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Autore: lapoetastra    21/08/2018    3 recensioni
Era un gioco che avevano inventato qualche tempo prima, durante il culmine della malattia di Serjo: Andrés era andato a trovarlo, un giorno, in ospedale, e quasi non aveva riconosciuto il fratellino, magro ed emaciato come era diventato a causa della depressione.
“Tu non sei un bambino, sei una città”, gli aveva detto, e non sapeva nemmeno il perché.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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< Aveva detto che sarebbe tornato per cena. Lo avevo promesso. >
Andrés sospirò. Quella storia si ripeteva ormai ogni sera, ed ogni sera gli era sempre più difficile trovare una qualche scusa che potesse risuonare quantomeno plausibile alle orecchie del fratellino.
< Mi aveva accennato che probabilmente avrebbe tardato, Serjo. Doveva incontrare un amico per discutere di un problema di lavoro, ma ha preferito non dirtelo perché sapeva che gli avresti fatto una scenata >, spiegò, guardando di sottecchi il fratello.
Serjo arrossì. Effettivamente era molto protettivo nei confronti del padre, quasi morboso, e spesso faceva i capricci nel tentativo – vano – di farlo rimanere a casa, con loro, con lui. Del resto era solo un bambino, e tutto il suo mondo era costituito da Andrés e da lui.
Si rasserenò, però, alle parole del maggiore, per il quale nutriva una fiducia sconfinata, e mai avrebbe creduto che tutte quelle spiegazioni riguardo alla costante mancanza del padre fossero soltanto scuse che Andrés si inventava per nascondergli una verità che sarebbe stata troppo dura da sopportare ed accettare per lui, fragile e delicato come già era.
Un dubbio, però, si insinuò velenoso d’improvviso nella mente del minore.
< Non è che papà non sta più tanto a casa con noi perché si annoia a stare con me? Sai, per tutti i miei problemi… magari gli dà fastidio avere come figlio un bimbo debole e malato come me e… >
Un’occhiataccia lapidaria di Andrés lo fulminò.
 < Non dire sciocchezze! >, lo rimproverò quest’ultimo, ma il suo tono era più dolce delle parole. < Sai che papà ti ama, ci ama entrambi, e se non è a casa con noi è perché semplicemente non può. E tu non sei un bambino debole e malato, come amabilmente ti sei definito, sei una città, ricordi? >
Era un gioco che avevano inventato qualche tempo prima, durante il culmine della malattia di Serjo: Andrés era andato a trovarlo, un giorno, in ospedale, e quasi non aveva riconosciuto il fratellino, magro ed emaciato come era diventato a causa della depressione.
“Tu non sei un bambino, sei una città”, gli aveva detto, e non sapeva nemmeno il perché.
Serjo lo aveva guardato con quegli occhi che erano velati come quelli di un cieco, e gli aveva chiesto quale città dovesse essere. Quale, non perché. Forse i perché non servivano. Forse tutto ciò che contava era immaginare di essere qualcos’altro, qualsiasi cosa, qualcosa che fosse diverso da un bimbo di sei anni malato e stanco. Andrés gli aveva risposto che doveva scegliere lui, e così Serjo aveva  fatto.
E quel gioco, quello scherzo, era continuato, protraendosi anche oltre il tempo di permanenza in ospedale.
Era una sorta di modo per spingere Serjo a non pensare alla condizione nella quale si trovava, per spronarlo a sognare, dato che la sua giovane età ancora gliene concedeva il diritto.
Serjo sorrise, alle parole del fratello, dimenticando per un attimo tutte le proprie ansie e paure riguardo al padre ed alla sua mancanza, e le paranoie su se stesso.
< Io sono San Salvador! >, esclamò. Aveva scelto quella città, chissà perché, forse l’aveva vista in qualche film, o forse ne aveva sentito parlare in uno di quei libri in cui amava immergersi.
< Sono vivace, brillante, ed ospito tantissime persone felici. Le mie montagne si stagliano sul cielo azzurro, e le mie piazze bianche ospitano turisti a non finire. Tutti mi ammirano e mi fotografano, ed io dono loro un senso di colorata gioia. >
Andrés sorrise. Quanto stava bene quando vedeva il fratellino così sereno! La sua allegria infantile era contagiosa e per un attimo anche lui stesso non pensò più al padre, che in quel momento era sicuramente indaffarato in chissà quale nuova rapina.
< Ed io invece sono la città di Berlino! >, urlò. < Austera, sì,  ma anche raffinata ed elegante, piena di mistero e di fascino. >
Quella era la sua città preferita al mondo, da quando l’aveva visitata con la scuola, un tempo che sembrava appartenere ad una vita prima.
Risero insieme, i due fratelli, i due bambini; in fondo, nonostante ne avessero già passate tante, non erano più di questo.
< Adesso però si va a letto, è molto tardi >, ordinò Andrés, riprendendo il ruolo di fratello maggiore.
Serjo obbedì, sdraiandosi sotto le coperte con un sorriso, rincuorato da quel loro personalissimo gioco che chissà per quale motivo riusciva sempre a metterlo di buon umore, e ad allontanare tutti i pensieri cattivi.
< Buonanotte, Berlino >, mormorò.
< Buonanotte, Salvador >, rispose Andrés.
Si addormentarono.
   
 
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