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Autore: yonoi    29/07/2018    9 recensioni
Un piccolo paese tra i boschi incappucciati di neve della Danimarca.
Nella mente di Indaco Hansen suona da sempre un'armonia tutta speciale, che solo lui è in grado di udire: il suo corpo risponde, e fin da quando ha imparato a reggersi sulle gambe, la danza è la sua dimensione, il suo destino e la sua gioia. Accanto a lui è cresciuto l'amico indivisibile, Larse Kruse. Larse è schivo e introverso, ma possiede anche lui un modo tutto speciale per comunicare il suo spirito: il disegno è la sua voce, la via di liberazione da tutte le sue inquietudini, dalle pene segrete, dal suo amore nascosto per Indaco Hansen. Indaco è il suo desiderio, l'oggetto dei suoi ritratti, ma Indaco è totalmente devoto alla sua danza.
La storia di un'amicizia, di un amore che si consuma nel silenzio, di un sopruso e un inganno, di una malattia che non lascia scampo, di un'antica e sinistra leggenda.
Prima classificata pari merito al contest "Zodiac game" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP; storia valutata al contest "Sense and Sensibility" indetto da Iamamorgenstern.
Seconda classificata al contest "Concorso a tema (l'amicizia) indetto da Dreamkath.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere
e che mi seguirà ovunque:
quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere
al di sopra della fatica
e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando,
 se ci si siede per lo sforzo,
se compatiamo i nostri piedi sanguinanti,
se rincorriamo solo la meta
e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci,
non comprendiamo la profonda essenza della vita,
 dove il suo significato è nel divenire e non nell'apparire”
(R. Nureyev, “Lettera alla danza”)
 
“Ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini”
(W. Shakespeare, “Macbeth”)


 

5 - Atto quinto - Accanto a te è il mio riposo
 

            Al rientro all’Accademia, una sorpresa attendeva Indaco Hansen. La vigilia di Natale, nel corso di una gita in montagna con gli amici, Jens Lilin aveva subito un infortunio grave.
            Le cose erano andate più o meno così: un abete solenne, alto come una torre e dotato di rami flessibili e vigorosi, fatti apposta per reggere interi inverni di neve senza battere ciglio, aveva avuto la malaugurata idea di crescere in prossimità di una pista da sci. Sotto alla terra sdrucciolevole del pendio aveva piantato nodi di radici possenti e s’era abbarbicato con tutta la forza: senza pensare che, settantacinque anni dopo, Jens Lilin e i suoi compagni avrebbero avuto la brillante idea di lanciarsi in un fuoripista proprio da quel versante.
            L’elegante curva in piena velocità di Jens, detto anche Blu notte, era stata bloccata da un cumulo di neve che non voleva saperne di farsi spazzare via in modo prepotente, né di disfarsi in una sventagliata di fiocchi a far da coda e strascico a quell’impertinente. Quel blocco di neve solida, corposa e poco socievole mostrò i denti levigati di un lastrone di ghiaccio: Lilin ci cadde sopra con tutte e due le ginocchia, e a fermarlo ci pensò il buon cuore dell’albero.
            Dopo averlo aspettato per un pezzo a fondo valle, i compagni dovettero risalire la china per andare a recuperarlo. Ci misero più di un’ora di fatica improba, perché se la neve fresca era disposta a farsi cavalcare in discesa, in salita faceva sudare sette camicie: in più, non si sapeva da che parte Blu notte fosse andato a finire. A districarlo senza ulteriori danni ci pensarono gli uomini del soccorso alpino, arrivati sul posto con l’elicottero: due metri e novanta l’uno muniti di cinghie, collare cervicale, tavola spinale, coperte e metallina per evitare al malcapitato, che più blu di così non era mai stato, di finire i suoi giorni assiderato ai piedi dell’albero.
            Mentre si adoperavano intorno all’infortunato, aggiornando in tempo reale la centrale operativa sulle sue condizioni, i quattro del soccorso trovarono pure il tempo di fare una ramanzina a quegli sprovveduti: silenziosi e compunti, gli incauti amici di Jens s’erano radunati attorno al compagno adagiato sulla spinale, simili a una ghirlanda su un monumento ai caduti.
            Jens esibiva un volto di cera preoccupante, la temperatura corporea era di trentaquattro gradi, le sue ciglia irraggiavano minuti cristalli di ghiaccio.
            -“Siete degli imbecilli”- aveva espresso in sintesi il soccorritore più grosso, piantato e poderoso, quello che dava gli ordini perché era medico e capo di tutta la spedizione -“il vostro amico, qui, poteva lasciarci le penne”-
            Persino le imprecazioni più truci uscite dalla bocca di quegli uomini, mentre cercavano di cavar fuori Jens Lilin da un metro e passa di neve caduta dall’albero, e da quella che s’era tirata addosso in quella caduta rovinosa, erano fiori di campo in confronto a quelle che uscirono dalle fauci di iena Halle, non appena la notizia dell’infortunio arrivò all’Accademia.
            Le condizioni dell’infortunato erano preoccupanti, perché nella caduta aveva riportato la rottura dei legamenti di entrambe le ginocchia, oltre a un trauma cranico, il tutto complicato dal tipo B con cui conviveva dalla nascita: i risultati delle analisi sui fattori coagulativi fornirono esiti ben diversi da quelli presentati dallo stesso Jens Lilin alla visita d’idoneità all’Accademia.
            Herre Halle era furibondo: già solo con la danza a livello professionale quell’idiota di Lilin aveva rischiato grosso, e adesso in ospedale si stava giocando la pelle. Iena Halle si prese la briga di andare a trovarlo apposta per insultarlo: salvo rinunciare all’ultimo perché Jens riposava, il volto scavato e pallido in tinta col lenzuolo, e circondato da una tale quantità di fleboclisi che persino Halle ebbe timore di avvicinarsi.
            Tutti gli insulti con cui l’insegnante di danza avrebbe voluto omaggiare Jens Lilin, li riversò in uno sfogo epocale nel corso di un colloquio in direzione, alla presenza della Madame Grisi e di tutto lo stato maggiore. Relegato in un angolo, c’era anche Indaco Hansen:
            -“Che razza di coglione, maledetto imbecille! L’avessi qui, lo ammazzerei con le mie mani! Fottuta testa di cazzo!”- Halle alzava i toni e all’unisono tremavano i vetri delle finestre, la scrivania della direttrice e un’esile pianta in vaso che nessuno si ricordava mai di annaffiare. 
            Quattro piani più sotto, i membri dell’orchestra ormai lo conoscevano, così come gli allievi della scuola di canto e di recitazione: ormai nessuno saliva più a protestare o anche solo a vedere che cosa stava succedendo, anche perché nessuno ne aveva il coraggio.
            -“Va bene, va bene, Halle”- intervenne Madame, che ci teneva a mantenere uno straccio dl decoro di fronte al turista Hansen -“veniamo subito al punto, che qui il tempo stringe”-
            Indaco continuava a starsene in disparte, ben concentrato a reggere il muro con le spalle e a pensare a Jens Lilin nel letto dell’ospedale, dove anche lui andava a trovarlo ogni giorno: spesso aveva saltato persino qualche lezione per via di quelle visite, durante le quali si limitava a sedere al capezzale di Jens senza poter scambiare neppure una parola, perché l’amico era perennemente assopito. Oltre che per le condizioni di Blu notte, Indaco era preoccupato che in virtù di qualche congiunzione sfavorevole, o per qualche nefasta concatenazione di eventi, saltasse fuori che pure lui aveva alterato le analisi, perché non fossero d’intralcio alla sua carriera di étoile.  
            Si ritrovò a fissare la pianta in vaso semisepolta dalle scartoffie, una stella di Natale che già cominciava a seccare le foglie, e raggrinziva mestamente per la sete sopra alla scrivania della direttrice. Probabilmente si trattava di un dono che si stava spegnendo per l’incuria, come forse si era spenta la sua amicizia con Larse, come sicuramente s’era spenta la carriera da ballerino di Jens Lilin. Chissà se il suo amico sarebbe mai riuscito a riprendere a danzare, dopo il lungo recupero che lo attendeva e ammesso che riuscisse a salvare la pelle. Chissà se Larse Kruse, in quel preciso momento, si trovava nel suo posto segreto a disegnare o a spalare la neve: altre cose, Indaco Hansen non riusciva ad immaginarle, ma temeva che dietro agli sbalzi d’umore di Larse, ai suoi attacchi di vomito, al desiderio di confidarsi e poi fuggire ci fosse qualcosa di molto grave.
            Era completamente assorto nei suoi pensieri: non s’era neppure accorto che finalmente iena Halle aveva terminato di esprimere il proprio cordoglio nei confronti di Jens Lilin, urlando ai quattro venti con quella voce da bombardiere in attacco alla contraerea.
            Lo ridestò d’un tratto la stretta d’acciaio della Madame Grisi:
            -“Turista è mai possibile che tu stia nelle nuvole persino quando gli insegnanti ti parlano?”-    
            Il volto di Madame era corrucciato, ma sotto a quel cipiglio s’indovinava la gioia.
            Soltanto in quel momento, Indaco realizzò che la parte da solista principale nel balletto, in mancanza di Lilin, era stata affidata a lui, allievo appena tredicenne dell’Accademia.  

 
******
 
            Era la prima volta che Indaco Hansen metteva piede in un vero teatro: il saggio del primo anno, sulle note de “La danza delle Ore” di Ponchielli, con le piccole allieve di Madame che vestivano tunichette rosa, gialle e violette a seconda dei colori della luce del giorno, si era tenuto nell’aula magna dell’Accademia. Già in quell’occasione, a Indaco era stato affidato un piccolo ruolo, la parte della Notte da interpretare assieme ad altri due allievi della classe maschile.
            Insieme a Jens e a Søren aveva avuto la sua parte di lezioni supplementari: ma mentre per i due grandi ballare insieme alle bambinette del primo anno era poco più che uno svago, Indaco aveva il cuore che gli batteva forte.
            Il pubblico era composto prevalentemente dalle mamme delle sue compagne di corso, ma seduta su una poltrona presa a prestito in direzione, a conforto delle sue gambe sempre più malandate, c’era anche nonna Mette. All’inizio del balletto erano entrate in scena le più piccine, a interpretare le ore dell’alba che nasceva, vestite in tutte le sfumature del rosa e sotto l’occhio attento di Madame, che in un angolo controllava i movimenti con una semplice alzata di sopracciglia.
            L’esibizione si era conclusa senza troppi incidenti e alle piccole si erano unite le più grandi, tutte vestite di giallo e di bianco perché ormai era giorno fatto. Al tramonto avevano ballato altre ragazze vestite di viola e di azzurro; poi era giunta la notte ad addormentare tutte, ed era interpretata da quei tre ragazzi in calzamaglia nera. Dietro a quella calzamaglia, c’era tutta una storia.
            Il costume dei ballerini della notte, in teoria, avrebbe dovuto essere realizzato in altrettante sfumature di blu: ma per quanto riguardava Indaco, l’ordine si era perso in chissà quali meandri della sartoria del teatro.
            Come ai suoi compagni, anche a lui le sarte avevano preso le misure, riportandole su foglietti sparpagliati un po’ ovunque: il tempo di appuntarle, e subito sia le misure che l’ordine erano andati perduti nel caos di quel laboratorio pieno zeppo di stoffe, tutù appesi di tutti i colori del mondo, corti o lunghi al ginocchio, costumi per la lirica, maschere da teatro. Mentre una sarta con gli occhiali a catenella e un grembiule severo lo avvolgeva con il metro, Indaco s’era guardato intorno affascinato: poco più in là Jens e Søren, sghignazzavano, mimavano oscenità mentre le giovani assistenti del laboratorio, in ginocchio davanti a loro, rilevavano l’esatta misura delle gambe. Sopra di lui, file di armadi a muro e costumi da nobildonna, da principe e cavaliere, parrucche di ogni genere.
            Indaco aveva respirato per la prima volta l’odore del teatro: era un odore misto di segatura e di legno, di scarpette usurate e della stoffa che si usava per realizzare i costumi, del raso e del tulle; era ancora un leggero tepore di sudore che si mischiava a quello rovente delle luci di scena, e all’odore acre di compensato degli scenari.
            Indaco si era emozionato, al punto da far gli occhi lucidi: ma forse più di lui era emozionata la vecchia sarta, che a differenza delle assistenti, meno esperte ma più prudenti, aveva smarrito ordine e misure chissà dove. Fatto sta che nei giorni seguenti, mentre i costumi delle ore del giorno, della sera e dell’alba iniziavano pian piano a comparire sulla scrivania di Madame, accompagnate dai gridolini di gioia delle compagne, per lui non arrivava mai niente.            
            A due giorni dal saggio, finalmente Madame si era decisa a chiamare in sartoria:
            -“Turista, non ho parole”- aveva sbottato, esasperata -“riesci a fare disordine anche quando non è colpa tua!”-
            Alla fine, s’era deciso di mandare Indaco in scena così com’era, con la calzamaglia nera di tutti i giorni e una maglietta in tinta. Per solidarietà, gli altri due ballerini avevano rinunciato ai costumi di scena, sicché quell’anno la notte era stata buia e profonda nel vero senso della parola.
            L’esibizione dei ragazzi aveva ricevuto pochissimi applausi, perché il pubblico delle mamme non era lì per la danza, ma solo per ammirare le rispettive figliole.
            In compenso nonna Mette, non potendolo prendere sopra alle sue ginocchia, perché le ginocchia erano più invalide e doloranti di quelle di Jens Lilin, l’aveva fatto accomodare sul bracciolo della poltrona e l’aveva abbracciato stretto:
            -“Figlio mio, ti ho visto felice mentre ballavi, e questo è l’importante. Anche senza lustrini, ricordatelo sempre”-
            L’anno seguente, in occasione dello spettacolo dedicato alla leggenda di Heel Halwijn, che Madame aveva scovato in qualche vecchio libro noto soltanto a lei, tant’è che quella storia non la conosceva nessuno, di lustrini addosso Indaco Hansen ne aveva fin troppi: molto probabilmente, c’erano anche quelli dell’anno precedente. Con un lavoro certosino, eseguito in spirito di penitenza per espiare gli errori dell’anno precedente, la sarta aveva dovuto riadattare il costume, già eseguito su misura per Jens, tenendo conto del fisico meno massiccio del turista.
            Quell’anno, peraltro, Indaco era cresciuto così in fretta che a primavera la sarta aveva dovuto riadattarlo di nuovo, augurandosi di non dover rifare tutto a giugno:
            -“La vuoi smettere di crescere? Vuoi proprio farmi ammattire?”-
            In piedi davanti allo specchio di quel laboratorio sepolto nelle fondamenta del Teatro, illuminato a stento da lampadine appese a fili di polvere, Indaco s’era sentito calato più che mai nella sua parte di creatura scappata fuori da qualche abisso infernale: il costume consisteva in un’uniforme da cavaliere, e fin qui niente di male, con l’aggiunta di un mantello e due corna ritorte sopra alle orecchie, che di là proseguivano fino a diventare lunghissime e affusolate sopra alla testa.          
            Con quell’arnese addosso e il metro e ottanta che già aveva di suo, doveva stare attento a passare dalle porte per non doverci rimettere, per l’appunto, le corna.
            I compagni ridevano e facevano battute. Il suo senso del ridicolo era messo a dura prova, anche perché a tutto quell’apparato si aggiungeva un trucco pesante, riguardo al quale Indaco aveva subito messo in guardia la responsabile:
            -“Stia attenta, signora: non sono una donna”-
            Per età, la truccatrice avrebbe potuto benissimo essere sua madre, se solo sua madre non fosse partita chissà quando per il paese di chissà dove. Abituata ai capricci degli artisti, sia che fossero attori, cantanti o ballerini, non era tipo da farsi intimidire facilmente:
            -“Salute, ragazzino. Sei al secondo anno e già detti legge?”-
            -“Lei capisce benissimo che cosa intendo dire”-
            -“Chiudi gli occhi e anche il becco, e lascia fare a me”-
            Con in testa le corna e la matita intorno agli occhi, Indaco non aveva il coraggio di entrare in scena per la prova finale. Era anche preoccupato, e il suo stato interiore accresceva un cipiglio che, inaspettatamente, riscosse l’approvazione della Madame Grisi:
            -“Turista, finalmente sei entrato nella parte! Sei perfetto, non c’è che dire”-
            Ad angosciarlo, erano sia lo stato di salute di nonna Mette, che quell’anno non sarebbe stata in grado di assistere allo spettacolo, sia il fatto che da un pezzo non aveva alcuna notizia di Larse.
            Aveva provato a contattarlo più volte, ma in casa non c’era mai. E se questo combaciava con le sue abitudini solite, di mezzo c’era stata una novità che l’aveva turbato. Era una novità che risaliva a mesi addietro, quando erano ricominciate le lezioni dopo la breve pausa delle vacanze di Natale.
            Una sera, inaspettatamente, il suo telefono cellulare, quello che nonna Mette gli aveva regalato per qualsiasi evenienza, aveva cominciato a suonare. Indaco, che era in doccia, era scappato fuori nudo così com’era: col bagnoschiuma che gocciolava da ogni parte e il cuore in gola al pensiero che a casa fosse successo qualcosa.
            -“Pronto, nonna, sei tu?”-
            Attendendo una risposta - che peraltro non era giunta, perché dopo un lunghissimo minuto di silenzio il suo interlocutore aveva riattaccato, Indaco aveva fissato la parete di fronte: il grande orologio a muro, che insieme a due vecchie stampe di paesaggi invernali arredava la sua stanza nel pensionato, segnava quasi le undici. Un orario insolito per qualsiasi chiamata che non fosse il preludio a un evento spiacevole - infarto, morte, incidente. Sul display non compariva il numero da dove era partita quella strana telefonata. Angosciato, Indaco Hansen aveva chiamato in paese buttando giù dal letto la vicina di casa, perché andasse a controllare che Mette fosse viva e vegeta.
            In seguito, più tranquillo, aveva realizzato che solo tre persone erano a conoscenza del suo numero di telefono: Jens Lilin, che al momento era ancora in rianimazione più morto che vivo; la nonna e Larse Kruse. Il cerchio si stringeva, ma ci vollero ancora numerose chiamate prima che Indaco si decidesse a rispondere senza filtri, ben sapendo chi c’era all’altro capo del filo:
            -“Larse, sono qui, dimmi”-
            Il misterioso interlocutore non rispondeva, e i primi tempi Indaco, per liberarsi almeno di un timore su tutti, chiamava nonna Mette che puntualmente era in casa, in coda alla posta o al mercato.
            La donna, a sua volta, si allarmava:
            -“Malthe, ma che succede? Ti sento strano, per caso è successo qualcosa?”-
            Indaco decise di tener la nonna fuori da quello scompiglio, per non farla preoccupare col rischio che qualcosa le accadesse sul serio. Si concentrò su Larse, rivolgendosi a lui che certo lo ascoltava da dietro a quel muro di silenzio:
            -“Larse, sono qui, se vuoi parlarmi. Se invece non vuoi”- Indaco non si azzardava neppure a pensare che l’amico, in realtà, non potesse parlare -“se tu non vuoi, Larse, sappi che io sono qui e per te ci sarò sempre. Non avere paura, amico mio, non ti lascio. Qualunque cosa stia succedendo in questo momento”- qualche volta la commozione gli faceva tremare la voce, o forse era solo panico.
            Non sapeva se era il caso di chiamare a casa di Larse e parlare con sua madre.
            Telefonò a suor Diletta, ma la buona suora era partita in missione, e non c’era maniera di contattarla in quel villaggio dell’Africa dove ora dirigeva una piccola scuola.
            Intanto il tempo passava, e le telefonate silenziose continuavano. Finché proprio la sera delle prove finali, a meno di ventiquattr’ore dal debutto, all’altro capo aveva risposto una voce di donna, che si sforzava di mantenere un distacco cortese ma che era chiaramente preoccupata quanto lui:
            -“Parlo con Malthe Hansen? L’amico di Larse Kruse? Sono la sua insegnante di disegno. Scusa se ti disturbo, ma non riesco in nessuna maniera a contattare Larse. Ha saltato diverse lezioni, e sua madre mi ha detto che è a venuto a Copenhagen per assistere al tuo balletto. Puoi passarmelo, per favore?”-
            Indaco si era sentito gelare. Gli era occorso un attimo per riprendere il fiato, poi dalla gola che gli bruciava per lo spavento era riuscito a cavare solo cinque parole:
            -“Signora, io non so dov’è”-
            Quella sera, Indaco Hansen e Shlomit Abramovich avevano parlato a lungo, cercando di far quadrare quel poco che sapevano e provando a dargli un senso.
            Shlomit aveva chiamato più volte la madre di Larse, che non era mai in casa, sempre occupata in fabbrica o in giri di pulizie.
            Una volta aveva parlato con la sorella, che molto le aveva detto riguardo ai cambiamenti nel carattere di Larse, oltre al fatto che il ragazzo rientrava sempre tardi, sempre per via di quelle lezioni di disegno: sì, aveva un nuovo insegnante, un signore distinto che almeno un paio di volte lo aveva accompagnato a casa con l’auto. Un uomo molto galante, educato, cordiale: a differenza di Larse, che rispondeva a monosillabi ed era sempre intrattabile. La madre non sapeva più da che parte prenderlo, e spesso non ne aveva neanche il tempo.                 
            Dopo molti tentativi, perché oltre ad avere sale in zucca da vendere era anche molto tenace e perseverante, finalmente Shlomit era riuscita a parlare con la signora Kruse. Dopo aver ascoltato per un buon quarto d’ora le lamentele della donna, aveva appreso che Larse al momento non era in casa: fin qui, niente di nuovo. La novità era che il suo insegnante si era offerto di accompagnarlo a Copenhagen, per assistere al debutto del suo amico d’infanzia, Indaco Hansen.
            All’inizio, la signora non era stata affatto d’accordo, perché non esisteva che un ragazzo di tredici anni se ne andasse in giro così, con estranei. Ma poi, a ripensarci, aveva convenuto che quel signore era veramente gentile a occuparsi di Larse, che senza le lezioni di disegno il ragazzo sarebbe stato abbandonato a se stesso, tutto il giorno per strada come tanti nel suo quartiere: lei stessa non aveva tempo di portarlo - figurarsi - a teatro, ma con Indaco c’era sempre stata un’amicizia che risaliva all’infanzia, sicché alla fine le era sembrata una buona cosa che questo galantuomo si prestasse ad accompagnarlo con la sua bella auto.  
            La signora, peraltro, le aveva fornito il numero di cellulare di Larse, perché da qualche tempo il ragazzo possedeva un apparecchio di ultima generazione, anche se erano più le volte che lo teneva spento di quelle in cui era raggiungibile. Ma sa come sono i ragazzi, aveva aggiunto la madre, Larse poi ultimamente è sempre di cattivo umore, sarà che sta crescendo, sarà che da poco è morto suo nonno: sì, viveva con noi, e Larse ci era affezionato in modo particolare. Era malato da tempo, e anche per lui io ho fatto il possibile.
            Con molto tatto, Shlomit aveva cercato di ottenere dalla signora il numero di Larse, e anche quello di Indaco. In breve, si era accorta che almeno su una cosa frue Kruse aveva ragione: anche se qualcuno aveva provveduto a dotarlo di un cellulare ultimo modello, Larse era introvabile.
            Quanto a Indaco, frue Kruse disponeva soltanto del recapito di Mette: siccome Shlomit non era tipo da arrendersi, e le notizie apprese riguardo al suo allievo le piacevano sempre meno, aveva ritenuto opportuno contattare la nonna Mette, e di seguito quel ragazzo che così spesso aveva veduto nei ritratti eseguiti dalla mano - all’epoca felice - di Larse Kruse.
            Mentre Shlomit parlava, Indaco non poteva fare a meno di pensare a quel vecchio rudere, apparentemente disabitato e pericolante, che dentro di sé celava un appartamento di lusso: quel posto segreto che l’amico l’aveva portato a visitare il giorno di Natale, verosimilmente con l’idea di confidargli qualcosa. Chissà se Shlomit conosceva quel posto. Si trovava più o meno a un miglio dalla statale, in una radura dove non c’era nient’altro - soltanto pini e neve a perdita d’occhio, nessuna illuminazione, e un freddo tale che a Larse, quel giorno, si era scombussolata la pancia: il pranzo di Natale s’era bloccato a mezza strada, al punto che il ragazzo s’era piegato in due a vomitare.
            Secondo Indaco Hansen, e questo nessuno poteva levarglielo dalla testa, in quel preciso momento Larse era là, tra le lampade a stelo dal lungo collo ricurvo, il tavolo da lavoro simile a una piazza d’armi, il divano spazioso con i cuscini candidi: quel che era certo, era che Larse Kruse non era insieme a lui, e forse non era mai arrivato a Copenhagen.

 
******
 
            Il brusio del teatro che iniziava a riempirsi saliva fino al palcoscenico, si mescolava all’odore del legno lucidato da generazioni di scarpette da punta, da salto, dal fruscio delle stoffe preziose dei costumi, dall’incandescenza delle luci della ribalta: dietro al sipario, dove un gruppo di piccole allieve già in costume si affacciava a cercare tra il pubblico le mamme, i tecnici eseguivano gli ultimi controlli sulle scenografie, gli addetti alle luci trascinavano cavi e apparecchi nell’ombra, la voce di Madame risuonava per ogni dove.
            Nei camerini riservati ai ballerini, herre Halle arringava i suoi ragazzi come un colonnello prima della battaglia: disciplinati e sull’attenti, i grandi erano già pronti a entrare nella scena del primo atto, dove una danza di cavalieri e damigelle avrebbe introdotto il pubblico nel castello di Maghtelt. A seguire, sarebbe scesa la notte con le allieve di Madame a interpretare le creature del bosco: civette e falene, ma anche lucciole dotate di code fosforescenti, avrebbero danzato insieme alla luna e alle stelle.
            Dal suo camerino, mentre la sarta dava gli ultimi ritocchi al costume di scena, e mentre la truccatrice già lo aspettava al varco con ceroni e matite, Indaco osservava tutto quel movimento, lasciandosi contagiare dall’eccitazione delle bimbe che ogni tanto si affacciavano a salutarlo, e scoppiavano a ridere ogni volta che gli vedevano in testa quelle corna che ogni volta, a indossarle, parevano più lunghe e affilate. A intervalli, si affacciava qualcuno dei grandi, pavoneggiandosi nel suo costume da cavaliere:
            -“Turista, poi ci dirai chi te le ha fatte spuntare, quelle: caspita, se son lunghe!”-
            -“Vai turista, a testa alta, e il resto in proporzione”-
            La sarta sbuffava scrollando i suoi occhiali a catenella come un cavallo innervosito dalla cavezza: ad arrivare a giugno Indaco era cresciuto di altri due centimetri, e non solo in altezza. Due centimetri in realtà son poco più di niente, ma come per far dispetto si erano equamente ripartiti sulle spalle, avevano stretto i fianchi e allungato il torace, avevano affusolato ancora di più le gambe.
            -“Diventerai un bell’uomo”- aveva detto la truccatrice iniziando a rimestare il suo barattolo di cerone, al solo ed evidente scopo di mettere fretta alla sarta:
            -“Bell’uomo un corno!”- le aveva risposto quell’altra, la bocca piena di spilli col rischio di inghiottirli. Alzando gli occhi a osservare il lavoro finito, subito s’era corretta:
            -“Un corno… anzi, due!”-
            In quel momento s’era affacciata la Madame Grisi, vestita a festa: in giacca e gonna scura, una spilla preziosa e l’immancabile chignon da étoile in cima alla testa, pareva anche lei pronta ad entrare in scena, anche perché aveva gli occhi lucidi ed era più elettrizzata dei suoi allievi.
            -“Ci siamo, turista: sei emozionato?”- l’anziana maestra si era avvicinata, e aveva dato a Indaco un buffetto sulla guancia. Indaco aveva l’impressione di muoversi dentro a una bolla di sapone, che splendeva di mille colori e di suoni, ma che era anche fragile e sul punto di rompersi: si sentiva sulle spine, preoccupato di non riuscire a ricordare i passi e ad eseguirli bene, malgrado li avesse ripetuti più volte durante le prove. Si sentiva impacciato da quel costume da uccellaccio del malaugurio, ma soprattutto sapeva che in fondo a tutto covava, come la brace sotto alla cenere, la preoccupazione per Larse. Quel giorno il telefono, che lui teneva sempre a portata di mano, non aveva squillato neppure una volta.
            Di fronte a Madame, aveva sollevato le braccia in un gesto di resa, stendendo quel mantello da conte di Transilvania:
            -“Mi sento orripilante”-
            -“È quello che ci vuole”- aveva replicato, serafica, Madame - devi essere orribile: sei Heel Halwijn, il signore delle tenebre, mica il principe Siegfried del Lago dei Cigni. Per quello, devi crescere. Magari l’anno prossimo, se ti comporterai bene”-
            Poi di colpo Madame aveva cambiato faccia: gli occhi le luccicavano, non più per l’entusiasmo ma per la commozione. Aveva abbracciato Indaco, per lo meno fin dove riusciva ad arrivare perché era minuta, e nel cupo mantello di Heel Halewijn lei ci spariva tutta:
            -“Mi raccomando, Hansen”- lo chiamava per nome, e questo significava che ciò che aveva da dire era fondamentale -“l’importante non è ricevere gli applausi, l’importante è danzare. È essere felici di farlo, in palcoscenico come nella più squallida sala prove. Se tu possiedi questa felicità, come l’ho avuta io e la conservo ancora, sarai un uomo felice. Potrai non avere fortuna, quella è una conseguenza e non dipende da noi, però dovunque andrai ti sentirai realizzato, perché porterai sempre con te la tua danza. I passi li conosci, tutte le correzioni ormai le hai assorbite, non ti manca nient’altro: vai e non pensare al pubblico, perché su quel palcoscenico ci sarete soltanto tu e la tua arte”-
            Indaco era commosso, e a quel punto era intervenuta la truccatrice:
            -“Adesso tocca a me, e guai a te se piangi, che la matita non tiene!”-

 
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            Nello zaino di Indaco - sepolto in mezzo a vecchie calzamaglie sudate, ricambi di scarpette, magliette alla rinfusa - il telefono cellulare aveva cominciato a suonare.
            Seduto a faccia in su, sottoposto all’attacco in massa di cerone, ombretti e matite Indaco aveva accennato a un guizzo per alzarsi e rispondere, ma la truccatrice l’aveva bloccato all’istante, brandendo una matita pericolosamente appuntita:
            -“Adesso, per favore, mi lasci lavorare”- l’aveva minacciato -“si va in scena tra mezz’ora, e io devo truccare altri quattro ragazzi. Guai a te se ti muovi”-
            Aveva dovuto attendere la fine di quella complessa operazione, e quando finalmente la donna aveva recuperato tutto il suo armamentario di colori e pennelli, ed era corsa in fretta fuori dal camerino, Indaco detto il turista s’era potuto alzare: il tempo di guardarsi di sfuggita allo specchio - era irriconoscibile, più che un essere demoniaco somigliava a una donna, per giunta a una donna brutta - e subito il cellulare segregato in fondo allo zaino aveva ricominciato a suonare.  
            -“Larse, sono io, parlami”- nella fretta di rispondere, il mantello si era impigliato in un chiodo, uno di quei chiodi piccoli che sporgono di fuori e non si sa mai a che servono, se non a far danno: in quel caso, e per la foga, il mantello s’era strappato. Cominciamo proprio bene, avrebbe detto la Madame Grisi.
            Per la prima volta, qualcuno gli rispose all’altro capo di quell’ennesima, misteriosa chiamata: non era la voce di Larse come lui la conosceva, neppure quella sempre un po’ sostenuta ma cortese di Shlomit. Più che una voce, era un pianto: lunghissimo, disperato.
            A Indaco Hansen, corna permettendo, si rizzarono i capelli. Il suo corpo, da ogni parte, cominciò a spillar fuori un sudore di ghiaccio:
            -“Larse”- sotto a quel fiume in piena di singhiozzi strazianti, aveva riconosciuto a voce del suo amico -“Larse, dove ti trovi? Che succede, små mus?”- era lo stesso pianto che conosceva bene, per averlo sentito più volte quando Larse cadeva dalle scale, durante le loro scorribande infantili in cortile, o quando qualche spavaldo gli si faceva innanzi e strappava i suoi disegni, e allora lui, Indaco Hansen, partiva al contrattacco e giù botte da orbi: e mentre Larse ancora piangeva angosciato - stavolta per le sorti incerte della battaglia - Indaco riportava, fierissimo, dallo scontro, almeno due o tre lividi insieme alla vittoria. Perché Indaco amava profondamente Larse, e guai a chi lo toccava: E questa regola, crescendo, non era venuta meno: valeva anche in quel momento, adesso più che mai.
            -“Små mus, dimmi dove ti trovi e io verrò a prenderti. Non m’importa del balletto, non m’importa un cazzo di niente. Dimmi dove ti trovi, små mus, per favore”-
            Ma il pianto era cessato, con uno scatto lieve a indicare che la comunicazione era stata interrotta.
            Indaco chiuse gli occhi: non sapeva che fare, ma dal suo corpo ebbe subito la risposta.
            Il suo corpo abituato a rispondere subito agli stimoli della musica, e con cui si sentiva profondamente in contatto, la sua mente in cui da sempre risuonava una melodia incessante, adesso lo guidavano: in testa non aveva pensieri né incertezze, i tendini erano tesi, i muscoli pronti all’azione. Si risolse ad agire, e lo fece immediatamente.
            Riprese in mano il telefono, formò quel numero di tre cifre che nonna Mette gli aveva insegnato a tenere a mente fin da bambino. Dall’altro capo gli rispose una voce ferma:
            -“Polizia di stato”-
            Mancava un quarto d’ora all’entrata in scena, e dalla platea già si udivano i primi applausi.
 
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            -“Mi porti per favore al paese di Y. Le dirò io dove fermarsi”-
            Una mano sul volante, l’altro braccio appoggiato sullo schienale del posto di guida, l’aria di chi ha a disposizione tutto il tempo del mondo, il tassista si era voltato a guardarlo in faccia. Era un uomo bonario, di mezza età e con la pancia, molto simile a un Babbo Natale in versione estiva: con la camicia a quadri e gli occhiali da sole in bilico sulla pelata, al posto della consueta casacca col pelo bianco e in spalla il sacco dei doni.
            -“Il paese di Y. è a due ore da qui”-
            L’abitacolo era avvolto da un leggero tepore di resina e mentolo, che proveniva da un alberello che pendeva dal retrovisore interno. Dal cruscotto, una musica leggera di sottofondo, il classico tormentone che li avrebbe accompagnati durante tutta l’estate.
            -“Partiamo, per favore”- Indaco si stringeva nella felpa, a disagio. Solo allora si accorse che nella fretta di rivestirsi, buttandosi addosso gli abiti alla rinfusa, aveva dimenticato di levarsi la calzamaglia del costume di scena. Ed ecco perché l’autista, trovandosi di fronte a quello strano soggetto con il volto truccato e le gambe inguainate in quel tessuto aderente, che alla luce creavano mille curve e riflessi, era quanto meno perplesso.
            -“Fino al paese di Y. sono un sacco di soldi, signorina… ragazzo”-
            -“Sono uno del teatro”- Indaco aveva capito che era meglio tagliare corto -“ho il denaro che serve. Quindi, o lei mi porta o chiamo un altro taxi”-
            -“Ci mancherebbe, agli ordini”-
            Il taxi finalmente si mise in movimento, infilandosi senza rumore in mezzo al traffico.
            Indaco appoggiò il capo sullo schienale, cercò di rilassarsi ma gli veniva da piangere: per se stesso, stavolta, e per quello che si era lasciato alle spalle.
            Sul quadrante elettronico collegato al tassametro, rettangoli di luce formavano le ore ventuno precise: da almeno un quarto d’ora lo spettacolo sarebbe dovuto iniziare, ma era stato sospeso dopo che uno dei protagonisti principali aveva deciso in punto e in bianco di andarsene.  
            Quando la Madame Grisi era venuta a saperlo, gli aveva sguinzagliato alle calcagna iena Halle. Questi si era precipitato nel suo camerino alla velocità di una raffica di mitragliatrice, furioso come non mai: davanti alla falcata con cui herre Halle arrivava di spinta, gli altri allievi s’erano fatti da parte ed era tutto un fuggi fuggi di damigelle, cavalieri in teoria senza macchia e senza paura, lucciole con le loro code fosforescenti, coniglietti, civette e altre creature del bosco.
            -“Cazzo succede, Hansen!”- con il garbo consueto, iena Halle aveva approcciato di petto l’allievo -“te la faccio passare io, la paura del palcoscenico! Vuoi mandare a puttane il lavoro di tutti? Bada che non c’è un sostituto, fottuto rottinculo!”-
            Indaco aveva fronteggiato l’assalto:
            -“Devo andare, herre Halle. Un mio amico sta male”-
            Halle l’aveva guardato trasecolato:
            -“Il tuo amichetto sta male? Cazzi suoi, se gli brucia il culo. Sentimi bene, Hansen…”-
            -“No, invece mi ascolti lei”- Indaco gli si era parato dinanzi, e non era mai stato così deciso: aveva iniziato a togliersi il costume e a rivestirsi in fretta. In breve, aveva spiegato all’insegnante ciò che stava accadendo: la scomparsa di Larse, le strane telefonate, il posto segreto.
            Alla fine, persino iena Halle sembrava disorientato. Capiva, ma d’altronde c’era in ballo lo spettacolo:
            -“Lo spettacolo si può sospendere”- aveva detto Indaco, mentre qualcosa, dentro di lui, singhiozzava. Aveva una terribile voglia di mettersi a piangere -“oppure potete fare senza di me. Per quel che mi riguarda, io devo andare”-
            -“Non essere irragionevole, Hansen”- aveva detto iena -“lascia che a queste cose ci pensi chi di dovere. Non fotterti con le tue stesse mani”-
            Già pronto per uscire, Indaco gli si era fatto dinanzi. Con la sua mole, Halle gli bloccava l’uscita:
            -“Se fai un passo, sei fuori”-
            Indaco aveva ricacciato le lacrime. Di nuovo, non sapeva cosa era meglio fare. Di nuovo, la mente e il corpo decisero per lui. Con una spallata respinse via da sé l’insegnante:
            -“lo so bene, signore”-
            Un passo, ed era fuori.
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            Per un poco avevano continuato a viaggiare in silenzio.
            Babbo Natale alla guida, Indaco stretto a sé stesso dentro alla felpa, la testa sullo schienale, lo sguardo che si perdeva fuori dal finestrino.
            La campagna scorreva, nell’oscurità che iniziava a farsi profonda e poi d’un tratto fu livida, finché si aprì all’orizzonte facendo scaturire un lampo improvviso: un guizzo silenzioso, che sussultò illuminando una campagna bassa, l’ala bianca di una casa colonica, cumuli di nubi cariche di pioggia nera. A quella prima saetta ne seguirono altre, come quando compare il primo ballerino e illumina la scena, e poi seguono gli altri.
            L’abitacolo dell’auto conservava il suo tepore di menta e resina, ma l’alberello appeso allo specchietto retrovisore iniziava già a oscillare, preso da un filo d’aria che lo buttava qua e là: alla stessa maniera con cui, nella pineta che iniziava oltre il fiume, il vento piegava fino a terra gli alberi giovani, quelli che non avevano sufficiente forza nel fusto, e li spogliava delle foglie a manciate, gettandole fin sulla strada. E si agitava, il vento, rasoterra levando mulinelli di polvere, altre foglie strappate, e più in alto faceva galoppare le nuvole, una di sopra all’altra fino a che un altro lampo le ricacciava indietro, aprendo lunghe crepe.
            Un brontolio lontano.
            -“C’è il diavolo in carrozza che porta a spasso sua moglie”- diceva nonna Mette quando il vento iniziava a spazzare la terra gelido, a rivoltarsi contro ai muri delle case e a ritornare indietro, segno sicuro di un temporale in arrivo. Allora Indaco e Larse - perché c’era sempre Larse accanto a lui nell’infanzia, a scuola, in cortile - si attaccavano alle sottane di nonna Mette e la seguivano in giro per la casa a chiudere le finestre: sobbalzando man mano che il buio aumentava e i primi tuoni arrivavano, mugolando e ringhiando come grossi cani randagi.
            -“Tutto bene, ragazzo?”- Babbo Natale lo scrutava  guardingo, un occhio alla strada e l’altro allo specchietto retrovisore interno -“ormai ci siamo quasi. E c’è anche un bel temporale che ci viene dritto incontro”-   
            Sul vetro del finestrino, prima del temporale veniva incontro a Indaco uno strano volto di donna, truccato pesantemente e dall’aria impaurita: lunghe tracce nerastre gli attraversavano le guance, colate dalle lacrime che continuavano a scendere senza riuscire a fermarle: ed erano lacrime per Larse che chissà dove piangeva a sua volta disperato, lacrime per sua madre che chissà dove ci viveva e per lui non aveva mai tempo, per nonna Mette che non era più in grado di assistere ai suoi spettacoli; lacrime per se stesso che, molto probabilmente, sarebbe stato espulso dall’Accademia, e forse già lo era, anche se ancora non ne era al corrente.
            Immerso nei suoi pensieri, Indaco continuava a guardare dal finestrino: quel vento spietato cominciava a dar colpi contro la carrozzeria, e sembrava avere la forza di scaraventarla fuori strada con un calcio. Eppure l’auto continuava a procedere liscia, senza nessun rumore, sulla statale deserta.  
            D’un tratto, alla sua sinistra, nella pineta immersa nell’oscurità della notte, vide accendersi una sequela di luci accompagnata da una coda perforante di allarmi sonori:
            -“Ambulanze e polizia, sarà un bell’incidente. Strano, perché non mi pare che là ci sia una strada”-
            Indaco riconobbe all’istante il punto esatto in cui la statale deviava verso il sentiero sterrato che aveva affrontato con Larse, in quel pomeriggio invernale.
            -“Per di là, grazie”-
            Babbo Natale accostò, dopo di che si voltò a guardarlo dritto in faccia:
            -“Giù per di là non c’è niente, ragazzo. E comunque non posso andarci con il mio taxi”-
            Indaco si ricordò delle impronte di pneumatico che aveva notato davanti all’antica rocca riadattata a posto segreto:
            -“Sì, che ci si può andare”- inventò sul momento -“i miei ci vanno sempre, con l’auto”-
            Babbo Natale continuava a non essere del parere. Guardava la strettoia che s’incuneava a tornanti stretti nella boscaglia, i rami così bassi che non attendevano altro che di graffiargli la carrozzeria in lungo e in largo:
            -“Non se ne parla, ragazzo. Non con il mio taxi”-
            Per essere più chiaro, scese dalla vettura e andò ad aprire lo sportello del passeggero. In quel momento, un’auto a sirene spiegate si stava giusto infilando a capofitto per la sterrata, sparendo nell’intrico di ramaglie e siepi basse. Il lampeggiante sopra al tetto della vettura continuò a balenare per un lungo tratto, apparendo e poi scomparendo tra gli arbusti. Indaco si ricordò a malapena di pagare la corsa, poi si precipitò a capofitto verso il sentiero, incurante del buio, dei lampi che continuavano a riempire il cielo di crepe, delle prime gocce di pioggia che iniziavano a cadere.
            Dietro di lui, sul ciglio della strada con lo sportello del passeggero ancora aperto, Babbo Natale provò a richiamarlo indietro:
            -“Ma dove vai, ragazzo! Non c’è niente, laggiù!”-
            All’improvviso, dinanzi a lui si fece giorno: Indaco pensò a un lampo più abbagliante degli altri, ma dovette ricredersi. All’improvviso comprese il perché della strana luminescenza che aveva intravisto dalla strada, ora che il vento gli portava un odore forte di legna che bruciava, e addirittura scampoli di quello che pareva tessuto incenerito. Si fece avanti, fino al cuore della radura: là, circondata da un camion dei vigili del fuoco indaffarati a predisporre gli idranti, auto della polizia e almeno due ambulanze, il posto segreto ardeva simile a una candela, in preda a un violento incendio.

 
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            Dalla bottiglia di vetro della fleboclisi scendeva un liquido limpido. Accanto, una grande sacca di un bianco lattiginoso conteneva una nutrizione parenterale. Stampati ordinatamente su un lato, il nome del preparato e di seguito i componenti in percentuale: lipidi, carboidrati, amminoacidi ed elettroliti. Stringendo a Larse la mano che l’amico teneva distesa lungo il fianco, e su cui un cerotto fermava entrambi i deflussori, Indaco fissava i contagocce che, in sincronia, facevano scendere i liquidi fino a un grosso cerotto che manteneva l’accesso in sede. Solo un istante prima, e dopo lungo tempo, Larse si era destato, aveva aperto gli occhi: ma Indaco non sapeva se l’aveva riconosciuto.
            Ad ogni buon conto, continuava a parlargli, come già aveva fatto al tempo delle lunghe e silenziose telefonate con cui Larse aveva tentato più volte di spiegarsi, senza mai avere il coraggio.
            Era successo tutto talmente in fretta, che Indaco ancora faticava a raccapezzarsi: l’incendio e la distruzione totale del posto segreto, raso al suolo in un cumulo di lapilli e di cenere che aveva continuato a spargersi per giorni, sollevata dal vento e portata per il bosco, fino quasi al paese. Il nubifragio che s’era scatenato d’un tratto, quando Indaco si trovava ancora a mezza strada, aveva per lo meno impedito all’incendio di estendersi alla pineta, dando luogo a un disastro.
            A quanto risultava, l’incendio era stato appiccato all’interno del lussuoso appartamento interamente rivestito di legno: di là era dilagato rapidamente all’esterno, divorando in un solo boccone i preziosi parquet lucidi, le travi del soffitto in stile rustico, i bei volumi d’arte, il tavolo e il lunghissimo divano su cui il proprietario si era appisolato durante una pausa del suo lavoro.
            Con tutto quel ben di Dio a sua disposizione, il fuoco era andato a nozze: aizzate dalla dose di solventi per vernici che Larse Kruse aveva sparso ovunque in un tripudio di catastrofe, le fiamme erano divampate piroettando come prime ballerine sul palcoscenico, ed Herre Halvorsen s’era tramutato in una torcia insieme al suo divano, ai volumi stampati da editori di prim’ordine, alla tavole viziose della sua ultima opera, ultima in senso stretto, data la situazione.
            Larse s’era salvato per un pelo e per miracolo, trascinato di peso dai vigili del fuoco che erano riusciti a entrare nello studio solo un attimo prima che le travi cedessero, con uno scricchiolio che aveva anticipato di pochissimi secondi il crollo definitivo.
            Aveva riportato ustioni gravi: Indaco era riuscito a vederlo solo per un brevissimo istante, mentre due marcantoni in uniforme ignifuga lo conducevano fuori e subito veniva preso in carico dai soccorritori dell’ambulanza. Per quel che ne sapeva, di Herre Halvorsen non s’erano trovate neanche le ossa: il fuoco se l’era mangiate a quattro palmenti insieme ai suoi disegni, né c’era stato modo di cavarlo fuori da quell’inferno per tempo: Larse era stato appena adagiato sulla barella, i vigili del fuoco che l’avevano tratto fuori si stavano ancora spolverando la faccia appiccicata e arsa da quel fumo bruciante, che il tetto del posto segreto era crollato, con buona pace di tutto quello che c’era dentro. Nei giorni successivi, s’era scavato a lungo in mezzo ai detriti, erano saltati fuori brandelli di tendaggi, fodere di divano, persino pezzi di tavole disegnate a china con quel tratto vigoroso, affascinante e sicuro: tutto s’era trovato ed era venuto alla luce, tranne i resti umani di Herre Halvorsen, che a quanto pare era scomparso in una spirale di fumo alla stessa maniera con cui Heel Halewijin, l’oscuro cavaliere della leggenda, s’era squagliato in una pozzanghera di marciume ed era stato ingoiato dalle profondità della terra.
            Indaco si sentiva profondamente stanco: posò il viso sopra al cuscino di Larse Kruse, che proprio in quell’istante aprì gli occhi e girò il capo, lentamente e per quanto gli consentivano le forze: aveva il volto ustionato, i capelli inceneriti fino alle radici, ma la frangia sempre spettinata di Indaco era un’onda fresca, e gli donava sollievo:
            -“Indaco”- mormorò -“da quanto sei qui?”-
            -“Non me ne sono mai andato, amico mio, små mus”-
            -“Com’è andato il tuo debutto in teatro?”-
            Indaco si sforzò, ma riuscì a malapena a stirarsi sul volto mezzo sorriso triste:
            -“Diciamo che è stato rimandato a data da destinarsi”-
            -“Mi dispiace, turista: avrei tanto voluto essere là ad applaudirti. Me lo aveva promesso, ma poi non ha voluto”- Larse socchiuse gli occhi, parlava con fatica -“a quel punto ho perso la testa. Non ne potevo più”-
            -“Adesso è finita. Stai tranquillo, små mus”-
            Indaco continuava a stringergli la mano, a tenere il suo capo posato sul cuscino, accanto al suo amico. La lunga sera estiva cominciava già a tingersi d’arancio, e un alone dorato di pulviscolo filtrava attraverso le tapparelle. Indaco era spossato, ma il suo corpo gli comunicava un senso di soddisfazione e di pienezza: la mente era svuotata, ma tutto sommato serena.
            -“Hai l’aria stanca, forse dovresti riposare anche tu un poco”- gli sussurrò Larse.
            -“Accanto a te è il mio riposo”- mormorò Indaco, rilassato e a occhi chiusi.
            Fuori, il sole di giugno si scioglieva in un orizzonte di nubi rosse e viola, un tramonto sontuoso e immerso in un perfetto silenzio. 
            Nella stanza ugualmente silenziosa del reparto grandi ustionati, l’immagine di Larse disteso nel letto con accanto a sé Indaco, i due visi vicini sopra al cuscino candido, ricordava un disegno che in un tempo lontano era capitato in mano a suor Diletta Dahl, durante un intervallo ancora ai tempi della scuola elementare, prima che tutto iniziasse.
 
 

Colonna sonora: “Giselle”, Adolphe Adam
                        “The Swan lake”, Pëtr Il’ilic Tchaikovsky
                          “Sinister cabaret” e “The rose of winter” Nox Arcana
  
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