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Autore: Mari Lace    21/08/2018    9 recensioni
Stava per scostarla e andarsene, quando notò lo sguardo che la donna – ragazza, a guardarla meglio: doveva avere circa la sua età, forse anche qualcosa di meno – le stava rivolgendo. Pareva aver visto un fantasma.
Studiò meglio il volto che aveva davanti; era scavato, pieno di lentiggini, incorniciato da riccioli rossi.
Il suo cuore saltò un battito, l’espressione specchiò quella dell’altra. "Non è possibile."
«Du… Dubhe? Sei tu?» mormorò allora la serva, con voce spezzata.
Non poteva più negarlo. Davanti a lei non c’era una sconosciuta; solo qualcuno che non vedeva da anni.
«Pat» pronunciò Dubhe incredula, riconoscendo la sua migliore amica d’un tempo.

Un incontro inaspettato e un ritratto dimenticato scuotono Dubhe, già alle prese con un problema di non poco conto: decidere cosa fare della sua vita.
Riuscirà ad affrontare finalmente il passato, o cederà a esso?
[Seconda classificata al contest "Foto Ricordo" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Dubhe
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ombra Redenta





Verso mezzogiorno un’ombra scivolò, non vista, attraverso un’uscita secondaria del palazzo reale di Makrat. S’infilò nelle strade affollate della città senza una destinazione precisa in mente; sentiva semplicemente il bisogno di camminare, sperava l’avrebbe aiutata a prendere una decisione. Neanche si rese conto d’essere arrivata al mercato, immune alle spinte e alle voci della folla che la circondava.

Gli ultimi giorni non erano stati affatto facili. Da quando Learco aveva assunto il comando del regno, le era capitato spesso di sentirsi fuori posto. Theana e Lonerin non c’erano mai, impegnati com’erano nella ricostruzione; tutti sembravano aver trovato un obiettivo, e lei si era sentita sola. Si era aggrappata disperatamente a Learco allora, seguendolo ovunque, ma non si era mai resa partecipe della sua causa.

Aveva preferito stargli accanto nell’ombra, consolandolo dopo ogni giornata sfiancante. Non si era esposta, nemmeno riguardo al suo ruolo nella sconfitta della Gilda: aveva preferito lasciar credere che Sennar avesse salvato tutti evocando una bestia mitologica.

Erano bastate poche parole per mandare in frantumi il precario equilibrio che si era creata. Una sera, Learco le aveva detto che l’avrebbe sposata; voleva che regnasse al suo fianco. La riteneva in grado.

Lei non era dello stesso avviso.

Poteva lasciare la comodità dell’ombra ed esporsi alla responsabilità della luce?

Scosse la testa, passando accanto a un banco che esponeva frutta e verdura.

Era riuscita solo a ripetere “Non posso”, di fronte a quella richiesta così importante. Learco non aveva insistito, lasciandole il tempo di rifletterci più seriamente. Nei giorni successivi ne aveva avvertito la lontananza, ma si era convinta che fosse giusto così: quella era una decisione importante, la prima che si trovava davanti da quando le avevano restituito una vita a cui aveva già rinunciato; doveva trovare da sola la risposta. Non c’era nessuno che potesse consigliarla al riguardo, perché per regnare – se mai avesse accettato! – avrebbe dovuto esserne pienamente convinta.

Istintivamente, si avviò per la strada che tante volte, in passato, l’aveva portata fuori dalla città; giunta a una svolta, però, qualcuno le finì addosso. Soffocando un’imprecazione, riuscì a mantenere l’equilibrio grazie ai suoi riflessi allenati. Stabilizzò l’importuna passante e ne studiò rapidamente le vesti; indossava una divisa che non riconobbe, quindi ipotizzò che servisse una famiglia straniera: conosceva bene gli stemmi di tutte le casate importanti di Makrat.

Stava per scostarla e andarsene, quando notò lo sguardo che la donna – ragazza, a guardarla meglio: doveva avere circa la sua età, forse anche qualcosa di meno – le stava rivolgendo. Pareva aver visto un fantasma.

Studiò meglio il volto che aveva davanti; era scavato, pieno di lentiggini, incorniciato da riccioli rossi.

Il suo cuore saltò un battito, l’espressione specchiò quella dell’altra. Non è possibile.

«Du… Dubhe? Sei tu?» mormorò allora la serva, con voce spezzata.

Non poteva più negarlo. Davanti a lei non c’era una sconosciuta; solo qualcuno che non vedeva da anni.

«Pat» pronunciò Dubhe incredula, riconoscendo la sua migliore amica d’un tempo. Il ricordo di un’altra vita.

«Sei davvero tu, allora». Vide gli occhi di Pat inumidirsi e avvertì il tremito nella sua voce. «Ti credevo morta, dicevano che non saresti sopravvissuta… io…».

La ladra si ritirò nel cappuccio in un inconscio tentativo di nascondersi. Non aveva le forze per affrontare il passato, in quel momento. Non sapeva se le avrebbe mai avute.

Pat non smise di fissarla. «Vivi qui?» domandò, tirando su con il naso.

Assentì rapidamente.

«Mi odi?»

Quella domanda spezzò qualcosa in Dubhe. Avrebbe potuto, se non dovuto, essere lei a porla. Era stata lei a uccidere Gornar, sconvolgendo per sempre tutte le loro vite.

«Perché dovrei?» trovò la forza di chiedere.

Vide l’amica di un tempo – sembrava passato così tanto, possibile fossero stati solo dieci anni? – portare gli occhi a terra e prendere un bel respiro, prima di continuare.

Trovò surreale come nel mentre i mercanti intorno a loro continuassero a stringere e concludere affari, i visitatori del mercato ad andare e venire, in un viavai che poco si curava dei loro drammi personali.

Per lei contava, però. Se non avesse incontrato Pat quella mattina, non avrebbe fatto alcuna differenza, ma ora che quella domanda era stata posta avvertiva quanto le fosse necessaria la risposta.

«Al processo… quel giorno… non li ho convinti» balbettò finalmente la rossa. Lo sforzo che le aveva richiesto quella semplice frase era evidente. Rialzò gli occhi spaventati e li puntò in quelli dell’ex compagna di giochi. «È stata colpa mia, non mi sono saputa spiegare! Mi dispiace!» urlò con uno slancio disperato e, per Dubhe, del tutto inaspettato.

La lasciò a bocca aperta, cogliendola totalmente in contropiede.

Aveva pensato che l’avessero odiata tutti; nella migliore delle ipotesi, che l’avessero dimenticata.

Ma Pat… aveva vissuto sentendosi in colpa, tutti quegli anni?

Fece una smorfia amara. «Non ho mai pensato fosse colpa tua. Né lo penso ora».

Non ci fu risposta a quell’affermazione; per alcuni minuti, Pat la studiò in silenzio. Pur sentendosi a disagio, Dubhe la lasciò fare. Quella situazione le appariva così irreale. Era diverso da quando aveva incontrato Renni; quella volta il riconoscimento, per sua fortuna viste le circostanze, era stato a senso unico.

Dopo un po’, l’altra tornò ad abbassare lo sguardo. «Vorrei darti una cosa» sussurrò. «Dove posso trovarti?»

Tornando al palazzo, Dubhe rifletté sull’incontro appena avvenuto. Aveva dovuto rinunciare alla sua escursione, ma non era quello il problema più urgente.

Aveva fatto bene a dirle di passare al palazzo e consegnare ciò che voleva darle, qualsiasi cosa fosse – non aveva voluto saperne di rivelarlo – a una delle cameriere?

Sospirò. Vederla le aveva provocato uno strano rimescolio. Prima dell’incidente erano state unitissime, ma adesso erano solo due sconosciute. Cosa potevano dirsi? Ogni loro discorso sarebbe con ogni probabilità tornato a Selva – non voleva che avvenisse. Per questo aveva deciso di non affrontarla direttamente.

Perdonami, Pat, si scusò mentalmente. Non potrei proprio farlo.

Quando una cameriera entrò nelle sue stanze con una busta in mano, il sole aveva ormai iniziato a calare. Si spostò per andare incontro alla donna e la vide sussultare.

Capì d’essersi mostrata accigliata quando questa si affrettò a scusarsi.

«Mi perdoni, mia signora. È così buio qui dentro… non l’avevo vista».

Lei annuì, tese le mani per ricevere l’oggetto e la congedò.

Sul retro della busta non era scritto nulla. La carta era stropicciata. Dubhe l’esaminò; all’interno non poteva esserci nulla di più spesso d’un foglio.

Che fosse una lettera?

Inspirando a fondo e ignorando il groppo che le si andava formando in gola, si fece coraggio e l’aprì. Come previsto, tastando al suo interno trovò solo carta.

Estrasse lentamente il contenuto, confermando la sua ipotesi. Esitò a studiarlo meglio, ma non poté impedirsi troppo a lungo di sbirciare.

Quando capì che non erano parole a riempirlo, per il sollievo rilasciò il fiato che non si era accorta d’aver trattenuto fino a quel momento.

Ma se non era una lettera, cosa? Osando un altro sguardo, capì che era un disegno. Il buio non le facilitava il compito, però. Si accostò alla finestra, con il silenzio come unico compagno. L’avrebbe studiato alla luce della luna: il sole era ormai tramontato del tutto.

I suoi occhi erano abituati all’ombra, così quel fioco chiarore le bastò.

Non le ci volle molto a distinguere le figure rappresentate sul foglio. Se riconoscere quei tratti fu questione di secondi, la prima lacrima richiese poco di più.

Temendo di rovinare l’immagine, si allontanò, ma non per questo smise di fissarla.

Scoprì di ricordare incredibilmente bene quel giorno.

«Bravi, così! Restate in posa, ragazzi! Non ci vorrà molto».

Ascoltando le parole del padre, Dubhe si rassegnò a restare immobile accanto agli altri. Era un’idea strana, quella di ritrarli insieme, ma l’uomo sembrava tenerci molto.

«Adesso ti sembra che non vi separerete mai», le aveva detto quella mattina, «ma crescendo in genere si prendono altre strade. Tra vent’anni potresti esser contenta di lasciarti andare ai ricordi con un’immagine».

“In fondo, perché no?”. Dubhe volse lo sguardo sul ragazzo in piedi accanto a lei. Non le sarebbe certo dispiaciuto avere un ritratto con Mathon.

Aiutandosi con gli esercizi di respirazione appresi dal Maestro, si calmò. Asciugò le lacrime con un lembo della veste e si accostò nuovamente al disegno.

Suo padre era stato davvero abile: quelli erano solo tratti di grafite e pigmenti, eppure vi vedeva rivivere gli amici di un tempo.

Davanti c’erano Sams e Renni, i gemelli; entrambi magrissimi, sedevano imbronciati. Probabilmente avevano considerato uno spreco di tempo quel far da modello a suo padre. Lo sguardo di Renni, notò avvicinandosi, era rivolto su un sacco posto accanto a lui: la loro preda, ricordò Dubhe. Prima di costringerli all’immobilità, quel pomeriggio suo padre li aveva portati a caccia. Anche per questo avevano accettato.

In piedi dietro al sacco riconobbe Pat. Quanto le voleva bene, da piccola! Non le nascondeva mai nulla. Sorrise tristemente: la Pat del foglio rideva, giocando con i riccioli. Sprizzava vita. Lo spettacolo cui aveva assistito quella mattina era ben diverso; forse non era colpa solo della guerra.

Quasi non riconobbe la bambina accanto a lei. Ero così… spensierata.

Aveva potuto permetterselo; quel pomeriggio nessuno avrebbe immaginato la tragedia che si sarebbe verificata solo pochi mesi dopo. E allora lei poteva permettersi di dare la mano a Pat, felice, e fissare Mathon con sguardo incantato.

Già, Mathon. Le era piaciuto davvero tanto, ma non avrebbe saputo dire perché. Studiò il suo piccolo corpo, gli occhi verdi che sembravano scrutarla freddi dal ritratto. Forse era stata la sua magrezza, a conquistarla? Non importa quale fosse il motivo. Eravamo solo due bambini.

Ma poi erano dovuti crescere, troppo in fretta. Soprattutto lei.

Con questa consapevolezza, arrivò a studiare l’ultimo membro del gruppo, il loro capo: Gornar. Represse un brivido. Si stagliava imponente accanto a Mathon, ma Dubhe si focalizzò sui suoi occhi. Erano socchiusi, vivi; molto diversi da quelli spalancati che l’avevano tormentata per anni, con le loro pupille fisse e piccole…

Si scostò bruscamente e respirò a fondo.

Quel ritratto le aveva ricordato le centinaia di pomeriggi passati a giocare con i suoi amici tra corse, gare di pesca, lotte. Si era divertita così tanto, adesso le sembrava un sogno. Un giorno, però, il primo di un’estate ormai lontana, tutto era mutato in incubo.

Quando aveva ucciso Gornar, un’ombra le era scivolata sul cuore e vi era rimasta.

Lei stessa l’era diventata.

Rivide ancora una volta lo sguardo spento del suo amico d’infanzia, ma pochi secondi dopo la sua mente gli sostituì l’immagine appena vista.

Tornò al ritratto; si accorse che non le provocava dolore, solo… amarezza. L’eco di un rimpianto della vita che avrebbe potuto avere.

Fu allora che l’avvertì con certezza: l’ombra aveva lasciato il suo cuore. A scacciarla era stato Learco, che ogni notte la rassicurava con un bacio sulla fronte. Learco che non aveva esitato ad accettarla nonostante tutte le atrocità che aveva commesso.

Learco, il sole che l’aveva salvata in ben più di un modo.

«Non voglio perderti mai più. Io senza di te non esisto» gli aveva detto quando, riaprendo gli occhi dopo aver ceduto alla Bestia, aveva scoperto di essere viva. L’aveva detto senza rifletterci, ma capì di aver avuto ragione. L’ombra non può esistere senza la luce.

«Non accadrà», le aveva risposto Learco. Le aveva promesso di restarle accanto.

Perché ora lei esitava a fare altrettanto?

E nonostante tutto, diventare regina… un’occhiata al foglio le rammentò il futuro che avrebbe dovuto attenderla: con tutta probabilità, sarebbe diventata una contadina, come i suoi genitori.

Il destino, tuttavia, aveva voluto diversamente.

Animata da un’improvvisa certezza, si affacciò fuori dalla stanza. Non c’era nessuno, ma trovò quel che cercava: appese alle pareti, varie torce illuminavano i corridoi silenziosi. Ne prese una.

Nel dar fuoco al ritratto non versò una lacrima.

Avrei dovuto lasciarmi quella vita alle spalle molto tempo fa.

Stremata, rimise la torcia al suo posto e, rientrata in fretta, si gettò sul giaciglio.

Per la prima volta da quando Learco le aveva comunicato la sua intenzione di sposarla, le ci vollero pochi secondi per scivolare in un sonno profondo, senza sogni.

Il mattino seguente la luce del sole, entrando dalla finestra che aveva lasciato aperta la sera prima, le ferì gli occhi. Aveva dormito più a lungo del solito.

Neanche mezz’ora dopo lasciò il palazzo, diretta alla tomba di Ido.








~NdA~

Salve a tutti!

Questa storia ha preso forma dalla fusione di due idee; qualche mese fa, su un gruppo facebook (Parole tra le dita) assegnarono un prompt da sviluppare al volo, anche solo con una frase, in un gioco: "Ombra". Mi venne subito in mente Dubhe e buttai giù la metafora dell'ombra con un'ombra sul cuore dove Learco è il sole in grado di scacciare le ombre.

Questo è stato il primo passo; il secondo tassello l'ho preso dal contest "Foto Ricordo" di Fiore di Cenere: un personaggio doveva provare un'emozione guardando una foto (o un equivalente, in fandom come questo dove le foto non esistono).

Ero indecisa su chi dovesse trovare la foto e consegnarla a Dubhe; alla fine mi è sembrato fosse più realistico fosse qualcuno che viveva al villaggio, e ho ripescato Pat.

Così è nato questo missing moment che si inserisce nell'epilogo delle Guerre. Licia Troisi racconta brevemente lo smarrimento di Dubhe di fronte alla proposta di Learco e l'incertezza nel prendere la decisione: infine, la fa andare sulla tomba di Ido. Qui ricorda la domanda che lo gnomo le aveva posto, "Hai trovato quello che cercavi?", e riflette su 'passato, presente e futuro'.

Dopo, c'è il matrimonio (*__*).

Questo è quanto: se avete amato non solo questa saga, ma proprio Dubhe (e Learco) la metà di quanto ho fatto io, spero che questa lettura non vi sia dispiaciuta!

Per me, nonostante un paio di incertezze permangano, è stato bello scriverla.

Ispirazione permettendo, tornerò a scrivere su di loro, magari qualcosa in cui Learco appaia fisicamente.

Bene, stop alle divagazioni. Grazie per essere passati!

Un saluto,

Mari

  
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