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Autore: Jackthesmoker7    30/07/2018    0 recensioni
Questa è una raccolta di storie dell'orrore che mischia fantascienza, fantasy ed il mondo di oggi.
Se avete alcune proposte di temi per le storie (vampirismo, zombie, eccetera) postatele nei commenti per favore.
Genere: Horror, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella porta era sempre stata lì, sin dai tempi in cui mio nonno mi ospitava a casa sua dopo le mattine di scuola, in attesa del ritorno dal lavoro dei miei genitori. Spesso mi accorgevo di fissarla troppo a lungo, aspettando che accadesse qualcosa che non accadeva mai. Mai che si aprisse, mai che scricchiolasse, e non mi ricordo una singola volta in cui il nonno o qualche altra persona ne attraversasse la levigata soglia legnosa. Mai. Ma c’era qualcosa in quei cardini rugginosi che mi attraeva spaventosamente.

Poi, quando il nonno morì, mia madre ereditò la sua casa, ed insieme ad essa tutte le cose del nonno, tranne una cosa. Un diario, che il nonno nel suo testamento si premurò di riservare unicamente a me.

E da quel momento, ogni notte cominciai a sognare la porta.

La porta che si avvicinava, la soglia che improvvisamente si apriva a me per la prima volta, serpeggianti tentacoli di nebbia che ne fuoriuscivano ed oscuravano il corridoio intorno a me, rendendo le pareti del colore del metallo arrugginito e gettandomi in un abisso buio e vertiginoso, facendomi svegliare ogni notte sudato ed in preda al panico, respirando affannosamente come dopo una lunga corsa. Ed ogni volta stringevo a me il diario del nonno, che non mi ero ancora deciso ad aprire.

Il diario aveva qualcosa che non andava: era un piccolo libretto dagli angoli sgualciti e dalle pagine ingiallite dal tempo, la cui rilegatura in pelle si era staccata tanto tempo fa. In mezzo alle pagine, come la cresta squamata di un rettile, spuntava diritto un lungo segnalibro rosso fatto di metallo e riccamente decorato a mano con un motivo apparentemente a spirale, che era estremamente pesante per la sua funzione, e questo dapprima mi parve insolito: il nonno aveva una paralisi alle mani. Come faceva a reggere in mano un segnalibro così inusualmente pesante? Anzi, come avrebbe fatto a scrivere un intero diario con delle mani che non rispondevano ai comandi?

Ad un mese dalla morte del nonno cominciai a parlare dei miei sogni con mia madre,evitando di nominare i miei dubbi sul diario, e tutto ciò che mi disse fu: “Non lasciarti impressionare da queste cose, sono solo incubi. Io ho abitato per tutti i miei primi anni di vita in quella casa, e ti assicuro che non c’è niente di diverso o di insolito rispetto alle altre case. Certo, in tutti questi anni il nonno può aver modificato qualcosa rispetto a come me la ricordo io, ma se proprio ne senti il bisogno questo fine settimana andrò a dare un’occhiata alla casa per vedere se è una buona idea venderla. Perché non vieni con me?”

“Sicura che sia una buona idea andare in quel posto?” si inserì mio padre, che aveva sentito tutto e non aveva la stessa fiducia nel nonno, “Lo sai che tuo padre era un tipo molto particolare. Dopo la morte di tua madre non si è quasi fatto più sentire. Non si è più neppure presentato all’università dove lavorava, e dire che gli mancava pochissimo alla pensione. Dicono che non uscisse mai di casa, e che di notte dalla sua casa si sentisse un forte rumore di sega elettrica e martellate.”

“Mio padre è sempre stato un appassionato di bricolage.” spiegò la mamma. “Anche quando ero piccola lo si sentiva spesso lavorare, ma non ti permetto di parlare male di lui.”

“Anche con quelle paralisi?”

E la discussione sfociò in un litigio, ma a quel punto mi tolsi di torno. Avrebbero fatto pace più tardi, come al solito. Dopo qualche minuto che le grida erano cessate, tornai dalla mamma, e feci qualche domanda in più sul passato del nonno, che fino ad allora non mi aveva mai interessato. Scoprii così che in passato il nonno era un famoso scienziato, esperto di meccanica ed elettronica e che aveva dato un piccolo contributo allo sviluppo della robotica, ma che dopo la morte della nonna aveva mollato tutto, per quello che definiva il suo “Ultimo progetto”.

Qualunque fosse, probabilmente non l’aveva finito.

Comunque ecco come alla fine mi sono ritrovato qui, il diario del nonno alla mano, davanti alla famosa porta, mentre mia madre rovistava al piano superiore, intenta a controllare le condizioni del tetto. Ero da solo, davanti alla porta che infestava i miei incubi, ad un paio di passi di distanza nel grande corridoio del nonno. In quel momento qualcosa nel mio cuore mi spinse a sollevare il diario del nonno innanzi a me e, per la prima volta, ad aprirlo.

Si aprì davanti a me con lo scricchiolio della colla che teneva attaccate le pagine alla costina, minacciando di lasciare che si spargessero per terra, e potei leggere ciò che c’era scritto. Con mio sconcerto scoprii che le pagine erano tutte piene di schizzi di figure umane, ma soprattutto di animali dalle forme mai viste e di piante con rami che sembravano quasi tentacoli. Alcuni disegni che sembravano di umani erano attraversati da disegni di ingranaggi e di cavi, e sotto di loro scritti in piccolo c’erano degli appunti, ma illeggibili per me in quanto scritti con una grafia, o forse in una lingua, incomprensibile.

Sfogliando velocemente le pagine colsi qualche altro animale e, sempre più spesso, quelle che mi sembravano delle lettere dell’alfabeto, e segni simili a quelli che avevo visto in alcuni documentari sull’occulto, per poi finalmente giungere alle pagine segnate dal segnalibro. Lo rimossi con cura e lo esaminai alla luce della lampada del soffitto: sembrava quasi un frammento di lamina, ma guardandolo più da vicino si notavano scritti sulla parte in fondo gli stessi segni che ho intravisto tra le pagine del diario. Me lo infilai nella tasca posteriore dei jeans e ripresi a leggere.

In quella parte del diario le scritte erano comprensibili, e se ne riuscivano a leggere solo alcune:

7 ottobre 1994: sono esattamente 5 anni che mia moglie è morta, e 3 da quando ho intrapreso il mio ultimo progetto, ma finalmente sono giunto ad una svolta. L’ho trovato.
15 novembre 1995: dopo un anno di tentativi, sono riuscito ad aprire un varcoper poter comunicare con lui. Nessuno prima di me aveva mai ottenuto un simile risultato. Sto per entrare in un territorio inesplorato.
16 novembre 1995: sono riuscito a raggiungerlo, ma quello che ho visto ha disgregato le mie più vivide fantasie. Ma la creatura si è rivelata alquanto ostile verso gli sconosciuti. Serve un nuovo equipaggiamento.
9 febbraio 1996: sono riuscito a stabilire un legame di fiducia con la creatura. Spero di riuscire a migliorare i rapporti tra di noi.

Il resto delle frasi diventava poi in gran parte incomprensibile o sbiadito, ed a volte gli intervalli di tempo fra un appunto ed un altro mutavano da mesi in anni. Sembrava che verso la fine il nonno scrivesse con una grande fretta e la grafia si faceva sempre più traballante.

L’ultima nota era stata scritta qualche giorno prima che il nonno morisse, ma la data precisa non era stata riportata:

2017: basta. Le mie ricerche non mi hanno portato da nessuna parte. Sto morendo, e la mia mano si fa sempre meno salda sulla penna. Presto spegnerò gli apparecchi, sperando che lui me lo permetta. Spero solo di riuscire a farlo in tempo. Nasconderò la chiave al sicuro all’interno del mio segnalibro, sperando che, quando mio nipote terrà in mano questo diario, possa comprendere quello che c’è scritto, e che capisca quello che ho fatto e perché l’ho fatto, anche se io stesso sto cominciando a pentirmene. Perché gli uomini non riescono a smettere di giocare con ciò che si trova al di fuori della loro portata? Cosa gliene  il diritto? Spero che dove andrò, possa trovare una risposta.

Se il nonno credeva che ci avrei capito qualcosa leggendo queste vecchie pagine polverose, ho il timore di averlo deluso. Probabilmente è stato il dolore per la morte della nonna insieme alla solitudine a fargli scrivere quella roba, a costruirsi un mondo fasullo in cui riuscire a vivere, per poi distruggere l’illusione alla fine della sua vitacon una morte liberatoria. O almeno così spero.

Spostai la mia attenzione sul segnalibro che avevo messo in tasca. Lo presi in mano e lo tastai con attenzione. In un punto trovai il bordo della carta con cui l’aveva avvolto il nonno per mascherarlo. Lo presi con due dita e cominciai a tirare. La carta dell’involto si strappò con una facilità che mi sembrò quasi incredibile tanto ero teso. Mi sembrava che le farfalle che mi svolazzavano nello stomaco si fossero ingrandite e risalissero su per la gola, dove guarda caso era finito il cuore.

Lasciai cadere la carta per terra.

Quello che stavo tenendo in mano era una sottile lastra di ferro di colore nero, con riflessi e increspature di un profondo blu scuro. Era gelida, come se emanasse freddo da sola.

Studiandola bene, e guardando la porta, notai che la serratura non era fatta per ospitare un chiave normale, bensì qualcosa di più largo e rettangolare. Guarda caso, proprio come l’oggetto che tenevo in mano.

Quindi, con la tensione che mi faceva battere il cuore a mille, mossi un primo passo verso la porta.

Non accadde niente.

Continuai a dirigermi verso di essa, ed era come se qualcosa mi stesse impedendo di girarmi per scappare a gambe levate.

Mi ritrovai alla fine, madido di sudore freddo, davanti alla soglia.

Infilai il segnalibro-chiave nella serratura.

Combaciava perfettamente con la serratura, e provai a girarla. Si sentirono dei piccoli schiocchi provenire dal meccanismo, che sembrava incredibilmente complesso per la sua funzione di semplice sicurezza. Che il nonno temesse un furto?

Ritirai il segnalibro e, tenendolo in una mano insieme al diario, girai la grossa e gelida maniglia di ottone, e spinsi.

Quello che vi trovai, mi tolse le parole di bocca e mi gelò il sangue nelle vene.

Decine, no, centinaia di barattoli di varie dimensioni impilati sul pavimento l’uno sopra l’altro in grosse piramidi di vetro e pieni di una sostanza che brillava alla luce delle lampade, accese automaticamente quando ho aperto la porta; i muri eranoricoperti di ingranaggi e cavi e placche di ferro arrugginito che si mescolavano l’uno sopra l’altro; il pavimento stesso era ricoperto da una specie di erba color magenta, lunga abbastanza da sfiorarmi le caviglie e che guardandola con la coda dell’occhio sembrava cambiare colore, da un rosso scarlatto ad un rosa malato. Ed un odore pesante, come di sostanze chimiche e uova marce e ruggine, che appestava l’aria come un sudario.

Rimasi a guardare per almeno un minuto, cercando di metabolizzare il tutto, con il quaderno miracolosamente ancora in mano. L’istinto continuava ad urlarmi di scappare, correre via il più lontano possibile da quel posto orribile, ma non riuscivo più a muovere le gambe.

Poi, come se non fossero più sotto il mio controllo, queste mi portarono in giro per la stanza.

Mi avvicinabarattoli, e notai che nella sostanza luminescente galleggiava qualcosa. Allungando il collo verso uno di essi, riuscii a distinguere un oggetto triangolare, lungo e dagli spigoli smussati, dalle sembianze spugnose. Sulle prime pensai con orrore che fosse un fegato umano, ma non poteva essere. Il nonno non aveva mai ucciso nessuno, né tantomeno avrebbe potuto estrarre un fegato da un corpo umano con l’artrite che gli bloccava le mani. Probabilmente erano fegati animali che aveva comprato dal macellaio.

Afferrai un barattolo e svitai il coperchio. Un odore disgustoso mi si intrufolò nelle narici, rischiando di farmi vomitare, e richiusi immediatamente il barattolorimettendolo dove l’avevo trovato.

All’improvviso un tonfo proveniente da dietro di me quasi mi fece venire un infarto. Mi girai, madido di sudore freddo, brandendo in mano il diario davanti a me come uno scudo ma non vidi niente. Da sopra il rumore continuò imperterrito.

Mi tranquillizzai pensando che fosse mia madre la fonte del rumore, dato che stava sistemando gli oggetti pesanti che poi io avrei dovuto portare in macchina.

Tirai un breve ma sollevante sospiro di sollievo, sentendo l’ansia scivolare via da me, mollando la presa sul cuore.

Ma in quel momento sentii un debole clangore metallico.

Girai immediatamente verso gli ingranaggi appesi sulla parete di fondo e, lentamente, li vidi cominciare a muoversi autonomamente con un cigolio metallico.

Paralizzato come un alce pronto ad essere travolto da un autocarro, non potei far altro che guardare mentre gli ingranaggi muovevano le placche di ferro dalla parete, come un operatore con un sipario, e rivelare quello che c’era dietro.

Dapprima avevo creduto che dietro al metallo ci fosse solo una parete di mattoni, ma aprendosi rivelò un lungo corridoio scavato nella casa che scendeva con una lieve pendenza verso il basso. Dal fondo del corridoio proveniva una fioca luce verde-acqua. Da sotto proveniva una debole brezza che portava con sé un odore mefitico, anche peggiore di quello dei barattoli. Mi sembrava quasi di distinguere dei suoni tra i soffi del vento. Anche lì c’era dell’erba rossa.

A quel punto non sapevo più che cosa fare, ma tornare indietro mi parve una possibilità molto più allettante che avanzare. Lentamente, come se qualche animale feroce mi stesse puntando, mi avvicinai a piccoli passi alla porta d’uscita, pensando velocemente a cosa dire alla mamma per farci andare via subito.

Ero a pochi passi dalla porta, pronto a scattare come una lepre attraverso il varco, quando questa si chiuse sbattendo, bloccandomi l’uscita. Udii distintamente il suono della maniglia che scattava. Non mi sembrava diverso dal suono delle manette dei telefilm polizieschi.

Mi abbattei contro la porta con tutto il mio peso, disperato. Tentai di infilare di nuovo il segnalibro nella serratura, ma scoprii che non c’era una serratura da quella parte della maniglia. Incominciai allora a chiamare aiuto urlando, a chiamare mia madre, ma non sentii nessuna risposta se non il tonfo ininterrotto al piano superiore. Cominciai a temere che le fosse successo qualcosa quando la mia attenzione fu attirata altrove.

Dal profondo corridoio alle mie spalle cominciai ad udire quella che temetti fosse una voce: “Vieni” diceva, “Da questa parte”.

Era melliflua e suadente come il fruscio della seta su un cuscino finemente ricamato, ed ebbe l’incredibile potere di calmarmi e di rilassare ogni mio muscolo. Sotto quell’incanto mi dimenticai del significato della paura; non sentivo più niente, se non quel richiamo. Senza quasi accorgermene feci cadere il diario sull’erba rossa e senza quasi pensarci mi avventurai in profondità.

“Continua” mi diceva quella voce ipnotizzante, che più mi addentravo più la sentivo chiara ed invitante.

Vieni. Non ti fermare. Dove sei?”

Mi trattenni a stento dal rispondere: “Sono qui. Sto venendo da te.”

Dietro di me sentii il cigolio dei macchinari della stanza che avevo lasciato.

Alla fine mi trovai in fondo a quello che era effettivamente un tunnel, vicino al punto di origine della voce. C’era un grosso arco di pietra, alla fine del tunnel, su cui si era avviluppata un’edera dello stesso colore rosso dell’erba. Sembrava molto vecchio.

Attraversato l’arco mi trovai in una grande stanza circolare dal soffitto a cupola, con il pavimento ricoperto della stessa fitta erba rossa ma che sprigionava un odore più forte ed intenso di quella nella stanza. Ora che lo sentivo meglio non era schifoso, anzi. Sembrava una mistura di eucalipto e rododendro, ma con qualcosa di alieno che ne compensava il profumo pungente e che donava armonia al mix. Le pareti erano spoglie e curvavano subito verso l’alto fino a formare una volta come quelle delle chiese. Tutto, dalle pareti all’erba, era ricoperto dalla stessa sostanza luminescente che riempiva i barattoli di sopra e che emanava abbastanza luce da permettermi di guardarmi intorno liberamente. Non vidi nessuno.

Ero da solo.

Non appena avevo varcato la soglia della sala la voce si era zittita. Senza più percepire quella voce mi sentivo come perso; ero come un’auto senza guidatore, lasciata in un parcheggio ad arrugginire.

Questa mia condizione si ruppe quando sentii qualcosa muoversi sulla parete di fondo ed allora notai una cosa che prima non avevo notato.

Al centro della sala c’era un pilastro che sosteneva la volta. Era fatto da quella che sembrava pietra, ma sembrava un albero senza rami, con rientranze, linee concentriche, fasci di fibre e radici che si inoltravano nel terreno, immergendosi tra l’erba vermiglia. Sentivo che lo strano odore proveniva lì e cominciavo a sentire una fortissima sensazione di piacere ogni volta che penetrava nelle mie narici; qualcosa che non avevo mai provato prima, un’estasi tenue ma perenne, che lentamente ottenebrava tutto il resto e prendeva il sopravvento sulla ragione. L’odore mi spinse ad avvicinarmi al pilastro senza alcuna cautela e solo il mio istinto di autoconservazione mi impedì di gettarmi a rotta di collo ed abbracciare il pilastro come gli Hippie abbracciano gli alberi.

Avvicinai il mio viso alla superficie irregolare della colonna, esaminandola da vicino, girandoci attorno, ipnotizzato dai motivi apparentemente casuali del pilastro. Non poteva essere stata scolpita da una mano umana ma non poteva nemmeno essere una formazione naturale perché era troppo armonica e precisa. Ma mano a mano che inalavo quel profumo le domande si facevano meno ed un profondo desiderio mi cresceva nel petto.

Alzai una mano (ma non sono io…) e lentamente la avvicinai alla superficie simil-legnosa (no, fermati! Che stai facendo!). Sentivo che se l’avessi fatto avrei provato qualcosa di inumanamente bello (Leva la mano, leva la mano!), e tutti i miei sogni mi sarebbero sembrati minuscoli in confronto a tutto ciò che avrei avuto (NO! NO!!!).

La superficie ruvida della colonna si delineò sotto il palmo della mia mano ed in quel momento tutta la magia svanì in un lampo.

All’improvviso l’odore scomparve e sotto i miei piedi l’erba si essiccò e perse colore ed iniziò a scorrere come inchiostro rosso verso le radici del pilastro. Mi guardai intorno come uno che si era addormentato nel suo letto e si era svegliato in una casa che non conosceva e non appena vidi la mia mano appoggiata sul pilastro sentii un moto di disgusto e la ritrassi il più veloce che potei, girandomi per scappare prima che accadesse qualcosa. Ma non appena la sollevai sentii qualcosa afferrarmi e voltandomi vidi che il pilastro si muoveva!

Le spirali, i segni sulla roccia si stavano muovendo come se fossero liquidi e dal centro della colonna era fuoriuscita una mano, che mi aveva afferrato il polso in una stretta dolorosa. La mano non era composta di pietra, anzi sembrava di metallo ma guardando bene si poteva notare che delle sei dita due erano di carne e le altre di ferro.

Fuori di me dalla paura strattonai la mano come un ossesso, tirando e scalciando, gridando la mia paura finche non mi fece male la gola, ma la presa era troppo salda per me e le dita intrappolate cominciarono a sbiancare. Sul pilastro intanto si stavalentamente formando un disegno e le forme e le spirali si modellavano sulla forma che spingeva per uscire.

Man mano, le linee del disegno si fecero più decise, i contorni più definiti, incisi come bassorilievi sulla pietra del pilastro. A quel punto il liquido rosso dell’erba iniziò a colare dalla roccia come se fosse sangue, andando a riempire i contorni e gli interni del disegno ed entrando in profondità attraverso minuscole vene ed arterie scavate nel pilastro che bevvero tutto quanto. Delle gocce di liquido mi colarono sulla caviglia e la sentii bruciare gli strati di pelle fino alla carne viva, come se cercasse di entrarmi dentro e divorarmi come le larve fameliche di un insetto divoravano l’ospite.

Quando tutto il liquido venne assorbito dalla colonna, il disegno cominciò a brillare di una luce rossa che risplendeva sempre più forte, fino a farmi sembrare il sole una lucciola posta di fianco ai fari di un’auto. Dovetti coprirmi gli occhi con le mani perché temevo che, se avessi guardato direttamente, i miei occhi sarebbero bruciati.

Non ho idea di quanto tempo passò, ma ad un certo punto tolsi le mani dagli occhi e vidi che la mano non mi tratteneva più la caviglia e sembrava scomparsa.

La mia mente era in subbuglio e sentivo di aver ricevuto un’enorme insolazione sulla pelle, ma in quel momento il mio unico pensiero era: “DEVO USCIRE DA QUI!!!”.

Scattai in piedi e corsi con tutte le mie forze fino alla stanza segreta e poi oltre laporta dell’orrore, che stranamente non fece nessuna resistenza e si aprìfino a tornare nella casa del nonno. Mentre salivo in superficie sentii dietro di me dei rumori raccapriccianti, poi ingranaggi e carrucole che cigolavano, gorgoglii come di una pentola in ebollizione e altri che sembravano unghie che grattavano sul ferro; e l’unica volta in cui girai lo sguardo dietro di me vidi che qualcosa mi stava seguendo, qualcosa troppo grande per essere una persona, dalle proporzioni non umane, le gambe troppo lunghe e le mani troppo larghe, e che riluceva alla luce fosforescente dei barattoli.

Aperta la porta con uno spintone la spinsi indietro più forte che potei, facendola sbattere contro gli stipiti. Chiudendosi, sentii dei CLIC mentre la porta si chiudeva con il suo strano meccanismo blindato, assicurando che qualunque cosa ci fosse stata là dietro ci sarebbe rimasta.

In seguito io e la mamma tornammo a casa e non le parlai mai di quello che avevo visto in quella casa, né a lei né a mio padre.

Passò del tempo ed anche i miei genitori morirono.

In quanto alla mamma, medici non mi seppero mai spiegare di cosa fosse morta, sembrava qualcosa di nuovo, che le trasformava i polmoni in delle spugne rossastre e le riempiva i respiri di polvere rossa che sembrava la sabbia di un deserto; non potei fare a meno di pensare a quello che vidi quel giorno, all’erba rossa.

Per mio padre invece la morte arrivò per mano di quello che la polizia definisce un serial-killer. Ma quale essere umano potrebbe mai smembrare un uomo a mani nude e compattarne la testa come un camion dell’immondizia?

Non erano i primi a morire in questo modo, vari casi erano comparsi all’improvviso sia di malati che di omicidi bestiali. Ed il colpevole poteva essere solo quella cosa che stava dietro a quella porta e che in qualche modo era riuscita a fuggire. Io ero il solo a sapere della sua esistenza e sicuramente la polizia non mi avrebbe mai creduto, né avrebbe avuto qualche possibilità contro il mostro. Bene o male, toccava a me.

Dopo la morte dei miei genitori mi trasferii in un appartamento nella periferia,lontano dalla casa del nonno, dove forse non avrei attirato l’attenzione del mostro.

Non avevo più il diario del nonno, perso nella stanza della colonna, ma avevo ancora il segnalibro metallico. Ma non poteva certo bastare contro quell’essere, per questo con i pochi risparmi lasciati dai miei comprai un fucile a canne mozze e qualche scatola di munizioni e cominciai ad elaborare un piano di guerra.

Dal giorno della loro morte non avevo fatto altro che collezionare articoli di giornale che parlavano di omicidi di inspiegabile ferocia, malattie sconosciute ed altri segni della presenza di quell’essere, attaccati su una lavagna come nei telefilm polizieschi, quando una intera squadra si mette ad indagare su un misterioso serial killer.

Quel mostro sembrava uscire ogni settimana, sempre un giorno solomentre negli altri giorni non si faceva vedere, ed uccideva sempre una sola persona, per poi tornare nella sua tana fino alla settimana dopo, e via così, da mesi.

Oggi è sabato. Sono le 23:00 e sto andando da lui. Il fucile è carico di proiettili ad espansione da caccia al cinghiale e tengo il segnalibro nella tasca posteriore.

Se state leggendo queste pagine vuol dire che sono morto e che lui mi ha ucciso. Vi prego, uccidetelo per me.

 

 

Tratto dalle pagine di un diario scritto da ****** *****, una delle probabili vittime dell’assassino seriale denominato dai media come The Eater ancora a piede libero per la città di ********.

Sulle pagine del diario c’erano, oltre a questo racconto, dei disegni della creaturadescritta dalla vittimada lui ritenuta colpevole della morte del padre, ucciso dal killer, ed anche della perdita della madre, per cancro ai polmoni.

È molto probabile che il dolore per la morte di entrambi i genitori abbia causato alla vittima un distaccamento dalla realtà ed alla creazione di un colpevole che, per via della ferocia dei suoi delitti, non poteva essere considerato umano.

Il diario è stato trovato fuori dall’abitazione della vittima, accanto al cadavere, e ricoperto da sangue e da una sostanza rossa e collosa, mista filamenti rossi simili a fili d’erba.

Ad oggi non si è riusciti a trovare un indizio sull’identità di The Eater.

   
 
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