Questo
saggio è parzialmente autobiografico.
Descrive
i miei tentativi, nel corso degli ultimi anni, di trovare un modo soddisfacente
è incompleto, nel senso che non posso certo affermare di aver già trovato, o
che mai troverò, risposte definitive alle domande che mi assillano.
Infatti,
se una delle conclusioni principali di ciò che espongo è qui è che i fini o gli
obiettivi non sono che delle pietre miliari lungo un percorso, questo deve
valere anche per il mio stesso pensiero e per la mia scrittura, come per tutto
ciò che la gente fa. L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e
finisce lì, ma che continua sempre.
-Tim Ingold
Non finito come risoluzione ultima
dell’identità dell’artista
Solitamente
le introduzioni vanno scritte dopo aver definito il resto del testo.
Magari dopo aver definito il genere, la trama, la struttura del testo
stesso, ma non avendo un vero e proprio testo in quanto sto scrivendo questo
proemio ben prima di aver scritto una singola parola, posso già dire di esser
partito male.
Quando
Machiavelli scrive i discorsi sulla prima deca di Tito Livio, scrive quello che
poi sarebbe stato un "non finito". Non è del tutto chiaro se fosse
una cosa volontaria: sia per una questione logistica, dato che il testo si basa
su una serie di testi di natura frammentaria dato che ci pervengono solo alcune
parti del manoscritto originario, sia perché, si presume, il Nick avesse
bisogno di finire quel lavoro.
I
discorsi sono una serie di ragionamenti scritti senza un particolar Labor
Limae, senza una struttura basata su degli eventuali precedenti di genere
letterario, in quanto erano chiaramente un’avanguardia che Machiavelli
proponeva, e risultano pieni di contraddizioni, disuniti, senza un fine
chiaro.
Il Nick propone un nuovo genere letterario per una nuova teoria politica:
questo è indubbio e la teoria stessa rappresenta la validità dell'opera, ma
dopo anni di lavoro, a seconda del critico di riferimento ci saranno date di
scrittura diverse che variano anche di decine di anni, Machiavelli ha necessità
di terminare i suoi ragionamenti. Un bisogno fisiologico dell'autore che,
esaurite le idee e la voglia di lavorare su un testo che non permette più
espressione all'autore stesso, sia per una questione di genere letterario, sia
per una questione di predisposizione mentale. Per capire il tipo di avanguardia
che il Nick propone, per metterle sott’ottica più moderna, si può vedere come
le avanguardie musicali di oggi soffrano dello stesso problema: non fanno tempo
ad affinare il loro stile che lo stile stesso muta per diventare qualcos’altro:
è l’unica discriminante dell’indie italiano, del cosiddetto “ITpop”, la possibilità che ci sia
un’avanguardia artistica come fulcro stesso della validità del prodotto, quanto
non l’esperienza dell’artista o la qualità finale dell’opera.
La
critica si scanna su un altro artista contemporaneo al Nick repubblicano, il
Michelangelo.
Michelangelo, che sia per una
questione caratteriale, quindi perché perdeva continuamente interesse nelle
commissioni, o per una questione artistico-espressiva in cui il non finito
diventa veicolo e strumento di espressione artistica, o per una questione
logistica in cui il tempo materiale per completare l'opera non era sufficiente,
quindi si era inventato sta roba del non finito come supercazzola, come farà
poi Duchamp con i baffi alla Gioconda o come quando mise un cesso nel museo, è
diventato famoso grazie al non finito.
Io sono più propenso alla prima
ipotesi, ma per una ragione semplice: il Mike, prima di essere un artista, era
un umano.
In
quanto umano, è plausibile proporre che fosse annoiato dalla vita, che avesse
dei periodi più o meno bui, che sentisse, prima ancora dell'arte, la tristezza.
C'è addirittura qualcuno che ha proposto che potesse avere la sindrome di
Asperger. La continua insoddisfazione, associata all'irascibilità per cui era
quasi famoso, sembrerebbero confermare.
Anche
il signor Da Vinci, a prescindere da tutte le teorie complottistiche che lo
vedono come un alieno, soffriva del non finito. Il Leo diede pochi risultati in
moltissimi campi, saltando come un poeta universale dalla medicina
all'aerodinamica, dalla gastronomia alla scienza dell'elastico delle mutande,
ma alcuni critici, soprattutto quelli a cui frega qualcosa dell'analisi del non
finito, notano come la causa sia, forse, da ricercare nella rincorsa
scientifica che in quel tempo c'era: il nostro amico alieno non riusciva a
definire una teoria sulla luce che arrivavano nuove osservazioni,
osservazioni e ipotesi dall'altra parte
del mondo.
Leonardo soffriva dell'incapacità tecnica di rappresentare quello che
formulava, e non faceva tempo a trovare il modo di formularla che già aveva
perso la voglia di pensare perché qualcun altro aveva scoperto qualche cosa.
Il
titolo di "insoddisfatto", nel 1517, poteva essere applicato ad uno
scrittore che non riuscì a completare una serie di ragionamenti senza
contraddizioni, ad un'artista che non riuscì a terminare le sue sculture, e ad
uno studioso che non riuscì a terminare i suoi studi. Io posso solo dire che, per demotivazione, mi
son ritrovato a non finire testi per cui ero partito con idee chiare, con trame
unitarie, in cui avevo già delineato anche il finale. Ecco, per evitare di
finire come insoddisfatto in quanto riconosco la pura caratteristica umana del non
finito come strumento espressivo o semplice scusa psicologia, mi propongo
di mai iniziare.
Dico, mai inizierò a scrivere un
testo unitario seguendo canoni letterari predisposti da altri che tanto sono
troppo pigro per portare a termine tutte ste cose.
Preferisco finire un non finito
disunito che un finito privo di limature che ho dovuto finire per essere felice
con me stesso.
Son tutti bravi a finire qualcosa
con una trama ben definita e degli obiettivi chiari, ma di per sé non
rappresentano affatto in modo chiaro i processi mentali di una persona, o gli
obiettivi a dir poco non finalistici di questo testo.
Uno
dei frammenti secondo me più importanti che valida la mia idea di non finito
come unica soluzione possibile per rappresentare al meglio la struttura
dell’evoluzione del pensiero di una persona è tratta direttamente da
Machiavelli, e l’ho scoperta grazie ad una parafrasi di un capitolo del
Principe dell’introduzione a Machiavelli di Emanuele Cutinelli-Rendina: la realtà umana è strutturalmente varia,
mutabile, insicura, perché vari, instabili e insicuri sono e si sentono gli
uomini: e il loro naturale tentativo di contenere e volgere a proprio vantaggio
l’immane potenziale negativo che è in questo dato fondamentale della condizioni
in cui si trovano non fa che confermarla e rimettere continuamente in moto il
flusso della storia.
Il mio grande tentativo è quindi quello di riconoscere perfettamente che ogni
tentativo di rendere immutabile il mio pensiero è vano e non perseguibile, ma
da qui parto per mettermi in discussione e sfruttare una crisi d’identità
oramai perenne per venire a capo di argomenti che io ritengo importanti per lo
sviluppo della mia psiche, e da qui possiamo continuare a dire che il mio è
nulla più che un esempio privo di validità fino a che non si dimostra valido.
Frequentando
un paio di lezioni di Antropologia tenute da un certo Allovio, un professore
che secondo me somiglia molto a Pietro Sermonti, si è evidenziato come in tutte
le identità culturali, tutte le etnie in termini puramente culturali e non
biologici, si fondano sull’autoascrizione alla stessa etnia di alcune
caratteristiche comuni al tuo essere, e che queste caratteristiche, identificate
nel pool delle stesse, dichiarate
essenziali all’etnia, mutano per processi storici.
Come queste caratteristiche mutano, muta l’identità dell’etnia per perdurare
nel tempo. Allo stesso modo, l’identità personale muta per il mutare delle
caratteristiche personali. Un libro che vuole essere l’espressione di un
pensiero diventa quindi un non finito per esigenza, un non finito per
l’impossibilità di esprimere finitezza, già datato e non finito nel momento
stesso in cui diventa parola, in cui diventa espressione.