto dietro a un tavolo di legno scuro.
            Un solo passo ancora e Indaco Hansen sarebbe tornato ad allenarsi nella sua piccola scuola di provincia, dove il suo ruolo fisso era di accompagnare le piroette incerte di altre bambinette col tutù fatto in casa, tra gli applausi di un teatro parrocchiale gremito di genitori, zii e cuginetti.
            Indaco era già sul punto di defilarsi quando, dal salottino adiacente, lo catturò lo sguardo calmo di nonna Mette. Per lui, fu come ricordarsi cosa l’aveva spinto ad arrivare fin lì, a due ore di corriera e di nausea da casa, con in mano una lettera scritta dalla sua insegnante del paese: ripensò alla maestra Sveta, un’ucraina lieve come un soffio di brezza che un bel giorno era capitata nel loro cortile, mentre tutta la banda era intenta a una competizione di gioco a nascondino senza esclusione di colpi.
            Lei era arrivata ancora con le mani e il piccolo naso macchiato dalla vernice con cui stava ristrutturando due stanze, per adibirle a scuola di ballo: era un giunco flessuoso, perennemente in calzamaglia anche quand’era in giro. Il suo aspetto insolito aveva subito richiamato la curiosità delle bimbe del caseggiato: sentendola battere le mani a raccolta, com’era solita fare prima delle lezioni, tutte le ragazzine si erano radunate attorno a lei, abbandonando i rispettivi nascondigli e la sfida del gioco.
             Persino qualche maschio si era avvicinato, attratto dall’incandescenza di quel volto: quella era in assoluto la prima ballerina in carne e ossa che vedevano, e non riuscivano a levarle gli occhi di dosso. Erano affascinati dalla treccia tirata dentro a una reticella e acconciata a chignon, dalla tunica azzurra e soprattutto da un paio di scarpette da punta che la maestra portava a tracolla, legate per i lunghi nastri di raso, e che per le ragazzine rappresentarono subito la meraviglia assoluta.
            La giovane prese per mano le più vicine, accennando un passo di danza:
            -“Allora, mie care! Chi tra voi vorrebbe imparare a ballare?”-
            Incominciò una sarabanda di salti più o meno disordinati, di voci che si arrampicavano una sull’altra:
            -“Io, io!”-
            Le scarpette da ballo le furono letteralmente strappate dalle mani, agguantate dalle bambine che cominciarono a passarsele tra loro sgranando gli occhi. Nel frattempo la maestra continuava a guardarsi attorno, come se stesse ancora cercando qualcosa, o più precisamente, qualcuno.
            Scovò Indaco che se ne stava rimpiattato dietro a un angolo, e la guardava intimidito e incerto: pieno di desiderio ma comunque convinto che quell’occasione d’oro, che era spuntata dal nulla nel bel mezzo del suo cortile popolare, non fosse affatto per lui. Lui che era un maschio e, al massimo, poteva limitarsi a rubare con gli occhi i passi dei balletti visti in televisione, stando attento a non farsi notare per non passare da finocchio. Eppure, lo sguardo che dal suo nascondiglio Indaco rivolgeva alla maestra di danza era altrettanto intenso di quello che la donna posò sopra di lui, costringendolo a uscire allo scoperto.
            -“E tu, giovanotto? Non vorresti ballare?”-
            Indaco si fece avanti, con discrezione eppure rivelando una tale grazia di movimenti che subito conquistò l’occhio dell’insegnante:
            -“Ma io non so ballare”-
            Le bambine esultarono in un tripudio di manine sporche di terra, treccine sudate e scarpette da punta che continuavano a girare raccogliendo ditate, sfilacciando i lunghi nastri, riducendosi ai minimi termini:
            -“Neanch’io so ballare! Neanch’io!”-
            La maestra Sveta sorrise, stringendo attorno a sé quel piccolo corpo di ballo, ma guardando specialmente Indaco Hansen:
            -“Imparerete tutte, vedrete: solamente, ci vuole tanta passione e voglia di far bene”-
            -“Io ce l’ho! Anch’io! Anch’io!”-
            S’erano iscritte in tante per capriccio o per fascino, per seguire le amichette o semplicemente attratte dalla leggiadria di quelle scarpette di raso con la punta di gesso: soltanto Indaco Hansen aveva rilevato dietro alla grazia apparentemente priva di peso della maestra, e ai suoi movimenti così equilibrati, una muscolatura precisa e allenata, che le consentiva di librarsi nei salti come se le sue ossa fossero piene d’aria, cave come quelle degli uccelli.
            E quando le scarpette, già piene di ditate e sempre meno lucenti a forza di girare di mano in mano, erano arrivate fino a lui, non aveva potuto fare a meno di accorgersi di quanto quella punta fosse in realtà consumata, indurita dal gesso ma anche dallo sforzo: l’interno della scarpa recava addirittura una traccia brunastra, come di sangue vecchio.
            In seguito, entrando un pomeriggio a lezione con forte anticipo, aveva scorto la giovane mentre cavava i grossi scarponi da neve, strofinando con forza i piccoli piedi bianchi, indolenziti dal gelo: ed era rimasto immobile, senza fiato a fissarli per quant’erano rovinati dagli esercizi, con le dita incurvate e le unghie letteralmente consumate dalle punte.
            Per carattere, Indaco era facilmente suggestionabile: e quella visione si era fissata nella sua mente come una lezione da non dimenticare: così come il sorriso con cui la maestra Sveta amava sollecitare le bimbette svogliate, le ragazzine indisposte dai primi dolori, che fossero di pancia, di testa o d’amore. Alla richiesta di essere esentate dagli esercizi, lei rispondeva con un’invariabile buonumore che dissimulava una disciplina di ferro:
            -“Facciamo la lezione e vedrete che passa tutto”-
            Le ragazzine tornavano alla sbarra rannuvolate, trascinandosi dietro i piedi e molti lamenti:
            -“Fa presto a dire, quella, tanto non è lei a star male”-
            Eppure, più o meno tutte erano costrette a riconoscere che Sveta aveva ragione, e che non c’era niente di meglio per curare un raffreddore e certe indisposizioni che sciogliere la tensione, espellere le tossine con una sana sudata: niente come la musica, la percezione del corpo che assumeva una consistenza plastica, riusciva ad alleviare dolori e contratture, e addirittura i primi dispiaceri del cuore.
            Indaco se ne ricordò in quel momento, in cui avvertiva una stretta di disagio e incertezza che si andava ad aggiungere all’ansia dell’esame. Cercò di visualizzare davanti a sé la sala della vecchia scuola di ballo, così simile a questa, con la specchiera a muro e la sbarra di legno, alle pareti foto sbiadite di spettacoli in costume.
            Iniziò a concentrarsi negli esercizi di riscaldamento, lasciandosi assorbire dai movimenti del corpo e sperimentando la piacevole sensazione dei muscoli che si allungavano e rispondevano ai suoi comandi, diventando caldi e scattanti, trasformando il blocco della tensione in energia pura.
            Era talmente assorbito dagli esercizi, che quando venne il suo turno di presentarsi alla commissione nemmeno udì la voce della Madame Grisi che chiamava il suo nome:
            -“Hansen!”- lo richiamò l’insegnante -“Hansen naso per aria, ti abbiamo già perduto prima di cominciare! Non c’è che dire… incominciamo bene!”-
            In realtà, nel tono di voce di Madame c’era approvazione, persino il compiacimento di chi trova conferma alle proprie intuizioni: aveva notato subito infatti che quel ragazzetto, unico in quell’infornata di bambine impacciate e adolescenti supponenti, aveva approfittato dell’attesa per prepararsi, scaldando i muscoli come un piccolo professionista.
            Senza smarrire la concentrazione, Indaco prese posto alla sbarra ed eseguì la sequenza degli esercizi richiesti dagli esaminatori: la voce della Madame Grisi lo guidava, e lui sentiva il corpo adattarsi al ritmo come se i comandi arrivassero direttamente alle braccia e alle gambe, in perfetta sincronia, senza neppure passare prima per il cervello.
            La musica gli scorreva semplicemente attraverso, come un fiume di energia, dalle spalle fino alle punte dei piedi: e il corpo rispondeva con la docilità che aveva appreso durante i lunghi inverni alla scuola della maestra Sveta, ma anche con una spontaneità innata, propria del suo talento, della carne e del sangue di Indaco Hansen.  
            Defilata nella penombra, dov’era relegata insieme al suo impolverato strumento a coda, la pianista pestava decrepita sulle note con la fatica dell’abitudine, senza riuscire neppure a leggere lo spartito per il peso degli anni e la semioscurità: ma non appena quelle note raggiungevano Indaco acquistavano vita propria, diventavano espressione dei muscoli delle gambe, dell’arco delle braccia, del perfetto equilibrio delle spalle e del dorso. Arrivavano persino ad aprirgli sul volto quel sorriso raggiante, che ovunque si trovasse e persino durante un esame, esprimeva la sua felicità nel danzare.
            A casa della nonna che l’aveva allevato, Indaco aveva imparato a ricavare armonia e materia per il ballo persino dai rumori. Si trattasse dei motivetti alla radio che nonna Mette ascoltava mentre si affaccendava in cucina, della televisione o addirittura delle liti dei vicini di casa, le urla della moglie e i piatti rotti dal marito, Indaco si abbandonava interamente al ritmo: volteggiava per casa finché inevitabilmente pigliava contro a qualcosa.
            Lo spigolo di un tavolo, l’angolo di un armadio lo richiamavano da quell’atmosfera incantata che era in grado di creare attorno a sé con una giravolta, con un solo movimento del torso e delle braccia: e i lividi che si aprivano come fiori violacei, perché fin dalla nascita Indaco era affetto da problemi di coagulazione che lo obbligavano a controlli periodici, erano grandi almeno quanto i suoi sogni.
            Nell’atto della danza, si estraniava dal mondo: c’erano solamente la musica che lo avvolgeva completamente, e il corpo che rispondeva attraverso lo sforzo dei muscoli, la tensione dei tendini, il calore che lo invadeva in crescendo.
            Fu così anche quel giorno: e Indaco conservò pochissimi ricordi del tempo che trascorse dal momento in cui incominciò a danzare, fino a quello in cui l’ultima nota si dileguò in uno scricchiolio di penne sui misteriosi fogli degli esaminatori.
            Esaurita l’ultima prova, quando anche l’ultima bimbetta in tutù aveva terminato di saltellare alla meglio sulle note della pianista, la Madame Grisi aveva spedito tutti fuori, chiudendo la doppia anta che divideva la sala prove dall’angusto salottino già gremito di mamme. In un angolo più riposto, affondata in una poltrona a riposare le gambe, la nonna Mette si sventagliava con un giornale.
            Le mamme incalzavano con domande su domande su come era andata la prova, senza risparmiare rimproveri di fronte a un tutù strappato, a uno chignon disfatto: quelle tra loro che erano state ballerine costringevano le figlie a mostrare come eseguivano una figura o un passo, come se l’esame fosse ancora da fare ed eventuali correzioni potessero tornare utili. Soltanto nonna Mette, cigolando a fatica fuori dalla poltrona, aveva accolto Indaco in un abbraccio senza pretese.
            -“Tranquillo, figlio mio: hai fatto del tuo meglio, andrà come deve andare”-
            Indaco si rilassò, abbandonandosi alla piacevole sensazione dei muscoli ancora caldi, del sangue che scorreva ancora veloce. La serenità incrollabile di quella donna semplice, che nella sua vita aveva lavato milioni di scale e ancora, nella vecchiaia, faceva il bucato e stirava per tutto il quartiere, sapeva infondergli una calma capace di appianare qualunque ostacolo.
            Da una borsa capiente che portava sempre con sé, solitamente piena di caramelle mou e frizzanti al limone, merendine schiacciate e ogni altro genere di conforto, la nonna aveva estratto una bottiglia di aranciata e una piccola pila di bicchieri di plastica, un pacco di crostatine da supermercato: e si era messa a offrire quel rinfresco improvvisato alle piccole ballerine, che dietro all’ombra ingombrante delle madri avevano volti magri, timidi e preoccupati.
            Indaco si sedette sul bracciolo della poltrona, e cominciò a sgranocchiare. Rassicurato dalla presenza di nonna Mette, allungò una crostatina alla bimbetta che gli era più vicina, accompagnandola con un sorriso così aperto che presto anche le altre si fecero coraggio, e arrivarono in un fruscio di tutù, lustrini e pagliaccetti, scarpine rosa da salto, da punta, da ginnastica. Arrivò anche qualche madre, per strappare quei dolci innocui dalle mani delle rispettive figliole, picchiandole sulle dita:    
            -“Sai che non devi mangiare queste porcherie altrimenti metti su peso, e se ingrassi addio corsi di ballo!”-
            Indaco era stupito: l’associazione tra la magrezza e la danza gli era completamente estranea.
            Per lui la danza era essenzialmente slancio, qualcosa che c’entrava molto con la passione, poco con il rimprovero, nulla con il privarsi di altre soddisfazioni. Gli pareva anzi strano di poter sostenere lo sforzo necessario senza avere buoni muscoli e nutrirsi a dovere. Alla scuola di ballo della maestra Sveta c’era sempre stato posto per tutte le bambine: nessuno era escluso, perché la danza era essenzialmente divertimento.
            Gioia liberatoria, vitalità e forza: così l’aveva sempre concepita Indaco Hansen, almeno fino ad allora.
            Si ritrovò a osservare una di quelle madri gettare nel cestino la merenda strappata alla figlia, con tanta intransigenza da restarne sbalordito. Al posto della crostatina al cioccolato, quella bimba di cinque anni, in tenuta completa da Lago dei cigni - tutù piumato e chignon col diadema - si era ritrovata davanti un indice minaccioso:
            -“Con tutti i sacrifici che ci costringi a fare per farti ballare! Sai che io ho dovuto smettere quando sei nata tu? L’Accademia è una cosa seria ma tu non t’impegni, come al solito fai le cose tanto per fare! L’avessi avuta io, questa possibilità…”-
            La bimba scoppiò a piangere, più per la violenza imprevista che per il rimprovero, e Indaco ebbe la malaugurata idea d’intromettersi. Scuotendosi di dosso la mano di nonna Mette, che già l’aveva visto osservare la scena con occhi grandi e un guizzo nei muscoli della schiena, si era fatto avanti, con la grazia che lo distingueva persino quand’era arrabbiato. Ancora non conosceva la stoffa delle madri di certe ballerine, per cui s’era messo in mezzo con molta naturalezza:
            -“Mi scusi, signora… è solo un po’ di merenda!”-
            La reazione della donna non si era fatta attendere:
            -“Tu che vuoi, ragazzino? Sei un maschio e cosa vuoi saperne, tu, della danza? I maschi non danzano, servono solamente a sollevare le ballerine. Mia figlia è una ballerina, e quindi ha il dovere di mantenersi leggera…”-
            Indaco era rimasto senza parole. S’era voltato a fissare la piccola in lacrime, che per il volume e il tono di voce della madre era sempre più spaventata: levando per un attimo le dita appiccicate dal cioccolato e dal pianto, la bambina a sua volta l’aveva guardato in faccia, e Indaco aveva fatto in tempo a notare le linee pesanti di matita attorno agli occhi, l’ombretto dorato, i lustrini che le decoravano le palpebre e che ora franavano miseramente sotto a quel fiume in piena. 
            Per un attimo ebbe la netta sensazione che l’Accademia non fosse il posto per lui, ma un luogo dove il suo amore per la danza si sarebbe spento in fretta.
            Fortunatamente, quel flusso di pensieri fu interrotto da un trambusto proveniente dalle due ante scorrevoli, che separavano il salottino dalla sala già riservata ai segreti conciliaboli della commissione d’esame: tra i presenti cadde improvvisamente un silenzio assoluto, mentre la Madame Grisi appendeva in bacheca l’esito delle prove e l’elenco degli ammessi.     
 
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