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Autore: Luce Lawliet    08/07/2018    2 recensioni
Quella che sta guidando a 95 km/h sotto la pioggia, su una strada isolata e circondata dai boschi è Kaia Birkbeck. Sta piangendo, ma le lacrime non le impediscono di tenere d’occhio la strada, o almeno così crede finché i fari dell’auto illuminano un ragazzo sbucato dal nulla, che cammina proprio sulla carreggiata. Evitata per un soffio la catastrofe e sentendosi in colpa per averlo quasi messo sotto, Kaia gli offre un passaggio, domandandosi chi sia questo misterioso ragazzo incappucciato che gira con solo uno zaino in spalla.
Ma le sorprese non finiscono: quando lui rimuove il cappuccio, rivela di essere affetto da albinismo, che gli impedisce di viaggiare alla luce del sole.
Entrambi hanno dei segreti, così come una destinazione da raggiungere.
A mezzanotte comincia il loro viaggio fatto di risate, equivoci, furti, situazioni imbarazzanti, letti condivisi e dolorose rivelazioni.
Genere: Avventura, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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"Viaggiare è essere infedeli. Siatelo senza rimorsi. Dimenticate i vostri amici per degli sconosciuti."
(Paul Morand)






Volete sapere cinque cose interessanti?

Bene, partiamo:

1) la macchina che sto guidando è di mio padre, ma quando si accorgerà che l’ho usata per filarmela mentre lui era in coma sul sofà con la quarta lattina di birra vuota in mano, scoppierà l’inferno. Tanto io sarò già troppo lontana.

2) i sedili fanno pietà e puzzano di vomito. Dio, che schifo. Dopo appena trenta minuti di guida ho dovuto accostare perché i conati sono venuti a me.

3) la settimana scorsa hanno sfondato il finestrino e rubato lo stereo, l’unica cosa buona che questo cesso di macchina aveva; ho usato buona parte del mio gruzzolo per far riparare in fretta il finestrino e ho continuato a cantare per tutto il tempo per ingannare la solitudine, tanto che ora sento le corde vocali tese al massimo e la gola arida.

4) è quasi mezzanotte e sto guidando lungo una strada praticamente deserta e circondata dai boschi, location perfetta per il prossimo film horror di Wes Craven – troppa grazia mettere due fottuti lampioni in giro, eh? - e come se non bastasse, piove che Dio la mandi.

5) davvero, lo giuro, non mi sono neanche distratta, è sbucato dal nulla. Una figura incappucciata cammina – cristo santo! - proprio in mezzo alla strada…

Va bene, mi spiace, so di aver detto cinque, ma devo aggiungerne una…

6) credo di averlo ammazzato.

 

 

 

Ɛ




 

Porca puttana.

Porco il mondo.

Porco Tensing!

Por-no, calma, devo stare calma.

Non ho sentito alcun impatto, devo essere riuscita ad evitarlo mentre sterzavo il volante con tutto braccio. Gli pneumatici hanno striduto e la macchina è slittata senza controllo sull’asfalto e mentre io urlavo come un demonio, ho avuto il buon senso di schiacciare con forza frizione e freno.

Con troppa forza.

La cintura non ha fatto il suo dovere in tempo e ho sbattuto la faccia contro il volante, tanto che si è pure attivato il clacson.

Il dolore, porco…!

Mi premo la fronte con le mani e invece di ringraziare Gesù di essere viva e l’auto ancora tutta intera, prego di non svegliarmi domattina con un bernoccolo grande quanto una palla da tennis. Faccio un paio di respiri profondi per riprendermi. Nella frenata, la macchina ha preso una piega diagonale, rischiando di finire fuori strada e col muso dritto contro il tronco di un pino. Per fortuna non è successo.

No, un momento. Quale fortuna? Quella non c’entra un tubo, è tutto merito mio e dei miei favolosi riflessi da campionessa, tanto che Niki Lauda scansate proprio.

Mio Dio, ho le mani ghiacciate e le dita che ancora tremano. Intanto i tergicristalli continuano a pulire pigramente il parabrezza dalla pioggia violenta.

E dai, Kaia. Sveglia!

Prima cosa da fare: non andare nel panico. Ok, sì, sono tranquilla.

Seconda cosa: soccorrere il ferito. Ti prego Gesù, fa’ che non sia necessario. Oppure al massimo fa’ che mi sia sbagliata e non era una persona, ma solo un tasso bello grosso o un lupo che camminava su due zampe per qualche motivo a me incomprensibile…

Il bussare frenetico contro il finestrino alla mia destra sovrasta lo scrosciare della pioggia e faccio un balzo, voltando subito la testa. Un’ombra nera, che solo dopo qualche secondo riconosco come la figura incappucciata che avevo quasi rischiato di fare fuori poco fa, sta picchiettando contro il finestrino per attirare l’attenzione. Nello stesso momento lo vedo tentare di aprire la portiera – capisco che è un ragazzo dalla felpa maschile che indossa –, senza successo.

Di riflesso mi allungo a ruotare la manovella per abbassare il finestrino – quando ho detto che questa macchina è un cesso, l’ho detto per un motivo; era già vecchia quand’ero bambina io! - in modo da sentire quello che dice.

“Allora? Che fai, mi lasci salire o no?”

Per un attimo resto interdetta da quel tono monocorde e appena scocciato, tanto che non posso fare a meno di chiedermi se il tizio si sia reso conto di cosa sia appena successo.

“Ma...” esordisco, senza sapere bene come continuare. No, aspetta. Concentrati. Dovere di un buon conducente: sincerarsi dell’incolumità del pedone. Avanti, su. Chiediglielo. “Stai bene, vero?”

“Eh?”

“Non ti ho colpito, sei tutto intero?”

“Non mi hai neanche sfiorato. Sei proprio una schiappa.”

“?!” mi sforzo di non mettermi a sbraitare. “Guarda che l’intento era evitarti, mica ammazzarti!”

“Mh, allora complimenti, dieci e lode. Fammi salire, dai, piove a dirotto.”

“We, no, cosa, aspetta solo un secondo!” eh, no. Questo suo tono menefreghista inizia a darmi sui nervi, l’ha capito o no, che ho rischiato di restarci secca io per salvare il culo a lui? Non accetto che questo tipo, chiunque sia e qualunque siano le sue ragioni, ci passi sopra come se niente fosse. “Dì un po’, hai tendenze suicide o sei solo un povero deficiente?! Ti rendi conto che stavi camminando in mezzo alla strada, di notte, sotto un temporale del cavolo?”

“...che è precisamente il motivo per cui volevo fare l’autostop. Non tutti possono permettersi una macchina, Medusa.”

Medusa? Che? Si riferisce a me?

Come se mi avesse letto nel pensiero, infila un indice nella fessura aperta del finestrino, indicandomi. “I tuoi capelli.”

Si riferiva ai miei rasta. Non rispondo subito e resto a fissarlo, chiedendomi se si sia fumato qualcosa.

Di una cosa comincio ad essere assolutamente certa: è tutto intero e quindi posso anche andarmene per la mia strada.

“Sai? Mi sono sempre chiesto come facciano quelli con i capelli come i tuoi a lavarseli. Tu come fai?”

“Vaffanculo. E staccati dalla mia portiera.”

“No, mi piace! Davvero.”

“La portiera?!”

“Il tuo stile.” risponde lentamente, come se parlasse ad una minorata. Di nuovo non ribatto subito, sono troppo confusa.

E c’è un’altra cosa che mi dà fastidio: non vedo il suo volto, porta un cappuccio tirato giù quasi fino al naso, riesco a vedere solo il profilo della mascella e le sue labbra che si muovono. Però ha una voce molto sottile e giovane, deve avere la mia età o forse qualche anno in più.

All’improvviso volta bruscamente il capo per starnutire. Noto che ha anche il respiro pesante e se riesco a sentirlo da qui, sotto il rumore incessante della pioggia, forse non sta poi così bene. Accidenti. Chissà da quanto tempo se ne sta girando a piedi sotto questo tempaccio. Ma perché poi, mi chiedo, non ha preso un autobus? Ci sta che uno non abbia la propria auto, ma nessuno sano di mente se ne andrebbe a zonzo nel cuore della notte lungo una strada buia e senza marciapiede! O no?

“Allora, dove sei diretta?” mi domanda con una nota di impazienza nella voce piatta, dopo aver concluso una lunga processione di starnuti. Ne ho contati cinque.

“Senti” esordisco, lanciando un’occhiata alla strada; non c’è praticamente nulla, solo foresta per parecchi chilometri, inoltre è poco probabile che passino altri veicoli a quest’ora. Una parte di me non vorrebbe, ma mi costringo a dire quello che devo. Questo viaggio è troppo importante, ho una destinazione da raggiungere e l’ultima cosa che prevedevo era di avere compagnia. “non per essere scortese, ma non posso darti un passaggio.”

“Perché no? Di posto ne hai!”

Eh. Mi dimeno sul sedile, mentre una fastidiosa morsa di disagio prende a giocare col mio stomaco, sensazione orripilante, sul serio.

“Perché non offro passaggi agli sconosciuti. Non so chi sei e la macchina è mia, quindi decido io e poi non mi devo giustificare!” sbotto, sentendomi il suo sguardo addosso e facendo di tutto per non incrociarlo. A parte che sarebbe impossibile, quel cappuccio copre quasi tutto. “Ma non hai neanche un ombrello?” mi sfugge alla fine, per poi darmi della rincoglionita da sola.

“No” ribatte lui, stringendosi nelle spalle. “E questa felpa non è calda come sembra, e nemmeno impermeabile se ci tieni a saperlo.”

No, che non ci tengo. Empatia vattene via. Non voglio, non posso sentirmi in colpa, dannazione, devo mettere in moto e sgommare alla velocità della luce prima che il rimorso abbia effetto sulla mia già fin troppo malleabile psiche.

“Ehm” mi schiarisco la voce, perché è troppo debole e imbarazzata e se il tizio se ne accorge capirà tutto e se ne approfitterà. “Ti consiglio di metterti a lato della strada e di aspettare che passi la prossima macchina.”

“Stai scherzando? Tu sei la prima forma di vita che incontro da...non lo so, è da un pezzo che cammino.”

“Scusa, ma...dove sei diretto? Lo sai, vero, che la città più vicina è a circa venticinque minuti di macchina da qui? Per quanto tempo avevi intenzione di camminare?”

“Proprio per questo sarebbe magnanimo da parte tua darmi uno strappo, no?” coglie subito la palla al balzo, facendo anche un sorrisino gentile. Almeno, credo stia sorridendo, non vedo molto bene. Mi sono volati via gli occhiali durante il tête-à-tête col volante.

Quello però non è un sorriso gentile. È astuto. Cazzo! Lo sapevo, lo sapevo che sarebbe finita così, accidenti. E adesso che gli dico? Cosa mi invento?

“Tu dove stai andando?”

“A Fort Grove.” mi arrendo infine, rassegnandomi a mugugnare controvoglia la risposta.

“Fort Grove! Ma dai?” esulta, battendo una mano sul tettuccio dell’auto con un leggero entusiasmo che non mi convince per niente. “Anch’io vado da quelle parti.”

“Oh, quindi programmavi di arrivare nel Montana contando solo sulle tue scarpe?” commento, sarcastica.

“Qual è il problema? Meglio di così! Dai, allora? Ho dei soldi, possiamo dividere il costo della benzina, se vuoi.”

Non appena lo dice, mi si illuminano gli occhi alla sola idea; in effetti, dopo essermi fatta due conti prima di partire, ho realizzato che con i pochi spicci che ho probabilmente avrei fatto la fame nei prossimi giorni, ma questa nuova prospettiva mi fa ben sperare e…

No, stop. No.

“Mi dispiace e dico davvero.” bisbiglio a bassa voce, tanto che lo vedo chinarsi come può, per captare le mie parole. “Non posso portarti con me.”

Non sono affatto sicura che mi abbia sentita. Per un attimo nessuno dei due parla più e l’unico rumore assordante è quello della pioggia che batte furiosa contro il mio parabrezza, tanto che temo possa sfondarlo. Il ragazzo respira a labbra socchiuse. Nonostante sia buio pesto, riesco ad intravedere il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente.

“È perché hai paura che possa farti del male, vero?” domanda, improvvisamente. “Non mi conosci, perciò non ti fidi. Per quel che ne sai, potrei essere un malintenzionato, un ladro o un serial killer.”

O anche un pazzo, penso, senza ancora riuscire a capacitarmi del fatto che se ne vada a zonzo in mezzo alla strada di notte, senza ombrello e nemmeno una cazzo di giacca impermeabile. Lo vedo perfino da qui che sta tremando!

Stringo le mani sul volante e abbasso lo sguardo, senza sapere cosa fare.

Be’. Se devo essere onesta fino in fondo, l’unica cosa che mi impedisce di rimettere in modo il catorcio, raddrizzarlo e filare via è la pietà. Sì, questo ragazzo mi sta facendo compassione a livelli talmente elevati che non pensavo di essere una persona così sentimentale. Potrei sempre scaricarlo nella prima città in cui ci imbatteremo, mi inventerò una scusa. Però...il pensiero che possa portarmi guai non mi lascia in pace. È più forte di me, non riesco a fare a meno di pensarci, e la cosa mi preoccupa.

“Se mi dimostrassi in qualche maniera che non è così, allora per me non ci sarebbe problema, ma non puoi, quindi...”

“Sì che posso! Vuoi ispezionare il mio zaino?” mi chiede, stringendo il tessuto bianco delle bretelle dello zaino che si porta alle spalle. “Sono anche disposto a farmi controllare da capo a piedi, vuoi che mi spogli?”

Ma che…?

“Che fai, sei fuori? Fermo!” esclamo, incredula, quando fa per togliersi lo zaino e svestirsi. Ma questo è scemo. Però sembra determinato a farmi capire che non è un criminale e fino ad ora, l’impressione non me l’ha ancora data. Sospiro, ormai in procinto di arrendermi.

“Ok, ma voglio che paghi il pieno.”

“No.” sbotta, improvvisamente agguerrito. “Avevamo detto di fare a metà.”

“No, tu l’hai detto. Qui sono io che decido e se non ti sta bene, puoi anche sederti su quel masso laggiù e parlare alla luna fino a domattina, perché dubito beccherai un altro passaggio.”

Non riesco a restituirgli lo sguardo che mi lancia da sotto quel cappuccio, ma immagino che il suo al momento sia piuttosto truce.

“Ah, tra l’altro non ho soste in programma, a parte il bagno, quindi viaggeremo sia di notte che di giorno, in questo modo oltrepasseremo in fretta il confine e saremo a Fort Grove in meno di un paio di gior-”

“No! Cioè” mi interrompe lui, di nuovo energico. Lo vedo esitare, prima di rabbrividire nella felpa. “Io non posso viaggiare di giorno.”

Rimango interdetta per qualche istante, prima di chiedergli spiegazioni.

“Non posso farlo” grida attraverso il finestrino semichiuso, per sovrastare il rimbombo di un tuono “sto malissimo durante il giorno e non voglio crearti problemi.”

“Be’, questo è già un problema! Stai dicendo che dovremmo arrivare a Fort Grove guidando solo di notte? E cosa facciamo, tutto il giorno? Senza contare che ci vorrebbe come minimo il doppio del tempo per arrivare a destinazione!”

“Ok, ascolta” tende le braccia sul tetto dell’auto, appoggiandovisi “ti propongo una cosa. Ti pago tutti i pieni di benzina di cui avremo bisogno e il motel dove soggiornare durante il giorno, per riposarci. Che ne dici?”

Lo fisso con gli occhi fuori dalle orbite. Sta parlando sul serio?

“Sono serio, sì.”

Manco mi avesse letto nella testa. Mi mordo il labbro, più incerta che mai. Che faccio? Che faccio?

“Hai un ponfo in fronte.” dice di colpo, distraendomi momentaneamente dalla decisione più complicata della mia vita e d’istinto appoggio le dita alla fronte, causandomi una fitta bestiale. Eh già, il bernoccolone c’è e si sente. E tutto per salvare la vita a lui. Spero ne valga la pena, se non altro posso dire di aver compiuto una splendida azione in questa vita. Due splendide azioni, rifletto, quando la mia mano va a sbloccare la portiera dell’auto.

Lo sconosciuto la apre rapidamente e con un sorriso vittorioso e giulivo che mi fa quasi venir voglia di tirarmi indietro e cambiare idea, ma ormai è troppo tardi.

“Finalmente! Ti ringrazio, i sedili posteriori sono occupati?” mi domanda, verificando di persona senza aspettare la mia risposta.

“No, viaggio leggera, le mie cose sono tutte nel bagaglio, perché?”

Lo vedo sparire dalla mia vista per tre secondi, prima di tornare con una busta chiusa alla bell’è meglio, da cui spuntano un paio di rami con qualche foglia piatta e appesantita dalle gocce di pioggia.

“Tu vai in giro sotto un tempo del genere, portandoti dietro una busta con una pianta dentro?” non so nemmeno definire il tono che ho usato per parlare, dire che è incredulo è un eufemismo.

“È un ficus” mi informa, come se niente fosse. Lo sistema sul tappetino del sedile destro posteriore, per poi finalmente prendere posto accanto a me, chiudendo la portiera con uno scatto.

Rimaniamo in silenzio per qualche istante.

“E perché ti porti un f...” solo pronunciarne il nome mi mette in imbarazzo. “Perché te la porti dietro?” concludo, rinunciandoci.

Il cappuccio scuro si volta appena verso di me e intercetto un sorrisetto enigmatico. “Può darsi che te lo racconterò. Il viaggio è lungo, dopotutto.”

 

Metto in moto e mi raddrizzo sulla carreggiata, prima di ingranare la prima e partire, riprendendo il viaggio da dove l’avevo interrotto, ma non prima che lui si chini a raccogliere qualcosa da sotto il suo sedile.

“Sono tuoi?” mi porge gli occhiali, che infilo immediatamente, tornando a vedere alla perfezione.

Mentre il viaggio riprende, lo sento ancora rabbrividire accanto a me. I suoi vestiti sono impregnati di profumo di pino e rugiada, come se davvero avesse passato un sacco di ore all’addiaccio, e mi fiondo ad alzare il riscaldamento.

“Metti le mani lì.” gli suggerisco, per poi guardarlo di sbieco con aria stizzita. “Sai, potresti anche levartelo quel cappuccio, adesso. Mi piacerebbe vedere in faccia con chi parlo, mi metterebbe anche più a mio agio.”

D’un tratto, mi pare che si irrigidisca.

“Credo che in questo caso l’effetto sarebbe l’opposto.” risponde, di nuovo con tono distaccato e monocorde.

“Cioè?” borbotto, perplessa “E poi non ho afferrato il motivo per cui ti sentiresti male di giorno… in che senso, male? E poi, perché respiri come un caterpillar? Vuoi toglierti quel cappuccio o no?” sbraito alla fine, al limite della pazienza.

“Agli ordini!” risponde canzonatorio e quasi divertito, sollevando una mano a tirarsi giù il cappuccio fradicio e passandosi le dita tra i capelli bianchi e appiccicati, stropicciandoli un po’ per togliere i residui della pioggia.

No, un momento. Ho visto bene?

Guardo la strada per un secondo e torno a fissare il ragazzo, che adesso è voltato verso di me con un’espressione che sembra dire: “Contenta ora?”

Ha i capelli bianchi. Non sono tinti, né biondo chiaro, ma completamente bianchi. E non solo i capelli, anche le ciglia e le sopracciglia sono del medesimo colore, nonostante l’oscurità riesco a vederle.

Wow. È la prima volta, credo, che vedo una persona albina. La sua pelle è del colore della neve, perfino le labbra paiono confondersi con il resto del volto immacolato, privo di barba o nei.

“...Visto? Non ci voleva tanto, no?” ridacchio, tornando a fissare la strada, anche se con la coda dell’occhio noto che il mio inaspettato compagno di viaggio continua a fissarmi.

“Non sei a disagio?”

“Per cosa?” gli chiedo, sinceramente confusa. Sì, ok, magari i suoi tratti non coincidono con quelli della prima persona che beccheresti per strada, ma francamente non trovo nulla di così traumatizzante in lui.

“I miei occhi non ti fanno paura?” insiste, senza smettere di fissarmi.

“E perché...” lascio la frase in sospeso per rivolgergli un’occhiata dettata dalla curiosità. Il candore dei suoi capelli e delle sue ciglia riesce a spiccare perfino nell’oscurità, e poi siamo molto vicini, per questo sono riuscita ad accorgermene, ma non riesco a vedere bene il colore dei suoi occhi.

Non capisco, perché mi ha fatto questa domanda? Che cos’hanno i suoi occhi che non va? La curiosità mi divora, accidenti. Per una frazione di secondo prendo in considerazione l’idea di accendere i faretti interni dell’auto, sopra la mia testa, solo per verificare, quando senza preavviso, è il fulmine accecante che illumina il cielo e il paesaggio attorno a noi che decide al posto mio.

Nel momento in cui appare il lampo, ne approfitto per spostare lo sguardo verso di lui e allora capisco cosa intendeva dire, a proposito dei suoi occhi. Rimango talmente spiazzata che non guardo più la strada, tanto che lui alza un braccio di scatto, esclamando un: “Ehi!” allarmato, inducendomi a puntare gli occhi nella giusta direzione.

Merda! Stavo guidando nella corsia opposta, dritta verso il fosso a lato della strada. Mi rimetto in linea con una brusca sterzata che ci fa sballottare un po’ entrambi; mi lancia un’occhiata carica di emozioni negative che non so decifrare, probabilmente insulti, poi lo vedo cercare a tentoni la cintura e infilarsela prontamente.

Faccio un respiro profondo, mordendomi le labbra. Che figura di merda, penserà che sono una cretina. Probabilmente si sta già pentendo di essere salito in macchina con me, ma la vergogna per la figuraccia passa in secondo piano, quando la sua voce serafica raggiunge nuovamente le mie orecchie.

“Albinismo totale” mi spiega tranquillamente, stiracchiando le gambe “La mia è la forma più avanzata. È questo il motivo per cui non posso viaggiare di giorno, la luce del sole ed io non andiamo d’accordo.”

Lo ascolto parlare, senza avere abbastanza fiato per rispondere. Ok che la luce dei fulmini non è di per sé l’ideale, ma ha illuminato il volto eburneo di questo ragazzo quel tanto che bastava da farmi notare che i suoi occhi sono rossi. Rossi. Non sto scherzando.

Mi ricordo la prima volta che ho visto un coniglio affetto da albinismo, in una fattoria non lontana da casa, quando avevo quattro anni. Aveva il pelo più bello e soffice rispetto a quello degli altri, era più mansueto, ma mi ero rifiutata categoricamente di prenderlo in braccio e perché? Per via dei suoi occhi rossastri, che mi avevano fatto venire la pelle d’oca alle braccia senza alcun motivo.

Ripensando a quell’evento, non posso evitare di mettere le cose a confronto. Questo ragazzo è esattamente come quel coniglio. Sembra quasi di avere uno spettro in auto. Santo cielo, mi sta venendo la pelle d’oca alle braccia, di nuovo. Oh no, accidenti!

Malgrado il turbamento, cerco di fingermi disinteressata, mentre lui aggiunge: “Tra l’altro questa cosa si ripercuote anche sulla mia salute, soffro d’asma, per questo respiro come un… come avevi detto? Ah, giusto: come un caterpillar.” conclude, abbassando il tono, per poi non parlare più.

Ecco, ora sì che mi meriterei un altro tête-à-tête con il volante, ma bello forte, stavolta.

Faccio un sospiro mortificato, rendendomi conto di aver parlato con fin troppa leggerezza, quasi ridendo sopra la salute di questo ragazzo. Io, che più di chiunque altro dovrei sapere cosa significa. Che ironia.

“Scusami, non volevo.” è tutto quello che riesco a dire, senza staccare gli occhi dalla strada.

“Nah, tranquilla. Non so nemmeno cosa sia, un caterpillar, quindi per questa volta siamo a posto.” sorride lui, iniziando a frugare con curiosità dappertutto, nella macchina.

“A proposito, sono Kaia. Tu chi sei?”

“Kaia” ripete lui con aria compiaciuta, come per assaporare meglio il mio nome. “Epsi.”

“Come?”

“Epsi.” ripete lui.

“Scusa, non ho c… vuoi una pepsi?” dico perplessa “Ho un paio di lattine di aranciata dietro, se vuoi.”

“Ma no...” scuote la testa, lanciandomi un’occhiata che è a metà tra il divertito e il rimprovero. “Epsi è il mio nome.”

“Ah.”

Si risprofonda nel silenzio e questa volta sono veramente turbata.

Epsi. E che cazzo di nome sarebbe Epsi?

Mai sentito in vita mia, non sono neanche sicura che esista. Come si scrive?

Sembra uno starnuto! Epsìììì!

Manco a dirlo, il ragazzo al mio fianco starnutisce un paio di volte e allora non ce la faccio a trattenermi e scoppio a ridere sotto il suo sguardo interrogativo mentre si soffia il naso con un fazzolettino di carta che ha pescato nel mio cassettino sotto il cruscotto.

E prima ancora di accorgermene, qualcosa si è appena innescato tra di noi, dal momento in cui questo misterioso ragazzo dai capelli d’argento è salito in macchina con me, a mezzanotte è cominciato il nostro viaggio.






 

 

Ciao a tutti!

Che dire, è un periodo produttivo per me, a quanto pare XD

Questa storia non durerà molto, al momento non prevedo più di 12 capitoli quindi tranquillizzatevi, non è nulla di impegnativo ;) la nostra protagonista è coraggiosa a dare un passaggio ad un completo sconosciuto, a voi è mai capitato?

Grazie di aver letto fin qui e alla prossima

L.L.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 
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