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Autore: Teller64    19/08/2018    0 recensioni
"L'apparenza inganna" dicono. Beh, forse non sempre è così, e forse questa volta Tom avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto.
Genere: Horror, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Camminava. Metteva avanti un piede dopo l'altro e passo dopo passo si avvicinava a casa. Non desiderava altro: entrare in casa, farsi una doccia calda, mettersi a letto e lasciarsi tutto alle spalle; o almeno provarci. Avrebbe tentato un'altra volta di insabbiare tutte le sue emozioni negative, facendo di tutto per non pensare alle sue sciocche e insensate paure. Solo che certi pensieri non hanno lo stesso effetto quando il sole è alto nel cielo. Infatti Tom si svegliava tutte le mattine convinto di essere guarito da quel suo terrore ormai cronico, ma era solo una sensazione passeggera. Ogni notte quegli oscuri pensieri si facevano largo nella sua mente. Aveva una paura fottuta. Camminare di notte stava diventando una tortura. Il suo cuore batteva forte, così forte che a ogni battito sentiva la sua cassa toracica sussultare, come se qualcuno la stesse colpendo con una mazza. I lunghi respiri che effettuava nel vano tentativo di tranquillizzarsi erano interrotti dal regolare martellare del suo organo vitale. Mentre camminava il suo pensiero cercava a forza di estraniarlo dalla realtà, vagando da un posto all'altro, da un tempo all'altro. Si accorse che stava piovendo. Certo, già lo sapeva da quando era uscito dallo studio fotografico dove si svolgeva il corso, ma nel flusso dei suoi pensieri se ne era praticamente dimenticato. La pioggia batteva fitta e incessante sull'asfalto intorno a lui. Era uno di quei temporali autunnali che si lasciano presagire dalle ossa, dall’umidità intensa che pervade il tuo corpo. Tom tentò di contare le gocce che si scagliavano a terra con violenza. Risultò ovviamente impossibile, ma era un'ottima distrazione per lui. Fino a meno di un minuto prima non pensava ad altro che a quell'uomo. Percepiva in lui una strana aura, qualcosa di non meglio definito. Una sorta di... come dire, quasi un... un potere. C'era qualcosa in quell'uomo che gli conferiva un'aria di austera superiorità. Guardandolo era inevitabile perpepire un brivido dietro la schiena, una spinta a compiacerlo e a non entrare nelle sue ire. E poi c'era quella barba, nera e lunga fino alla base del collo, era quasi ipnotica. Fissarla per più di qualche secondo ti lasciava a vagabondare senza controllo nei tuoi pensieri. Era un tipo veramente inquietante, specialmente per la sua costante freddezza, per la pelle diafana che creava un notevole contrasto con la barba. Ma la cosa ancora più inquietante era che per Tom quel volto aveva un qualcosa di familiare, sembrava quasi quello di un lontano parente, di cui ormai aveva dimenticato il nome. Una parte di lui era ostinata a scoprire perché l'uomo avesse tanto un'aria familiare, mentre un'altra gridava al pericolo ogni volta che lo vedeva, o che lo pensava. E quest'ultima cosa succedeva fin troppo spesso, specialmente in quel periodo. Aveva passato ore a rimuginare sulla sua somiglinza con la figura che aveva sognato così tante volte per anni, che era costata una profonda preoccupazione da parte dei suoi genitori e innumerevoli sedute dagli psicoterapisti per farla sparire. Ricordava di aver provato di tutto, dall'ippoterapia fino all'ipnosi, ma fu tutto vano: l'uomo continuava ad apparire e a terrorizzarlo in ogni suo scenario onirico. E poi semplicemente sparì. Il piccolo Tom venne liberato da un giorno all'altro dal pesante fardello che lo aveva tormentato dai sei ai dieci anni. Il suo medico curante lo classificò come un caso di acuto trauma infantile, forse causato dalla visione di un'immagne disturbante poco adatta a un bimbo della sua età. Ma ora era un uomo di trentadue anni, e non riusciva a concepire che l'uomo che continuava a vedere in città fosse proprio quello che per anni si era fatto vedere nei suoi sogni. Diamine, era contro ogni tipo di logica! Tom si era sorpreso a pensare a quell'assurda teoria fin troppe volte. In fondo era passato troppo tempo dall'ultima volta che aveva sognato l'uomo, e il ricordo delle sue fattezze era stato sicuramente modificato negli anni. Eppure quel pensiero rimaneva insinuato in un angolo della sua mente, e continuava a pungere, tanto che sembrava che una di quelle puntine da bacheca gli si fosse piantata in testa reggendo un foglietto che diceva "ATTENTO!". Si sorprese a tremare. Non tremava di freddo; non avrebbe mai potuto con tutto quello che si era messo addosso. Infondo dalle parti di Creighton Hill il clima non era dei migliori, e proteggersi dal freddo era un'abitudine che Tom aveva ormai fatto sua. Eppure tremava, e si rese conto che il terrore stava tornando. Ma di chi, di cosa aveva paura? Domande alle quali anche lui avrebbe voluto dare una risposta. Forse era quella gelida serata autunnale carica della tristezza tipica di quella stagione, oppure era semplicemente preoccupato per il suo futuro, e ci stava finendo pazzo. In effetti a trentadue anni non aveva ancora fatto niente di concreto. Dopo le superiori il padre lo aveva mandato al college, ma lo aveva abbandonato per una storia d’amore con una certa Tanya di cui ormai non ricordava nemmeno più il cognome. Alla fine se n’era andata con un coglione californiano, e probabilmente aveva lasciato pure lui. L’unica cosa che gli era rimasta da quel rapporto era l’amarezza. E per di più suo padre non gli parlava da allora. Gli aveva detto che non avrebbe dovuto ripresentarsi a casa se non dopo aver trovato un lavoro vero. Ma sua madre non era stata altrettanto dura con lui, infatti gli aveva spedito per anni degli assegni, che, insieme a qualche lavoretto, gli avevano permesso di tirare avanti fino a quel punto e di mettere da parte anche un po’ di soldi. Proprio con questi ultimi risparmi aveva deciso di coronare il suo sogno di diventare un fotografo, iscrivendosi a un corso che gli avrebbe permesso di ottenere un diploma e cercare di fare strada in quel campo. Aveva sempre avuto una certa propensione per la fotografia, fin da ragazzo. Al corso partecipava ben poca gente, solo tre persone oltre a Tom. C’era Ben, un giovane ragazzo che non aveva ancora compiuto la maggiore età, ma determinato a cimentarsi in una carriera artistica. Tom non credeva che sarebbe andato troppo lontano, per via della sua visione fin troppo rosea del mondo. Poi c’era Johnny, che non era un vero e proprio partecipante. Era un simpatico settantenne che amava sedersi in fondo alla sala e godersi l’aria condizionata mentre ascoltava distrattamente l’istruttore. Lui neanche lo pagava il corso, né tentava l’esame finale. Era un tipo abbastanza conosciuto in paese, e il fotografo lo faceva accomodare senza problemi. E infine c’era lui, l’uomo con la barba nera. Tom fu scosso da un tremito. Il flusso di pensieri lo aveva tranquillizzato, ed era riuscito a portarsi avanti di un centinaio di metri verso casa sua: un piccolo appartamento dismesso, preso in affitto a pochi soldi. Ma non appena il suo pensiero tornò al volto di quell’uomo, Tom fu catturato dal suo ormai solito senso di terrore. Ed ecco di nuovo che sentiva il cuore rimbombargli nel petto come un tamburo da guerra che in tempi antichi annunciava alle truppe l’imminenza della battaglia. Accelerò il passo. Stava camminando piú veloce che poteva, e presto gli venne il fiato grosso, ma lui non accennò nemmeno a fermarsi né a rallentare. Non ne aveva la minima intenzione, anzi, si sarebbe messo a correre se non avesse saputo che questo lo avrebbe solo rallentato, per via delle numerose pozzanghere che si distendevano sulla River Street. La strada era a ferro di cavallo e cingeva tutta la città di Creighton Hill, e prendeva il nome da un oramai prosciugato affluente di un fiume più grande di cui non ricordava il nome. Il letto del fiumiciattolo accompagnava tutta la strada lungo gran parte del suo lato esterno. Ora il fiume non c’era più, ma sul lato della strada ne erano visibili i solchi lasciati da centinaia di anni di corrente. Numerose viette parallele collegavano un braccio all’altro della River Street e portavano a case e negozi. Il corso al quale partecipava Tom si svolgeva dall’altra parte del paese, quindi non avendo una macchina ed essendo fuori orario per gli autobus, era costretto a farsi un bel pezzo di River a piedi per poi prendere una via secondaria che portava al suo condominio. Le distrazioni lo stavano tranquillizzando, ma lo stavano anche rallentando. Il problema delle distrazioni è che quando finiscono ti ritrovi con la realtà sbattuta in faccia. Ed ecco che Tom era tornato violentemente alla realtà. Aveva paura come mai ne aveva provata in vita sua, e doveva sbrigarsi a tornare a casa. L’ultima cosa che voleva fare era riprendere a pensare al volto dell’uomo con la barba, ma si sforzò di farlo, se non altro per spronarsi a tornare a casa il prima possibile. Ma Tom si fermò. Aveva notato qualcosa, qualcosa di strano. Se n’era accorto quando un rivolo di liquido rovente gli era sceso dall’occhio e aveva iniziato la sua lenta e irregolare discesa verso il mento. Stava piangendo. Erano anni che non lo faceva più. Aveva pianto una moltitudine di volte nella sua vita. Pianse alla sua nascita, anche se oramai non ne aveva più il ricordo; pianse quando era un poppante e aveva fame; pianse quando l’uomo con la barba gli si presentò in sogno per la prima volta, come pianse tutte le altre volte che lo vide apparire nella sua mente; pianse quando Tanya lo ebbe abbandonato e pianse quando anche suo padre lo ebbe respinto, anche se nessuno lo aveva visto piangere. Piangeva, e questo voleva dire che aveva permesso a quello stupido uomo barbuto di entrargli in testa, di condizionare i suoi pensieri, la sua vita. Piangeva perché aveva paura, paura di scoprire che in un modo o nell’altro quell’uomo fosse in realtà lo stesso che era apparso e riapparso per anni durante le notti di sonno del piccolo e spaventato Tom. Spaventato almeno quanto lo fosse in quel preciso momento. Spaventato per la sua salute mentale, perché era impotente davanti al furibondo attacco attuato dalla sua psiche. Piangeva perché si rivedeva tra qualche anno rinchiuso un uni di quegli ospedali psichiatrici a delirare di college, Tanya e uomini con la barba. Piangeva. Ma non pianse a lungo. La disperazione fu presto rimpiazzata violentemente dalla rabbia. La furia entrò a gamba tesa nel suo stato d’animo, e non lasciò spazio a nient’altro. Aveva permesso a un’immagine, a un ricordo, di impossessarsi dei suii sentimenti. Si era fatto condizionare a tal punto da quell’idiota con la barba nera che si era messo a piangere come un poppante nel bel mezzo della strada, col cuore in gola e la paura che lo attanagliava ad ogni passo, a ogni singolo respiro. La rabbia si faceva intensa, Tom sentiva il suo volto diventare rosso e i suoi denti stringersi l’uno contro l’altro. Strinse i pugni e iniziò a camminare. Riprese la via di casa con passo sicuro, come se avesse iniziato ora a vivere veramente. Adorava quella sensazione. Ma non durò a lungo. Dopo un centinaio di metri arrivò alla stradina trasversale che lo avrebbe portato a casa. Svoltò con la rabbia che gli ribolliva nelle vene. Rabbia che si spense un attimo dopo quando vide che l’unico lampione che illuminava la strada prima che diventasse privata era rotto. Nel bel mezzo del marciapiede se ne stava una voragine di buio, così scura e tetra che per un attimo Tom credette davvero di trovarsi davanti a un precipizio. Sostò per un tempo indefinito davanti al buco che interrompeva la regolare ripetitività delle luci stradali. Tom sapeva che lo avrebbe dovuto attraversare per poter arrivare a casa. E fu proprio mentre raccoglieva le forze che lo sentì. Non era niente di fisico, di concreto, niente di più di una semplice sensazione. Eppure quella sensazione era così reale… Tom iniziò a sentirsi osservato. Percepì che lo scrutavano da qualche parte dietro di lui. Si voltò. A parte la pioggia che continuava a battere sul suolo e una vecchia macchina parcheggiata sul vialetto non c’era un bel niente. Questo avrebbe dovuto sollevare Tom, ma lo rese ancora più inquieto di quanto già non fosse. Sentiva quello sguardo che lo trafiggeva come la freccia di un cacciatore trafigge la sua preda. E non le lascia via di scampo. Decise di prendere il coraggio a quattro mani e tuffarsi nell’ombra. Camminava il più velocemente possibile, ascoltando ogni suo passo che emetteva rumori acquosi e sollevava schizzi dalle pozzanghere sulla stradina. Camminò con gli occhi chiusi e il cuore che gli sfondava il petto ad ogni battito. Camminò con una mano invisibile che lo spingeva da dietro la schiena. Camminò con la voce di sua madre nella testa che lo spronava ad andare avanti in quella folle corsa. Riaprì gli occhi. Quello che vide gli riempì il cuore di gioia: si trovava davanti all’ingresso di casa. Prese le chiavi con una mano tremante e le infilò nella serratura. Girò una, due volte. Spinse. Aveva lasciato il condizionatore spostato leggermente sull’aria calda. Quando entrò un’omdata di tepore lo investìin pieno volto, e Tom si sentì al sicuro. La serata proseguì normalmente, come mille altre erano passate prima di quella. Dopo una doccia calda cenò con una pizza del supermarket, poi lesse qualche capitolo di un libro che aveva preso in prestito dalla biblioteca del paese. Dopo si mise a letto con la tv accesa, curioso di sapere che cosa proponessero quella sera le emittenti principali. Guardò distrattamente un film fino a tarda serata, pensando a come avrebbe passato le giornate successive. Il corso di fotografia si svolgeva due volte a settimana e mancavano tre giorni alla lezione successiva, quindi sarebbe potuto tranquillamente rimanere rintanato in casa fino al prossimo incontro. Ne aveva avuto abbastanza per almeno un paio di giorni. Spense la tv. Rimase in un silenzio assoluto, con la coperta tirata su fino al mento e gli occhi fissi a guardare il vuoto. Iniziò a chiedersi come era arrivato a quel punto, ad avere tanta paura di un uomo con cui non aveva neanche mai parlato in vita sua. Si chiese quale dannata successione di eventi lo avesse portato lì, in quel momento, in quel fottutissimo paesino sperduto nelle pianure del New Jersey. Era arrivato a Creighton Hill su un autobus, con mille dollari in contanti e una valigia con tutta la sua roba. E anche la speranza. Si, era arrivato con la speranza di iniziare una nuova vita, fatta di agiatezze economiche, o almeno una vita non sempre al verde. Era arrivato con la lontana, persistente speranza di tornare da suo padre a testa alta e sbandierando la vittoria. Tom sapeva che una volta preso l’attestato avrebbe messo su un piccolo studio in casa, per mettere da parte i soldi per aprirne uno vero. Non gli sarebbe stato troppo difficile: aveva lavorato come freelancer fino a quel momento, scattando foto per le brouchure dei parchi a tema e vendendo foto a qualche giornale. Aveva molti contatti, anche qualcuno a New York. La speranza c’era, ma cadde in secondo piano quando in città arrivò anche lui. Si era fatto vivo in paese un giorno dopo l’arrivo di Tom. Erano arrivati a così poco tempo l’uno dall’altro, che Tom si ricordava della sua conversazione avvenuta con un vecchio, che gli aveva chiesto se il tizio fosse amico suo. “Ne ho vista di gente strana nella mia vita, figliolo” gli disse “ma questo lo è veramente. Il suo sguardo non è normale, ha qualcosa di gelido. È molto strano, ti dico solo questo” Effettivamente lo era. Tom aveva potuto guardarlo negli occhi per qualche secondo, il primo giorno del corso, quando gli strinse la mano. L’uomo con la barba non disse niente, ma si limitò a fissarlo negli occhi. La sua stretta era così forte che Tom sentì dolore alla mano. Ma gli occhi… Vuoti, inespressivi cerchi neri come l’ametista più scura, che per un momento fecero tremare le gambe di Tom, e lo ipnotizzarono per una manciata di secondi. Aveva gli occhi da predatore. Occhi freddi e calcolatori, che scrutano e smontano pezzo per pezzo la tua anima facendoti sentire fragile ed esposto. Era quello che pensava Tom. Forse si era solo autocondizionato. Forse il suo cervello aveva ordito trame irrazionali e inesistenti, che lui aveva fatto l’errore di assecondare. Ora era tranquillo. Il caldo soporifero di quella stanza da letto lo stava facendo addormentare. Finalmente il sonno. I suoi problemi, le sue paure, le sue incertezze stavano scivolando via. Erano quasi scivolate via, finché… Era stato un rumore sordo, un tonfo seguito dal rumore di vetri infranti a strappare via Tom dal dormiveglia. Non veniva da fuori, anzi, sembrava provenisse dalla stanza accanto. Afferrò il bordo superiore delle coperte, pronto ad alzarsi ed andare a controllare, ma qualcosa lo bloccò. Probabilmente lo stesso terrore che lo aveva bloccato davanti al lampione rotto, ma moltiplicato per mille. Rimase lì in quella posizione per un tempo che gli parve interminabile, tenendo tesi tutti i muscoli del suo corpo, con le orecchie ben aperte a captare ogni minimo rumore. Poteva sentire il regolare ticchettio dell’orologio in salotto, i cani del vicinato che abbaiavano senza sosta da quando si era sentito quel rumore dentro casa sua. Il cuore di Tom era tornato a battere forte, più forte di quanto avesse mai fatto. Tom si sentiva mancare l’aria, ma non poteva permettersi di respirare rumorosamente. Aveva bisogno di ascoltare. Sentiva che c’era qualcuno in casa sua, anche senza vederlo né sentirlo, ma lo percepiva e ne era praticamente sicuro. Un passo. Un suono basso, proveniente dallo stesso lato del rumore precedente. Era sicuramente un passo. Un altro. Tom sentiva la sua pelle ghiacciarsi e il sudore freddo grondare dalla sua fronte. Aveva gli occhi sbarrati e per la tensione quasi non respirava. C’era qualcuno -o qualcosa- in casa sua, e questa non era sicuramente una sua invenzione. Altri passi. Piccoli tonfi generati dalla suola sul parquet della casa, incessanti. Sentiva la precisa collocazione di ogni passo, e intuiva che l’intruso si stesse muovendo verso di lui, senza la minima esitazione, senza sbagliare stanza, quasi come se conoscesse ogni centimetro di quella dannata casa. Anche gli occhi ebbero la loro parte. Un’ombra nera si mosse nella stanza di Tom, in prossimità della porta. L’ombra entrò nella traiettoria di un raggio di luna che illuminava vagamente la stanza. Nel tenue bagliore argenteo Tom poté distinguere una figura umana avvolta da un mantello scuro, con un cappello in testa. Poi notò qualcos’altro. Due piccoli, luminisi focolai gialli sembravano risplendere di luce propria dove sarebbero dovuti esserci gli occhi. In uno scatto felino l’uomo nella stanza si gettò verso Tom, che intanto si era scoperto per vedere meglio. Il mantello si aprì, rivelando a Tom una vista raccapricciante. Una faccia pallidissima, con occhi spalancati, gialli, mancanti di pupille, lo stava esaminando. Sugli zigomi si vedevano chiaramente delle vene fin troppo scure, che confluivano vicino alle orbite. Ancora più sotto, il caos. Una foltissima barba nera che… si muoveva? Tom lo realizzò alcuni attimi dopo. Ogni singolo filo color nero pece che formava quella barba si muoveva, si arricciava e si distendeva spasmodicamente, come se fosse dotato di vita propria. Assomigliavano fin troppo ai vermi per la pesca che vengono trafitti dall’amo, e che si divincolano cercando invano di liberarsi. Tom sentiva una forte pressione sul petto, e si accorse che una mano lo teneva fermo con uns forza quasi sovrumana. Anzi, decisamente sovrumana. Una seconda mano si alzò lentamente, entrando nel campo visivo di Tom. Le dita erano grottescamente lunghe e ossute, dotate di artigli che palpitavano nell’aria cercando di afferrare il vuoto in pacati spasmi. Un indice fin troppo affilato toccò la fronte di Tom. E questo liberò un’area della sua mente che aveva sempre cercsto di tenere nascosta, e che per molti tratti neanche seppe riconoscere. L’essere davanti a lui. Ora ricordava! Non era solo l’inquietante uomo del corso di fotografia. Era qualcosa di più. I ricordi cominciarono ad affiorare. Lo aveva visto la prima volta quando era chiuso nell’incubatrice. Ovviamente aveva rimosso subito il ricordo, ma in quel momento lo vide come se fosse accaduto il giorno prima. Era un uomo bianco, ben vestito, con una lunga e curata barba nera e un cappello abbinato al vestito. Non gli aveva parlato. Lo aveva soltanto osservato per qualche minuto e gli aveva sorriso. Tom ricordava un sorriso gelido, totalmente privo di emozioni. Poi quella volta al suo terzo compleanno, quando un fattorino recapitò la torta a domicilio. Un fattorino con la pelle diafana e la barba nera. Poi a sei anni, durante la ricreazione, alle elementari. Si trovava nel cortile e lo vide, sempre ben vestito, che lo scrutava da appena al di fuori del perimetro scolastico. Quella volta rimase ipnotizzato per interi minuti a fissare il suo sguardo, tanto che non sentì nemmeno il richiamo della campanella. Quando la maestra gli scosse una spalla riportandolo alla realtà pianse per più di mezz’ora. E quello fu l’inizio dell’incubo. Anzi, degli incubi. Ogni notte la stessa immagine. Ogni sogno raffigurava la stessa, identica situazione: l’uomo con la barba nera che gli diceva di venire con lui. Aveva avuto anche episodi di sonnambulismo, durante i quali aveva tentato di uscire di casa dalla finestra di camera sua, ma non ci era mai riuscito. Questo era un dettaglio che non conosceva neanche Tom, e probabilmente neanche i suoi genitori. Quell’essere lo stava chiamando a sé da trent’anni. E ora era venuto a prenderselo. Nell’assoluto silenzio spostò l’indice dalla fronte di Tom e lo portò verso la sua bocca. Gli infilò l’artiglio nella trachea, impedendogli di respirare. Poi mosse la mano che lo teneva fermo, spostando il peso sulle punte delle dita. Tom non vedeva nulla al di fuori dell’orrendo volto del mostro che lo stava fissando negli occhi e che si stagliava sopra di lui. Era rimasto ipnotizzato da quegli occhi luminosi che ora erano così vicini, così affascinanti… Non sentì alcun dolore mentre gli artigli entravano nel suo petto. Si sentì solo svuotare. Ripensò a suo padre, a sua madre, a Tanya. Poi più nulla. E nella barba del mostro si aggiunse un altro crespo, nero, sofferente filo, che si dimenava un po’ più forte degli altri.
   
 
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