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Autore: Flos Ignis    26/07/2018    5 recensioni
Prima classificata contest “Shinigami, Alchimisti ed Eroi: A Rapporto!” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp.
Ambientata durante l'anno che precede il Giorno della Promessa.
Jean Havoc ha il corpo e lo spirito spezzato... toccherà ad una giovane infermiera rimetterlo insieme ed evitare che crolli del tutto, ma anche lei avrà bisogno di sostegno per un passato che non riesce a perdonarsi.
Storia di due persone ferite, che rimetteranno insieme i pezzi l'uno dell'altra.
Tratto dal testo:
-Perché tu hai ancora il cuore di un soldato, lo posso vedere guardandoti negli occhi. Ti sei ritirato, rassegnato alla tua condizione, ma i tuoi occhi mi raccontano un'altra storia. Quella di un uomo che sta cercando di ingannare se stesso, ma sai una cosa? Si può mentire su qualunque cosa, fingere che vada tutto bene o di provare ciò che in realtà non si sente. A questo mondo non c'é nulla che non possa essere finto, ad eccezione di una cosa: i desideri. Sono l'unica cosa vera. E tu desideri con tutta l'anima essere ancora il militare che eri e che nella tua anima sei ancora.-
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heymans Breda, Jean Havoc, Nuovo personaggio, Roy Mustang
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A Manto, che mi ha rimessa insieme troppe volte per contarle.





Quel giorno il cielo era di un azzurro abbacinante, privo di nubi, con il sole che splendeva sulla città di East City, crudele come solo la luce poteva risultare.

Perché essa mostrava spietate verità che, al buio, potevano essere ignorate o dimenticate.

Ma poi sorgeva l'alba e il sonno giungeva al suo termine, mentre la veglia riportava alla mente quello che il buio aveva magnanimamente celato.

Da alcune settimane a quella parte, ogni giorno che il Fondatore mandava in Terra Jean Havoc, ex tenente della squadra di Roy Mustang, faceva pensieri simili, annegando nell'inedia che ora pervadeva la sua esistenza.

Le telefonate dei suoi ex compagni, sparsi ai quattro angoli di Amestris, risollevavano il suo spirito appena per qualche minuto, sufficienti a convincerlo ad alzarsi ogni mattina, ma non abbastanza da rallegrarlo davvero per il sole caldo, il cielo azzurro e la vita semplice che stava conducendo nell'emporio dei suoi genitori.

-Jean, é ora di andare all'ospedale!-

Il giovane uomo dai corti capelli biondi non rispose alla dolce voce di sua madre, limitandosi a spegnere il mozzicone di sigaretta che gli pendeva tra le labbra sul davanzale della finestra a cui era stato affacciato fino a quel momento, con gli occhi azzurri persi nella volta celeste.

Poi riportò la mente al presente, facendo muovere la sua sedia a rotelle in direzione del suo appuntamento.

Lo aspettava l'ennesima, snervante, inutile seduta di fisioterapia con quella vecchia megera dell'infermiera Josephine.




Ok. Era diventato invalido, ma non ricordava di avere anche problemi di vista.

Eppure, l'infermiera davanti a lui di certo non era la vecchietta rubiconda dai corti capelli grigi che l'aveva assistito nelle ultime tre settimane.

Lei non poteva avere più di vent'anni, che diamine!

-E tu chi diavolo saresti, ragazzina?-

La giovane si girò, sussultando per la sorpresa e lasciando cadere le garze pulite che stava riordinando nell'armadietto di fronte all'entrata su cui Jean si era bloccato a causa dello stupore. I boccoli scuri le volteggiarono intorno al viso a quel brusco movimento e lui si chiese se fossero morbidi come all'apparenza.

Furono gli occhi però a catturare la maggior parte della sua attenzione.

Sul suo visino minuto spiccavano degli enormi occhi scuri, probabilmente neri, brillanti di una vivacità contenuta e di un'intelligenza acuta.

Il sorriso che gli fece dimostrò anche la sua dolcezza, cosa che contribuì a creare un quadro molto particolare del carattere della giovane vestita con il camice bianco tipico dell'ambiente ospedaliero.

Ma ciò che lo stupì maggiormente fu la replica alla sua, effettivamente piuttosto maleducata, domanda.

-Sono l'infermiera che si occuperà di lei da oggi in poi, tenente Havoc. Trovo piuttosto offensivo che lei mi chiami "ragazzina", mi chiamo Vivian. E fare la sua conoscenza speravo sarebbe stato un piacere sincero per entrambi, ma se lei non cambia atteggiamento temo che dovrò divenire il suo peggior incubo. Mi creda, ne sarei capace!-

E giusto per sottolineare le sue ultime parole, diede qualche leggera pacca alle stampelle e agli strumenti che sarebbero dovuti servire alla riabilitazione delle sue gambe, accentuando il sorriso che non aveva mai vacillato, mostrandogli i piccoli denti bianchi.

E Havoc, che aveva combattuto guerre e si era scontrato con nemici letteralmente sovrumani come gli homunculus, poté pensare solo ad una cosa davanti a quella piccoletta all'apparenza così angelica.

Questa qui é pericolosa... sono nei guai.

Non sapeva ancora quanto avesse ragione. E quanto avesse torto, al medesimo tempo.




Il loro primo incontro non era iniziato proprio nel migliore dei modi, ma dopo un momento di assestamento avevano lavorato abbastanza bene insieme.

I trattamenti per le sue gambe non avevano dato risultati, come al solito, ma le chiacchiere energiche di quella bambolina erano state piacevoli. Aveva decantato a non finire alcune specialità locali che voleva assolutamente provare, essendosi appena trasferita da South City, località storiche che voleva visitare e altre amenità simili che lo avevano distratto dai suoi esercizi, tanto che il tempo della seduta era terminato prima che se ne potesse accorgere.

Forse la sua prima impressione era stata solo tale, solo un abbaglio per le parole minacciose dette con quel dolce sorriso sulle labbra...

Ma avrebbe dovuto fidarsi maggiormente del suo istinto, perché la settimana successiva, quando dovette nuovamente andare in quella maledetta stanza d'ospedale, l'infermiera Vivian lo aspettava con uno sguardo truce in volto come benvenuto.

-Tenente, lei deve assolutamente cambiare registro. Così non andrà proprio da nessuna parte, di certo non senza gambe. E la mobilità non tornerà se lei affronta la fisioterapia con la stessa negligenza e malavoglia della nostra prima seduta.-

Ed ecco scoperto ciò che lei intendeva la settimana precedente con "cambiare atteggiamento"... parlava del suo affrontare la sua invalida condizione, non del comportamento che aveva tenuto nei suoi confronti.

-Cosa puoi saperne tu, signorina? Limitati a fare il tuo lavoro e lascia le tue giovani speranze a chi può guarire davvero, non a qualcuno come me, irrimediabilmente spezzato nel corpo e nello spirito.-

La sua risposta fu fiacca, priva del suo solito carisma e dell'ottimismo che avrebbe provato... prima.

D'istinto alzò una mano per arruffarle i capelli, come avrebbe fatto con una bambina un po' troppo esuberante, ma si accorse troppo tardi che, per quanto lei fosse piccola, lui era comunque impossibilitato ad alzarsi e non riusciva ad arrivare al suo capo riccioluto.

Con un moto di frustrazione chiuse la mano a pugno, stringendo i denti per il nervoso e la vergogna, abbassando lo sguardo sulla coperta che sua madre gli aveva adagiato sulle gambe prima di uscire.

Fu lei a creare un contatto tra loro, ignorando la sua esitazione. Gli pose una mano sul suo pugno, serrato al punto da aver fatto sbiancare le nocche, dandogli una pacca gentile e poi una carezza leggera.

Fece incrociare i loro occhi per potergli parlare dritto in faccia.

Sì, decisamente i suoi occhi erano neri come pozzi senza fondo.

-Siamo tutti spezzati, é così che la luce riesce a entrare in noi, a guidarci fuori dal buio.-

-La luce é crudele, la vita lo é. Tu sei solo una ragazzina, non puoi sapere di cosa parlo. Spero non lo saprai mai, ma...-

-Tenente, la smetta di definirmi "ragazzina", avrà al massimo tre o quattro anni più di me. Sono un'infermiera specializzata in traumi di guerra, per questo ho richiesto di occuparmi del suo caso specificatamente. Dovessi trascinarla su quel corrimano per farla esercitare a forza, le giuro che non intendo lasciarla mollare tutto.-

-Mi hanno detto piuttosto chiaramente che non ho speranze di rimettermi in piedi, perciò proprio non capisco per quale motivo siamo costretti a questa farsa.-

-Perché non é una farsa.-

Vivian si inginocchiò davanti a lui, mettendogli le mani sulle ginocchia coperte dalla spessa lana grigia... ma Jean riuscì comunque a percepire il calore che lei trasmetteva.

-Potrei raccontarle una storia, per farle capire quanto é importante non arrendersi mai, specialmente ai sentimenti nefasti come odio e rassegnazione. Le va di ascoltarmi?-

-Non mi pare ci sia nulla di meglio da fare qui, perciò...-

-Poca ironia, Tenente!-

-Prima che tu inizi a parlare... posso sapere perché continui a chiamarmi col mio grado? Mi sono ritirato dopo... l'incidente. E ti prego, dammi del tu. Non sono tanto più grande di te.-

-Mi stai rubando le battute, Tenente?- lei gli fece un breve sorriso, acconsentendo tacitamente a passare ad una forma più colloquiale.

-Perché tu hai ancora il cuore di un soldato, lo posso vedere guardandoti negli occhi. Ti sei ritirato, rassegnato alla tua condizione, ma i tuoi occhi mi raccontano un'altra storia. Quella di un uomo che sta cercando di ingannare se stesso, ma sai una cosa? Si può mentire su qualunque cosa, fingere che vada tutto bene o di provare ciò che in realtà non si sente. A questo mondo non c'é nulla che non possa essere finto, ad eccezione di una cosa: i desideri. Sono l'unica cosa vera. E tu desideri con tutta l'anima essere ancora il militare che eri e che nella tua anima sei ancora.-

Lui guardò gli occhi ardenti di passione della ragazza davanti a lui, che per il fervore con cui stava parlando gli aveva afferrato la camicia.

Sembrava sapere fin troppo bene di cosa stesse parlando, come se ogni singola parola fosse stata incisa nel suo cuore da un'esperienza diretta. Sembrava così giovane e innocente lei! Eppure una tale empatia non poteva sorgere dal nulla.

-Tu sai davvero di cosa stai parlando, vero ragazzina?-

Gli diede un divertito schiaffetto sul braccio, cercando di nascondere il sorriso che le era sorto spontaneo.

-Ti ho già detto di chiamarmi Vivian, Tenente.-

-Solo se tu mi chiami Jean. Vogliamo continuare con la tua storia prima che l'ora scada?-

Lei lo guardò, improvvisamente indecisa. Sembrava restia ad aprirsi quanto lo era stata prima, ma non riusciva a capirne bene il motivo.

-Un'altra volta, lo prometto. Ora dovresti davvero fare un po' di esercizio, Jean.-




Le settimane passarono e si trasformarono in mesi, Havoc non era fisicamente migliorato, ma il suo umore si era sensibilmente sollevato e avrebbe spudoratamente mentito se avesse negato che il merito andava attribuito alla sua affezionata infermiera.

Le sedute di fisioterapia non erano più il momento peggiore della settimana, ma il momento che Jean Havoc attendeva con ansia, felice di passare un po' di tempo con una personalità tanto sfaccettata come quello della sua nuova amica.

Era anche capitato che si incontrassero fuori dall'ospedale per un caffé, prima o dopo le loro sedute, o che lei capitasse nel suo negozio per fare un po' di spese.

La preoccupazione per i suoi compagni era ancora molto forte e nonostante le loro telefonate servissero a lenire il timore che provava per la situazione spinosa in cui si trovavano ormai da tempo, la frustrazione di non poter essere al loro fianco cresceva a dismisura dopo aver posato la cornetta.

Era capitato che ne parlasse a Vivian ed erano proprio quelli i momenti in cui si accorgeva che aveva iniziato a considerarla davvero un'amica, perché contava su di lei ed ella non si era mai tirata indietro, né dal consolarlo né, tanto meno, dal rimproverarlo in caso di necessità.

Ormai aveva perso il conto dei rimbrotti che aveva subito per la sua scarsa fede negli esercizi di mobilità per le gambe, ma per lo meno lei era stata contenta del fatto che si fosse "scosso di dosso la polvere della ressegnazione", testuali parole sue.

Perché lei aveva avuto ragione: il suo desiderio più grande era tornare con la sua squadra ed essere loro d'aiuto, specialmente perché Amestris stava andando incontro alla sua ora più buia e nessuno, ad eccezione di pochi sfortunati al centro del ciclone, ne era a conoscenza.

A volte la guardava e tremava al pensiero che lei e altri innocenti sarebbero stati coinvolti in quella guerra tra umani e homunculus, ma poi ricordava i suoi sproni e la fiducia immensa che aveva riposto in lui e nella sua divisa, fermamente convinta che un giorno l'avrebbe nuovamente indossata.

Era anche per lei che non si era lasciato andare, che stava cercando un altro modo per aiutare la sua squadra.

-Anche se non puoi essere fisicamente con loro, non significa che non puoi aiutarli. Riflettici bene, perché solo tu sai cosa puoi fare e quando lo avrai capito tutto si sistemerà. Perciò non scappare, non puoi permettertelo finché là fuori c'é qualcuno che conta su di te.-

Quelle frasi si erano indelebilmente incise in lui, diventando motivo di sprono e fonte di coraggio nei momenti di sconforto che minacciavano di sopraffarlo, ma fino a quel momento era sempre riuscito a uscirne fuori con tanta forza di volontà.

E con una buona dose di distrazione, ancora grazie alla sua infermiera e personalissima salvatrice.

Nonostante ogni volta che si erano incontrati le aveva chiesto quale storia avrebbe voluto raccontargli al loro secondo incontro, ancora non aveva scoperto di cosa si trattasse. Lei rimandava sempre, promettendogli che un giorno gliene avrebbe parlato, con un sorriso schivo che tanto si discostava dalle sue solite espressioni allegre.

Quel momento ancora non era arrivato, ma in compenso il Giorno della Promessa era alle porte e lui doveva trovare il modo di metterla al sicuro.

Perché nel suo piccolo avrebbe contribuito alla battaglia, ma voleva essere certo che lei stesse bene. Ma come fare?

Non aveva ancora trovato una soluzione quando, il giorno dopo queste riflessioni, si era preparato per incontrarsi al solito bar con la ragazza.




-Jean? Ti trovo distratto, é successo qualcosa?-

Lui la guardò come non aveva mai fatto, scrutando i dettagli del suo viso che aveva sempre notato, ma mai con una tale nitidezza. Le efelidi sul nasino all'insù, le ciglia lunghe, le sopracciglia sottili, gli occhi enormi e dalle iridi tanto scure da confondersi con le pupille, le labbra fini e di un bel rosa pallido, gli zigomi poco pronunciati coperti da un paio di ciocche scure.

Quel giorno faceva particolarmente caldo, per cui lei aveva raccolto la maggior parte della boccolosa chioma in una coda alta; eccezionalmente, non indossava il camice bianco in cui sembrava vivere, mostrando il corpo piccolo e minuto avvolto in un vestito rosso che le cadeva morbidamente fino alle ginocchia ossute.

La trovò bellissima: non rientrava nella categoria di donne che solitamente cercava, ma era dotata di una certa grazia innata, oltre che di un carattere pepato e insospettabilmente caparbio, dietro i sorriso solari e la dolcezza congenita. Si sorprese a pensare con sincero sgomento che dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme lui non avesse pensato nemmeno mezza volta di tentare un approccio più romantico.

Fino a quel momento, non aveva nemmeno notato quanto la trovasse adorabile e quanto desiderasse proteggerla.

L'invalidità, in fondo, lo aveva reso anche un po' cieco, a quanto pareva.

-Jean?-

-Scusa, mi ero distratto... cosa stavi dicendo?-

Lei fece un sospiro esasperato, prima di assumere un'espressione seria e mettersi a fissarlo negli occhi.

-Sono pronta a raccontarti quella storia, Jean. Sarà il mio regalo per te.-

-Perché un regalo?-

-Un dono d'addio.-

Alzò una mano, bloccando le sue istintive proteste, per poi chiudere un istante gli occhi come a cercare la forza che le serviva per iniziare a parlare.

-Fammi finire senza interrompermi, non é facile. Promettimi di ascoltare fino alla fine, prima di contestare ogni parola come tuo solito.-

Lui fece un piccolo broncio all'ultima insinuazione, ma le fece cenno di aver capito. Rispettò gli istanti di silenzioso raccoglimento della sua amica, aspettando che trovasse abbastanza coraggio da iniziare a raccontargli quella storia che per lei sembrava tanto importante.

-Sai che sono nata a Central City, vero? E che anche mia madre era un'infermiera e che ho ereditato la sua passione, per questo ho scelto questa professione. Non ti ho mai parlato di mio padre perché era difficile, ma ho finalmente deciso di aprirmi con te, perché non posso più stare qui.-

Sembrava indecisa su quale fosse il modo migliore di continuare, per cui Jean intrecciò le dita delle loro mani, cercando di darle forza.

Aveva promesso di stare in silenzio, ma lei era in difficoltà e non poteva non parlare in quel momento. Per cui le rivolse contro le parole che gli aveva rivolto ad ogni incontro in ospedale, in ogni singola occasione in cui aveva imprecato contro la sua invalida condizione e ribadito la totale perdita di tempo di quegli esercizi.

-So che hai paura, é un sentimento umano e come tale del tutto naturale. Ma non puoi ottenere nulla se non la superi. Perciò combattila e vinci. Tutto quello che vuoi é dall'altra parte della paura.-

Lei lo ringraziò con gli occhi, che gli mostrarono una commozione tale da annodarle la lingua per diversi minuti.

Per quanto piccolo, il primo passo é sempre il più difficile.

Poi fu di nuovo pronta a parlare, si schiarì la voce e fece luce su molte delle sue particolarità che tanto avevano intrigato il militare.

-Mio padre era un soldato. Un Maggiore, per l'esattezza, di stanza al fronte contro Creta. Sicuramente tu sai meglio di me che quello é sempre un fronte caldo, per cui mio padre restò lì per molti anni. Ho pochissimi ricordi di lui da piccola, ma quando avevo circa sette anni ottenne un mese di congedo per poter tornare a casa: era stato ferito e necessitava di riposo, per cui visto il lungo e fedele servizio gli era stata concessa una lunga “vacanza”, chiamiamola così. Mamma si era ammalata di tubercolosi nel frattempo, ma era così felice di rivedere papà che persino le sue condizioni migliorarono un po'. Furono giorni sereni, ma poi lui dovette tornare a combattere. Come la sua presenza aveva fatto sentire meglio sua moglie, la sua partenza fu un colpo da cui ella non si riprese più. Morì poco dopo, appena il tempo di poche settimane, in cui a malapena riuscì a muoversi dal letto.-

Vivian chiuse gli occhioni scuri, celando il dolore per quella perdita che non sarebbe mai stata superata del tutto. Jean si morse a sangue le labbra per impedirsi di dar aria alla bocca come era solito fare a causa del nervosismo, ma quello non era proprio il caso di lasciare libera la sua impulsività.

-Non c'era molta gente al funerale. Non c'era nemmeno mio padre, non aveva ricevuto in tempo la notizia per riuscire a tornare, ma in quel momento non lo sapevo. Lo odiai con tutta me stessa per averci abbandonate, per non essere stato presente neanche per dare l'estremo saluto alla donna che aveva sposato. Io venni cresciuta dai miei zii da quel momento in poi, voglio loro molto bene e ho un debito di gratitudine che non potrò mai colmare. Ma accanto a questi sentimenti, provo anche un gran senso di colpa.-

Le lacrime scendevano da sole, aveva puntato il suo sguardo sul tavolino davanti a lei, ignorando la gente che andava e veniva intorno a loro, concentrata solo sui suoi ricordi e sui sentimenti del passato che erano tornati a galla con prepotenza.

-Un mese dopo, ecco che vedo un uomo entrare in casa dei miei zii. Era mio padre, eppure non lo era. Voglio dire, i ricci scuri, gli occhi castani, il corpo muscoloso... il corpo era il suo, ma aveva qualcosa di spiritato in lui. La divisa solitamente immacolata era sporca di terra e fango... forse persino sangue, non saprei. Credo fosse persino ubriaco, ma all'epoca non lo notai nemmeno. Appena lo riconobbi, sputai fuori tutto il veleno che si era annidato in me con il passare dei giorni: gli dissi che lo odiavo con tutto il cuore, che non meritava l'amore della mamma e che poteva anche scordarsi di avere una figlia, perché non lo consideravo più mio padre.-

Lei fece una risatina imbarazzata, asciugandosi le lacrime con il dorso di una mano, l'altra ancora intrappolata nella calda stretta di quelle di Jean, immobile come una statua. Lei forse fraintese il suo silenzio sbalordito per disgusto, perché si affrettò a continuare, il tono improvvisamente concitato e timoroso di un rifiuto.

-Lo so, sono stata orribile, ti giuro che mi sono pentita per anni di quelle parole! Lui non mi rispose in quel momento, semplicemente se ne andò, forse capendo che riaverlo nella mia vita mi avrebbe fatto solo male. Una volta cresciuta, mia zia mi raccontò che lui aveva appena abbandonato l'esercito, per il quale aveva sacrificato tutto, pur di tornare da me e prendersi cura di sua figlia. Era diventato un disertore per me e io l'ho cacciato senza fargli dire una sola parola, capisci?-

Le lacrime si erano fermate, ma l'angoscia sul suo viso sembrava insopportabile, talmente opprimente nel suo animo da impedirle persino lo sfogo che fino a quel momento le aveva permesso di sopportare il peso delle sue stesse colpe, espresse in quelle parole piene di rimorso.

-Tempo fa mi scrisse una lettera. Mi chiese perdono per non essere stato presente, per avermi abbandonata, per avermi fatta soffrire. Mi raccontò di aver vagato in lungo e in largo per il mondo alla ricerca di uno scopo, di un motivo per restare in vita. Ma alla fine si era arreso, aveva scritto in un'altra missiva le sue ultime volontà… e alla fine, mi disse addio. Non so nemmeno dove si trovi il suo corpo, se fosse gravemente malato o ferito, o se addirittura…-

Non terminò quella frase, ma non ce ne fu bisogno.

Lei credeva che suo padre si fosse suicidato.

Jean all'improvviso sentì di riuscire a capire ogni cosa di lei, ogni goccia di debolezza che le si era infiltrata nel sangue e tutte le fibre di coraggio di cui era composta la sua carne.

Comprese le ragioni per cui si era intestardita a tirarlo fuori dal suo stato di rassegnazione così tanti mesi prima, la ragione per cui aveva rimandato così a lungo quel momento di confessioni, il perché gli fosse sembrata così dolorosamente matura.

Capì ogni sfaccettatura della sua anima, così visibile in quegli occhi tanto espressivi che erano stati la sua condanna fin dal primo giorno, ma al tempo stesso tanto sfuggente da nascondersi nelle ombre che anche lei celava in quei pozzi senza fondo.

L'unica cosa che non aveva capito, era la frase che lei aveva detto all'inizio di quel tragico racconto. E prima di riuscire a fermarsi, la domanda gli sfuggì dalle labbra, sorta direttamente dal cuore senza passare per il cervello.

-Perché hai detto che questa storia sarebbe stata un dono d'addio?-

Era evidente che si fosse aspettata tutto tranne quella domanda, ma Vivian gli rispose comunque abbastanza prontamente, evidentemente sollevata dalla mancanza di accuse nei suoi occhi, troppo chiari e limpidi per celare qualsiasi tipo di sentimento. E Jean ne era certo, lei poteva scrutarli quanto voleva, ma non avrebbe trovato alcuna traccia di repulsione o disgusto.

Tutt'altro.

-Perché sto per partire. Questa sera stessa prenderò un treno per North City, hanno già accettato la mia richiesta di trasferimento.-

-COSA?-

Un macigno sul petto, un ulteriore peso sul cuore. Quanto ancora potevano reggere quella straziante conversazione?

-Non riesco a fermarmi per troppo tempo in un posto solo. Sono ormai tre anni che vago, che cerco in ogni luogo possibile anche un solo indizio su dove si trovi la tomba di mio padre… se ne ha una. Ho bisogno di parlargli un'ultima volta, anche se lui non può ascoltarmi, io sento la necessità di domandargli perdono! E non mi importa quanto tempo ci vorrà. Io lo troverò, lo so.-

Gli diede una dolce carezza sulla guancia ispida, sorridendogli in segno di scuse.

Gli stava chiedendo di lasciarla andare.

Con che coraggio avrebbe negato a una figlia di cercare l'espiazione, ma soprattutto con quale diritto?

Con quale cuore l'avrebbe lasciata andare però, sapendo il rischio che correva a restare in quella Nazione?

Sapeva quanto fosse testarda, non avrebbe rinunciato alla sua crociata personale neppure se avesse conosciuto il rischio che tutti loro correvano.

Furono attimi di tremenda lotta interiore, ma alla fine scelse di avere fede, la stessa la cui mancanza lei gli rimproverava sempre.

Avrebbe avuto fiducia nella sua squadra, nella forza degli uomini e delle donne che avrebbero lottato per la salvezza di tutti loro contro un nemico inimmaginabile.

Avrebbero lottato e vinto, a ogni costo, perché avevano troppo da perdere.

E lui avrebbe fatto del suo meglio, nel suo piccolo, per il suo Paese, per i suoi amici, per lei.

-Perdonami, Jean. Addio.-

Gli diede un piccolo bacio sulla guancia, scaldandogli il cuore, cementando la decisione che aveva appena preso nel silenzio della sua anima.

Lei si stava voltando per andarsene, ma anche lui doveva assolutamente dirle qualcosa prima di separarsi per chissà quanto tempo. Si rifiutò di credere che sarebbe stato per sempre, perché non avrebbe rinunciato al neonato ottimismo che era appena tornato ad animarlo.

-Vivian!- la afferrò per un polso, tirandola verso di sé per stamparle un breve bacio a fior di labbra. Nulla di impegnativo, un bacio che si scambiavano anche i bambini, ma fece tremare la ragazza che ora aveva assunto lo stesso colore del suo vestito in volto.

-Non ti fermerò. Non ti dirò parole inutili, sai che non sono pratico con i discorsi… perciò vado dritto al punto. Vai, termina ciò che hai iniziato, trova tuo padre e con lui la pace che cerchi. Poi però torna, o sarò costretto a venirti a prendere di persona.-

Lei lo guardò stranita, per poi scoppiare a ridere, ritrovando la serenità perduta nell'ultima ora.

-Credo che questa sia una minaccia, Tenente.-

Lui fece un ghigno, lasciandola andare. Ritrovando un po' della vecchia spavalderia, si lasciò andare alla spensieratezza appena riconquistata.

-Oh no, mia cara ragazzina. Quando tornerai, io ti aspetterò in piedi davanti a un altare. Questa é una minaccia.-

Le tremarono le ginocchia, tanto che dovette appoggiarsi al tavolino vicino a lei per non crollare miseramente a terra, ma rispose prontamente.

-Quale spudoratezza. Chi ti dice che accetterei una tale proposta? Fatta in questo modo, poi…-

-Il fatto che non mi hai ancora dato una sberla per il bacio di poco fa. E il fatto che, per quando tornerai, avrò riacquistato l'uso delle gambe: non potrai più sfuggirmi, perciò usa bene il tempo che ti rimane da sola. La prossima volta che ci vedremo ti prenderò e non ti lascerò più andare.-




*****




Diciotto mesi dopo, East City




-Havoc...Havoc? HAVOC!-

Il Tenente sussultò, scattando sull'attenti in automatico, spargendo la cenere di un'intera sigaretta consumatasi da sola su importantissimi documenti che avrebbe dovuto compilare, invece che perdersi nei suoi pensieri.

-Mi dica, Generale!-

Il neo promosso Generale dell'Est Roy Mustang lo guardò come se fosse una bestia rara, sensazione strana visto che aveva lavorato al suo fianco per molti anni.

-Va tutto bene, Tenente?-

-Sissignore!-

L'uomo lo scrutò ancora per diversi istanti, indagando a fondo, cercando coi suoi neri occhi rapaci qualcosa nei suoi che gli spiegasse perché la “ciminiera” della sua squadra avesse praticamente sprecato mezzo pacchetto di sigarette accendendole senza fumarle, senza nemmeno svolgere i compiti di normale amministrazione che la fidata Hawkeye gli aveva posato sulla scrivania almeno due ore prima.

Non trovando una risposta soddisfacente, Mustang tornò al suo lavoro, gentilmente spronato dalla sicura tolta dalla pistola della sua guardia del corpo, che si mise proprio di fronte all'uomo per assicurarsi che la smettesse di distrarsi.

Havoc sospirò, incapace di gioire per la ritrovata familiarità della sua squadra.

Certo, ora erano i sottoposti di un Generale, molte cose erano cambiate, ma la dinamica tra loro era sempre la stessa.

Il loro capo cercava di scappare dai semplici compiti amministrativi ogni volta che intravedeva una possibilità per farlo, prontamente riportato all'ordine dall'unica donna della squadra, fenomenale cecchino e seconda in comando. Falman dava direttive a tutti con la sua prodigiosa memoria, facilitando di molto il loro lavoro di quotidiana amministrazione; Fury giocava con le sue radio, quasi sparendo dietro di esse tanto era minuto, tutto felice di dare la sua completa attenzione ai rumori confusi delle sue cuffie.

Havoc era l'unico che, nonostante la selvaggia gioia iniziale di quando il dottor Marcoh gli aveva potuto guarire le gambe con la pietra filosofale, non era riuscito a rientrare a pieno regime nel loro perfetto meccanismo di squadra.

Al suo fianco, Breda diede un grugnito di approvazione, gustandosi un panino decisamente sproporzionato per un semplice spuntino.

Anche il suo amico di sempre pareva essere tornato il solito ad un occhio disattento, ma lui lo conosceva troppo bene per non sapere che era preoccupato. Per lui.

Era la sua tecnica: lo lasciava cuocere nel suo brodo finché non si decideva a parlare, costringerlo a fare qualcosa non sarebbe mai servito a nulla e il grande stratega lo sapeva.

Come Jean Havoc sapeva bene che il tempo dell'attesa era finita. Breda gli aveva chiesto di andare a cena da lui quella sera, perciò poteva definirsi semplicemente spacciato.




Dopo un'abbondante cena – e un'ancora più abbondante dose di vino che l'amico aveva riportato da West City – Jean aveva finalmente vuotato il sacco, stupendo l'altro uomo per la profondità dei suoi sentimenti.

Insomma, sapevano tutti che Jean Havoc amava le donne e amava innamorarsene, ma che restasse tanto “fedele” ad una sola, senza sapere se e quando sarebbe tornata da lui, sorprese non poco il Sergente Maggiore.

-Quindi in pratica hai chiesto a questa Vivian di sposarti dopo averle dato un semplicissimo bacio?-

-Ti assicuro che era tutto meno che un semplice bacio! Era una promessa e una rassicurazione. Ti ho detto che si era appena aperta con me su una questione molto delicata.-

-Si, ma adesso sarà sperduta in qualche angolo di mondo chissà dove, potrebbe persino essere nei guai e tu non lo sapresti.-

-Ti assicuro che lo saprei.-

-Che romanticone! Vagare senza meta da sola comunque non mi sembra una grande idea per una ragazzina.-

-Ehi, Breda, solo io posso chiamarla “ragazzina”! E poi non sta vagando senza meta.-

-Sì, mi hai detto che sta cercando qualcosa, ma visto che non ha idea di dove sia…-

-Non intendevo questo. Ma anche se non sa dove andare, sa cosa sta cercando. Sta vagando alla disperata ricerca di qualcosa di importante, ma non si é persa. Non tutti quelli che vagano sono perduti. Non ha perso se stessa ed é questo che sarebbe successo se in qualche modo l'avessi convinta a fermarsi.-

-Sei diventato profondo, Jean.-

-E tu sei diventato stronzo, amico.-

Fecero un brindisi silenzioso al tempo che avevano passato separati e a quanto era accaduto in assenza dell'altro. Fratelli per sempre, era questo che si erano ripromessi e neppure la paralisi e una guerra sovrumana aveva spezzato quel giuramento.

-Credi davvero che tornerà da te?-

-Ne sono sicuro. Le ho promesso che l'avrei attesa tutto il tempo necessario ed é quello che farò. E non appena tornerà intendo sposarla, come le ho detto l'ultima volta che l'ho vista.-

-Sei un pazzo, Jean!- ma lo disse con un sorriso comprensivo, come se quell'inconfutabile verità lo divertisse da morire.

-Beh, amico, spero proprio che questo non ti disturbi, perché dovrai fare da testimone a questo pazzo!-

E la sonora risata a cui si lasciarono andare liberò entrambi dalle ultime ansie che si erano trascinati dietro dal tempo in cui erano stati divisi.




North City


La stazione era piena di persone, il vociare allegro e frenetico della vita la circondava in un bozzolo di allegria, ma Vivian si era volutamente isolata da tutta quella confusione.

In mano teneva il biglietto che l'avrebbe condotta fino a Central City, da lì poi avrebbe dovuto cambiare e prendere il treno che l'avrebbe portata fino a East City.

Era davvero pronta per quel passo?

Nonostante fosse riuscita nella sua impresa, trovando la tomba in cui avevano seppellito suo padre in un paese sperduto vicino alla parete di Briggs, il peso che portava sul cuore non si era affatto alleviato.

La sua mente aveva trovato un po' di pace al pensiero di sapere finalmente dove riposasse l'uomo che le aveva dato i natali, soprattutto perché aveva passato giorni e giorni a parlare alla terra sotto cui era stato seppellito, certa che, in qualche modo, il suo spirito fosse stato felice di ricevere la sua visita.

Però poi aveva realizzato che non solo non lo aveva mai conosciuto davvero, ma lo aveva davvero perso. Lui era lì, in quella terra fredda e inospitale, non con lei.

Aveva finalmente capito che l'odio che gli aveva scagliato contro da bambina era stato in realtà solo dolore e si era sentita ancora più amareggiata, perché lui era morto senza saperlo.

L'unica cosa che l'aveva convinta a separarsi da quel luogo dopo giorni e giorni di pianti e scuse era stata la frase incisa sulla lapide.

“Coloro che amiamo e abbiamo perduto non sono più dov'erano, ma ovunque noi siamo”

Quella frase aveva lenito la sua sofferenza, facendole prendere la decisione di smettere il suo infinito girovagare, bisognosa di un po' di serenità e di un posto dove mettere radici.

Fu così che, d'impulso, comprò i biglietti per andare nella città in cui sapeva avrebbe trovato qualcuno ad aspettarla.

Avrebbe portato con sé i pochi ricordi di suo padre, che ora comprendevano anche le benevole parole del prete che lo aveva seppellito e ciò che le aveva detto quando aveva chiesto la ragione di quella frase tanto particolare.

“Mi disse che gli mancavano sua moglie e sua figlia. Nel suo ultimo, estremo atto, aveva deciso di voler portare con sé un messaggio per sentirle vicine nel suo eterno riposo.”

Cacciando indietro le lacrime con un sorriso orgoglioso, tenendo bene a mente quelle parole che le avevano donato speranza e coraggio, si alzò in piedi sentendo l'annuncio della partenza del suo treno, compendo il primo passo verso la realizzazione di un futuro più radioso.

Qualcuno la stava aspettando: era tempo di tornare a casa, dove riposa il cuore.

 

  
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