Serie TV > 13 Reasons Why - Tredici
Segui la storia  |       
Autore: Tinkerbell92    03/08/2018    1 recensioni
Gli anni passano, scorrono, scivolano via come acqua tra le dita.
Sembra impossibile, eppure il tempo dell'adolescenza è finito e, in quello che è parso il lasso di tempo di battito di ciglia, sono già trascorsi venticinque anni dal suicidio di Hannah Baker.
C'è chi ha dimenticato, chi ha finto di dimenticare, chi ricorda ogni cosa.
Eppure, tutti concordano su una comune certezza: è tutto finito, venticinque anni fa.
Ebbene, sappiate solo questo: non sono i vivi a decidere quando è finita, sono gli spiriti a mettere la parola "fine" all'intera storia.
Perché non è una coincidenza se, a distanza di tanto tempo, tutti i figli degli ex studenti della Liberty High si sono ritrovati a frequentare lo stesso istituto dei genitori.
Non è una coincidenza se gli strani fenomeni che turbano la quiete scolastica hanno inizio proprio durante il venticinquesimo anniversario del suicidio di Hannah.
Tredici oggetti da distruggere al prezzo della rivelazione di tredici terribili segreti, in un'avventura a metà tra il drammatico e il demenziale.
Tenetevi stretti un sacchetto pieno di sale, uno spiedo per arrosticini e un telefono pronto a riprodurre una nota canzone italiana. Ne avrete bisogno.
Genere: Demenziale, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
13DF
PROLOGO




Basta.
Era quello che ripetevi a te stessa ogni volta che ti colpiva, di nuovo, nonostante avesse promesso di cambiare.     
Basta.
I fari delle auto che ti sfrecciano accanto sembrano missili di fuoco, lampi biancastri nel buio della notte. Tieni il piede premuto con forza sull’acceleratore, cercando di mettere quanta più distanza tra voi, questa volta per sempre.     
Josh ha paura, lo senti singhiozzare, rannicchiato sul sedile posteriore. Provi a rassicurarlo, mormorando qualche frase fatta, qualcosa di stupido che esce dalla tua bocca in automatico, senza che tu possa rendertene conto. Un’ennesima bugia, identica a tutte quelle che gli hai raccontato per quasi dieci anni.    
“Va tutto bene, Josh, va tutto bene.”    
Sì, va tutto bene, come andava tutto bene quando ti comparivano nuovi lividi sul corpo, quando ti sei rotta una mano cadendo dalle scale (diamine, davvero pensi che qualcuno ci abbia creduto?), quando reprimevi le grida e le lacrime alla notte, stringendo le lenzuola in un pugno, mentre lui (ormai non sei nemmeno più in grado di pronunciare il suo nome) ti costringeva a primitivi e dolorosi rapporti sessuali.       
Ti andava abbastanza bene quando ancora provavi del desiderio, ma quando non avevi voglia si andava sempre incontro al solito, dannatissimo rituale: prona, schiacciata contro il materasso, l’apparato genitale in fiamme, le mani pesanti che stringevano la tua carne senza alcuna delicatezza.    
La cosa brutta era che negli ultimi tempi il tuo desiderio si era ridotto, se non azzerato.    
Basta.
Quante volte hai provato a dirlo? Quante volte sei uscita da quella porta, con Joshua in braccio, giurando di non ritornare mai più?    
Ora ricordi quel giorno, quel giorno in cui c’eri quasi riuscita. Avevi varcato la soglia della stazione di polizia con il desiderio di porre fine a tutto quanto.    
“Vorrei denunciare mio marito.”    
Quanto ti era costato pronunciare quelle parole, liberarti di quel peso…     
Per un attimo ti eri quasi sentita leggera, come se potessi spiccare il volo da un momento all’altro, avvolta nel tuo cappottino beige. Persino gli ematomi sulla pelle ti erano parsi più chiari.     
Eppure, il peso che ti opprimeva da anni è tornato pochi istanti dopo, quando hai capito che non ti avrebbero aiutata. Avevano bisogno di prove, era la tua parola contro quella del tuo ricco e potente marito, la tua parola contro quella del rampollo di una facoltosa famiglia, un noto ex atleta, leader aziendale, un volto apparso più volte in prima pagina.
Per quanto ne sapevano, potevi esserteli fatta da sola quei lividi. Per quanto ne sapevano, potevi essere soltanto un’ avida manipolatrice in cerca di denaro e attenzioni.    
Avevano scordato con facilità i suoi precedenti penali, lui era lui, tu non eri nessuno.    
Ti avevano fatto male, sì. Ma quel dolore non era nemmeno equiparabile a ciò che ti avevano inflitto le due persone che più di tutti avrebbero dovuto aiutarti e proteggerti.    
Ti coglie una fitta allo stomaco mentre, compiendo una brusca svolta a destra, riecheggiano nella tua mente  parole di tua madre, che ti rimprovera perché non ti impegni abbastanza per tenerti stretta l’unica cosa buona che (per lei) hai fatto nella vita, ossia quella di sposare una celebrità.     
Tua madre, che ti zittiva ogni volta che trovavi il coraggio di parlare, che ti ripeteva che no, non si può parlare di stupro, Karen, perché lui è tuo marito, e poi perché vuoi negargli il tuo corpo, dovresti essere contenta se lui ti desidera, vuol dire che sei ancora attraente!
Tua madre, che ha dato la colpa a te quando hai perso il secondo bambino, che ha dato la colpa a te per ogni cosa, che ha sempre sminuito quando le mostravi i lividi.    
“Può accadere che ci siano delle discussioni nella vita coniugale!”     
Sì, le discussioni possono capitare.     
“Ma le percosse, mamma?” pensi con rabbia, dando voce alla Karen dei tuoi dolorosi ricordi, alla Karen che sta zitta e incassa i colpi. “Le percosse ti sembrano normali? Perché guardi questi segni sul mio corpo senza vederli?”    
Il silenzio di tuo padre non feriva certo meno. A poco servivano quei suoi mezzi tentativi di solidarietà, quelle domandine piazzate là, di tanto in tanto, come: “Sei sicura di star bene, Karey? Sei sicura di essere felice?”    
Che tu gli rispondessi con una bugia o col silenzio, lui reagiva sempre allo stesso modo, mettendosi l’anima in pace perché, a quanto pare, il suo dovere di genitore l’aveva fatto. Non si poteva dire che non si fosse interessato a te per almeno un secondo, no?    
E tuo fratello? Il tuo caro fratellino,  l’impeccabile Matthew, con la sua famiglia perfetta, il suo facoltoso lavoro a Washington, il cocco di mamma che tanto voleva un maschio e, ne sei più che certa, se fosse nato per primo probabilmente tu non saresti mai esistita, probabilmente ai tuoi sarebbe bastato.     
“E che ci vuole? Se ti tratta male mollalo!” ti diceva al telefono, accomodato su uno sdraio davanti alla sua bella piscina e con un cocktail in mano, quando lo chiamavi piangendo, con il corpo dolorante e lo spirito segnato da una crepa in più.   
Sì, mollalo. La faceva facile, ma dopotutto per lui era sempre stato tutto facile.     
Certo, non si può dire fossi completamente sola: i tuoi amici, o meglio, alcuni di loro ti sostenevano, alcuni di loro avevano provato sul serio ad aiutarti.     
Ti sfugge quasi un sorriso quando ripensi a quella volta in cui Marina ti aveva trascinata alla polizia, il giorno successivo alla tua richiesta d’aiuto ignorata, scatenando un putiferio e sbraitando un indignato monologo metà in inglese e metà in italiano.
     Eppure quella volta non ce l’avevi fatta. Quella volta l’avevi presa per un braccio, portandola fuori, mentre lei continuava a lanciare le sue invettive contro l’incompetenza degli… aveva detto sbirri? Sì, l’incompetenza degli sbirri e il marciume della società sessista.    
Sapevi che ti serviva aiuto, spesso lo chiedevi o almeno ci provavi. Eppure non riuscivi mai a portare a termine la tua battaglia. Eppure c’era sempre qualcosa che ti frenava, a partire dallo sguardo di tuo marito e dalle parole che ti rivolgeva ogni giorno, dopo averti baciata sulla fronte.    
“Non puoi andare da nessuna parte, tu non sei niente senza di me, lo sai, Karey?”    
Te l’aveva ripetuto talmente tante volte che alla fine, inconsciamente, avevi finito per credergli.
E poi, cosa ne sarebbe stato di Josh? Saresti davvero riuscita a guardare in faccia il tuo bambino e dirgli: “Tuo padre è un mostro, andiamo via, scappiamo prima che inizi a fare del male anche a te, perché lo farà, lo so, quando sarai un po’ più grande picchierà anche te.”    
Eri ormai intrappolata in una spirale di paura e sofferenza, senza alcun appiglio.    
Quando provavi ad allontanarti c’era sempre qualcosa che ti costringeva a tornare. E lui te lo ritrovavi lì, con un’espressione pacifica: correva ad abbracciarti e ti prometteva che sarebbe cambiato, che non avrebbe più alzato le mani su di te, che si era soltanto arrabbiato perché insomma, Karey, anche tu hai un carattere difficile, ti pare il caso di fare la troia con i tuoi colleghi di lavoro?    
Sì, troia. Sorridere ed essere gentile in ufficio significa essere troia. Rispondere al messaggio di un collega che ti invita a una cena di lavoro significa essere troia. Uscire con le amiche e tornare a casa tardi significa essere troia.
  E lui, che si scopava regolarmente le segretarie, allora cos’era? Ah, no, giusto, le troie erano le segretarie che ci stavano, lui non aveva alcuna colpa, lui, sposato e padre, ne usciva sempre pulito e indenne.     
Eppure… eppure senti che questa volta sarà diverso. Non tornerai mai più da lui.     
Non sei ancora del tutto sicura di cosa ti abbia fatto aprire gli occhi in tempo mentre ormai ti stavi spegnendo: forse è stato quando, riordinando il cassetto dell’archivio in salotto, ti sono capitate sotto mano alcune cartelle cliniche, o meglio, quella cartella clinica.    
Hai letto il tuo nome e subito dentro di te si è acceso qualcosa.
Karen Marsh. Karen Marsh…    
L’avevi quasi scordato, eh? Ormai non ti apparteneva più perché ti stavi trasformando in una scatola vuota, in un’ombra, stavi perdendo la tua umanità.     
Karen Marsh.    
Con il cuore in gola sei andata avanti a leggere quella semplice scheda che conteneva in sé quanto c’era di più sbagliato nella tua vita: hai ricordato quanto ti sei sentita sollevata quando quella dottoressa dallo sguardo color ambra ti aveva detto che la tua seconda gravidanza si era interrotta.     
Sollievo. Avevi davvero provato sollievo.    
Può capitare che una madre non desideri il proprio figlio, ci sono mille ragioni per cui una donna scelga di abortire o speri in un aborto spontaneo, nel caso non avesse la possibilità di intervenire chirurgicamente.    
Ma non dovrebbe mai, mai capitare che una madre si senta sollevata nell’aver perso un figlio per evitargli l’inferno che si cela dentro alle lussuose mura domestiche, per evitare che si chiuda anche lui in camera come il fratello, tappandosi le orecchie, piangendo e tremando.
Non deve succedere. Non è giusto.    
Quando poi lui, furibondo e un po’ alticcio, ti ha sbraitato contro per l’ennesima volta per un motivo che nemmeno hai capito (o meglio, ascoltato), agitandoti un coltello sotto il naso e minacciando di ammazzarti, ti sei resa conto di non provare paura ma rabbia.    
Rabbia che ti ha spinta fissarlo dritto negli occhi, rispondere: “Guarda che se mi ammazzi poi non hai più nessuno da pestare, brutto coglione” e allontanarti di qualche passo verso le scale.     
Ti ha lanciato contro il coltello, ti ha mancata, quindi, con un urlo da cavernicolo, ha afferrato un soprammobile d’argento e questa volta ti ha colpita, ottenendo però il risultato di farti arrabbiare ancora di più.    
E allora anche tu ti sei messa urlare, anche tu hai iniziato a tirargli addosso degli oggetti, qualsiasi cosa ti capitasse in mano, fino a quando non l’ha centrato in pieno volto con un portacandele di vetro, che si è distrutto riempiendo di schegge quel faccione quadrato.    
Quella è stata la tua occasione, quello ti ha dato abbastanza tempo da prendere Josh e caricarlo in macchina, fuggendo per sempre da quella casa maledetta.    
- Mamma…    
Ti scuoti dai tuoi pensieri, guardando nello specchietto retrovisore: il tuo bambino continua a piangere disperato, dietro di voi ci sono ancora quei fari che vi inseguono.    
Non vi lascerà andare via tanto facilmente.    
- Mamma… ti prego, voglio scendere… ho paura…    
- Siamo quasi arrivati – menti. – Stai tranquillo…    
Ti rendi conto che stai ancora sanguinando dalla ferita al sopracciglio, ma poco importa, anzi: significa che anche lui sta sanguinando e il pensiero ti fa quasi sorridere.    
Non sai dove stai andando. Ti basta seminarlo.    
E poi accade tutto in fretta, nel giro di una manciata di secondi: l’incrocio al distributore di benzina, il camion che si avvicina pericolosamente da destra, in direzione perpendicolare alla tua.     
Non puoi fermarti. Se ti fermi sei perduta. Se ti fermi lo stronzo ti prenderà, probabilmente ti ucciderà e Josh resterà solo con lui. Non puoi permetterlo. Non vuoi.    
Schiacci al massimo l’acceleratore, gridando, attraversi l’incrocio a una velocità mai osata prima; il camionista suona il clacson, provando a frenare, ma sai che non riuscirà a rallentare la sua corsa in tempo.      
Basta.
Raggiungi la parte opposta della carreggiata, poi il rumore dello schianto alle tue spalle, seguito da uno stridore di freni, un’esplosione e un lampo di luce rossa che illumina a giorno l’ambiente circostante.    
Per un attimo scordi di respirare, troppo scioccata, troppo incredula per quanto è appena accaduto. Trovi a malapena il coraggio di guardare la scena attraverso gli specchietti, mentre il mondo attorno a te si fa silenzioso. Silenzioso e rosso.    
Josh schiaccia il volto contro il finestrino alzato per vedere meglio, gli occhi ancora gonfi e le guance rigate dalle lacrime. Il vetro si appanna col suo respiro affannoso.    
Non sai cosa ti spinga a trovare il coraggio di scendere, reggendoti a malapena sulle gambe tremanti. E guardi, immobile, in silenzio, perché non puoi far altro che guardare.    
Il camion è fermo a pochi metri dal disastro, il conducente è appena sceso e armeggia freneticamente col telefono, anche se ormai c’è ben poco da fare.    
L’auto, la sua auto è ormai ridotta a un ammasso di rottami anneriti, il distributore di benzina va a fuoco, la notte si è tinta di oro e cremisi (come le luci di Natale!) e tu senti il calore di quelle fiamme sul viso.    
Addio. Addio, Bryce. Addio mio aguzzino, mio compagno, miei dodici anni d’inferno.  
Addio, mostro.    
Per un attimo ti sembra quasi di scorgere un volto femminile in mezzo al fumo color cenere, ma probabilmente si tratta solo di un’allucinazione.     
Il tempo attorno a te pare fermarsi: quasi non ti rendi conto di quando arrivano i soccorsi e alcuni dei vostri amici vi raggiungono.    
Solo nel momento in cui Marina ti scuote per le spalle riesci a recuperare un po’ di lucidità e guardarli, uno a uno, i volti serrati in un’espressione incredula quanto la tua.     
Justin resta solo per pochi minuti, poi trascina Nadya in macchina e se ne va, come sempre, ormai ha preso l’abitudine di tenersi lontano dai problemi, quasi ti sorprende il fatto che sia venuto.    
Zach cammina avanti e indietro con fare nervoso, Marcus sta parlando con uno degli agenti, gesticolando in modo frenetico… ci sono pure facce che non vedevi da un sacco di tempo, come quella dell’ex galeotto Montgomery De La Cruz.    
Peggy siede sul sedile posteriore della tua auto, parla con Josh, cerca di distrarlo. Fai cadere un’occhiata sul suo ventre, gonfio per via della gravidanza che sta affrontando ormai da sei mesi, e un po’ ti senti in colpa.      
- Ehi… Karey… Karey, cazzo, parlami!    
Volgi il tuo sguardo lentamente, specchiandoti in quello di Marina, intenso, preoccupato e color nocciola, e provi ad aprire la bocca per parlare, senza risultato.     
Ti stringi a lei, le lacrime cominciano a scorrere di nuovo, le spalle sobbalzano a ritmo di un singhiozzo che ti rendi conto essere una risata isterica.    
Piangi e ridi nello stesso momento, scossa, dilaniata, contesa tra emozioni e pensieri contrastanti.
Ti senti distrutta.    
Ti senti libera.    
Ti senti un’assassina.     
Ti senti… ti senti viva.     
Le fiamme sono ormai spente ma il fumo continua a salire, in alto, verso un velo nero e privo di stelle.     
E il tuo spirito, in questo momento, è fumo.     









- Thirteen Direful Secrets -










***
Angolo dell’autrice: Salve a tutti!     
Bene, questa storia ammetto esser stata inizialmente pensata come un qualcosa di assolutamente demenziale e trash, ma alla fine ho optato per una trama che conterrà in sé anche elementi drammatici. In ogni caso, gli amanti del trash non si preoccupino, ci sarà anche quello.     
Il prologo della storia è ambientato otto anni prima dell’inizio degli eventi descritti nella trama, e, nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, c’è un motivo se ho scelto di partire proprio da qui, c’è un collegamento ben preciso tra il destino di Bryce e ciò che i ragazzi della Liberty High affronteranno otto anni dopo.     

Vi fornisco intanto ulteriori spiegazioni e avvertimenti:    

- Ho immaginato una situazione del genere in casa Walker: Bryce è riuscito a farla franca per anni, nel frattempo ha maturato un carattere meno viscido e più aggressivo e violento, perché ormai è certo che i soldi lo aiuteranno sempre, quindi non si sente più in dovere di fingersi una persona tranquilla,     non gli basta compiere oscenità e stupri di nascosto, ha pure iniziato a bere e alzare le mani sulla moglie (della serie, sono una merda e voglio impegnarmi a fondo per mantenere il mio status di merda).    
Forse la scena dell’esplosione è un po’ da film, ma, ehi, avevo avvisato ci sarebbe stato un po’ di trash. E poi diciamolo, se l’è meritato.     
- Ho cambiato il destino di un personaggio, ossia Jeff. Perché sì, penso che almeno il 99,9% del fandom sia d’accordo sul fatto che meritasse di meglio. Perciò ho deciso di salvarlo e modificare leggermente la storia del lato di cassetta dedicato a Sheri: dopo l’incidente, Jeff è entrato in coma per mesi e, presa dal panico, Sheri ha fatto intendere che l’intera faccenda fosse avvenuta principalmente per colpa di Hannah, la quale, pur non subendo processi o altro per mancanza di prove, ha subito ulteriori vessazioni a scuola.     
- Chiederei di non insultarmi tramite recensione per come ho scelto di continuare la storia dei personaggi della serie. Oltre a Bryce ne ho uccis* un/un’altr* (non a caso, io non faccio mai niente per caso quando scrivo una storia) e ho scelto determinate coppie secondo le mie preferenze. Non mi farebbe affatto piacere ritrovarmi recensioni con scritto: “Eh ma questo doveva stare con quello, eh ma questa coppia non mi piace, eh ma questo personaggio per me doveva fare così...”    
Perciò vi prego, siate clementi da questo punto di vista XD Io sto solo seguendo le mie idee.
- Sono naturalmente presenti OC coetanei dei personaggi di Tredici (nel Prologo ne abbiamo già conosciute tre: Karen, Marina e, anche se solo nominata, Peggy), alcuni dei quali sono naturalmente stati utili per dar vita alla generazione successiva, protagonista di questa storia. Essendo nata come interattiva, ho incluso nella NG sette personaggi creati apposta da alcune mie amiche autrici. Tali personaggi appariranno nel prossimo capitolo, insieme alla famigerata Next Generation. Probabilmente, nelle note d’autrice vi scriverò un piccolo riepilogo degli OC miei e di quelli delle altre autrici, magari specificando anche chi è figli* di chi. O forse no, hehehe, magari vi farò scoprire alcune parentele nel corso della storia per creare qualche sorpresa.    
- La frase: "Guarda che se mi ammazzi poi non hai più nessuno da pestare, brutto coglione" è un riferimento al cortometraggio: "Amore, ma se mi uccidi, dopo a chi picchi?"
- Sì, il cognome di Karen è ispirato a quello di Beverly Marsh, una dei protagonisti di IT.
- Naturalmente, la maggior fonte di ispirazione per questa storia è stato Harry Potter, con la faccenda degli horcrux.    

Bene, al momento credo sia tutto, grazie mille per aver letto.    
Alla prossima!    

Tinkerbell92

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > 13 Reasons Why - Tredici / Vai alla pagina dell'autore: Tinkerbell92