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Autore: yonoi    09/07/2018    7 recensioni
Un piccolo paese tra i boschi incappucciati di neve della Danimarca.
Nella mente di Indaco Hansen suona da sempre un'armonia tutta speciale, che solo lui è in grado di udire: il suo corpo risponde, e fin da quando ha imparato a reggersi sulle gambe, la danza è la sua dimensione, il suo destino e la sua gioia. Accanto a lui è cresciuto l'amico indivisibile, Larse Kruse. Larse è schivo e introverso, ma possiede anche lui un modo tutto speciale per comunicare il suo spirito: il disegno è la sua voce, la via di liberazione da tutte le sue inquietudini, dalle pene segrete, dal suo amore nascosto per Indaco Hansen. Indaco è il suo desiderio, l'oggetto dei suoi ritratti, ma Indaco è totalmente devoto alla sua danza.
La storia di un'amicizia, di un amore che si consuma nel silenzio, di un sopruso e un inganno, di una malattia che non lascia scampo, di un'antica e sinistra leggenda.
Prima classificata pari merito al contest "Zodiac game" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP; storia valutata al contest "Sense and Sensibility" indetto da Iamamorgenstern.
Seconda classificata al contest "Concorso a tema (l'amicizia) indetto da Dreamkath.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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“Ero lì, con le mie scarpe congiunte ai piedi,
con il mio corpo che si apriva alla musica,
con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole.
Io imparavo a danzare e danzavo
perché mi era impossibile non farlo,
mi era impossibile pensare di essere altrove,
di non sentire la terra che si trasformava
sotto le mie piante dei piedi,
 impossibile non perdermi nella musica”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Non dipingo quello che vedo, ma quello che ho visto”
(E. Munch)

 
 

2. Atto Secondo - L’arte della fatica  



           A differenza di Indaco Hansen, che in classe non riusciva a stare immobile al banco per più di una manciata insopportabile di secondi, a dieci anni Larse Kruse passava il tempo delle lezioni in strenui tentativi di mimetismo, al fine di confondersi col pallore lattiginoso della parete di fondo.
            Asserragliato dietro a una pila di quaderni, allo zaino levato come una torre d’assedio, e a mo’ di sentinella un coniglio di pezza con un paio di vecchi occhiali da sole cuciti sul muso, Larse faceva il morto alla maniera di certe bestiole da preda, quando i rapaci iniziano a volargli sopra in tondo: al punto che la sua insegnante alle elementari aveva l’impressione che dietro al banco fosse seduto, come un allievo assai poco interessato, quel curioso coniglio a patchwork, con un orecchio dritto e l’altro a penzoloni, in parte mordicchiato dall’ansia del proprietario.
            Suor Diletta Dahl era una benedettina poco più alta dei suoi bambini: tonda di viso e dentro all’abito del suo ordine, somigliava a una morbida campana di panno grigio, e della campana possedeva anche la voce. Inseguita dal fruscio bianco del velo, si muoveva per l’aula con una grazia che diffondeva intorno a sé una sottile essenza di lavanda e di canfora. Anticonvenzionale e molto intuitiva, si era sobbarcata il compito di insegnare a leggere, scrivere e far di conto a quella classe di figli di operai abbandonati al cortile e a se stessi, cercando di mostrare il lato buono dell’obbligo: in classe si contava con cioccolatini e caramelle, e i conti tornavano sempre - per finire poi nelle pance sempre affamate dei suoi allievi; non si leggevano storielle edificanti per bimbi buoni e saggi, ma antiche fiabe e leggende che tenevano i piccoli con il fiato sospeso, e che a Larse in particolare causarono incubi a più riprese durante tutta l’infanzia.
            Spesso la campanella che segnava la fine delle lezioni li sorprendeva nel bel mezzo di un bosco abitato da animali parlanti, oppure prigionieri nelle segrete di un castello, o nella catapecchia di una strega impegnata in foschi sortilegi: così che il trillo improvviso dal corridoio li ridestava con un sussulto e un brivido, e il desiderio sgomento di proseguire la lettura:
            -“Ancora, maestra, ancora!”-
            Persino Indaco Hansen, catturato dal fascino cupo delle vicende, rinunciava ad alzarsi ogni cinque minuti piroettando per l’aula: mentre Larse era un paio d’occhi terrorizzati che spuntavano appena da dietro alla trincea che in teoria avrebbe dovuto preservarlo dal mondo. 
            In una classe di bambini convenzionalmente educati e intelligenti, Indaco e Larse furono fin da principio le sue spine nella carne: il primo la faceva disperare con la sua incapacità di stare fermo al banco, e seguire la lezione alla maniera di tutti. Non era disattento: semplicemente, era convinto di imparare più alla svelta restando a testa in giù contro una parete: oppure piroettando da un capo all’altro dell’aula, agile e inafferrabile come un fuoco fatuo, obbedendo a un’orchestra che suonava irresistibilmente nella sua testa.
            Il massimo successo che suor Diletta riuscì a realizzare con Indaco fu riuscire a convincerlo che non era opportuno unire due o tre banchi a mo’ di palcoscenico per le sue capriole, calamitando su di sé l’attenzione di tutti:
            -“Tu imparerai lo stesso, ma gli altri si distraggono. Avrai tutto il tempo per fare il ballerino, quando sarai grande”-
            Indaco aveva sgranato gli occhi, ci aveva ragionato, e da quel momento in poi aveva rinunciato agli spettacoli in classe. In compenso, la maestra gli consentiva ogni tanto di andare a sgranchirsi fuori dall’aula: senonché Indaco si infilava nella guardiola della bidella, alzava il volume della piccola radio scovata tra lavori all’uncinetto e ferri da maglia, fotoromanzi e parole crociate, e si scatenava in acrobazie nel corridoio.
            L’effetto era che, in breve, si aprivano le porte di tutte le aule e uscivano le maestre, gruppetti di bambini che si scatenavano a loro volta, e le lezioni andavano a monte in tutta la scuola.
            Ci volle molta e santa pazienza da parte di suor Diletta per convincere Indaco che se non era il caso di attirare su di sé l’attenzione della classe, lo era ancor meno esibirsi in quel modo di fronte a tutta la scuola. La buona suora non era un’esperta di balletto: le sue conoscenze musicali si limitavano al salterio in convento, la pianola in parrocchia e la fatica di inquadrare i piccoli in un coro irrequieto, più o meno stonato per i canti di Natale. Eppure, quando si trattava di comprendere le potenzialità dei suoi alunni, possedeva un intuito che sfiorava la profezia.
            Riuscì così a resistere a tutte le proteste delle altre insegnanti, per le quali Indaco Hansen era semplicemente un moccioso maleducato, iperattivo al punto che sarebbe stato meglio affidarlo alle cure di uno psichiatra infantile. Mandò a chiamare la nonna Mette, che si presentò già in disarmo, a testa bassa e pronta ad affrontare ogni sorta di reprimenda:
             -“Cara signora, suo nipote deve ballare”- suor Diletta arrivò subito al punto, saltando a piè pari tutti i preliminari -“questo bambino è sempre in movimento, non riesce a stare fermo ma in compenso è armonioso, ha un buon controllo del corpo, mette caos con grazia: trovi un corso di danza, lo faccia appassionare”- così anche noi tireremo un sospiro di sollievo, pensò la buona suora, mordendosi le labbra appena in tempo.    
            Una volta affidato Indaco Hansen alla maestra Sveta, e alla scuola di ballo a cui la nonna l’aveva iscritto con l’unica preoccupazione di salvare l’anno scolastico, restava a suor Diletta la sfida più problematica, rappresentata dall’altro estremo della medaglia: Larse Kruse e la sua apatia apparentemente infrangibile.
            Aveva già notato che la vicinanza di Indaco sembrava avere il potere di farlo uscire dal guscio. Quando il piccolo ballerino si fermava presso il banco di Larse, questi riemergeva dal suo torpore consueto, recuperando in faccia una tinta un po’ meno scialba del grigio della parete: e pur ostinandosi nel rifiuto di pronunciare una sola parola, al punto che suor Diletta dubitava persino che avesse una voce, pendeva dai discorsi e dalla vitalità di Indaco Hansen con un rapimento così struggente che la maestra, all’inizio, tentò di riversare l’irruenza dell’uno nel letargo dell’altro, mettendoli in banco insieme. 
            L’alchimia funzionò, nel senso che l’amicizia tra Indaco e Larse, nata già assieme a loro e consolidata durante i giochi nel cortile e le interminabili sedute sui vasini, quando erano a malapena in grado di camminare, si consolidò e i due divennero inseparabili.
            Dal punto di vista caratteriale, rimasero all’opposto. Indaco con la sua vitalità incontenibile, Larse con la sua problematica introversione: per di più complicata da un travaglio di tenerezza nei confronti dell’amico che, se possibile, lo rendeva ancora più impacciato, aumentando a dismisura la sua attrazione per il silenzio e la solitudine.
            Affrontare l’argomento con la madre del piccolo Kruse, un’operaia smunta sulle cui spalle gravavano i genitori anziani e numerosi figli da padri senza nome, servì solo ad aggiungere qualche ruga in più sulla faccia di quella donna oppressa da infinite preoccupazioni.
            Ancora prima che la suora iniziasse a parlare, la donna aveva alzato la mano per bloccarla, iniziando di seguito a elencare i suoi guai, in un crescendo esasperato:
            -“In casa ho mio padre con un cancro terminale, lavoro in fonderia anche al turno di notte, nei giorni di riposo vado a lavare le scale con mia figlia più grande, e a volte mi addormento seduta sui gradini. Quando i più piccoli sono a scuola io sono contenta, almeno non sono in strada: io non pretendo altro, e lei per cortesia non pretenda altro da me”-
            Suor Diletta si rese conto molto rapidamente che anche questa volta doveva affidarsi all’intuito. Ci pensò sopra a lungo, finché s’imbatté in una scoperta casuale e illuminante: passando accanto al banco di Larse durante un intervallo notò un vecchio bloc-notes, un album di schizzi e sotto ancora altri fogli. Ognuno di quelli conteneva dei disegni, bizzarri e inquietanti.
            Le bastò una sola occhiata per accorgersi che il filo conduttore era una forte angoscia: alcuni erano ritratti, eseguiti nello stile approssimativo tipico dell’infanzia, ma che già rivelavano una mano sicura e un tratto visionario. C’erano bimbi al parco, accompagnati da lunghe ombre di adulti, in tutto simili ad alberi, o a pali vestiti di nero. Gli occhi dei bambini erano orbite vuote, i volti inespressivi e disegnati con brevi tratti: il naso verticale, la bocca simile a un taglio.
            Molto era dovuto alla giovanissima età dell’artista, e alla sua difficoltà ad approcciare la figura umana. Ma la precisione con cui era raffigurata la natura del parco, l’erba simile a un prato di aghi dolorosi e sullo sfondo il nero cupo di un temporale, suscitavano un senso di oppressione e sgomento: che, se non era voluto, diceva comunque molto dei segreti pensieri che, all’età di dieci anni, già assillavano Larse Kruse in pianta stabile.
            L’insegnante era sconcertata: malgrado disponesse di un’ampia fornitura di matite e pennarelli, nei suoi disegni Larse privilegiava il bianco e nero, come se quello fosse il filtro privilegiato, o addirittura l’unico, tramite il quale osservava la realtà.
            L’unico disegno in cui appariva una traccia di acquarello, talmente diluito da arricciare la carta, ritraeva una sagoma distesa in un letto: probabilmente un bambino, immobile e imprigionato da un mucchio di coperte, che possedeva i colori di Indaco Hansen. Accanto a lui un’altra figura, rimpicciolita e nuovamente in chiaroscuro, poteva essere Larse.
            Suor Diletta si chiese se il bambino nel letto fosse morto o ammalato: in ogni caso, ciò che attirava lo sguardo, oltre all’ambiguità di quella situazione, era il modo in cui il l’altro appoggiava a sua volta la testa sul cuscino, in modo da sfiorare i capelli del compagno.
            Sulla testa di Indaco, ammesso che fosse lui, si apriva una vignetta che conteneva una piccola figura in movimento, disarticolata nei movimenti, forse un ballerino: mentre sopra alla testa incolore di Larse Kruse non si apriva un bel nulla, segno che i suoi pensieri e la sua devozione erano interamente dedicati a Indaco Hansen.
            La maestra non ritenne opportuno soffermarsi troppo sui contenuti, che riguardavano sentimenti troppo segreti per poterli affrontare direttamente con Larse: preferì invece rallegrarsi per la scoperta di un’interiorità così fine e complessa, anche se molto oscura, probabilmente troppo per un bimbo di quell’età. C’era comunque un canale di comunicazione attraverso cui Larse interagiva col mondo, e lo faceva in modo spontaneo e interessante: si trattava soltanto, pensò la maestra, di assecondare quella passione per il disegno, non tanto al fine di coltivare un talento, quanto per consentire al piccolo Kruse di creare un equilibrio che fosse il più possibile solido e formativo.
            Soddisfatta e inseguita dal perenne fruscio del velo, suor Diletta tornò alla cattedra e cominciò a frugare nei meandri dei suoi cassetti, alla ricerca di un indirizzo che sapeva di avere nascosto da qualche parte.
            Al termine delle lezioni, mentre la classe usciva rumorosa dall’aula, richiamò indietro Larse per fargli una proposta che, immediatamente, accese negli occhi del piccolo una scintilla. Un lampo di energia pura, ma senza alcuna traccia di gioia:
            -“Mi piacerebbe, maestra”-
            Suor Diletta sorrise, sforzandosi d’ignorare quella linea d’ombra che indugiava, appena percettibile, tra le ciglia di Larse. Ripensò al turbamento che le avevano suscitato quei disegni: tutta la saggezza che aveva accumulato durante lunghi anni d’insegnamento le suggeriva di non sottovalutare una simile inclinazione per l’angoscia, del tutto inconsueta per un bambino di dieci anni, e provare a indagare intorno a quell’assoluta mancanza di spensieratezza.
            Non è normale, l’avvertiva la voce dell’esperienza, e anche quell’intuito che la guidava sempre a colpo sicuro.
            I disegni riflettono le ansie dei piccoli, le suggeriva l’ultimo corso di aggiornamento sulle tecniche educative, ed è un bene che Larse riesca a metterle sulla carta, e quindi ad esprimerle.
            E dopo che le ha espresse, che cosa ne facciamo? Le mettiamo in cornice?
            Incerta sul da farsi, suor Diletta decise di non lasciare trapelare quel dubbio che le stava rimescolando le carte in tavola proprio all’ultimo momento. Almeno di fronte a Larse ci teneva a mostrare un piglio sicuro, altrimenti il bambino si disorienta. Già lei era confusa, e persino un po’ intimidita:
            -“Allora, siamo d’accordo”-
            -“Grazie, maestra”- un altro sprazzo di quell’energia pulsante, priva di levità, nello sguardo di Larse, educato e impenetrabile.
            Sono semplicemente le fatiche della crescita, si ripeté suor Diletta, senza crederci affatto, alcuni stentano più di altri a misurarsi col mondo.
            Il lunedì seguente, con tutto il suo corredo di albi, pennarelli e coniglio di patchwork, Larse si presentò a casa dell’anziana signora Abramovich, per prendere le sue prime lezioni di disegno.
  
******
           
Quando la Madame Grisi uscì dalla sala prove, facendosi largo a suon di gomiti aguzzi tra la piccola folla di mamme e ballerine stipata nel salottino, Indaco ebbe un sussulto.
            Non senza difficoltà per mancanza d’altezza, la maestra si arrampicò sulle mezze punte e sul legno della bacheca, col rischio di tirarsi addosso tutto l’insieme: vetrina di antiquariato, cornice di legno appesa per miracolo a due chiodi già sofferenti e inclinati, che tracciavano lunghi reticoli di crepe nella tappezzeria.
            Dalla sua postazione accanto a nonna Mette, Indaco era già in procinto di correre in aiuto, i muscoli della schiena e le gambe nervose già protese nel salto: lo trattenne soltanto la presa della nonna, la sua mano salda ad acchiapparlo come un coniglio per la collottola:
            -“Rimani qui e aspettiamo, senza scoperchiare i nervi”-
            Non scoperchiare i nervi era, da sempre, il pronto soccorso emotivo di nonna Mette di fronte a qualsiasi difficoltà: frutto di un’esperienza che in più occasioni le aveva posto dinanzi i danni spesso irreparabili della fretta. Lasciò andare la presa trasformandola nel semplice peso della sua mano, consapevole del calore che era in grado di infondere: i muscoli di Indaco, già contratti un unico blocco per la tensione, si rilassarono all’istante.
            -“Ricorda che comunque vadano le cose, a te piace ballare e questo mai nessuno te lo potrà togliere”-   
            Nel frattempo, la Madame Grisi era riuscita ad appendere il foglio dei risultati e continuava a starci davanti, cercando di concentrare sopra di sé gli sguardi già in caccia dei nomi sigillati dal vetro macchiato della bacheca:  
            -“Molto bene, signori: per chi è stato ammesso, le lezioni inizieranno domattina alle nove, puntuali. Passerete da me per completare l’iscrizione e per la visita medica. Per chi non è stato ammesso, avviso che non si accettano reclami di nessun genere. Le prossime selezioni si terranno sempre qui, a settembre dell’anno prossimo. Buona giornata a tutti”- 
            Simile a un domatore che liberi i leoni in mezzo al Colosseo, la maestra scomparve da una porta laterale, uno di quegli accessi invisibili dei teatri, celati dagli stucchi e da un pesante tendaggio. Da quel momento in poi, sotto al tabellone sempre pericolante si accalcò una ressa di madri e di allieve senza esclusione di colpi. Gomitate e spintoni ricacciavano indietro le più piccine, che rimanevano prese tra le gambe degli altri con i loro tutù bianchi e rosa, di seguito ripescate dalla rabbia o dalla gioia - parimenti furiosa - delle loro accompagnatrici:                 
            -“Ce l’hai fatta, tesoro!”-
            -“Non sei ammessa, vergogna!”- e di nuovo riprendeva la lista dei sacrifici, delle occasioni perse e delle vite immolate delle madri ex ballerine.
            Quando tutte se ne furono andate, Indaco fu lasciato libero dalla nonna, e insieme a lei che lo sorvegliava alle spalle si avvicinò al tabellone: il suo nome figurava al primo posto nell’elenco degli ammessi.
            Sbucando dal nulla, o meglio da un’altra di quelle porte che si aprivano nella parete come artifizi scenici, dietro di lui si materializzò la Madame Grisi: 
            -“Molto bene, turista. Ma non montarti la testa, sono capaci tutti di fare i cigni in mezzo agli struzzi. Adesso preparati a sudare sul serio”-
            La mano di Madame gli stringeva la spalla, con una presa dal cemento ancora più rapido, avvolgente e inflessibile di quella di nonna Mette. Indaco spalancò sul volto della maestra un sorriso raggiante: Madame fu investita da uno scintillio di occhi e una fila infinita di denti candidi, fossette sulle guance e un’espressione di assoluta beatitudine. Inavvertitamente, si trovò a fare un passo indietro per ristabilire la giusta distanza, e recuperare un poco del suo umore burbero:
            -“Non c’è niente da ridere, turista: ti aspetto domattina alle nove precise, anzi nel tuo caso alle otto e mezza per cominciare con gli esercizi di riscaldamento. Non permetterti neppure un minuto di ritardo, o ti rispedisco subito alla scuola di nuoto”-
            Incominciò così, per Indaco Hansen, una vita di allenamenti quotidiani, impegno e sacrifici che per lui - almeno all’inizio - neppure erano tali, tanto era l’entusiasmo che gli suscitava la sola idea di danzare. Per quanto la maestra insistesse a torchiarlo, pretendendo da lui una perfezione da professionista, Indaco rispondeva accettando ogni appunto, rimprovero e umiliazione con beata sottomissione e il sorriso sulle labbra: neppure si domandava dove volessero andare a parare tutte quelle richieste di arrivare in anticipo e andarsene molte ore dopo la fine delle lezioni, impegnando quel tempo in sessioni supplementari, lezioni di salto, ancora riscaldamento, di nuovo sbarra e salto.
            Per lui si trattava di altrettante occasioni per abbandonarsi alla suggestione della musica, e avvertire la sensazione irrepetibile del corpo che si librava, si fletteva per poi lanciarsi in uno scatto vigoroso che gli riempiva l’anima di una gioia senza stanchezza.
            Non aveva altra aspirazione, Indaco Hansen, che continuare a danzare per il resto della vita, e l’avrebbe fatto senz’altro anche se si fosse trovato in mezzo a un deserto, senza nessun pubblico ad ammirarne lo slancio. Per natura e senza bisogno di rifletterci sopra, aveva compreso appieno lo spirito della danza, che consiste nel possedere interamente la propria arte, con una perfetta tecnica e assimilando le correzioni e la durezza con la grazia con cui si accolgono i doni: le doti naturali - la flessibilità, il senso del ritmo - non erano che il granello di sabbia penetrato nella carne dell’ostrica.
            Per creare la perla occorreva rivestire quella minuzia intessendo la trama della propria fatica: curandola come un tesoro quando era ancora in germe e della brillantezza, della capacità di catturare la luce e restituirla purificata, non c’era alcuna traccia.  
            Ma se per Indaco Hansen la danza era premio a se stessa, al posto suo la Madame Grisi nutriva aspettative piuttosto elevate. L’anziana maestra aveva intuito nel suo allievo la stoffa, e intendeva cavar fuori il puledro dall’asino senza mezze misure: grazie anche al fatto che Indaco era un bambino, con le ossa ancora tenere e quindi in grado di plasmare i movimenti con estrema precisione e massimo rendimento. L’allievo, per di più, era docile e obbediente, non aveva ancora l’età per le smanie da primadonna, possedeva la tenacia sufficiente per non scoppiare in lacrime di fronte a un rimprovero.
            Di lacrime, in realtà, ben nascoste dietro al suo sorriso imperturbabile, Indaco Hansen era costretto a ingoiarne parecchie. Ogni mattina, in aula lo attendeva una fatica estenuante. Lo attendeva la danza, ma anche l’ostilità delle compagne di corso. 
            Come già era accaduto all’esame di ammissione, nella classe del primo anno era l’unico maschio: e per quanto si ostinasse a negarlo per non perdere la concentrazione e l’entusiasmo, s’era sentito come un fuco in un alveare di api regine, che lo osservavano con il distacco che si riserva alle mezze creature.
            I primi giorni di lezione gli era capitato d’incrociare altri ballerini, una folata di giovani con gli asciugamani al collo, che si scambiavano pacche sulle spalle e risate mentre uscivano da un’aula immersa nella piena luce del giorno. Per poco non l’avevano travolto per le scale, mentre scendendo continuavano a scherzare, a colpirsi con gli asciugamani sudati, ad assestarsi spintoni con un cameratismo che Indaco, costretto ad adeguarsi alle buone maniere un po’ artefatte delle compagne, aveva dimenticato. Era dai tempi dei giochi scatenati in cortile, delle battute a guardie e ladri e a nascondino, che non gli capitava di lasciarsi andare alla gestualità tipica del suo sesso, alle spallate amichevoli, alle zuffe tra maschi.
            Quel giorno era rimasto appiccicato come un fuscello al corrimano, fissando il gruppo dei giovani che imperversava lungo le scale con occhi talmente grandi, e colmi di una tale nostalgia e solitudine, che l’ultimo del gruppo, avvertendo quello sguardo insistente alle spalle, a un tratto s’era voltato, notando la sua presenza e sorridendo con simpatia a Indaco Hansen:
            -“Hey, bambino, sei nuovo? Cresci, che ti aspettiamo!”-
            Indaco aveva vissuto un momento di giubilo: si era ritrovato, poco dopo, a danzare nella sua classe mista con il solo obiettivo di raggiungere la perfezione necessaria a far parte di quell’élite.
            Covando quel nuovo sogno spesso li aveva spiati, quei ragazzi più grandi, mentre facevano lezione per conto loro in un’altra sala prove, volteggiando all’unisono con il loro insegnante.
            Li ammirava da dietro a uno spiraglio della porta: tutti alti e slanciati, indossavano come lui una semplice calzamaglia ma volavano alti, al riparo da quelle occhiate di compatimento che puntualmente lo raggiungevano, non appena metteva piede nella sua aula:
            -“Arriva il principe consorte”-
            -“L’étoile senza tutù”-
            -“Lo sai che i ballerini sono tutti finocchi?”-
            -“Devono esser finocchi, la danza è roba da donne”-
            Indaco era tenace, ma anche remissivo; sapeva concentrarsi fino a conquistare l’eccellenza di un passo, ma non era capace di difendersi dal malanimo.  
            Com’era prevedibile incominciò a soffrirne, e parallelamente la sua danza ne risentì: ad ogni stoccata il suo salto perdeva energia e si smorzava; ogni parola sussurrata all’orecchio, in quel modo sgradevole che usavano le femmine con la mano a conchiglia per non lasciar sfuggire nemmeno un bisbiglio, gli pareva rivolta sempre contro di lui, e anche se non l’udiva sapeva che era un concentrato di livore.
            -“Tu avrai anche la stoffa per fare il ballerino”- diceva la nonna Mette quando, una volta a casa, Indaco si sfogava -“ma ci vuole anche la scorza, per stare in quell’ambiente”-
            Era chiaro che Indaco non avrebbe potuto danneggiare in alcun modo le sue compagne: non poteva esserci competizione perché i ruoli nel ballo erano differenti, ma lui era in maniera fin troppo evidente il pupillo della Madame Grisi, che lo portava a esempio.
            Per l’inevitabile legge delle reazioni uguali e contrarie, questo significava che era detestato, neppure troppo cordialmente, da quel gineceo di femmine rivali.
            Facevano eccezione soltanto le più piccole, quella squadra di bambinette che Indaco aveva già incontrato all’esame di ammissione e che erano visibilmente troppo timide e vessate dalle rispettive madri per aver altro a cui pensare.
            A queste, Indaco spesso sorrideva incoraggiante: correggeva una posizione con un lampo degli occhi nei rari momenti in cui la Madame Grisi era distratta, durante gli intervalli le accoglieva presso di sé come una nidiata di pulcini impauriti: divideva con loro le abbondanti merende che nonna Mette stipava nel suo zaino ogni mattina, perché non si sciupasse con tutto quell’esercizio.
            In breve, anche per via del suo aspetto rassicurante, le spalle larghe e l’altezza che a quelle bambinette doveva sembrare imponente, Indaco era diventato una sorta di padre adottivo: sotto la sua ala le piccole venivano a ripararsi, e a confidare i dispetti delle più grandi.
            Quanto a lui, c’era una ragazza più accanita delle altre, una bionda agguerrita che lo batteva in altezza, potenza di salto e addirittura nella misura delle spalle. Una mattina presto, mentre la classe attendeva che Madame entrasse in aula in compagnia della sua bacchetta, l’allieva bionda arrivò alle spalle di Indaco, accompagnata da una scia di occhiate di sottecchi e risate soffocate: il ragazzo era impegnato in quel particolare volteggio che nel gergo della danza si chiama fouetté, ed era concentrato nello sforzo di tenersi in equilibrio su una gamba sola, mentre l’altra ruotava mezzo giro in apertura, per poi chiudersi nel mezzo giro successivo. 
            Era un movimento complesso, che esigeva coordinamento: alla compagna bastò allungare un piede per togliere a Indaco l’appoggio al suolo, e questi cadde di schiena e in mezzo alle risate di tutta la classe. Solamente le piccole non ridevano affatto: ma anche le grandi smisero quando si resero conto che il loro compagno faticava a rialzarsi. Proprio in quel momento entrò la Madame Grisi, sempre a passo di marcia:
            -“Turista, stai facendo la pennichella sul pavimento? Cominciamo proprio bene, stamattina, non c’è che dire”-
            Indaco riuscì a levarsi, senza dare troppo nell’occhio, ma durante la lezione faticava a stare al passo: la Madame Grisi lo riprendeva continuamente, più per convincerlo a spiegare i motivi di quel calo improvviso che per spingerlo a superare il limite delle forze. Malgrado ciò il turista proseguiva impassibile, col fiato corto e gli occhi sempre più dilatati dalla fatica e dal male.
            Di seguito, in spogliatoio - aveva in uso uno dei minuscoli bagni, ma quella volta per il dolore e per l’ansia aveva dimenticato di chiudersi dentro - una delle più piccole lo vide di spalle, mentre levava la maglia cercando di inquadrare la schiena nel piccolo specchio, per fare il conto dei danni: un livido madornale si spandeva lungo metà della schiena, in forte contrasto con il pallore sudato del volto del ragazzo.
            Impressionata, la piccola scoppiò in lacrime e corse a perdifiato a cercare Madame. Le più grandi provarono a fermarla, ma a quel punto la bimba incominciò a urlare - per il terrore provocato da quella macchia scura, perché non ne poteva più di tutte le angherie che in Accademia erano all’ordine del giorno, per il dispiacere provato nei confronti di Indaco e chissà per quant’altro:
            -“Cattive, cattive! Gli avete fatto male, lo dico alla maestra!”-
            Richiamata dal trambusto arrivò la Madame Grisi, che subito chiese conto a Indaco Hansen di quella novità apparsa inaspettatamente sulla sua schiena:
            -“Prima della lezione, durante il riscaldamento sono caduto a terra”-
            La piccola, che quella mattina aveva assistito alla scena, si ribellò iniziando a gridare più forte, rossa in volto e in un parossismo di lacrime:
            -“Non è vero, maestra! Non è vero, è stata lei!”- e segnava col dito la compagna più grande -“l’ha fatto cadere apposta! Maestra, è stata lei!”-
            Nel suo lungo cammino per diventare un’étoile, Madame Grisi aveva subito così tante meschinità e umiliazioni che avrebbe potuto scrivere un trattato sull’argomento, di dimensioni enciclopediche. Quella volta si limitò a imporre il silenzio con un solo gesto della mano, saldo e ben calibrato:
            -“Hansen in ambulatorio, prima che mi diventi un ballerino di colore”- era la prima volta che Indaco si sentiva chiamare col suo nome, e questo rendeva l’idea di quanto fosse arrabbiata Madame -“osserverai il riposo che ti verrà prescritto. Sarà la tua punizione, così imparerai a stare più attento. Voi ragazze, puntuali per la lezione del pomeriggio. Filate, e senza schiamazzi: non voglio più sentire volare una mosca”-         
            Prima di uscire si voltò un’ultima volta, gelida. Rivolse all’allieva bionda una sola occhiata:
            -“Sorensen, in direzione. Se necessario, provvederò io stessa ad avvertire i tuoi genitori”-
            L’allieva Sorensen non si presentò a lezione né quel pomeriggio né nei giorni seguenti.
            Madame, dal canto suo, non tornò più sull’argomento.

 
******
           
Il vicolo s’inoltrava nell’antico quartiere ebraico acciambellandosi su se stesso come un gatto a riposo e facendosi, mano a mano, sempre più ombroso e angusto. Partendo dalla piazza principale del paese, e incominciando a scendere sempre di più in un’oscurità che al principio era semplicemente un tratto di bosco fitto, quel vicolo ritorto era l’unica via vera e propria del ghetto: da là si dipartivano calli ancora più strette, cunicoli che s’insinuavano tra i muri e gli odori delle case, brevi piazze col pozzo rinchiuso da una grata, da cui saliva un odore di muffa che evocava i canali aperti e lontani.
            A ogni svolta si aprivano, a ventaglio, scorci di abitazioni addossate una all’altra: al piano terra botteghe simili a gallerie scavate nel buio, finestre sollevate dal piano della strada poco meno di un palmo, chiuse ordinatamente da tende all’uncinetto, vasi di roselline e piantine di essenze sui davanzali senza sole. Mano a mano che ci si inoltrava nel quartiere, la via maestra si stringeva sempre più, fino a diventare una ripida scala attorcigliata tra le facciate delle case: in certi punti, i muri erano così vicini che Larse riusciva a sfiorarli semplicemente allargando le braccia.
            In quell’ora del dopopranzo non c’era in giro un’anima, sempre ammesso che un’anima riuscisse ad insinuarsi in quegli stretti passaggi: ma dalle porte intagliate, con la mezuzah appese agli stipiti, provenivano odori appetitosi di zuppa, di frittate e bucato riposto in cassapanche odorose.
            Larse aveva fame: appena uscito da scuola, senza neanche prendersi la briga di passare per casa, si era precipitato a cercare quell’indirizzo che suor Diletta gli infilato nella tasca, su un foglio accompagnato da due righe di presentazione in bella calligrafia. Tanto a casa non c’era nessuno ad attenderlo, in fabbrica sua madre aveva il turno diurno, un giro di pulizie da fare nel rione e sarebbe rientrata soltanto a tarda sera.
            Dopo avere rischiato di inciampare su quei gradini sconnessi, consumati nel mezzo e quindi ancora più ripidi, si fermò a sedere levandosi dalle spalle lo zainetto scolastico, e poggiando la schiena fradicia di sudore contro un muro fresco di calce: lo spiffero di una cantina sotto al piano della strada lo afferrò alle caviglie, facendolo sussultare. Si sporse in basso a guardare, ed ecco, là si apriva un piccolo studio, dalle pareti fitte di volumi fino al soffitto, eppure estremamente luminoso per via delle tante lampade accese un po’ ovunque: lunghi steli moderni che emanavano una luce incandescente e senz’ombre, altre piccole e tonde, rivestite di stoffe colorate e ricami, più riposanti e adatte a un salottino buono. Come vecchie signore, quelle lampade stavano accomodate attorno a poltrone con i centrini sulla spalliera: al centro un tavolino con i piedi ritorti, una scatola di biscotti e ancora libri d’arte. Ma soprattutto c’era una serie di faretti puntati attorno a un grande tavolo da lavoro, sul quale si affollavano schizzi ed illustrazioni.
            Larse ricontrollò di nuovo l’indirizzo: bussò a una porticina se possibile ancora più piccola delle altre. Attese a lungo, senza che dall’interno provenisse alcun rumore: alle sue spalle, la scalinata procedeva a precipizio fino a raggiungere un’altra piazzola immersa nell’oscurità.
            L’intero quartiere pareva disabitato, per via della calura sonnolenta dell’ora. Dalla foresta che iniziava oltre l’oscurità dell’ultima piazzetta, proveniva un aroma tonificante di pino. La brezza lo portava fino in quel quartiere immerso nell’odore d’acqua ferma dei pozzi. Nel vano dell’ingresso, accanto a un tralcio di rosa che sbocciava petali bianchi nella penombra, quell’odore dolciastro si faceva più intenso.
            Larse bussò di nuovo, ma pareva che là non ci abitasse nessuno.
            Finalmente individuò un campanello: una mano da marionetta appesa a un filo pendeva accanto alla mezuzah d’ordinanza. Larse ci si attaccò come un naufrago al relitto, scatenando un concerto di orologi a cucù che si mise in moto con un sconquasso di molle, fino a esaurirsi nel motivetto di un carillon. Le note si perdevano nei meandri di quella casa che, prima ancora di entrare, gli pareva già simile a una grotta delle favole.
            La capanna di riccioli di cioccolato e panna della strega di Hansel e Gretel, la bottega di marionette di Pinocchio: Larse le pensò tutte, mentre di nuovo il chiasso di quegli oggetti meccanici cedeva il passo al silenzio; per poi ricominciare con un fracasso da battaglia, dopo che ebbe tirato un’altra volta quella strana mano mozza di legno.
            Con l’orecchio al portone, Larse percepì un fruscio di piccoli passi simile al saltellare senza peso dei passeri: fece appena in tempo a pensare a quanto era curioso quel ritmo saltellante, quando rischiò di cadere lungo disteso per effetto dell’apertura improvvisa della porta.
            Sulla soglia era apparsa una donna piccina, più piccola di lui: con una crocchia imponente di capelli nerissimi, un becco di naso appuntito che frugava l’aria spuntando da un paio di occhiali rotondi e pesanti, che evocavano l’immagine di un uccello notturno, una grossa civetta arruffata e appena sveglia.
            -“La signora Abramovich?”- domandò Larse, incerto. La sua idea di maestra, seppure di disegno, era troppo legata all’immagine di suor Diletta, col suo viso rotondo da mela rassicurante, per potersi anche solo immaginare qualcosa di così diverso. La donna provò a inquadrarlo nel fondo di bottiglia dei suoi occhiali, soppesandolo con le scintille di uno sguardo che, dietro alle lenti spesse, pareva ancora più rapace e smisurato.
            Nonna - si ritrovò a pensare, spaesato, Larse Kruse - che occhi grandi, che hai!        
            -“È per vederti meglio”- rispose puntualmente Leah Abramovich. Si sistemò alla meglio quella che risultò essere una grossa parrucca nera, arruffò un poco le penne - le pieghe di una lunga vestaglia di panno scuro - finalmente si scostò dall’uscio e sorrise:
            -“Tu devi essere il piccolo alunno di suor Diletta”- la donnina alzò un dito, aguzzo e ammonitore -“Mi ha telefonato proprio in questo momento, ma tu ovviamente sei un bambino troppo impaziente per aspettare che una povera vecchia finisca di parlare e metta giù la cornetta”-
            -“Non mi mangerà, vero, signora?”- Larse era quasi sul punto di chiederlo, mentre si avventurava al seguito di quella creatura notturna attraverso una trafila di corridoi e di stanze, dove per orientarsi gli sarebbe servita una bussola. La planimetria della casa ricalcava la medesima bizzarria del quartiere: una serie di percorsi in salita e in discesa, stanze più in basso o in alto, unite da una serie di gradini imprevisti sui quali Larse Kruse si trovò a inciampare più volte, rischiando di sbattere il naso:
            -“Sta’ attento ai gradini, ragazzo”- replicava puntualmente la signora Abramovich, sempre dopo che Larse aveva rischiato l’osso del collo -“se mi capiti addosso con tutto quell’armamentario, mi mandi all’ospedale. Non vorrai far morire una povera vecchia sopravvissuta a una guerra mondiale e a quattro pogrom”-
            -“No di certo, signora”- assicurava Larse, che neppure sapeva che cosa fosse un pogrom.
            A tutte le sventure testé menzionate, Leah Abramovich era scampata per puro caso: originaria di un piccolo villaggio di ebrei lituani, nascosta in una cesta di panni da sua madre, era riuscita a sfuggire all’incendio che aveva raso al suolo la minuscola sinagoga, sparpagliando scintille fin sul carro di fieno dove s’era rifugiata con il resto della famiglia. Insieme al rabbino suo padre, cinque fratelli e le innumerevoli donne della famiglia, in quella stessa cesta aveva cercato scampo dapprima in Boemia, di seguito in Ungheria, puntualmente ricacciata dall’avanzata nazista.
            Erano scesi in Grecia, ma i vagoni per Auschwitz partivano anche da Salonicco.
            Come Mosè abbandonato in balìa delle acque, e senza che nessuno gliel’avesse insegnato, Leah Abramovich aveva imparato a stare ferma e zitta, immersa nell’odore di lavanda e basilico, finché il coperchio della cesta restava sigillato: e a piangere soltanto quando veniva aperto, e poteva tirare un respiro e magari un pianto di sollievo.
            L’ultimo ad aprire la cesta, ad un posto di blocco che avrebbe potuto perdere la famiglia per sempre, era stato un danese della Standarte Westland, di stanza in Croazia. Quando l’uomo aveva scoperchiato quell’umile bagaglio di vimini, pensando contenesse denaro e preziosi, era rimasto talmente stupefatto nell’udire i vagiti di Leah, e nel vedere il suo sorriso fiducioso con le manine tese, che non se l’era sentita di mandare l’intera famiglia al macello: si trattasse di un capriccio momentaneo o di una convinzione più radicata - al riguardo, gli Abramovich non avevano ritenuto opportuno fare domande, limitandosi prudentemente a tenere il capo abbassato - per vie traverse l’ufficiale aveva ottenuto un salvacondotto fino alla Danimarca. Era seguito un altro difficile esodo attraverso l’Europa in fiamme, ma dalla Danimarca, una volta arrivata, la famiglia Abramovich non se n’era più andata.
            -“Mia nipote arriverà a breve. Puoi attenderla qui”- dopo una serie infinita di giravolte, Larse arrivò nel piccolo studio caotico che aveva già intravisto dalla strada. Notando la sua espressione sorpresa, Leah Abramovich rise:
            -“Di certo avrai pensato chissà come farà quella povera vecchia a insegnarmi a disegnare, dal momento che non ci vede un accidente. Ragazzino insolente, sono anche mezza sorda, se è per questo. Ecco perché mio marito ha inventato un sistema di orologi a cucù che suona in ogni stanza, ricollegato al campanello della porta. Ma voi giovanotti non avete di certo la pazienza di aspettare che uno prima senta, e poi venga ad aprire”-
            Larse Kruse passava di stupore in stupore, in fondo affascinato ma per lo più convinto di essere capitato in una casa di matti.
            Quando la vecchia gli mostrò, in una stanza adiacente, il tavolo del marito ingombro di casette di legno a cucù, di molle e di ogni sorta di meccanismi di precisione, cercò di recuperare:
            -“Suo marito si occupa di orologi, signora?”-
            La vecchia Abramovich sbuffò arruffando le penne, ovvero le lunghe maniche della vestaglia che l’avvolgeva come un bozzolo:
            -“Ma non dire sciocchezze! Mio marito si occupa di circoncisioni”-
            Pur non sapendo cos’era una circoncisione, esattamente come non aveva idea di cosa fosse un pogrom, Larse si disorientò definitivamente:
            -“Ma allora come mai tutti quegli orologi?”-
            -“Ragazzo mio”- soffiò Leah Abramovich, alzando gli occhi al cielo -“secondo te, sul tavolo cosa dovrebbe metterci?”-

 
******
           

Dalle radiografie non risultavano fratture costali. Dichiarato guaribile in circa sette giorni, il tempo indispensabile a stabilizzare quell’ematoma da record, la mattina seguente Indaco Hansen si presentò in sala prove con i referti sottobraccio: aveva esibito quelle pellicole in chiaroscuro, che ritraevano il suo torace simile a una gabbia di luce, e senza mezzi termini aveva supplicato Madame di ammetterlo a lezione.
            Abituata a pensare che i malesseri degli allievi fossero al novanta per cento imputabili alla poltroneria degli stessi, e a una malavoglia che occorreva estirpare senza nessuno scrupolo, Madame gli aveva fatto levare la maglietta davanti a tutta la classe, gli aveva esaminato la schiena, con un paio di pizzicotti per accettarsi che i muscoli fossero al loro posto: subito l’aveva rispedito alla sbarra, congratulandosi per la tempra che stava dimostrando il suo allievo migliore.
             Con la coscienza che gli doleva più dei postumi della caduta, Indaco s’era lasciato assorbire dagli esercizi, come se cancellando i fatti dalla memoria potesse far sì che non fossero mai accaduti. 
            A casa, alla nonna Mette non aveva detto niente. Aveva anche nascosto sotto ai mucchi di biancheria di un cassetto la prescrizione che richiedeva ulteriori accertamenti riguardo a quei famosi problemi coagulativi, prima di riconoscergli di nuovo l’idoneità ai corsi dell’Accademia.
            Riguardo a quei problemi, Indaco s’era ben guardato di accennarvi durante la prima visita all’inizio dei corsi: visita che peraltro si era limitata a un sommario controllo dell’altezza e del peso, e a un’occhiata altrettanto sommaria al suo libretto sanitario. Su quel libretto qualcosa doveva pur esserci scritto, ma evidentemente il medico del Teatro non ci aveva fatto caso. Oppure l’aveva annotato su qualche libro nero, ed ecco perché adesso gli veniva richiesto di sottoporsi ad ulteriori accertamenti: soltanto la parola, gli faceva venire l’ansia.
            Seguirono notti insonni, al pensiero che il medico avrebbe prima o poi contattato chi di dovere, e la verità sarebbe venuta a galla miseramente. Senza trovare pace, si rigirava nel letto circondato dai giocattoli della sua infanzia, mentre dall’altra stanza, scivolando attraverso la porta socchiusa, proveniva il respiro, profondo e regolare, della nonna che riposava con la coscienza a posto.
            Nei giorni che seguirono, Indaco continuò a essere colto da un fremito ogni volta che la porta dell’aula si apriva, ed entrava qualcuno a parlare con Madame. Allora quell’angoscia, di solito relegata nel reame degli incubi delle ore notturne, tornava improvvisamente a galla. Indaco si ritrovava con le mani ghiacciate aggrappate alla sbarra, come se fosse solo questione di minuti prima che Madame in persona arrivasse a strapparlo da là, mettendo fine ai suoi sogni.
            Si aggrappava con forza, col cuore in gola e un inizio di lacrime che occorreva ricacciare subito indietro, per non dare nell’occhio:
            -“Turista, oggi sei distratto… che c’è, ti è morto il gatto?”-  
            Nei confronti di nonna Mette, con la quale si era sempre confidato nel modo più schietto, i sensi di colpa raggiungevano vette mai viste: ogni sera, al suo ritorno, Mette gli veniva incontro alla fermata della corriera con gli odori della cena attaccati al grembiule, le mani screpolate dai lavori domestici, sulle spalle il cappotto col collo in finta pelliccia che aveva sempre indossato da quando la conosceva. Indaco smise di abbracciarla in quel periodo, con la scusa d’esser cresciuto e non potersi più permettere smancerie. Alla stessa maniera, non volle più essere aiutato a lavarsi, sostenendo che all’Accademia aveva ormai imparato a fare tutto da solo.
            Ogni giorno era una bugia che si sommava a quella del giorno precedente.
            Nonna Mette si adeguò senza fare domande, imputando gli umori variabili del ragazzo alla crescita in atto: accettò di buon grado le nuove regole imposte dal pudore del nipote, sebbene il corpo di Indaco fosse soltanto irrobustito dagli esercizi, senza mostrare alcun segno di pubertà incipiente.    
            Più il tempo passava, più Indaco rimuginava nel suo letto come sul girarrosto, senza riuscire a concepire una via di scampo: da quando aveva memoria, era sempre stato soggetto a perdite di sangue, simili a fontanelle inarrestabili da tagli e sbucciature sulle ginocchia, e a riempirsi di lividi quando gli capitava di urtare contro qualcosa. Aveva sempre addosso qualche chiazza bluastra, e il soprannome Indaco non gli era stato dato a caso dai bambini del vicinato.
            Di quando era piccino, conservava un vago ricordo di visite mediche, dottori che tentavano di mantenerlo calmo prendendolo su ginocchia che sapevano di disinfettante, apposta per forargli a tradimento le braccia. Di lì a poco suo padre era morto in un incidente al cantiere, e sua madre se n’era andata in un posto lontano, un luogo che nel gergo confidenziale di nonna Mette chiamavano chissà dove: nel paese di chissà dove, la donna aveva trovato un lavoro molto serio e assorbente, che non le permetteva di ritornare a casa a occuparsi del figlio.
            A due anni Indaco era stato affidato alla nonna, e i primi tempi la mamma aveva mandato una persona importante, l’assistente sociale, apposta per controllare che tutto filasse liscio, la casa fosse in ordine e Indaco non facesse troppi capricci.
            Nel frattempo erano continuate le visite periodiche, che si concludevano con la raccomandazione - rivolta a nonna Mette affinché provvedesse - di fare attenzione a lividi, cadute accidentali, botte sulle ginocchia. Cosa oltremodo difficile, perché proprio in quegli anni Indaco stava scoprendo la gioia del movimento: quando all’asilo gli altri bambini cantavano le loro filastrocche, lui si buttava in pista catturato dal ritmo, e saltava e ballava fino a ridursi a uno straccetto di sudore; a casa, si sbracciava in volteggi davanti alla tivù e agli show del sabato sera.
            Dentro di sé, l’aveva sempre saputo: il suo unico sogno era di ritrovarsi ritto su un palcoscenico, ad accogliere lanci di fiori ed applausi, sapendo che sua madre era in mezzo a quel pubblico e presto l’avrebbe raggiunto, per stringerlo a sé e non lasciarlo mai più.      
            Danzare era essenziale per sé e per sua madre, che chissà dove viveva sola e senza di lui, immersa in un lavoro che non le permetteva neanche una visita, una telefonata, una lettera: per questo, negli esercizi Indaco metteva ancora più vigore, tentando di spacciare le lacrime per sudore e lasciandole libere di trovar sfogo solamente in corriera, nella penombra che, alla fine delle lezioni, lo riaccompagnava al paese.
            Di fatto, quel travaglio in luogo di sottrarre intensità alla sua danza la rendeva più intensa, ricca di sfumature, potente e drammatica. La sua presenza scenica, piuttosto che gli esiti del suo infortunio, incominciava ad attirare l’attenzione di chi di dovere.
            Il suo disagio trovava espressione in altri modi: lo stesso viaggio in corriera, che gli aveva sempre provocato una nausea a cui la nonna Mette cercava di rimediare infilandogli nello zaino due spicchi di limone, trascorso un breve periodo di abitudine si ripresentò con tale forza che Indaco era costretto a scendere dal mezzo e fare un pezzo a piedi nella campagna, fino alla fermata seguente e a volte direttamente fino a casa.
            Più di ogni altra cosa, la solitudine in compagnia di quel segreto divenne dura da sopportare: sicché un giorno Indaco approfittò della pausa di mezzogiorno per avvicinare il gruppo degli allievi più grandi, gli stessi che amava contemplare di nascosto dietro alla porta socchiusa.
            Disciplinati con le loro calzemaglie nere e le maglie bianche, lo stesso abbigliamento che indossava anche lui durante le lezioni, sentendosi una mosca nel latte, si erano riservati alla mensa un angolo solamente per loro: ed erano talmente impegnati a mangiare e a scherzare, che c’era voluto un po’ prima che si accorgessero di quel bambino impalato accanto al loro tavolo.
            Nel vedere quel piccolo viso preoccupato, si erano zittiti quasi contemporaneamente.
            Con una faccia tosta che in realtà era soltanto triste, Indaco aveva chiesto al primo che gli aveva rivolto un sorriso se poteva per caso prestargli il suo telefono, un momento soltanto.
            -“Non c’è problema, bambino: devi chiamare casa? Ti è successo qualcosa?”-
            -“Non è niente, signore”- Indaco in realtà aveva già le lacrime agli occhi, e per questo cercò di deviare lo sguardo. Sentiva su di sé gli occhi del ballerino, e non appena l’altro si accorse che non sapeva raccapezzarsi con la schermata e i tasti, sentì anche le mani dell’allievo venirgli in aiuto.
            -“Dà qua, dimmi il numero”- 
            Indaco non aveva mai posseduto un cellulare: quando sarai più grande, rispondeva invariabilmente nonna Mette a tutte le sue richieste, puntualmente rinnovate in occasione del compleanno e a Natale. Secondo il suo parere, mettere in mano un cellulare a un bambino significava renderlo, molto prima del tempo, un automa imbambolato di fronte a uno schermo, capace tutt’al più di agitare i pollici e totalmente alienato dalla vita reale.
            Con l’aiuto del compagno più grande, Indaco compose il numero di casa di Larse. Restò a lungo in attesa, senza neanche sapere cosa dire all’amico, che non sentiva da tempo.
            Si accorse di desiderare il suono di quella voce in modo così struggente che quando Larse non rispose - non era quasi mai in casa, e di recente aveva iniziato a frequentare un corso di disegno che gli occupava tutto il tempo - Indaco si lasciò andare allo sconforto. Restituì il telefono e stava per andarsene, quando l’altro lo trattenne, cordiale ma con fermezza:
            -“Tutto bene, bambino?”- gli tese la mano, schietto -“comunque, io sono Jens”-
            -“Thomas”-
            -“Søren”- fecero eco, a turno, i vicini di tavolo. Tutto il gruppo lo stava osservando, alcuni con simpatia, altri con il distacco che si riserva alle interruzioni fastidiose, a cui non vale la pena di prestare attenzione.
            -“Io mi chiamo Indaco”- imbarazzato a un tratto da tutta quell’attenzione, stentava quasi a ricordare il suo nome: aggrappandosi alla prima cosa che gli venne alla mente, finì per presentarsi con quel soprannome assurdo, che peraltro diceva molto del suo problema.
            -“Indaco?”- rise quello che si chiamava Søren -“dici sul serio?”-
            -“Malthe”- cercò di rimediare l’interessato -“Malthe Hansen”-
            Jens continuava a sorridergli, in modo così aperto che il piccolo ballerino si sentì in dovere di essere sincero a sua volta. La verità anzitutto, gli aveva sempre raccomandato nonna Mette, e di quella verità lui aveva nostalgia ormai da troppo tempo.
            -“A casa mi chiamano Indaco perché mi riempio di lividi. Se cado, voglio dire. Grossi lividi viola, che poi diventano blu. È una specie di malattia”-
            -“Hai sentito, Blu Notte?”- Søren si allungò ad appioppare una pacca sulla spalla di Jens, che gli sedeva di fronte -“ne abbiamo trovato un altro uguale identico a te”-
            Indaco si voltò a fissare Jens, stupefatto. Questi restituì la pacca al compagno, poi strinse la mano a Indaco, come per presentarsi una seconda volta:
            -“Piacere di conoscerla, emofilia tipo B. Lei invece, signore?”-
            -“Io invece, tipo A. Almeno credo”- disse Indaco in un soffio, sentendosi improvvisamente in pace col mondo. Dalla tavolata dei grandi, partì una raffica di applausi:
            -“Hai visto, Blu Notte? Hai trovato l’anima gemella!”-
            -“Qualcuno qui è tipo C? No, dico, così completiamo l’alfabeto per intero!”-
            -“Tipo C non esiste, imbecille”- Jens rideva di cuore, Indaco era esterrefatto.
            -“Puoi ballare lo stesso?”- domandò in un soffio, col cuore in gola.
            -“È questo che ti preoccupa, ragazzino? Posso ballare eccome. Anzi, sono il migliore”-
            -“Questo, poi, è da vedere”- replicò qualcuno dall’altra parte del tavolo.
            Jens strinse forte il braccio di Indaco Hansen, che solo in quel momento riconobbe in lui il giovane allievo che già una volta l’aveva risollevato dalla tristezza, con un sorriso mentre scendeva le scale di corsa, e rivolgendogli quelle stesse parole:
            -“Datti da fare, piccolo. Ricorda, ti aspettiamo”-
 
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