Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Nirvana_04    27/07/2018    3 recensioni
PREQUEL DE "IL TREDICESIMO RE"
Sette capitoli dedicati al Primo Re della Casa di Venasta.
Agur è il più grande cacciatore tra i Figli di Cahar. Giovane avvenente, erede del regno: gloria, donne e ballate tra le assi della taverna sono il suo pane quotidiano. Alla vigilia del suo ventitreesimo compleanno, egli decide di partire verso le Pietre di Shaev, alla caccia del leggendario Caimhal. E quando si renderà conto che l'ira del Dio Agabar è stata scagliata come una maledizione su di lui, tutto ciò che rimarrà di Venasta sarà il suo sangue e la sua sete di riscatto.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'Racconti del Veto'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Settima Parte
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«E adesso… cosa dovrei fare io?»
«Parla con loro. Condividi con loro la tua fede.»
Agur era poggiato contro il parapetto della terrazza aggettante sulle rive dell’Hiv, sopra l’accampamento degli abitanti di Valissa e Cabiorn. Al suo fianco, la presenza di Hyria era un’amara consolazione. Guardava alla sua gente con sguardo duro e adombrato. I servi delle Silenti avevano parlato più volte alla folla, raccontando di Meg e della sua forza, che si cibava di sangue e di voglia di riscatto; che incitava al coraggio e alla resistenza, che vegliava sui disperati e li guidava nella luce folgorante di una notte rabbiosa. Prima erano stati avvicinati i più piccoli, perché le loro voci delicate potessero riscoprire in quei leggendari racconti di nuovo il volto della speranza. Se un bambino tornava a credere nel futuro, allora un adulto aveva la forza di lottare per lui, e quella piccola fiammella diventava una scia di lanterne che saliva verso il cielo scuro. Le storie, così, erano circolate: la gente mormorava, molti dubitavano, tutti chiedevano di lui, e Agur… Agur era di nuovo in catene. Un Dio era stato posto al di sopra di lui, di nuovo, ed egli doveva rispettarne il volere; ancora una volta, se voleva avere il controllo sul popolo, doveva farlo attraverso un’effimera divinità.
«Io non ho alcuna fede» rispose caustico.
Hyria pose con delicatezza una mano sulla bianca pietra, davanti ai suoi occhi. Agur ne seguì il pallore fino a venir catturato dalle iridi lattee. L’ascoltò dire: «Tu credi nella forza, tu vuoi la vendetta. Rinneghi il volere dell’Agabar, ma hai bisogno di un grande potere per tenere unito e guidare il tuo popolo. Un mortale non ha questo potere. Un Dio sì, che esso sia vero o solo una leggenda lontana, è la fede dell’uomo a dargli potere. E se è il sangue che reclami, allora è del sangue che il tuo Dio si ciberà.»
«Io non ho la forza per fare questo.»
«Sì, invece. Hai una famiglia e un popolo sterminati barbaramente. È la collera la tua forza. Un Re non è necessariamente la persona più saggia o più buona. In guerra, è la persona più forte e brava a sopravvivere che deve regnare. È tu ne hai anche il diritto di sangue. Mostra loro la tua forza, chiamandola rabbia o Meg. Mio signore.»
Agur guardò verso l’orizzonte lontano la terra che presto li avrebbe accolti. «Non serve che mi chiami così quando siamo soli» sorrise amaramente.
Hyria fece un passo indietro e chinò il capo. «È giusto che io ti ricordi quale sia il tuo ruolo in mezzo a noi. E io ti seguirò oltre la valle del mio Dio e ti servirò. Mio signore.»
Agur strinse le mani a pugno e mantenne un’espressione solenne: era il momento d’imparare, di tenere accanto a sé tutta quell’ira che era stata sottomessa a imperizia e paura. Si voltò verso di lei e le mise un dito sotto il mento, le alzò la testa. La guardò con decisione. «Mi servirai» constatò semplicemente, e la sua voce promise molto più di quello che l’imperturbabilità del suo viso esprimeva. Adesso sapeva che accanto alla rabbia, avrebbe tenuto lei, la speranza. Le fece una carezza lieve sulla guancia imporporata, poi si voltò senza esitazione verso l’irta via.
Discese a piedi per le strette stradine, superò ponti e ripide scale con calma e un fuoco dentro che divorava il cammino davanti a lui, giù fino alla grande porta con i magnifici Vorouk dormienti. Hyria aveva detto che quei due esemplari, adesso solo scolpiti nella pietra, erano i progenitori di tutti i Vorouk che dominavano sulla valle e che si sarebbero destati solo il giorno in cui Vitahj sarebbe stata perduta e un suo figlio ne avrebbe invocato la rinascita. Agur non li guardò e decise che non si sarebbero destati, non durante il suo regno, perché avrebbe significato la sua disfatta.
Le tende erano state piantate alla bell’e meglio, diversi bracieri erano stati sistemati tra di esse. La gente era radunata lì, dove strategicamente stavano le Silenti. Hyria aveva detto che era stata un’idea di Rineg lasciare che fossero le donne a parlare con il popolo. Le vesti di larga e bianca lana grezza erano indossate da corpi magri, tanto che l’immagine di quelle donne era molto fragile e innocua. Hyria, però, gli aveva detto che erano combattenti esperte che si erano votate al silenzio della morte. Il loro dominio erano le nicchie dove venivano imbalsamati i corpi prima di essere affidati alle correnti del mare. «Vedi la strada di fiaccole spente che s’inoltra verso est, oltre il fiume? Le Silenti traghettano i morti sull’altra sponda e poi viaggiano per la Foresta del Mirenel fino al mare, dove solitarie consegnano i corpi alla Valle del Volor, la distesa d’acqua blu» gli aveva spiegato Hyria. «Noi non seguiamo mai i morti fino alla loro ultima tomba. È il Guardiano in persona che li prende con sé. Solo le Silenti possono intraprendere quel viaggio e tornare indietro.» Come aveva scoperto in seguito, le Silenti non erano solo donne ma avevano una folta schiera di uomini gracili e un po’ malaticci, dai volti effemminati e con due tagli ai lati della bocca. «Sono ciechi o nati con difetti del parlare e del camminare. Servono le Silenti per ripagarle di non averle strappati prematuramente alla vita.»
Agur ascoltò le ultime parole di uno i questi e rimase agghiacciato dal gelido suono della sua voce: «Meg è un Dio silenzioso, ama solo il suono del ferro che strida fuori dal fodero. È un Dio che arriva quando tutti gli altri dei se ne vanno.»
«Anojah non ci ha abbonati!» urlò qualcuno, disperato.
«L’Agabar farà giustizia!»
«L’Agabar ci ha traditi!» tuonò la voce di Agur. Balzò al fianco della donna e dell’uomo deformato, che prontamente si chinò, muto. Si aggrappò alla corda di una tenda e saltò sopra un tozzo barile. «Ho visto la cariatide pregarlo per giorni, ma sapete qual è stata la risposta del Dio del Fato? La morte di sette vergini innocenti e l’arrivo delle belve nere! Quelle creature sono il flagello di Cahar, sono Ra-cahar!» Si puntò su un ginocchio, in precario equilibrio. «Non vi chiedo di abbandonare i vostri dei. Anojah serve la vita, ma di vita non ce n’è più né a Cahar né nelle vostre città. Il Volor serve la morte, ma noi respiriamo ancora. Meg è il Dio degli ultimi, è il Dio dei sopravvissuti, di chi ha ancora voglia di lottare, di chi ha ancora forza per riprendersi ciò che gli appartiene! È il mio Dio!
«Seguitemi, e vi farò conoscere le sue fiamme! Seguitemi, e vi darò la vostra vendetta! Servite ancora un figlio di Cahar, e io costruirò per voi una nuova Venasta, da dove il nostro fuoco scoppierà per bruciare quelle nere ossa!» concluse con affanno. Era stato precipitoso, aveva scaraventato la sua ira e aveva bestemmiato con il nome di un falso Dio sulle labbra.
Per questo si sorprese quando gli uomini di Cabiorn ruggirono in sella alle loro viverne, le vedove e le madri piangenti strillarono la loro rabbia, il loro dolore, e bevvero della sua sete di vendetta. Le lance di Valissa brillarono mentre venivano più volte alzate verso il cielo, a ritmo delle urla dei guerrieri che le impugnavano. I bambini corsero verso i Portatori, i quali avevano seguito Agur in silenzio, e accettarono i dolci doni che essi portavano loro. Molti sorrisero, e Agur vide nei volti dei loro genitori il desiderio di non veder più spegnere tale guizzo di luce. Qualcuno aveva guidato il suo cavallo tra le tende. Agur balzò in sella con un salto elegante e lo fece impennare.
Disse: «Se il Fato ci accieca, allora noi accenderemo i fuochi. Da ovest verso est! Che bruci tutti! Che bruci tutto al suono del nostro urlo di guerra!»
La gente gridò. Il cavallo nitrì e Agur lo spronò in un folle galoppo lungo la sponda del fiume. E dalla riva migliaia di nif si alzarono in volo, suadente luce sorta dalla scurità degli steli d’erba intrecciati.
Arrestò la corsa e in una danza avanti e indietro, come un leone in gabbia pronto a balzare, ruggì: «Ascoltate la mia rabbia: sta per segnare la strada da seguire. La mia, e non quella di un Dio ingannevole! La nostra, e non quella capricciosa del Fato! Preparatevi a partire!»
Voltò le spalle al suo popolo esagitato e, aitante, superò i Portatori e rientrò in città. Senza fermarsi, raggiunse i giardini del palazzo e chiamò a gran voce l’Alto Cavaliere. «Preparate il vostro popolo, Cavaliere. Partiremo questa notte. Incontreremo Jhann e Nor tra tre notti, sulla Via Carraia.»
Il volto corrucciato e insondabile come sempre, le mani nascoste tra le pieghe della tunica viola, sentenziò: «Non sono il mio popolo.»
«È vero. Sono il mio! Lo so, Cavaliere. Mandate messaggeri tra di loro. Preparatevi a partire. Nel mio regno sarà riservato loro un posto d’onore, come è giusto che sia. Se non posso cancellare gli errori dei miei avi, posso almeno fare in modo di non ripeterli. Se non volete considerare questo come risarcimento per il patimento subito, accettatelo come dono di un Re riconoscente per ciò che avete fatto ora, per lui. Per me.»
L’Alto Cavaliere annuì e lasciò che un latore eseguisse l’ordine del principe.
Poche ore dopo, Agur si ritrovò di nuovo dentro al palazzo, chino su un tavolo, in compagnia di Hyria e dei capi del suo esercito. Sulla mappa tracciava diversi sentieri, ognuno con diversi ostacoli. «Più breve e sicuro sarebbe seguire l’ansa del fiume fino al delta e poi, da lì, restare di fianco alla costa fino alla Via Carraia.»
«Niente è più sicuro, nessuna strada è breve» fu la risposta enigmatica dell’Alto Cavaliere mentre la stanza si svuotava: era stato già scelto chi si doveva occupare dei rifornimenti e chi di dirigere le operazioni dei battipista e degli esploratori. Fece un cenno verso la fanciulla e le concesse un rarissimo sorriso, breve ma sincero. «Hai scelto?»
«Sì, padre.»
Agur cercò di dissimulare in fretta la sua sorpresa a sentir quell’appellativo.
«Anche io.»
«Lo so» rispose laconica, ma la voce gli si spezzò in un rantolo soffocato.
L’Alto Cavaliere tornò a guardarlo mentre si prestava a diventare Re e Dio insieme. «Sei un principe senza corona, Agur di Cahar» lo disarmò con la sua profonda conoscenza, mostrando un’inibente schiettezza e una durezza nella voce che sapeva di minaccia. «La tua gioventù porta con sé molte colpe e poca saggezza. Ma non puoi fidarti di chi ne vanta più di te. Dovrai accettare di sbagliare, di essere arrogante, di rimanere solo, di sacrificare i tuoi desideri. Dovrai diventare Re, e un Re esiliato in terra straniera non verrà mai veramente accettato. La tua strada non è né breve né sicura. Poche saranno le gioie e ancor meno le virtù che lascerai in eredità. Ma verrai ricordato come grande. Aspira a quella grandezza, questa sarà la tua virtù.»
Agur sentì uno strano disagio crescere lungo la schiena, fino alla nuca. Le parole dell’Alto Cavaliere erano algide, sembravano giungere direttamente dai freddi giacigli dell’Ambal, troppo fredde per un uomo in cui la vita ancora scorreva focosa. «Mi state dicendo che non dovrò fidarmi di voi?»
«Ti sto dicendo che non sei ancora Re, sicuramente non su questa terra. E io non ti seguirò» sancì duramente. «Le Silenti hanno spezzato il loro voto di silenzio per te» lo redarguì, esprimendo tutto ciò che aveva taciuto dal suo arrivo. «Ho visto il mio popolo racimolare la grazia dei Re di Cahar per anni, seduto sul poggio più alto senza il potere di riscattare per loro la dignità che meritano. Non scordarti di questo, non permettere che la tua gente dimentichi le mie parole.»
Agur s’adirò. Sentiva la vergogna avvolgerlo da dietro, proprio partendo da laddove gli occhi di Hyria, alle sue spalle, stavano trafiggendogli la schiena. Non volle voltarsi, e affrontò a muso duro l’uomo che credeva un savio amico ma che scoprì essere colui che più di tutti lo accusava per i soprusi subiti, causati per ordine e ingiustizia altrui, nel passato. Sentì la presa allentarsi sulla città di Vitahj, fondamentale pietra su cui costruire il suo regno.
L’Alto Cavaliere lo congedò, come se fosse egli il padrone, e non il servo: «Puoi andare, Agur di Cahar, porta i figli di questa terra morta con te. Ricorda che sono orfani, e piangeranno. Non puoi consolarli. Dei miei figli, però, ti chiedo di restituire al mare le spoglie quando sarà tempo. I morti lasciali tornare qui. Li veglierò io.»
Per la prima volta la sua anima percepì la presenza di un potere più grande e immenso. Agur abbassò il capo e ubbidì.
 
 
«Quando sarà tempo, dovrai prendere la prima decisione sbagliata, mio signore.»
Erano dentro una piccola tenda, in mezzo all’accampamento di profughi, sulla strada buia che conduceva al mare. Le Silenti avevano fatto strada lungo la via che solo loro potevano seguire, i vitahjir che lo avevano seguito erano più della metà e tutti erano stati bendati, persino Hyria, che lo aveva seguito a dispetto delle dure parole del padre. La loro fede era profonda, e se dovevano camminare lungo i sentieri dei morti con il respiro nella gola, allora avrebbero sacrificato la vista. Equilibrio, lo chiamava Hyria. Agur aveva annuito e trattenuto il suo pensiero – superstizione. La prima notte era trascorsa tranquilla. Il secondo giorno era continuato con le donne di Cahar, Valissa e Cabiorn che insistevano a lasciarsi dietro fiori di papaveri, e quando erano finiti avevano seminato i semi che un giorno avrebbero ricoperto di nuovo di rosso quella terra. Agur si era obbligato a parlare con loro e in un momento di trasporto aveva proclamato che il simbolo di Cahar sarebbe stato sostituito con un papavero rosso, in segno del lutto che la sua gente avrebbe portato fino al ritorno in patria. Alcuni Portatori, tra cui Rineg, si erano proposti di restare indietro per poter riferire di eventuali avvicinamenti. Le loro ultime informazioni dicevano che le belve nere, e soprattutto le Araknaa, non erano molto distanti dalla città fantasma. Presto sarebbe diventata una città ragnatela. Der sembrava essersi dato un contegno e seguiva fiducioso il suo signore. Continuava a chiamarlo per nome, però, e a volte le occhiate che gli lanciava lo preoccupavano. Il felica camminava sempre un passo dietro di lui, e questo in qualche modo lo rassicurava. Adesso, loro tre erano nella tenda insieme a Hyria, che si era momentaneamente liberata della benda, e di due Silenti. Queste due non avevano nome, e Agur si rivolgeva loro con lo sguardo, un po’ circospetto: gli ricordavano troppo il potere infido che aveva la cariatide a Cahar. Faceva fatica a tenere a mente il monito dell’Alto Cavaliere. Lui non avrebbe permesso che una simile carica si sviluppasse anche nella nuova Venasta.
«Quale scelta?» chiese alla più alta.
«Uno dovrà restare indietro, separarsi da te.»
Agur s’irrigidì ma non cambiò espressione. Aveva già intuito cosa richiedeva la magia, lo aveva carpito dalle scritture del Bercio.
«Ma non potrà essere meno di padre.»
Il principe si accigliò, confuso.
«Erede di vita» annuì sapientemente il felica.
Ancora più confuso, Agur chiese l’aiuto di Hyria con lo sguardo.
«La magia spezza un legame, divide una cosa che è una, ma per rimanere attiva ha bisogno che il sangue da cui prende forza rimanga vivo, integro» spiegò con un tono compassionevole. «Il sangue di chi prenderà parte alla magia dovrà continuare a scorrere, di padre in figlio, per mantenere il potere attivo.»
Agur si contorse leggermente, a disagio. Era l’ultimo erede del Bercio e del figlio sacrificatosi per il popolo, per questo passando tra le Pietre di Shaev aveva spezzato la magia: il suo sangue aveva ricucito lo strappo. Adesso, il suo sangue doveva tornare a scorrere in un erede, se voleva che la magia durasse nel tempo. Ma chi sarebbe rimasto dall’altra parte era destinato a morire, la sua progenie doveva già essere nata affinché il sangue continuasse a scorrere. In un sospiro egoistico, pensò che nessuno dei suoi amici poteva assolvere a quel compito, poiché nessuno di loro era padre. Chiedere, però, a chiunque altro di sacrificarsi era un peso di cui non riusciva a farsi carico: non poteva obbligare un vitahjir, non dopo la fiducia che quei reietti gli avevano concesso; e non poteva chiamare all’immolazione un uomo di Cahar o di un’altra città, aveva promesso loro una speranza e non poteva troncarla adesso, sarebbe stata una beffa degna dell’Agabar.
«Metà di uno» pronunciò il felica, e gli posò una mano sulla spalla.
Agur si voltò lentamente verso di lui, incredulo. «Cosa?»
«Vita di Puèsigath, sua ancora a morte di felica, ma cosa vita essere, felica dice. E io dico: metà di uno.» Sorrise e portò una mano sul petto. «Metà vita a Puèntagor essere. Fiume e monti sani, e ossa nere non passa. Sangue felica sicuro.»
Agur socchiuse le labbra e lo guardò bene. Si accorse solo in quel momento che aveva dato la presenza del felica al suo fianco scontata, e che di lui non sapeva niente. «Hai un figlio?» Quella confessione lo sconcertò, anche se non capì subito perché.
«Sì» rispose trasognato, come se potesse vedere il figlio arrampicarsi sul ramo più alto dell’albero e salutarlo con la mano.
Ecco cosa sconcertava il principe! Quell’essere, quell’uomo blu, aveva rifiutato la salvezza della sua città, gli era rimasto accanto, sconosciuto in terra straniera, e lo aveva seguito come un’ombra, senza mai dire una parola di troppo o scoraggiarsi per la poca considerazione. Agur lo aveva notato in misura della sua utilità: lo aveva aiutato a riconoscere l’Arakna, a trovare il testo del Bercio, a tenere d’occhio Der; gli era stato fedele nonostante egli non fosse il suo signore.
«Perché?» domandò, e sapeva che il felica avrebbe capito.
«Perché» si fece serio, «fratelli essere. Metà di uno. Agabar e Puèsigath fratelli essere. Caharrin e felica fratelli essere.» Ci pensò un attimo, poi aggiunse: «Metà vita» e si puntellò il petto con un dito, «sicura, salva.»
Agur annuì: anche lui stava combattendo per salvare la sua famiglia. E non l’avrebbe più rivista. Voleva fermarlo, impedirgli di sacrificarsi. Avrebbero trovato un altro modo per ricongiungerlo alla sua terra, avrebbero trovato un’altra vittima da immolare. Agur avrebbe preferito pescare a caso tra degli sconosciuti, piuttosto. Sarebbe stata una scelta sbagliata, ma lui non avrebbe perso un… amico. Eppure i suoi occhi erano imprigionati in quelli aranciati del felica, sembrava che gli stessero parlando: se la scelta dev’essere sbagliata, dicevano, allora è il re, e non il popolo, a doverla sorreggere.
«Fratello» disse con tono duro, «qual è il tuo nome?»
«Tahari, fratello» sorrise.
Agur afferrò il suo braccio e lo strinse forte. «Lo ricorderò, e lo ricorderanno.»
Tahari mostrò i denti, serafico.
Uscì dalla tenda e respirò l’aria che soffiava da est: vento di casa, profumo di terra. Anche gli altri uscirono dalla tenda, restarono solo Agur e Hyria. La fanciulla non aveva detto più una parola, e anche in quel momento restò di pietra, silenziosa, senza alcuna soluzione per lui. Allora Agur cadde in ginocchio e pianse. Rabbia, amarezza, odio, vendetta, ma soprattutto dolore per la sua famiglia, per il suo popolo, per i suoi amici, per il suo futuro. Pianse sangue.
 
 
Un uomo di Cabiorn irruppe nella tenda con fare imbarazzante. «Mio signore, dovresti venire.»
Agur si scostò da Hyria e lo guardò minaccioso. «Che succede?» Se c’era una cosa che aveva capito era che anche in mezzo alla tragedia un sovrano doveva mostrarsi calmo e saldo, proprio come aveva fatto suo padre, fino alla fine.
«Beh, ecco» tergiversò, in imbarazzo, «noi sappiamo che è un vostro consigliere fidato, ma… ecco, insomma… c’abbiamo andati cauti, però… l’abbiamo fermato, ecco. Anche perché il muso blu non è che si faceva acchiappare.»
Agur irrigidì la mascella. «Der?»
«Sì, mio signore. Per favore, venite, che gli uomini miei so’ abituati a usare la frustra.»
Agur spostò i lembi della tenda e avanzò con una falcata decisa. Un manipolo di persone si era riunito intorno a un albero e assistevano a una scena pressoché inverosimile: Tahari era abbarbicato tra due piccoli rami, in cima a un frassino, mentre ai piedi dell’albero Rineg lottava per tenere fermo Der; due uomini di Cabiorn tenevano tutti e tre sotto tiro di frusta e arco.
«Ditemi che sta succedendo!» sbottò con un’inflessione nella voce che non ammetteva silenzio o risposte evasive.
«Traditori!» sbavò Der, senza controllo. Si dimenava come un pazzo tra le mani del Portatore. «Ha avvertito della nostra posizione, c’ha traditi, Agur.» Ruotò gli occhi indemoniati verso la chioma dell’albero e ringhiò. «E questo, questo è un malvagio.» All’improvviso le convulsione si fecero talmente frenetiche che Der riuscì a liberarsi e ad arpionare con le unghie la benda intorno agli occhi di Rineg. Gli occhi dell’uomo erano azzurri, irradiavano bagliori elettrici. Der strillò e portando due dita al ventre le allontanò con disprezzo. Gli uomini di Cabiorn fecero un passo indietro e si misero in posizione difensiva.
Agur avanzò in mezzo al cerchio che si era formato e voltò le spalle al Portatore, affrontando la folla. «Abbassate quelle armi. Tahari, scendi!» La sua voce era calma, il suo tono austero.
«Agur…» farfugliò Der, ma un manrovescio lo azzittì.
«Se qualcuno ha recriminazioni da fare, è a me che deve rivolgerle. Io solo posso giudicare un mio suddito. Ciò che è mio non si tocca!» proclamò ad alta voce.
Il felica saltò giù e si mise in posizione ritta, un passo dietro di lui. Agur li assestò un’occhiata spietata. «Che ci facevi lassù?»
Tahari mostrò un’espressione distesa e melanconica, persa in un vuoto che si colmava di forza e determinazione mentre diceva: «Messaggio a sangue, a felica e a terra di Puèsigath.»
Agur non mostrò compassione. «Bene.» Si voltò verso gli uomini. «Preparatevi a partire!»
Il manipolo di curiosi si disperse con qualche perplessità, tanto che i due capi delle città gli si fecero vicino. Mors si torturò le mani, a disagio, ma Milenna andò dritta al punto e chiese: «Cosa ha detto? Cosa stava facendo?»
«Stava dicendo addio alla sua vita» rispose senza pietà. Camminò imperterrito verso la Silente più vicina e le sussurrò in modo concitato: «Racconta una nuova storia, falla circolare tra chi ancora rifiuta la fede di Meg. Se non è la collera a farli insorgere, sarà la fratellanza. Racconta del patto di sangue tra Puèsigath e Anojah, che sia il felica il loro profeta. Fallo» ordinò perentorio, l’espressione grave.
La Silente annuì una volta e si defilò con grazia.
Agur ritornò nella tenda, dove Hyria aveva già fatto fagotto. «Ancora un momento» la fermò. Le tolse la sacca dalle mani e la cinse con le braccia, le sollevò il mento e la scrutò con durezza, rabbia e una forza che sapeva di follia e spietatezza. Non le lasciò scelta. «La tua gente avrà potere, ma io voglio poterlo controllare. Non mi fido di quelle donne, sussurrano con troppa facilità.»
«Sono serve fedeli del Volor» lo tranquillizzò.
«Voglio che servano me» chiarì. «In questo tempo vorrei trovare le parole più soavi con cui chiedertelo, ma credo che mi resterà poca dolcezza negli anni a venire, per le persone più vicine quanto per quelle più disperate.»
«Non hai bisogno di chiedermelo» esalò in un soffio spezzato.
Agur fece scorrere una delle ciocche nere dei bei capelli tra le sue dita, la trattenne dalla punta e ne inalò il sapido profumo: profumava di pioggia, dell’acqua che il cielo piange per pulire le macchie di sangue sulla terra. Era un bene prezioso, e lui stava per tramutarlo in pietra, tenerselo per sé. Si fece forza e disse: «Sarai regina, e questo garantirà protezione alla tua gente e controllo su di loro a me.» Il Primo Re della Casa di Venasta indurì il suo cuore, e vene di quella pietra si strinsero intorno al cuore pulsante della fanciulla, come artigli sottili che vibravano al suono della carne viva.
Fu Hyria che, comprendendo quanto dolore stava provando il suo futuro sposo, si sporse sulle punte dei piedi e lo baciò, regalandogli la prima goccia di consolazione. E ne avrebbe versate molte negli anni a venire.
 
 
Hyria gli cavalcava al fianco, finalmente senza benda, resa più pallida dall’oscurità creata dalle pieghe del mantello. Agur non si voltò nemmeno una volta a guardarla, ma percepiva il suo calore come l’unica cosa viva intorno e dentro di lui. La sentiva respirare, e questo era l’ossigeno che lo faceva andare avanti. Rineg aveva galoppato avanti loro, per preparare la strada e i seriniti al loro arrivo.
Tahari camminava scalzo sempre un passo dietro alla sua cavalcatura. Era un’ombra rigenerativa di cui cominciava a capirne l’importanza. Era veramente necessario il suo sacrificio? In un momento di follia aveva confidato alla sua regina il volere rimanere egli stesso indietro. Se ella avesse portato in grembo suo figlio e lo avesse nascosto a Serinut, tra la gente, come uno tra tanti, egli sarebbe potuto rimanere indietro, avrebbe dato volentieri la vita per il suo popolo. Era stata la onnipresente Silente a dire che la sua paura era quella di dover soffrire, e per questo voleva condannare altri a compiangere lui. “Sarebbe un figlio senza padre”, aveva detto, “un principe senza corona. E chi guiderà, sotto il nome di Meg, il popolo?” Agur odiava quella donna, odiava il suo credo e, ancora di più, odiava la sua inamovibile coartazione: era il simbolo delle sue catene. Quelle donne dalla voce fredda e rimbombante come un’eco servivano un Dio mentre raccontavano delle promesse di uno nuovo; per entrambi mostravano lo stesso volto appuntito, inacidito dal loro ruolo e dai vezzi che svolgevano dalla loro nascita.
Avevano finalmente lasciato la via dei morti, erano usciti dal folto della foresta seguendo il rumore delle onde che si abbattevano contro la dura pietra della scogliera ed erano sbucati sopra a uno strapiombo, ai piedi di una vecchia roccaforte costruita dai caharrin durante gli anni della conquista di Serinut. Oltre il porto abbandonato c’era lei: una striscia nebulosa più scura delle acque del mare – la Valle del Volor, le aveva chiamate Hyria – sospesa tra sogno e incubo, distante tanto quanto poteva spingersi la disperata voglia di vivere di un uomo.
Agur alzò un braccio e li fece fermare. I bambini più arditi, tra cui molti figli di Vitahj, si precipitarono verso il precipizio, sopra le scale scavate nella roccia e sui moli fradici del porto. Immensi acquedotti navigabili si stagliavano in mezzo ai faraglioni, bianco in mezzo alla pietra scura, e scale incorniciate da fiaccole spente conducevano ai piedi della scogliera, dove la risacca del mare sciabordava tra il legno e i sostegni delle costruzioni antiche.
«Presto sarà troppo buio per procedere» constatò Mors. Il consigliere si guardò attorno e sospirò nel guardare con nostalgia alle opere di Cahar. «Grandi cose abbiamo fatto. Le sapremo ripetere?»
«Faremo di meglio.» Gli occhi di Agur erano puntati sulla striscia scura all’orizzonte, la quale stava bruciando davanti agli ultimi raggi di Mal che andavano a morire alle sue spalle: il suo nuovo regno.
Hyria aveva abbassato il cappuccio e stava tenendo per mano un pargolo ai suoi primi passi, il quale, incosciente della disperazione in cui perversavano, tentava di acciuffare l’acqua salmastra prima che questa si ritirasse di nuovo verso il mare aperto. Sorrideva, con quella sua timida dolcezza che invogliava a guardare il mondo con compassione e buon cuore.
Milenna si affiancò ai due uomini. «Avete deciso cosa fare degli spettri?» Agur s’irrigidì a sentire quell’appellativo sprezzante.
«State parlando dei miei sudditi» le ricordò caustico.
«Sudditi! È bene, allora, mettere a tacere certe dicerie.» Lanciò un’occhiata disgustata verso la fanciulla e raddrizzò le spalle. «Valissa ha uomini valorosi che sono pronti a dare la vita per voi. A un mio semplice comando.»
Ed ecco la politica dalla quale si era tenuto lontano raggiungerlo, finalmente! «E risponderanno al Re!» la minacciò con lo sguardo.
Milenna sembrò guardarlo con scetticismo, ma due Silenti lo affiancarono e gettarono un’ombra sopra di lui. Agur avrebbe tanto voluto ordinare loro di allontanarsi, e invece si eresse in tutta la sua autorità e allontanò in malo modo i sotterfugi della donna.
«Siete una donna onesta che apprezza la franca verità. E allora sappiate che le voci sono vere: uno spettro siederà sul trono della nuova Venasta, al mio fianco.»
«Nemmeno un caharrin vi seguirebbe in questa follia. Der aveva ragione» sibilò, «vi hanno stregato, rubato la ragione.»
Agur mise mano al pomolo della spada, ma non arrivò ad attuare le sue intenzioni, poiché un corno suonò nel folto della foresta, giù, a sud-est, e lo riconobbe: era un Figlio di Cahar, era Jhann; ed era nei guai, probabilmente circondato da quelle belve. Erano vicini, troppo.
Agur montò in sella e gridò a Mors: «Conduci il popolo sulla via carraia, presto!»
«Lungo il precipizio è morte certa. E la foresta è una trappola» esitò spaventato.
Al che Hyria rispose mentre balzava sulla groppa del suo cavallo: «Pregate Meg. Lui illuminerà la strada.» Affiancò il suo Re.
Agur la squadrò e aprì la bocca per fermarla, ma l’indolente serenità con cui ella lo guardò lo mise a tacere: lo avrebbe seguito, a dispetto di qualunque ordine. Annuì e diede un colpo di staffa.
«Le viverne, con me! Cabiorn, alle armi! Uomini di Valissa, verso ovest! Il comando a Mors!» Incitò il cavallo e partì al galoppo.
Gli zoccoli sull’ispida pietra producevano un suono duro, acuto, perentorio. Divenne tutto il suo mondo, una gabbia di suoni che lo incitava al massacro. La foresta li avvinse in lunghe ombre e la scogliera sparì oltre la linea degli alberi. Il corno di Jhann suonava ancora, invocava un aiuto. Hyria aveva detto agli uomini di pregare Meg, ma Agur aveva solo la sua spada a cui affidarsi. Strinse forte le briglie e si appiattì sul garrese, quasi a voler imbrogliare il vento e la sua forza contraria. Raggiunsero, in un boato di zoccoli, il punto in cui gli ultimi esuli, partiti da Varfool, erano stati assediati. La foresta sembrava esser stata sradicata violentemente da un tornado, c’erano tronchi spezzati e ramoscelli ancora rigogliosi sul terreno dissodato. Agur e la sua cavalleria improvvisata si arrestarono.
Dopo un mese dalla sua fuga da Cahar, finalmente vide la creatura la cui caccia aveva dato inizio a tutto quello: il leggendario Caimhal. Il viso di una lince e la coda di uno scorpione, il Caimhal teneva la testa china, a livello delle sue prede, e con gli occhi iniettati di sangue si divertiva a decidere la prossima su cui affondare le zanne. Di fronte a lui c’era Jhann, la mole enorme sminuita da quella gigantesca della belva; alle sue spalle il carico era stato rivoltato e Nor dava ordini agli uomini di risollevarlo e metterlo in salvo. E c’era gente, la plebe, gli indifesi; e bambini terrorizzati nascosti tra gli alberi abbattuti.
Agur irruppe in un grido inferocito e spronò la sua cavalcatura a volare verso il pericolo. Neanche allora la creatura si preoccupò di lui. Agur brandì la spada, mentre i suoi lineamenti si distorcevano in una smorfia d’ira. Fu allora che un secondo caimhal sradicò una delle cortecce più robuste e la scagliò tra i ranghi del piccolo plotone, disperdendone le fila. Finalmente la prima creatura sollevò gli occhi e lo fissò, astuta e maligna. Era lui il suo bersaglio, e non lo aveva ignorato neanche per un momento, glielo aveva solo fatto credere. Superò con un salto Jhann e atterrò morbidamente sulle zampe corrazzate; avanzò con eleganza, la coda serpeggiante, e lo ammirò, così come si ammira un pasto delizioso o una ricompensa promessa e lautamente guadagnata. Gli stava dicendo che era lui il predatore, e che averlo cercato arrogantemente oltre le Pietre di Shaev aveva trasformato il principe nella sua preda. Agur sentì nuovamente quel terrore atavico ghermirlo e imbavagliarlo, impagliarlo in quell’assurda posizione, con il braccio alzato e la spada lucente tra le tenebre. Si rivide oltre i Monti Silenti, al di là del passo sorvegliato dalle Pietre di Shaev, di nuovo in balia dello scherzo del Fato. Il Caimhal superava quell’orrore, lo sfruttava e lo decuplicava a suo piacimento, il miele del suo manto che serbava tormento in un’affettata e fluente magnificenza: la sensualità del felino a caccia.
Il Caimhal scattò e mosse una zampa, ma agguantò acqua. Una barriera d’acqua si era alzata dalla terra – ormai secca e inaridita – sotto di lui. Il cavallo s’impennò e indietreggiò sulle zampe posteriori, mentre la barriera si disperdeva in tantissimi tentacoli fluenti. Hyria vi stava in mezzo: era inginocchiata e stava pregando; i suoi occhi erano nuovamente di ghiaccio.
Agur si riscosse. Riprese il controllo della cavalcatura e la aizzò verso il nemico. Intorno a lui gli uomini gridavano e invocavano i loro dei – che Agabar volgesse a loro favore il Fato, dicevano – mentre l’altro Caimhal giocava con loro, il pungiglione che scattava prima da un lato e poi dall’altro, cercando di infilzarli. Colate di sangue caldo scivolarono lungo la coda corrazzata, andando a inumidire il suo manto: il sangue lo faceva brillare.
La luce di Sel impallidì ogni cosa in un sudario bianco e irreale, quasi a dischiudere le porte dell’aldilà.
In Agur montò la furia.
Mentre il suo cavallo galoppava, il cuore che scoppiava e la bava al muso, balzò al suolo e caricò un fendente verso il muso della belva. La forgia del perion produsse un taglio sghembo sopra uno degli occhi, liberando liquido simile a fango. Piangeva argilla!
Il caimhal tuonò. Un suono vuoto ed echeggiante, un corno profondo che pareva risuonare in una valle chiusa tra alte montagne. Una sferzata della coda lo lanciò a gambe all’aria, gli tolse il respiro e lo inebetì. Sentì Hyria frapporsi di nuovo tra loro, il potere del suo dio svolazzare come un fuoco fatuo, irritandolo. L’acqua che brandiva, da sola, non poteva scalfire la corazza del mostro, il potere del Volor non era sufficiente. Ma il perion sì!
«Hyria!» la invocò. Non avrebbe pregato un Dio, ma poteva implorare la fanciulla di compiere il miracolo.
E successe, ancora prima che gli occhi di lei si voltassero a guardarlo. Il cielo s’illuminò, i fuochi si accesero nella notte. E fu un richiamo alla vita, alla lotta, alla rabbia… alla guerra! Le stelle fecero posto a lanterne di fuoco, a lucciole sfavillanti che si mossero verso ovest, verso Serinut, indicando loro il cammino.
Hyria si lanciò verso di lui, in una folle gara contro il caimhal. Si gettò a terra, afferrò la lama di Agur e sussurrò una flebile preghiera. Una goccia d’acqua trasudò dal terreno, il perion l’assorbì. La belva fu sopra di loro in un balzo, ma Hyria aveva ancora gli occhi socchiusi e le labbra dischiuse. Agur afferrò le sue mani e le guidò in alto, in un affondo verso il cielo avverso. La lama si conficcò sotto una zampa del mostro, in un incavo non protetto dalla corazza. Piovve fango.
Agur si tirò via, tutto inzuppato, e aiutò la fanciulla a liberarsi del corpo esanime.
«Jhann!» chiamò. Il suo fedele amico stava drizzando il carro e assicurando le lastre di perion. «Va’!» gli ordinò. «Adesso!»
L’omone sollevò lo sguardo incredulo al cielo e si beò di quella meraviglia. E il suo corpo subì un mutamento: infiacchito e disperso nel vuoto lasciato dall’Agabar, si riempì e rinvigorì della forza del fuoco, lo stesso che brillava negli occhi del principe. Jhann gridò. Gridò come un orso, e più il grido echeggiava e più il suo corpo s’ingigantiva. L’omone annuì una volta nella sua direzione e poi gridò, stavolta parole d’incoraggiamento verso gli esuli.
«Forza, prendete forza e andate! Andate!» li incitò, indiavolato. Scansò in malo modo due uomini con le gambe tremolanti e afferrò le redini di due viverne. Le legò al carro, sollevò Nor e lo mise sopra una delle due. Gridò: «Andate!»
«Un Vorouk è una cosa…» tentò quello, ma Jhann pungolò con la punta dello spadone la zampa di una viverna. Quella, ragliante come un asino, allungò il collo sussultante e partì.
Jhann rimase indietro con gli uomini di Cabiorn ad affrontare il secondo Caimhal. Rianimati dalla luce promessa dai racconti di Meg, gli uomini iniziarono a gridare il suo nome: prima piano, quasi in un mormorio timoroso, poi sempre più forte, sempre più vorace; alla fine divenne un rullio di guerra scandito da tre lettere, quelle che imbrigliavano la rabbia di quei disgraziati.
Agur urlò: «Che Meg scenda su questa terra. Ancora una volta, combattete, Figli di Cahar!»
Circondarono la belva. I domatori di Cabiorn condussero le viverne all’attacco. Gli artigli delle scure creature cercarono di scalfire la corazza del mostro, ma a ogni loro affondo il caimhal rispondeva con un colpo di coda o una zampata. Per quanto gli uomini provassero a stringerla in una mossa e a raggiungere uno dei suoi punti deboli, la belva riusciva sempre a trovare un varco da cui defilarsi o a debellare il fastidio dato dalle loro lame, molte delle quali fatte di ferro. Jhann s’imbestialì: si posizionò sotto una viverna e sgolò. La viverna sembrò condividere la sua frustrazione e in un impeto disperato si avventò contro il caimhal. Il felino affondò le zanne sporgenti nel collo dell’avversaria, decapitandola, ma mentre il corpo morente si contorceva su se stesso come quello di un serpente, la belva nell’assalto scoprì l’addome. Non aspettando altro, Jhann si lanciò tra i due, superò la guardia dell’essere e affondò la lama sotto la sua corona di ossa. La lama di perion trovò la via del sangue e lo spillò con veemenza.
Il tonfo dei due grossi corpi scosse la terra. Per un attimo i caharrin rimasero a fissare le due enormi belve distese al suolo, in pozze di fango. Agur studiò quello che aveva abbattuto con l’aiuto di Hyria: il corpo sembrava come esser stato svuotato delle viscere, pareva invecchiato, inflaccidito. Rabbrividì. Hyria posò una mano leggera sul suo avambraccio e sospirò.
«Mio signore» lo chiamò, triste.
Agur gli voltò le spalle e guardò i suoi uomini. Del plotone che aveva condotto in aiuto di Jhann e di Varfool restavano solo una decina di uomini e nessuna viverna.
«Rimontiamo in sella. Raggiungiamo gli altri» ordinò perentorio, l’espressione scolpita nella pietra.
I cavalli corsero di nuovo, stavolta verso ovest, lontano dalla battaglia. La nuvola di terra che sollevarono pareva aleggiare a lungo dietro di loro, come a voler schermare i loro passi, a nasconderli al nemico: era l’ultimo dono di Anojah. Il folto della scura foresta sembrava inscurirsi e morire, la vita l’abbandonava così come stavano per fare i suoi figli prediletti. Agur si chiese se erano veramente loro quei figli o se quel mondo stava solo mostrando il suo vero volto, per accogliere i nuovi padroni.
All’improvviso Jhann, che era in testa al piccolo drappello, gridò un avvertimento e fece dietrofront. Affiancò il principe e mormorò concitato: «Ci sono morti davanti a noi, puzza di sangue dappertutto.»
«Le belve sono avanti a noi?» chiese avvilito un uomo di Varfool. Doveva essere un semplice artigiano, perché teneva la spada come se dovesse accarezzarla piuttosto che brandirla.
Hyria abbassò il capo. «No, solo tanto dolore.» Guardò Agur. «Per me e per te» si rattristò. La sua attenzione era tutta per quel lieve venticello che le accarezzava i capelli. La fanciulla vi si adagiò, come si adagia la guancia in una mano amica. Chiuse gli occhi per un istante e poi fece avanzare la sua cavalcatura al passo. Agur la seguì, timoroso.
In mezzo a una macchia di licheni, tra tronchi striati di sangue e foglie morte adagiate sulla fredda terra, i corpi di Rineg e Der parevano riposare tranquillamente, beanti di sogni felici. Eppure c’era una nota macabra e angosciante in quello scenario. La prima stilettata la assestò la figura di Nor, inginocchiato accanto al corpo del fratello: aveva il volto rigato di lacrime e le mani sporche di sangue; teneva la mano del dormiente e la accarezzava pietosamente. Hyria smontò da cavallo e i suoi passi esili scivolarono sul tappeto di foglie. Silenziosa, si rannicchiò accanto alla testa di Rineg e la sollevò per stringersela al seno. Lo pianse senza un lamento. Intorno a quella scena vegliavano mezza dozzina di Silenti, i corpi slanciati come colonne gettavano ombre sui cadaveri: avvoltoi, ecco cosa parvero agli occhi di Agur. Dietro di loro c’erano tutti gli altri, quelli che avevano assistito alla scena e quelli che erano corsi a vedere cosa stava succedendo. E Agur non aveva ancora capito.
Domandò, atono: «Come?»
Jhann si posizionò al suo fianco, la spada pronta a dar battaglia, ma Tahari allungò una mano blu e lo fermò, greve.
Fu la voce di Nor a rompere il silenzio. «Ho dovuto farlo, non era più lui. Se n’era già andato.»
Agur non capì.
«Ossa nere bruciato sua mente» sospirò Tahari. «Rineg… provato… uomo fedele a te, provato a vita tornare fratello…»
Nor alzò il volto e i suoi occhi, un tempo vivaci e astuti, apparvero svuotati della vita, velati da un dolore che segnava la sua carne. «Lo spettro ha condotto i seriniti da ovest, voleva che andassimo con loro, voleva posizionare le lastre. Der ha gridato al tradimento» scosse la testa «non mi ha neanche visto, non mi ha riconosciuto. Sembrava preda di una visione, i miei occhi non lo hanno rincuorato.» Mostrò i palmi vermigli. «Rineg ha provato ad aiutarlo, ma Der… è stato atroce, una ragna senza fili… ho dovuto fermarlo, per lui, per te, per Rineg… per me, non potevo vederlo così. Troppo…»
Agur tornò a guardare il corpo del Portatore: la sua veste, a prima vista integra e immacolata, mostrava squarci sulle braccia e sulle spalle, che con molta probabilità continuavano per tutta la schiena. Il sangue si era raggrumato in un’enorme pozza sotto di lui, aveva impregnato gli abiti di Hyria, segno che le mortali ferite erano state inferte alla schiena, vigliaccamente. Stornò il capo verso Nor, lottando contro tutti i suoi istinti. Vide il pugnale al suo fianco, le sue mani insanguinate, e capì che era il sangue di Der, e non quello di Rineg, a macchiarle.
«Uomini di isola andati» gli comunicò Tahari. Serinut aveva ritirato gli aiuti.
Agur serrò la mascella, un unico solco di dolore screpolò la pietra in cui aveva rinchiuso i suoi sentimenti. «Serinut non rifiuterà alcun aiuto al suo Re. Brucia il corpo di Der con la foresta.»
«Cosa?» Jhann si sconvolse.
«Meg lo accoglierà al suo fianco, se sarà degno. Date in pasto al fuoco questa terra.» Si voltò verso le Silenti, sbrigativo. «Riconsegnate Rineg al vostro Dio.»
Agur passò in mezzo ai defunti e alle figure di Hyria e Nor, che ai lati opposti piangevano i loro cari. Tenne il volto fiero e lo sguardo distaccato, e si allontanò dalla folla e da quella fossa di perduti, solitario e più che mai rabbioso contro quella terra maledetta.
 
 
«Milenna ha condotto la popolazione di Valissa oltre la Via Carraia» lo informò Mors, «Ho tentato di farla ragionare…»
«Avevate il comando, non dovevate farla ragionare ma farvi ubbidire» si alterò Agur senza fermarsi un attimo.
Il rumore dei picconi e degli artigli delle viverne che scavavano la roccia ai fianchi della strada coprivano le loro voci. Gli uomini di Varfool, dopo esser stati curati e controllati dai pochi guaritori, erano stati messi a lavorare senza sosta al passo della via. La luce del nuovo mattino faceva risplendere i pezzi di perion che facevano capolino da sotto i grandi teli marroni, una luce nera che rifulgeva nell’alba. Tutto quel perion sarebbe rimasto lì, come un simulacro o una pietra tombale, e Agur sperava davvero che la magia di cui voleva servissi funzionasse. Più di una volta era stato tentato di ordinare la fusione di quel materiale per farne un uso più utile, come spade e frecce, per combattere in un folle assalto i mostri. Si consolava ripetendosi che oltre quella via le cave di Serinut avrebbero armato le loro schiere, con quello avrebbe attaccato con una strategia e più possibilità di vittoria.
«Perdonate, mio signore.»
Agur serrò la mascella e lo azzittì con un gesto impaziente. «Avevate detto di essere un alto in grado a Cabiorn. Di cosa vi occupavate, per l’esattezza?»
Mors si tormentò le mani. «Ero… sono uno studioso, mio signore» sospirò un po’ demoralizzato, «studio le erbe e l’arte curativa, mi occupavo dei sanatori della città. Sapete, a Cabiorn non ci sono solo gente rozza come i domatori.» Nella sua voce sembrava celarsi una certa nota rancorosa, legata a vecchi dissapori tra le varie caste della città.
Agur sembrò volerlo aggredire. «Ho bisogno di un condottiero, non di un taumaturgo.»
Mors se ne risentì. Abbassò il capo e si scusò più volte, mortificato. Agur sentì il tocco delicato di Hyria frenare la sua collera.
«Mani benedette quelle che sapranno risanare il regno del Re» lo allietò, incoraggiandolo a raddrizzare il capo. Mors sembrò pendere dalle sue labbra. «Sono mani discrete quelle di chi riflette prima di agire. Ed è per questo, mio signore» si voltò verso Agur con tono conciliante, «che ti parlo apertamente davanti al tuo fedele suddito. Dobbiamo sbrigarci. Rineg mi ha sussurrato, mi ha detto ciò che noi non possiamo ancora vedere: i due Caimhal che abbiamo abbattuto erano a caccia, la loro morte ha allertato i loro compagni. Si stanno radunando, stanno richiamando i Ra-Cahar.»
A confermare le parole profetiche, il suono cavernoso di una di quelle belve dorate vibrò tra le fronde degli alberi. I rami più fragili vennero scossi e la baia ebbe un brivido. I picconi si fermarono, le teste si sollevarono. Ad Agur sembrò di poter sentire gli artigli delle creature sradicare il terreno mentre correvano verso di loro.
«Jhann!» chiamò con una nota strascicante nella voce, esasperato.
«Abbiamo quasi finito!» non si perse d’animo l’omone. «Bisogna solo tirarle su.» Tirò via i teloni e riscosse gli uomini ad aiutarlo a trasportare la prima lastra.
«A questo punto anche Nor deve aver finito. Mandate i carri da lui. Mors, guida le donne i vecchi e i bambini dall’altra parte della Via.»
Il taumaturgo lo guardò con sorpresa. «Sì, mio signore» rispose con gioia. Corse via.
Agur esitò alcuni istanti. «Mi dispiace per la tua perdita.»
Hyria sollevò il viso verso di lui, si appoggiò leggermente alla sua figura. «Ho meno rimpianti per cui piangere di molti altri.» Spaziò con lo sguardo sulle famiglie distrutte e i feriti doloranti: c’era gente sola che si risollevava con fatica dal fango e altra che quel letame se lo sarebbe portato addosso; c’erano visi macchiati, deturpati, persino i bambini avevano gli occhi grandi e spaesati. «Io posso ancora sentire la sua voce, loro hanno perso tutto, persino il loro Dio.»
«Hanno me, hanno Meg.» Avanzò austero.
Hyria lo trattenne da un braccio, lo implorò piegata in due dall’impeto: «Un Dio non può nulla senza potere, e nessun Dio ha potere se non c’è qualcuno che non creda in lui.»
«Loro crederanno, le Silenti…»
Hyria scosse la testa. «Meg è una tua creatura, devi fidarti di lui. Devi fidarti di te.» Allungò la mano e cercò di appianare i solchi rabbiosi che indurivano i tratti del suo viso. Gli sorrise, flettendo il collo di lato. «Non sentirti in colpa per Der, mio signore» lo consolò colpendolo al cuore, «né devi rimpiangere la morte di Rineg. Nessuno dei due ti ha mai accusato. Rineg aveva fiducia in Cahar, vi ha dato tutto e l’ha fatto per volontà, e non per dovere. Se vuoi, abbi pietà di Nor che ha versato sangue fraterno per salvare uno poco più che sconosciuto. Abbi fede in Mors, perché porterà un panno con cui pulire il fango dal viso del tuo popolo. Non disprezzare chi ama e ha pietà, non togliere la fede al tuo popolo. Nessun Dio è solo ira, nessun Re è solo regalità. Tutti hanno un cuore.»
Agur strinse la mano di Hyria nella sua, la tenne ancora un po’ sulla guancia per compiacersi del suo tepore. Fu con mestizia che disse: «Le belve non hanno un cuore, non hanno neanche sangue da far prosperare. Ed è con loro che dobbiamo avere a che fare per riscattarci.»
Con delicata fermezza si fece scivolare la mano della fanciulla tra le dita e si allontanò. Montò in sella e cavalcò verso le lastre di perion. Osservò il suo popolo marciare sulla via carraia sui carri e a piedi: alcuni portavano seco animali e bestie, pochi erano quelli con muli o cavalli. La processione di rifugiati si allontanò in direzione della colonia di Serinut, la loro nuova casa… l’avamposto da cui attaccare, un giorno. Agur accarezzò il manto del suo cavallo e attese che le lastre fossero incassate nel terreno. Vide Jhann detergersi il sudore dalla fronte e annuire nella sua direzione. Voltò il destriero per richiamare i domatori di Cabiorn che erano rimasti nelle retrovie. I suoi occhi si scontrarono con l’alta figura del felica: aveva il viso disteso e un sorriso di commiato stampato in volto; teneva la lanterna donatagli a Vitahj nelle mani e la stava tendendo verso di lui.
«Luce di Meg. Lanterna utile» ammiccò, accennando alle sue parole in merito.
Agur abbassò lo sguardo sui vetri colorati. «Chi vuoi che l’accenda?»
Tahari abbassò un po’ le mani e si avvicinò. Con cura ripose la lanterna nella vecchia sacca legata alla sella del cavallo. In un gesto fraterno, pose una mano sul petto del principe. Annuì.
«Finita la magia, scappa» sbrogliò d’un fiato, liberando la sua irrequietezza. «Sei veloce, ho visto la tua gente cacciare. Puoi trovare un varco, puoi nasconderti e sopravvivere, riuscire a raggiungere la tua famiglia. Una volta oltre i monti, il tuo sangue sarà al sicuro. Non devi morire!»
Tahari continuò a sorridere.
Un domatore urlò un avvertimento. Agur scattò sulla sella, il cavallo s’innervosì. Le viverne si acquattarono, in difesa, e Jhann aiutò Hyria a montare frettolosamente sul cavallo. Il felica afferrò la spada a doppia curva e gli fendette, aprendogli uno squarcio nel petto. Il sangue macchiò la maglia di lana. Poi si recise anche il suo petto, un taglio molto più profondo anche se non mortale, e vi bagnò la mano blu. La ritrasse completamente zuppa del suo sangue e la pose di nuovo sul petto ferito dell’altro.
«Ad Ambal, fratello. Vita tua ama.» Con un colpo al quarto del cavallo, lo fece allontanare.
«No!» Agur tirò le briglie e si voltò. Lo vide correre verso le lastre di perion e intingerle del suo sangue.
«Hai il suo sangue?» gli chiese una Silente.
Agur si portò una mano al petto.
«Andiamo, allora.»
Jhann lo affiancò. «Mio signore? Agur?»
«I domatori…» Sembrava confuso, in preda al panico. Le belve erano giunte troppo in fretta, Tahari non avrebbe avuto vie di fuga, e lui non poteva abbandonarlo, non poteva lasciarlo indietro. Suo padre, sua madre, Cammur… erano morti mentre lui fuggiva. Non poteva fare lo stesso con il felica: lo aveva seguito nel disonore, lui lo avrebbe affiancato nella morte. Fece per tornare indietro, ma Jhann afferrò le redini del cavallo, quasi gettandosi sul garrese.
«Non lo puoi più fare» gli rammentò i suoi doveri. Jhann capì però le sue sofferenze e richiamò i domatori.
L’uomo che aveva guidato la sua viverna contro il Caimhal qualche ora prima si voltò un attimo verso di loro e si mise in piedi sul dorso del nuovo animale. Sbatté una mano contro la coscia, com’era tradizione fare durante i tornei di Cabiorn, Gli altri lo imitarono.
«Andiamo.» Jhann si voltò e guidò i cavalli verso la via carraia.
«Ho detto…»
Jhann sputò, tornando per un attimo ai suoi soliti modi. «Che io sia dannato se stavolta ti permetto di fare l’idiota. Agur, mio signore, la caccia è finita.»
Agur sollevò gli occhi al cielo, cercò le stesse stelle che tanto gli erano familiari durante le notti passate oltre le mura di Cahar. Alcune le ritrovò, un po’ sfocate, altre sembrarono essere nate proprio in quel momento, all’alba del suo nuovo regno: erano le lanterne di fuoco che tanto le Silenti avevano pregato, brillavano come la lanterna che Tahari gli aveva donato. Le vide muoversi verso ovest. Per un attimo Agur si dimenticò che erano le nif, per un attimo si lasciò accompagnare dal suo nuovo Dio. Meg lo sorresse lungo la via.
Lanciarono i cavalli al galoppo. Alle loro spalle, un domatore scagliò un dardo infuocato contro la foresta del Mirenel, un esile fuscello che voleva arrogantemente ferire la belva che era diventata quella terra; altre cento la seguirono. Il fuoco attecchì prima sulle fronde, donando una chioma dalle sfumature aranciate agli alberi, poi il vento lo ghermì e sembrò pennellare tutto di rosso. Una scintilla venne spruzzata anche nel cuore del Primo Re della Casa di Venasta. Persino gli animali parvero incenerirsi, e come cenere volarono sopra la via carraia. All’orizzonte c’erano le gemelle delle lastre di perion che si erano lasciati dietro, due cuspidi feroci che minacciavano il cielo, avvertendolo che mai più la sua gente avrebbe accettato di cadere nel fango, mai più avrebbe avuto paura dell’usurpatore. Il Fato, in quella nuova Venasta, non era il benvenuto.
Agur macchiò del suo sangue e di quello di Tahari le due pietre. A Mors, che osservava la scena con trasporto e venerazione, sembrò che il suo re stesse abbracciando un lontano fratello. Il Volor rispose con uno sbuffo rabbioso. Il mare s’agitò. La popolazione, impaurita, scappò dalle rive sabbiose e indietreggiò, arrampicandosi caoticamente per le dune, facendosi largo a gomitate, spingendo, salendo addosso ai più deboli. La pietra della via carraia venne scossa da mani di gigante. Uno scalpello invisibile la scavò e v’impresse sopra antiche e sconosciute rune, poi il mantello del Volor ingoiò ogni cosa.
Agur non si mosse, non indietreggiò di un passo. Hyria aveva posato una guancia sulla sua spalla, teneva la testa alta e fiera di fronte il suo Dio e gli occhi mesti in saluto alla sua terra. Aveva lasciato tutto per lui. E lui non aveva nulla da darle in cambio, solo un regno da ricostruire e tanta fatica da condividere. La guardò, e lei gli sorrise, come sempre, occhi bianchi che riflettevano le striature azzurrine del mare.
Agur rilassò la mascella per un attimo e la strinse a sé. Le onde danzarono vorticose e ribelli, il vento spazzò via l’ultimo legame tra Serinut e la terra proibita. Poi la voce del Volor vibrò un’ultima volta e si acquietò. La gente osò di nuovo ammirare il mare cristallino che giocava teneramente con la rena. Si sentì un sospiro collettivo allietare gli animi. Poi calò la nebbia a est, e ciò che rimase furono solo le echi della morte sul versante fantasma.
«Andiamo» disse il Re, prendendo per mano la fanciulla, «devi insegnare loro a tenere la testa alta. Mia signora.»
Hyria ricambiò la stretta e lo accompagnò lungo la via che saliva a ovest.




 

N.d.A.

Non so in quanti siano effettivamente arrivati alla fine (se ci siete, battete un colpo),  ma dopo due anni di alti e bassi, incertezze e ripensamenti, questo spin-off è stato finalmente concluso.
Adesso sapete come tutto è iniziato, come anche il più piccolo gesto possa cambiare le sorti di molti. Ricordate che ogni azione ha una reazione uguale e contraria, e che ognuno di noi, quando agisce, dovrebbe assumersene la responsabilità e le conseguenze.
Avete scoperto qualcosina in più su mostri e dei, su quanto i fili che dividono tutti noi siano sottili. Avete forse anche compreso quali dinamiche siano state messe in atto. Da questo evento sono nate poi città, costumi e usanze, alleanza politiche e intrighi. Vi ho mostrato un bel po' di personaggi: sapreste collegare ognuno di loro a una città? Ci sono diversi indizi e diverse allusioni con "Il Tredicesimo Re", spero che siano state colte.
A me non rimane che ringraziare i sopravvissuti, coloro che sono giunti a quest'ultimo rigo: avete portato molta pazienza, e spero che sia stata ripagata.
Ringrazio chi ha recensito - siete stelle che illuminano la mia solitudine - e chi ha inserito la storia tra le seguite, ricordate e preferite. Siete più di quanto sperassi.
Alla prossima avventura.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Nirvana_04