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Autore: yonoi    15/07/2018    6 recensioni
Un piccolo paese tra i boschi incappucciati di neve della Danimarca.
Nella mente di Indaco Hansen suona da sempre un'armonia tutta speciale, che solo lui è in grado di udire: il suo corpo risponde, e fin da quando ha imparato a reggersi sulle gambe, la danza è la sua dimensione, il suo destino e la sua gioia. Accanto a lui è cresciuto l'amico indivisibile, Larse Kruse. Larse è schivo e introverso, ma possiede anche lui un modo tutto speciale per comunicare il suo spirito: il disegno è la sua voce, la via di liberazione da tutte le sue inquietudini, dalle pene segrete, dal suo amore nascosto per Indaco Hansen. Indaco è il suo desiderio, l'oggetto dei suoi ritratti, ma Indaco è totalmente devoto alla sua danza.
La storia di un'amicizia, di un amore che si consuma nel silenzio, di un sopruso e un inganno, di una malattia che non lascia scampo, di un'antica e sinistra leggenda.
Prima classificata pari merito al contest "Zodiac game" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP; storia valutata al contest "Sense and Sensibility" indetto da Iamamorgenstern.
Seconda classificata al contest "Concorso a tema (l'amicizia) indetto da Dreamkath.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ogni giorno mi alzavo con il pensiero
del momento in cui avrei messo i piedi
dentro le scarpette. E quando ero lì,
con l'odore di canfora, legno, calzamaglie,
ero un'aquila sul tetto del mondo,
ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa.
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Malattia e pazzia furono gli angeli custodi della mia culla”
(E. Munch)
 

3. Atto terzo - Il caos e la grazia


            Larse Kruse rimase ad attendere a lungo nello studiolo ingombro di libri fino al soffitto: dopo averlo invitato a mettersi comodo, e a servirsi dei dolci un poco polverosi in mostra sul tavolino, la signora Abramovich si era defilata per uno di quegli anditi che portavano da un capo all’altro della sua casa, facendola apparire immensa e dispersiva quando in realtà era piccola, praticamente acciambellata su se stessa.  
            Larse ebbe il tempo di esplorare la stanza fin nei particolari: nella libreria erano disposti in buon ordine, di seguito impilati a occupare tutto lo spazio con una sapiente combinazione d’incastri, volumi dedicati alla pittura e all’illustrazione, pubblicazioni sulle tecniche del disegno, fumetti per ragazzi e opere d’autore. La luce del pomeriggio si riversava dalla finestra a livello della strada, con lame di pulviscolo sopra a un tavolo di concezione moderna, dalla superficie inclinata.
            Larse si accomodò sullo sgabello girevole, quattro biscotti tra la bocca e le mani per tappare il buco di fame del pranzo saltato, e cominciò a osservare le tavole in lavorazione che qualcuno - probabilmente la misteriosa nipote della signora Abramovich - aveva fissato al banco con strisce di nastro. Su sfondi temperati da delicate sfumature pastello, che ricreavano l’atmosfera delle stanze da giochi dei bambini, prendeva vita un mondo di bambole dagli occhi spalancati, sognatori e inquietanti: la dolcezza delle fiabe, unita a tratti di crudeltà.
            In una delle tavole, una di queste signorine dai grandi occhi, seduta educatamente dietro a una tovaglia a quadri, tagliava un dolce decorato da boccoli di panna simili ai suoi capelli, facendolo sanguinare: il dolce possedeva i tratti umani di un volto, con i lineamenti contratti in un’espressione angosciata, mentre quelli di lei restavano impassibili.
            Nella figura a fianco, un’altra di quelle innocenti creature esibiva una torta al posto della gonna: dopo aver tagliato una fetta posata su un elegante piattino a parte, un coltello la penetrava in profondità, facendo uscire dalle sue cavità gocce di sciroppo di un tenue colore rosato.  
            Quest’ultima visione lo inquietò così tanto, che quando la fantomatica autrice delle tavole comparve sulla soglia, Larse non se ne accolse, e rispose al saluto di lei con un sobbalzo:
            -“Sei tu il mio piccolo allievo?”- una mano macchiata d’inchiostro e di acrilici si protese verso di lui, sbucando da una manica con pizzi d’altri tempi -“piacere di conoscerti, Shlomtsione Abramovic”-
            -“Cosa?”-
            Larse rimase appeso alla stretta di quelle dita appuntite e un po’ fredde, senza dar segno di volerla lasciare. La figura che gli stava dinanzi era alta esattamente quanto lui da seduto, e sì che Larse Kruse era sempre stato il più gracile di tutti i suoi compagni: abbigliata con strati di gonne e sottogonne che la rendevano simile a una corolla su cui posava il busto esile, pareva scappata fuori da una di quelle tavole che descrivevano atti di ferocia soavi, tratteggiati con sfumature pastello.
            Lunghi capelli neri, in quantità spropositata, erano puntati ai lati del capo con un’analoga quantità di mollette, simili a quelle che usavano le sue compagne di classe, con piccole decorazioni innocenti: una rosellina di tulle, una coppia di ciliegie, una mela rossa di smalto.
            Di là, quella capigliatura esorbitante scendeva lungo le spalle, giù per la schiena e oltre, ma Larse non aveva il coraggio di guardare dove andava a terminare, perché distogliere lo sguardo dal volto della ragazza gli pareva poco educato: attorno al volto, le ciocche che alla luce delle numerose lampade della stanza assumevano una consistenza bluastra, incorniciavano un ovale così pallido che a Larse tornò in mente la seta sottile dei bachi che proprio quell’anno, insieme a suor Diletta, avevano allevato in classe per l’ora di scienze.
            La signorina Abramovich scosse il capo levando da quella capigliatura straordinaria un lieve soffio aromatico, molto simile alla spolverata di vaniglia lasciata dai biscotti tra le dita di Larse. Questi era stupefatto: se la vecchia Abramovich gli era parsa un grosso gufo cespuglioso, questa ragazza era inconcepibile persino per la sua fantasia. La figlia di Barbablù e Biancaneve, pensò Larse ispirandosi a un gioco che era solito fare con Indaco, quando si ritrovavano a osservare la gente in cortile o dai banchi di scuola, da sempre vicini:
            -“Suor Diletta somiglia alla campana della chiesa, quella che dondola di qua e di là e sembra sempre sul punto di caderti sulla testa”- rideva Indaco sotto i baffi, e lui non riusciva mai a guardarlo dritto negli occhi -“con quel faccione tondo, direi che è la figlia del parroco e di un cocomero”-
            -“Il parroco non ha figli”- lo riprendeva Larse, scandalizzato -“non può averne, è un prete. E neanche i cocomeri possono avere bambini”-
            -“Allora, non si spiega”- Indaco gli appioppava uno spintone per costringerlo a ridere, e lui si ritraeva e nascondeva il volto, per evitare che l’altro s’incuriosisse nel vederlo arrossire. 
            Ma ora non c’era di fronte a lui Indaco Hansen, con la fronte sempre accaldata dagli esercizi e sul collo una stilla di quel sudore amarognolo che in certe notti gli impediva di prendere sonno: bensì quella creatura fiabesca dal nome assurdo, che neppure dopo anni Larse imparò a pronunciare.
            D’un tratto, si rese conto che avrebbe dovuto rispondere al saluto: 
            -“Piacere anch’io, signorina…”-
            -“Shlomtsione è un nome assurdo”- un’altra scossa di quella capigliatura simile a un mare di ombre, e la giovane fece scivolare accanto a lui un secondo sgabello -“puoi chiamarmi Shlomit. Anche hey tu! va bene. Salomè invece no, e poi io non so ballare”-
            -“Ho un amico che danza”- stava per dire Larse, ma la ragazza stava già sgomberando il piano di lavoro, pronta ad incominciare subito la lezione:
            -“Per prima cosa inizieremo con lo studio della figura umana”- da un cassetto, Shlomit cavò fuori un paio di fogli bianchi, e un manichino in legno perfettamente snodabile. Più che un oggetto utile a studiare le pose, si trattava di un bizzarro pezzo di antiquariato, che su giunzioni di legno mostrava una perfetta ricostruzione anatomica di quanto si muoveva sotto alla pelle umana: in pratica, la visione di un uomo scorticato, con le vene bluastre affondate nei muscoli e i tendini in bella vista. Il volto era il particolare più ripugnante, con i globi oculari sporgenti dalle orbite e il ghigno esposto dei denti.  
            -“Accidenti, uno spellato!”- non poté fare a meno di commentare Larse, a cui quel manichino costò notti di incubi per molti anni a venire.
            -“Accidenti è precisamente il suo nome”- rispose Shlomit, serafica -“È quello che dicono tutti, non appena lo vedono. Non pensano che anche loro sono fatti così, sotto. Lui ti aiuterà a capire le  proporzioni, a studiare il movimento. È brutto da vedere, ma è un amico fidato”-
            Larse dovette adattarsi all’idea di guardarlo più spesso di quanto avrebbe voluto, ma siccome quella figura diventò l’ospite fisso di tutte le sedute, assumendo le posizioni più disparate - in piedi e in pose danzanti, seduto o nell’atto di correre - alla fine riuscì a prenderci confidenza.
            Per scrupolo, ogni volta che era costretto a disegnare con Accidenti sul tavolo, che lo fissava con quegli occhi da posseduto, Larse gli poneva accanto il suo coniglio di pezza, con un orecchio dritto e l’altro sbilenco, che per via degli occhiali cuciti sul muso fu prontamente ribattezzato da Shlomit il Professore.
            Molto più imbarazzante fu dover mostrare a Shlomit i suoi disegni. Li cavò dallo zaino con la circospezione di chi è costretto a rivelare un segreto: mettendoci tutto il tempo del mondo, come per rimandare il più possibile il momento in cui sarebbe stato scoperto.
            Tutti i disegni ritraevano Indaco Hansen di profilo e di fronte, impegnato in un salto o alla sbarra: spesso Larse lo accompagnava alle lezioni della maestra Sveta, e si rincantucciava in un angolo a disegnare paesaggi che poi non faceva vedere a nessuno.
            Tra questi, relativamente ingenui, ce n’erano anche alcuni che Larse, prima di presentarsi a casa delle Abramovich, non aveva avuto l’accortezza di nascondere altrove: all’ultimo momento, non riuscì a sottrarli allo sguardo della nuova insegnante, che li levò con disinvoltura dalle sue mani per sottoporli a un esame che riguardò, per fortuna, il solo aspetto tecnico:
             -“Per fare un buon nudo maschile”- argomentò Shlomit, regolando i faretti sul tavolo da lavoro, per osservare meglio mentre Larse avvampava in silenzio -“bisogna fare molta attenzione al chiaroscuro. Guarda qui, per esempio”- e insisteva per mettergli sotto a un naso un disegno che ritraeva Indaco come mamma l’aveva fatto -“la prima domanda che ci dobbiamo sempre porre, è da dove proviene la luce. Se viene da sinistra, dovremo ombreggiare a destra, per dare più risalto alle linee del corpo”-
            -“Sì, signorina”-
            Sprofondando nell’imbarazzo, Larse Kruse si domandava piuttosto dove fosse la porta: non ricordava più se era a destra o a sinistra di quel tavolo immerso in una luce cruda da sala operatoria, che scopriva i suoi segreti uno dopo l’altro. Nel vuoto assoluto che la sua mente registrava in quel momento, desiderava soltanto scomparire al più presto.
            Per sua fortuna, almeno quel primo giorno Shlomit pareva indifferente ai motivi che lo avevano spinto a concentrarsi sempre sullo stesso soggetto. Più attenta a verificare la padronanza tecnica da parte del suo allievo, quando venne il momento di esaminare i disegni che avevano già attirato l’attenzione di suor Diletta, Shlomit non batté ciglio di fronte a quegli spettri di bambini in un parco di aghi acuminati, né alla fantasia di Indaco che giaceva morto o dormiente, vegliato dall’amico:
            -“Qui ci siamo, carissimo, ci siamo per davvero. Hai talento per il fumetto, e io ti suggerisco  di concentrarci su quello”-
            Se c’era una cosa che Larse considerava lontanissima dall’arte, questo era il fumetto: una volta messi da parte i giornaletti della sua infanzia non ne aveva più letto uno, infastidito dalla semplicità dei contenuti, dal tratto grossolano e privo di profondità. Non aveva mai approcciato il fumetto d’autore, ma quando Shlomit gli pose dinanzi un grosso albo intitolato “Il Castello”, che attraverso una sequenza di immagini visionarie sviluppava su tavole il romanzo di Kafka, la sua espressione passò dallo scoraggiamento al rapimento più assoluto:
            -“Voglio imparare anch’io a disegnare così”- gli scappò detto, in un mormorio che doveva essere solamente per sé. Anche Shlomit era affascinata da quel tratto deciso, rigorosamente in bianco e nero, che attraverso un uso sapiente del tratteggio delineava l’atmosfera claustrofobica di un piccolo paese sepolto dalla neve, su cui incombeva la sagoma di un castello inaccessibile
            -“Ogni autore ha il suo stile”- spiegò, senza distogliere lo sguardo dalle tavole -“questo, in particolare, appartiene a un autore persino più misterioso delle opere che realizza. Di lui si sa solo il nome, o meglio si conosce soltanto la firma: si chiama Herre Halvorsen, del resto non si sa altro”-
            -“Nessuno l’ha mai visto?”- domandò Larse, soggiogato.
            -“Frequenta di rado le rassegne d’arte, persino quando si espongono le sue opere. Detesta farsi fotografare, le sue foto si contano sulla punta delle dita e di rilasciare interviste non se ne parla proprio. In compenso, fa spesso da giudice ai concorsi per i giovani. Tra pochi mesi, ad esempio, ce ne sarà uno importante”-
            -“Potrò partecipare?”-
            Shlomit rise, lieta di essere riuscita a gettare l’esca:
            -“Vedremo. Intanto dobbiamo imparare alcune tecniche di base”-
            -“Imparerò tutto, maestra!”- assicurò Larse Kruse, con l’entusiasmo di un giovane eroe.
            D’un tratto aveva dimenticato il suo travaglio per Indaco Hansen: il suo unico desiderio, da quel momento in poi, divenne poter partecipare a quel concorso di cui non sapeva nulla, e se possibile vincere. Soprattutto, fantasticava di incontrare quel misterioso Herre Halvorsen di cui sapeva ancor meno, e che da quel momento iniziò a frequentare molto spesso i suoi sogni.
 
******
 
            Quando Indaco era stato ammesso ai corsi di danza del Teatro dell’Opera, lasciando di fatto la scuola e tornando al paese la sera tardi e soltanto per buttarsi sul letto in un sonno di sasso, Larse si era sentito un poco più solo: quando poi, alla fine delle vacanze estive, il suo unico amico nonché oggetto di infiniti sogni e disegni si trasferì definitivamente nella capitale, Larse sperimentò per intero l’angoscia dell’abbandono.
            Quando ci si innamora si spera sempre qualcosa, e anche se sapeva di non potersi attendere nulla dal suo unico amico, separarsi da Indaco fu un altro vetro infranto nella fragile personalità di Larse Kruse.
            A scuola, divenne ancora più introverso e arroccato dietro alla trincea del banco: entrambe le orecchie del Professore in patchwork risentirono, in quel periodo, degli effetti di un’afflizione che non poteva essere confidata a nessuno. Dei suoi tormenti, Larse non faceva parola: si era votato al silenzio più assoluto, e parlava soltanto quand’era interrogato da suor Diletta. Quanto al resto, in classe come a casa passava il tempo chino sui fogli da disegno.
            Il giorno della partenza, aveva accompagnato Indaco alla corriera senza guardarlo in faccia, fissando solamente il marciapiedi che scorreva sotto ai suoi passi, dell’identico grigio del cielo basso di pioggia. L’autunno incominciava presto da quelle parti, già col rigore e il buio dei mesi più freddi. Dentro di sé percepiva un dolore che lo pungeva ovunque, mentre a braccia conserte, nel tentativo di mantenersi in piedi senza svelare niente, salutava Indaco Hansen come se dovessero rivedersi il giorno seguente.
            Con quell’atteggiamento gelido e indifferente, intendeva punirlo per la sua decisione di andare a vivere altrove: ma la curiosità e l’entusiasmo di iniziare un altro anno all’Accademia, rendevano Indaco Hansen impermeabile a qualsiasi senso di colpa.
            La decisione di permettere a Indaco di andare ad abitare da solo in città, non fu presa con leggerezza da nonna Mette: durante tutto il primo anno il ragazzo aveva fatto vita da pendolare, con sveglia all’alba e due ore in corriera per essere puntuale alle otto e mezza in sala prove. Spesso, durante il viaggio, Indaco si addormentava: con il rischio, all’andata, di essere svegliato di soprassalto dall’autista - Nureyev, capolinea! - e di dover attraversare mezza città, perdendo e riacchiappando la strada più volte, prima di approdare sano e salvo in Teatro.
            Al ritorno, nessuno si pigliava la briga di svegliarlo per tempo su quel convoglio affollato di pendolari esausti, reduci da otto ore rumorose di fabbrica: col risultato che spesso nonna Mette era costretta a disturbare i vicini per un passaggio in auto, per andare a recuperarlo in qualche borgata dispersa nella nebbia della pianura. Arrivata alla stazione delle corriere, trafelata e con le gambe che le scoppiavano, lo trovava di solito al calduccio nella guardiola degli autisti, che l’avevano preso sotto alla loro ala pensando, inizialmente, a un bambino scappato di casa.
            Nel paese di Tabt, spesso era il signor Nillson, che ormai lo conosceva, a telefonare a casa alle dieci di sera:
            -“Abbiamo qui la stella della danza, signora. Lo viene a prendere lei, oppure domattina lo carichiamo sulla prima corsa per Copenhagen?”-
            Angosciata, la nonna domandava anzitutto se Indaco stesse bene:
            -“Meglio di me e di lei, che siamo ancora in piedi a quest’ora: ha bevuto tutto il caffè dei nostri thermos, ha svuotato il distributore di merendine, adesso dorme come se fosse nel suo letto. Dia retta a me, signora: ci pensiamo noi a caricarlo domattina in corriera”-
            A Fundet, il capostazione era una donna. La signora Birgit era una mamma di quattro figli che non si faceva nessun problema ad accoglierne uno in più nella sua guardiola:
            -“Buonasera, frue Mette. Ho qui il suo piccolo Nureyev, che ha sbagliato fermata. Se crede, lo tengo a dormire da noi, domani provvedo io a preparargli la colazione e a metterlo in carrozza”-
            A seconda di chi chiamava, Mette sapeva sempre dove era andato a finire il nipote. Alla fine, decise di appoggiarsi a quella rete improvvisata di aiuto, gentilmente fornita dalla compagnia dei trasporti: pur non sentendosi del tutto tranquilla nel sapere che Indaco trascorreva la notte sulla brandina di un gabbiotto dove chiunque, in teoria, avrebbe potuto entrare.  
            Soltanto dopo l’incidente della caduta, Indaco aveva cominciato a rientrare puntuale, perché la preoccupazione lo teneva ben sveglio durante tutto il viaggio: era però sempre scostante e irritabile, evenienza dovuta, secondo nonna Mette, a un eccesso di stanchezza.
            Non senza ripensamenti, e previa autorizzazione dell’assistente sociale, la nonna decise infine di metterlo a pensione presso un’affittacamere a Copenhagen.
            Fu così che Indaco Hansen, a tredici anni compiuti, si trasferì a vivere da solo nella grande città. Là avrebbe potuto frequentare anche i corsi serali di una scuola che si trovava a due passi dal Teatro, sì da non diventare, secondo un’espressione azzeccata di suor Diletta, un somaro da ballo.
            La buona suora gli aveva certificato la frequenza da privatista per tutto l’anno scolastico, impegnandosi a dargli qualche ripetizione nei fine settimana: ma era chiaro che quelle lezioni frammentarie, durante le quali Indaco - tanto per cambiare - spesso si addormentava per tutta la stanchezza che si portava dietro dall’Accademia, non erano sufficienti a garantirgli un livello d’istruzione sufficiente.
            Indaco aveva accolto la notizia con la spinta felice propria della sua età.
            Al termine del suo primo anno in Accademia, poco prima delle vacanze era stato chiamato in Direzione: alla presenza della Madame Grisi, gli era stata offerta la possibilità di partecipare, l’anno seguente, a lezioni supplementari con la classe maschile, e di avere una piccola parte in un balletto che sarebbe andato in scena l’estate successiva.
            Ancora frastornato, Indaco aveva abbracciato la vecchia maestra: nello slancio, l’aveva sollevata da terra facendole fare mezzo giro per aria. Oltre alla tempra inossidabile, della sua giovinezza Madame conservava la levità di un passero: a Indaco era sembrato di sollevare in volo uno di quegli uccelletti che ogni primavera cadevano dai nidi, e per i quali lui e Larse approntavano dei pronto soccorso in miniatura con scatole da scarpe e stuzzicadenti per steccare le ali, fino al momento di lasciarli di nuovo liberi di librarsi in un soffio.
            -“Mettimi giù, turista! Un po’ di rispetto per questa povera vecchierella!”- Madame in realtà rideva, felice di constatare che le sue previsioni relative al talento di Indaco Hansen si erano rivelate assolutamente fondate. Una volta tornata con i piedi per terra, l’aveva minacciato con la bacchetta:
             -“Stai attento, turista! Sarò io a organizzare tutto quanto il balletto, ruoli e coreografia e persino i costumi: metterò becco su tutto, per cui sta’ in gamba e sveglio, perché adesso si inizia a lavorare sul serio!”-
            -“Molto bene, Hansen”- si era intromessa a quel punto la direttrice, una donna minuscola che reggeva a stento sul lungo naso un enorme paio di occhiali -“quindi dall’anno prossimo avrai con noi un impegno raddoppiato. Per formalizzare il tutto, ci occorre solamente sottoporti alla solita visita d’idoneità. Anche perché dal tuo fascicolo non risulta la certificazione dell’anno scorso”-
            Emofilia A di grado moderato: questa era la diagnosi stilata dal pediatra quando Indaco aveva poco più di due anni. Da allora, erano stati fatti controlli annuali i cui esiti erano conservati con cura da Mette, in fondo a quel famoso cassetto di biancheria dove Indaco, con la medesima diligenza ma con ben altro intento, aveva sotterrato la richiesta di analisi del medico del Teatro.
            Fu Indaco stesso a riesumarla dopo avere parlato a lungo con Jens, quel ragazzo alto e piantato che pareva una quercia giovane, simile a quella che cresceva nel cortile ampio dell’Accademia: e che, in mancanza d’altre piante vicine, con gli anni s’era allargata a occupare tutto lo spazio, forte nei rami e folta al punto che là sotto, durante i giorni di pioggia, non cadeva una goccia. Di quella quercia che sollevava con la potenza delle radici il selciato che la stringeva, Jens possedeva la padronanza della scena, la stessa ampiezza di braccia a cui si aggiungeva l’estensione del salto: tutto sembrava quel ballerino formidabile, tranne che un invalido non idoneo a danzare.
            Così pensava Indaco mentre lo contemplava in religioso silenzio, non più nascosto dietro al filo della porta ma finalmente ammesso nella sala dei grandi, all’inizio in virtù di quell’amicizia, in seguito per prendere parte alle stesse lezioni.  
            A Indaco, che conservava ancora la leggerezza da giovane pioppo dalla sua infanzia, e non aveva ancora cominciato la crescita poderosa dell’albero adulto, il vigore di Jens pareva una promessa: era la prova certa che con quel male, fosse di tipo A, B o di qualsiasi altra lettera dell’alfabeto, si poteva non solo convivere, ma addirittura diventare un’étoile.
            Essere come Jens, divenne un’urgenza. Condividere con lui una fragilità da vincere divenne quasi un segno di predestinazione, un motivo segreto di vanto.
            Fu quindi con stupore che, dopo essersi sottoposto agli esami già richiesti all’indomani del suo infortunio, e messi di nuovo come un bastone tra le ruote all’inizio del secondo anno di corso, si ritrovò in mano un referto che in base ai dosaggi di un misterioso fattore VIII, e ai conseguenti gravi rischi di emorragie, sconsigliava di intraprendere alcune attività elencate in allegato, tra cui figurava la danza.
            Indaco si sentì crollare il mondo addosso.
            Per sua fortuna, la nonna non aveva fatto in tempo a leggere l’allegato: appena fuori dall’ambulatorio del paese, dove Mette aveva ritirato per lui i risultati, Indaco le aveva cavato la busta dalle mani, con la scusa di doverla consegnare il giorno stesso in Direzione:
            -“È un controllo normale, che fanno fare a tutti”- rassicurò la nonna e se stesso, deciso a far prevalere a tutti i costi il suo desiderio -“e comunque qui è scritto che i valori sono a posto”-
            L’allegato era stato il primo a sparire, in mille pezzi gettati nell’immondizia - il più in fondo possibile, per sicurezza - non appena Indaco si ritrovò da solo.
            Quella stessa sera si era presentato a casa di Larse, e l’aveva convinto a rimaneggiare l’esito con l’aiuto di pennini e solventi, in modo da eliminare, sulla carta e una volta per tutte, ogni possibile ostacolo tra lui e la danza.
            -“Sei matto? Vuoi farmi falsificare un documento?”- aveva risposto Larse, mentre l’ansia già superava la gioia di trovarselo davanti improvvisamente. Non era venuto per lui ma per ottenere qualcosa, per di più qualcosa che gli pareva illegale: l’amico era deluso, ma non poteva sottrarsi al potente magnetismo di Indaco Hansen, al dominio del fascino che lui stesso gli aveva attribuito in tutti quegli anni di sogni e di ritratti.
            -“Soltanto tu puoi aiutarmi, små mus”- lo aveva blandito Indaco, del tutto inconsapevole di quale piaga andasse a stuzzicare la sua semplice vicinanza, ma anche convinto che per lui Larse Kruse avrebbe fatto qualsiasi cosa, in nome dell’amicizia -“andiamo, si tratta solo di numeri”-
            -“Anche i numeri sono importanti”- aveva temporeggiato Larse, cercando di tenere a bada le sensazioni che la prossimità di Indaco Hansen gli suscitava -“e se tu fossi rimasto a scuola con noi…”- stava per dire con me -“…di certo lo sapresti”-
            -“Anche nella danza i numeri sono importanti. Aiutano a seguire il ritmo. È questo numero, invece, che non serve a niente, anzi potrebbe impedirmi di danzare per sempre. E allora sarebbe solamente colpa tua”-
            -“Colpa mia? Ma che dici?”-
            A questo punto Indaco l’aveva supplicato:
            -“Ti prego, fai questo per me. Non ti chiederò mai più niente”- e Larse, come un automa, fece precisamente quello che l’oggetto dei suoi desideri gli aveva richiesto. Utilizzando i suoi solventi da disegno aveva sciolto la stampa dei parametri alterati. Di seguito, in punta di pennino e d’inchiostro li aveva ricondotti nei limiti della norma.
            Ultimato il lavoro, continuava a sentirsi con la coscienza sporca:
            -“Ma sei proprio sicuro di non rischiare niente?”-
            Indaco aveva riso:
            -“Guardami un po’, små mus, e dimmi se ti sembro così malandato”-
            Di guardarlo dritto in faccia, proprio non se ne parlava. In sua presenza, Larse non levava lo sguardo al di sopra dei piedi, come se avesse timore di rimanere incenerito dall’incandescenza che emanava Indaco Hansen: e solo quando l’amico era a debita distanza si lasciava andare alle sue improbabili fantasie, altrettanto roventi.
            Dal canto suo, Indaco aveva accennato a una mezza piroetta, poi improvvisamente aveva afferrato Larse, alla stessa maniera e con la stessa leggerezza che aveva adoperato con la Madame Grisi: l’aveva sollevato, e poi al momento di rimetterlo a terra l’aveva stretto a sé.
            Da parte di Indaco Hansen, in quell’abbraccio c’era solamente la gioia di sapere che l’ultimo scoglio che si era frapposto tra lui e la danza era stato aggirato: se c’era riconoscenza nei confronti dell’amico, veniva molto dopo. Di affetto d’altro genere, dal più blando al più equivoco, non c’era alcuna traccia. Persino l’amicizia che aveva sempre nutrito nei confronti di Larse, stava ormai per diventare un ricordo, esattamente come i lunghi pomeriggi trascorsi da bambini, seduti sui vasini e a giocare in cortile: ormai c’era la danza, c’era il secondo anno di corso all’Accademia, c’era la prospettiva di lezioni supplementari con la classe di Jens. C’era il trasferimento nella grande città, dove all’impegno quotidiano con l’Accademia si sarebbe sommato quello della scuola serale. Come aveva auspicato Jens, Indaco era cresciuto: ormai non c’era più tempo per le stupidaggini da bambini, per l’affetto melenso del suo amico d’infanzia, non c’era tempo per altro che non fosse la danza.
            Per questo quando Larse, interpretando l’abbraccio alla sua maniera, si lasciò andare a baciarlo su una guancia, Indaco reagì malamente: se lo levò di dosso spingendolo via con forza, dicendogli le peggiori parole che potessero uscirgli di bocca:
            -“Perché non cresci, Larse? Non siamo più bambini e non si baciano gli uomini, è roba da finocchi”-
            Lo disse con un disprezzo esasperato da troppe cose: le frecciate maligne delle compagne di corso, le smorfie di compatimento che troppo spesso vedeva spuntare sulle facce quando si presentava e diceva che sì, studiava danza classica. Al punto che, ultimamente, quando gli capitava di conoscere gente nuova, non faceva parola dei corsi e dell’Accademia.
            Chi non amava la danza, non avrebbe mai potuto capire.
            Larse lo vide allontanarsi con le sue analisi falsificate sottobraccio, scrollando la testa senza neanche un saluto, senza neanche voltarsi. Restò a guardarlo mentre scendeva le scale maleodoranti del condominio con la grazia consueta, che non gli veniva meno neppure quand’era alterato: e poi uscire libero nell’aria della sera, quasi senza toccare terra per quella sua invincibile leggerezza, e sempre senza un sorriso.
            Malgrado la sua paura istintiva del buio, quando la luce delle scale si spense Larse rimase a lungo fermo sul pianerottolo, ripensando al sapore della pelle di Indaco che avrebbe alimentato i suoi sogni a venire, e cercando di cancellare un dolore che cominciava a infilarsi sotto la pelle e a far male: ciò che più gli bruciava era la sensazione di essere stato usato, tra l’altro per ottenere qualcosa che a Larse non era neppure chiaro, quanto meno sul piano delle possibili conseguente.
            Forse anche per questo sentiva crescere dentro di sé un senso oscuro di panico, un’inquietudine che non sapeva dove sarebbe andata a parare.
 
******
 
            La vecchia corriera s’era scrollata lentamente dal piazzale, destandosi dal sonno con uno sbadiglio di ferramenta arrugginita per poi filare via liscia, ingoiata senza rumore dalla nebbia dell’orizzonte. Dopo la partenza di Indaco Hansen le giornate si erano fatte sempre un poco più corte, grigie e prive di luce, incamminandosi anch’esse lente verso l’inverno.
            Il mondo si era spento attorno a Larse Kruse, ma non era soltanto un fatto di stagione.
            Gli unici colori in grado di restituire vigore a quell’autunno, in cui i giorni si staccavano come foglie e cadevano senza rumore, Larse li ritrovava nello studio di Shlomit Abramovich: sulle poltrone morbide in cui sprofondava in attesa che arrivasse l’insegnante, avvolto dal tepore friabile dei biscotti e del thè allo zenzero e latte, e i fasci di luce che provenivano dalle lampade sparse un po’ dappertutto.
            Attorno alle poltrone c’erano semplici abat-jour basse e panciute, più adatte in realtà a una stanza da letto: col paralume a cono che schermava i riflessi, lo aiutavano a rilassarsi conciliando anche il sonno. C’erano poi i faretti che Shlomit accendeva sul tavolo da lavoro, con la loro luce raggiante e senz’ombre: capace di cacciare anche dal cuore triste di Larse ogni altro pensiero che potesse turbare la concentrazione necessaria al disegno.
            Trafficando nella cucina minuscola come un grosso uccello che salti da un trespolo all’altro, la vecchia Leah Abramovich iniziava a preparare il suo thè allo zenzero e latte all’una e mezzo precise, quando alla scuola di Larse suonava la campanella che segnava la fine di un altro giorno di lezioni.
            S’era messa addirittura una sveglia delle sue, di quelle che all’ora esatta esplodevano in un concerto di schiamazzi a cucù, per esser certa di preparare per tempo e offrire a quel ragazzo, che sembrava covare qualche pena nascosta, il sapiente conforto di una bevanda calda e aromatica.
            Frue Abramovich sapeva che non c’era niente di meglio di una tazza bollente per rinsaldare gli animi, e ristorare già che c’era anche i corpi intorpiditi da quell’autunno particolarmente gelido: ma era soprattutto ai rigori interiori che era dedicato quel thè al latte e zenzero, accompagnato da un’infornata di biscotti che la buona vecchia portava personalmente a Larse, affrontando col suo passo d’uccello in volo i tornanti che dalla cucina portavano allo studiolo.
            Ben presto, quell’angolo di mondo divenne per Larse Kruse un luogo di conforto, in cui si sentiva più a suo agio che a casa: qui non c’era sua madre, che ritornava sempre stremata dalla fabbrica, non aveva tempo per nulla ed era praticamente soltanto di passaggio tra un lavoro e l’altro;
non c’erano i fratelli che si scapricciavano a piangere, a bisticciare e a darsele di santa ragione, sollevando tempeste dentro al ditale d’acqua di quei pochissimi metri quadri d’appartamento; non c’era soprattutto il pensiero di Indaco, che ritornava puntualmente a visitarlo come un incubo nelle ore di solitudine.
            Immerso nel silenzio del piccolo studio, reso ancor più profondo dal fruscio della pioggia che lo circondava come un’isola in mezzo al buio, Larse usciva dal mondo esattamente come, solo mezz’ora prima, era uscito da scuola: appollaiato sullo sgabello girevole, sotto allo sguardo attento di Shlomit Abramovich e quello meno rassicurante di Accidenti, Larse entrava nel regno del fumetto e dell’inchiostro, delle vignette da allestire sulle tavole, delle trame e dei personaggi - e fino a sera, per lui, non esisteva nient’altro.
            Con la supervisione attenta di Shlomit, sviluppò un fumetto articolato su quattro tavole che raccontava una versione di Scarpette rosse persino più tetra e angosciante di quanto già non fosse l’originale: nella trasposizione di Larse, i calzari stregati che costringevano il malcapitato a danzare fino alla morte erano un semplice paio di scarpette da salto, del tipo che indossavano i ballerini e che Indaco aveva calzato la prima volta alla scuola della maestra Sveta, sperimentando l’insolita sensazione d’essere a piedi scalzi:
            -“Ma che scarpe sono queste, sembra di stare senza”- s’era stupito all’epoca, gironzolando avanti e indietro sul legno grezzo dell’aula di lezione, per poi iniziare a correre, saltare e volteggiare come se quelle scarpe del tutto inconsistenti gli mettessero le ali ai piedi. Da quel momento, Indaco aveva cominciato a danzare e non s’era più fermato, esattamente come il protagonista della storia di Larse: anche questi era un giovane che pur essendo affetto da una grave malattia si ostinava a ballare, trasferendo alle scarpe, insieme col sudore e l’attrito dei muscoli, una frenesia che in breve si era trasformata in incantesimo. Dopo la sua morte, provocata da quel desiderio che l’aveva consumato fino allo sfinimento, fino a che si era spento come un moccolo di candela annegato nella cera, le scarpette s’erano intrise a tal punto della sua follia e del suo sangue, che smaniavano anch’esse di continuare le piroette, per condurre a una fine orribile qualcun altro.
            Le scarpette erano rosso vivo, e parevano fatte apposta per attirare l’attenzione  degli incauti che le avrebbero indossate fino a morire: rosse per la passione e scarlatte per il sangue che avevano assorbito dal primo proprietario, e non c’era verso di farle tornare bianche, come tutte le scarpine da salto che si rispettino. Neanche in candeggina, e neppure a strofinarle con tutti i solventi del mondo ritornavano candide: non solo, ma a contatto con qualsiasi detergente quelle scarpe diaboliche iniziavano a far scintille, e a levare fiamme così feroci e alte che neppure a volerle accendere nel camino sarebbero venute su meglio, e neanche all’inferno avrebbero bruciato con maggiore entusiasmo.
            La storia terminava con un finale aperto: durante una tranquilla passeggiata pomeridiana, un bambino vedeva le scarpette nella vetrina di un negozio, e riusciva a convincere la nonna a comprarle.
            Incuriosita dal fatto che nel volto del ballerino e di tutte le altre vittime delle scarpette rosse ritornavano sempre gli stessi lineamenti, lo stesso viso dolce che aveva visto più volte nei ritratti di Larse, Shlomit Abramovich aveva sottolineato la necessità, per un disegnatore, di variare un po’ i tratti per evitare di confondere i personaggi.
            A quell’osservazione, peraltro formulata nel tono più conciliante, Larse si era incupito e le aveva risposto con una parolaccia, sfuggita a mezza voce nel tentativo di riprenderla indietro subito: era un’oscenità di calibro così grosso che avrebbe fatto saltare la parrucca e probabilmente anche le penne alla vecchia Abramovich, se solo si fosse trovata a passare per di là.
            Per fortuna, frue Leah stava trafficando in cucina, e comunque era sorda più di tutte le campane del mondo: ciò non cambiava il fatto che quell’enormità sfuggita di bocca a Larse era parecchio strana, come sentir bestemmiare il rabbino allo shabbat.
            Stupefatta, Shlomit aveva provato a informarsi:
            -“Ma questo ragazzo che tu disegni dappertutto, è per caso un tuo amico? Qualcuno che conosci? Oppure è solo un modo per disegnare i volti?”-
            Colto nel vivo, Larse si era chiuso a riccio:
            -“È importante saperlo?”- aveva risposto, secco.
            Shlomit capì che, al momento, era meglio far marcia indietro:
            -“La mia era solamente curiosità”- soltanto dopo si rese conto che di fronte a quel ragazzo riservato, in grado di cambiare faccia improvvisamente per via di qualche pena segreta, s’era sentita addirittura in soggezione.
            -“In realtà, non è niente”- aveva tagliato corto Larse Kruse -“anzi, non è nessuno”-
            Con Shlomit, che pure rappresentava la sua ancora di salvezza in un mare agitato in cui tutte le onde, tutti i flutti recavano le sembianze di Indaco protese nel salto, avvolte su se stesse in una piroetta, distese a terra in esercizi di allungamento, Larse non parlò mai dei suoi tormenti segreti: molto semplicemente, aveva deciso che a Indaco non era consentito superare la soglia di quello studio che era l’unico luogo in cui le sue angosce trovavano uno sfogo, e in cui riusciva a sentirsi sereno e persino forte, almeno per qualche ora.         
            Ricacciato durante il giorno in un angolo della memoria, con tanti giri di chiave che neanche frue Abramovich avrebbe potuto far meglio, quando a sera chiudeva la porta alle sue spalle con una tempesta di chiavistelli e catenacci, l’immagine di Indaco tornava puntualmente a visitarlo in sogno: e come nei disegni che Larse realizzava, paziente, durante il giorno, quelle nebbie notturne prendevano la forma delle belle spalle di Indaco, dei suoi capelli corti che stavano su come aghi, bagnati di sudore; dei suoi lividi sparsi sempre un po’ dappertutto, dei grandi occhi che non vedevano altro se non i movimenti riflessi nello specchio della scuola di ballo.
            Quegli occhi limpidi e attenti, collegati solo alle orecchie per seguire la musica, non badavano a niente e tanto meno a lui: al centro della sala, riempita interamente della sua presenza ricca di tensione e talento, Indaco controllava la sequenza dei passi con una concentrazione totale.           
Anche lui, nel suo mondo, non lasciava entrare nessuno: a malapena ci entravano l’insegnante di danza, i compagni che interagivano con lui in qualche coreografia, ma Larse era escluso e non c’erano sconti, eccezioni o pietà.
            Con Scarpette rosse, Larse partecipò a un concorso nazionale per ragazzi dedicato al fumetto. Insieme alla sua insegnante, e per la prima volta, salì anche lui sulla corriera per Copenhagen: durante il viaggio di andata, seduto accanto a Shlomit che con la grazia delle sue gonne sovrapposte occupava da sola due posti e lo stringeva in un angolo, Larse pensava a Indaco con tanta intensità che più di una volta gli sembrò di riconoscerlo in qualche passeggero addormentato sui sedili più avanti, o che saliva o scendeva alle fermate intermedie. Ormai aveva deciso: al momento opportuno, e a costo di dover dare tutte quelle spiegazioni che aveva sempre evitato, avrebbe chiesto in prestito a Shlomit il telefono, quell’arnese ultrapiatto che spesso aveva visto tra le unghie laccate di rosa della maestra. Avrebbe provato a contattare l’Accademia: meglio, poteva chiedere a Shlomit di accompagnarlo direttamente in Teatro, una volta terminato il concorso.
            D’un tratto non gli importava più nulla della gara: man mano che si avvicinava alla capitale cresceva il suo desiderio di rivedere Indaco, e più lo desiderava più lo vedeva ovunque, nei volti delle persone che affollavano la corriera e nella sua memoria, in ricordi che neppure sapeva di avere conservato, e che invece d’un tratto ritornavano tutti in massa ad assediarlo: così rivedeva Indaco allungato in verticale contro al muro della classe, coi piedi arcuati sulla cartina geografica, che a forza d’essere infastidita da quel solletico gli era caduta addosso; Indaco sulla neve, nelle giornate in cui s’erano abituati a uscire sfruttando la passerella di ghiaccio che scendeva dal davanzale della finestra, fino in cortile; Indaco coi cristalli di ghiaccio tra i capelli, Indaco con i lividi presi contro agli spigoli, perché fin da bambino aveva sempre una musica che suonava incessantemente nella sua testa, e quando si muoveva badava solo a quella e neanche si accorgeva di dove andava a sbattere: per lui il mondo era un palcoscenico per la danza, dove non c’erano mobili, né ostacoli di sorta, né referti di analisi in grado di fermarlo. E lui, Larse Kruse, che lo amava da sempre proprio come l’amico era pazzo per la danza, con la stessa intensità e il medesimo desiderio, lo aveva disegnato con le scarpette rosse in un lago di sangue un po’ per vendicarsi: ma anche perché nutriva un brutto presentimento, e pensava che forse fissarlo sulla carta bastasse a scongiurarlo, e a impedirgli di diventare realtà.
            Larse Kruse pensava, più veloci i suoi pensieri del ritmo sonnolento, dondolante della corriera: eppure la corriera riuscì ad arrivare al Palazzo delle arti di Copenhagen prima che lui riuscisse a trovare il coraggio di chiedere a Shlomit il telefono in prestito, oppure di accompagnarlo al Teatro dell’Opera.

 
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