Ombra
Redenta
Verso
mezzogiorno un’ombra scivolò,
non vista, attraverso un’uscita secondaria del palazzo reale
di Makrat.
S’infilò nelle strade affollate della
città senza una destinazione precisa in
mente; sentiva semplicemente il bisogno di camminare, sperava
l’avrebbe aiutata
a prendere una decisione. Neanche si rese conto d’essere
arrivata al mercato,
immune alle spinte e alle voci della folla che la circondava.
Gli ultimi
giorni non erano
stati affatto facili. Da quando Learco aveva assunto il comando del
regno, le
era capitato spesso di sentirsi fuori posto. Theana e Lonerin non
c’erano mai,
impegnati com’erano nella ricostruzione; tutti sembravano
aver trovato un
obiettivo, e lei si era sentita sola.
Si era aggrappata disperatamente a Learco allora, seguendolo ovunque,
ma non si
era mai resa partecipe della sua causa.
Aveva preferito
stargli
accanto nell’ombra, consolandolo dopo ogni giornata
sfiancante. Non si era
esposta, nemmeno riguardo al suo ruolo nella sconfitta della Gilda:
aveva preferito
lasciar credere che Sennar avesse salvato tutti evocando una bestia
mitologica.
Erano bastate
poche parole
per mandare in frantumi il precario equilibrio che si era creata. Una
sera, Learco
le aveva detto che l’avrebbe sposata; voleva che regnasse al
suo fianco. La
riteneva in grado.
Lei non era
dello stesso
avviso.
Poteva lasciare
la comodità
dell’ombra ed esporsi alla responsabilità della
luce?
Scosse la testa,
passando
accanto a un banco che esponeva frutta e verdura.
Era riuscita
solo a ripetere
“Non posso”, di fronte a quella richiesta
così importante. Learco non aveva
insistito, lasciandole il tempo di rifletterci più
seriamente. Nei giorni
successivi ne aveva avvertito la lontananza, ma si era convinta che
fosse
giusto così: quella era una decisione importante, la prima
che si trovava
davanti da quando le avevano restituito una vita a cui aveva
già rinunciato; doveva trovare da sola la risposta. Non
c’era nessuno che
potesse consigliarla
al riguardo, perché per regnare – se mai avesse
accettato! – avrebbe dovuto
esserne pienamente convinta.
Istintivamente,
si avviò per
la strada che tante volte, in passato, l’aveva portata fuori
dalla città;
giunta a una svolta, però, qualcuno le finì
addosso. Soffocando
un’imprecazione, riuscì a mantenere
l’equilibrio grazie ai suoi riflessi
allenati. Stabilizzò l’importuna passante e ne
studiò rapidamente le vesti;
indossava una divisa che non riconobbe, quindi ipotizzò che
servisse una
famiglia straniera: conosceva bene gli stemmi di tutte le casate
importanti di
Makrat.
Stava per
scostarla e
andarsene, quando notò lo sguardo che la donna –
ragazza, a guardarla meglio:
doveva avere circa la sua età, forse anche qualcosa di meno
– le stava
rivolgendo. Pareva aver visto un fantasma.
Studiò
meglio il volto che
aveva davanti; era scavato, pieno di lentiggini, incorniciato da
riccioli rossi.
Il suo cuore
saltò un
battito, l’espressione specchiò quella
dell’altra. Non è
possibile.
«Du…
Dubhe? Sei tu?» mormorò
allora la serva, con voce spezzata.
Non poteva
più negarlo. Davanti
a lei non c’era una sconosciuta; solo qualcuno che non vedeva
da anni.
«Pat»
pronunciò Dubhe incredula,
riconoscendo la sua migliore amica d’un tempo. Il
ricordo di un’altra vita.
«Sei
davvero tu, allora». Vide
gli occhi di Pat inumidirsi e avvertì il tremito nella sua
voce. «Ti credevo
morta, dicevano che non saresti sopravvissuta…
io…».
La ladra si
ritirò nel
cappuccio in un inconscio tentativo di nascondersi. Non aveva le forze
per
affrontare il passato, in quel momento. Non sapeva se le avrebbe mai
avute.
Pat non smise di
fissarla.
«Vivi qui?» domandò, tirando su con il
naso.
Assentì
rapidamente.
«Mi
odi?»
Quella domanda
spezzò
qualcosa in Dubhe. Avrebbe potuto, se non dovuto, essere lei a porla.
Era stata
lei a uccidere Gornar, sconvolgendo
per sempre tutte le loro vite.
«Perché
dovrei?» trovò la
forza di chiedere.
Vide
l’amica di un tempo –
sembrava passato così tanto, possibile fossero stati solo
dieci anni? – portare
gli occhi a terra e prendere un bel respiro, prima di continuare.
Trovò
surreale come nel
mentre i mercanti intorno a loro continuassero a stringere e concludere
affari,
i visitatori del mercato ad andare e venire, in un viavai che poco si
curava
dei loro drammi personali.
Per lei contava,
però. Se
non avesse incontrato Pat quella mattina, non avrebbe fatto alcuna
differenza,
ma ora che quella domanda era
stata
posta avvertiva quanto le fosse necessaria la risposta.
«Al
processo… quel giorno…
non li ho convinti» balbettò finalmente la rossa.
Lo sforzo che le aveva
richiesto quella semplice frase era evidente. Rialzò gli
occhi spaventati e li
puntò in quelli dell’ex compagna di giochi.
«È stata colpa mia, non mi sono
saputa spiegare! Mi dispiace!» urlò con uno
slancio disperato e, per Dubhe, del
tutto inaspettato.
La
lasciò a bocca aperta,
cogliendola totalmente in contropiede.
Aveva pensato
che l’avessero
odiata tutti; nella migliore delle ipotesi, che l’avessero
dimenticata.
Ma
Pat… aveva vissuto
sentendosi in colpa, tutti quegli anni?
Fece una smorfia
amara. «Non
ho mai pensato fosse colpa tua. Né lo penso ora».
Non ci fu
risposta a
quell’affermazione; per alcuni minuti, Pat la
studiò in silenzio. Pur
sentendosi a disagio, Dubhe la lasciò fare. Quella
situazione le appariva così
irreale. Era diverso da quando aveva incontrato Renni; quella volta il
riconoscimento, per sua fortuna viste le circostanze, era stato a senso
unico.
Dopo un
po’, l’altra tornò
ad abbassare lo sguardo. «Vorrei darti una cosa»
sussurrò. «Dove posso
trovarti?»
Tornando al
palazzo, Dubhe
rifletté sull’incontro appena avvenuto. Aveva
dovuto rinunciare alla sua
escursione, ma non era quello il problema più urgente.
Aveva fatto bene
a dirle di
passare al palazzo e consegnare ciò che voleva darle,
qualsiasi cosa fosse –
non aveva voluto saperne di rivelarlo – a una delle cameriere?
Sospirò.
Vederla le aveva
provocato uno strano rimescolio. Prima dell’incidente erano
state unitissime,
ma adesso erano solo due sconosciute. Cosa potevano dirsi? Ogni loro
discorso
sarebbe con ogni probabilità tornato a Selva – non
voleva che avvenisse. Per
questo aveva deciso di non affrontarla direttamente.
Perdonami,
Pat,
si scusò mentalmente. Non potrei
proprio farlo.
Quando una
cameriera entrò
nelle sue stanze con una busta in mano, il sole aveva ormai iniziato a
calare.
Si spostò per andare incontro alla donna e la vide
sussultare.
Capì
d’essersi mostrata
accigliata quando questa si affrettò a scusarsi.
«Mi
perdoni, mia signora. È
così buio qui dentro… non l’avevo
vista».
Lei
annuì, tese le mani per
ricevere l’oggetto e la congedò.
Sul retro della
busta non
era scritto nulla. La carta era stropicciata. Dubhe
l’esaminò; all’interno non
poteva esserci nulla di più spesso d’un foglio.
Che fosse una
lettera?
Inspirando a
fondo e
ignorando il groppo che le si andava formando in gola, si fece coraggio
e
l’aprì. Come previsto, tastando al suo interno
trovò solo carta.
Estrasse
lentamente il
contenuto, confermando la sua ipotesi. Esitò a studiarlo
meglio, ma non poté
impedirsi troppo a lungo di sbirciare.
Quando
capì che non erano
parole a riempirlo, per il sollievo rilasciò il fiato che
non si era accorta
d’aver trattenuto fino a quel momento.
Ma se non era
una lettera,
cosa? Osando un altro sguardo, capì che era un disegno. Il
buio non le
facilitava il compito, però. Si accostò alla
finestra, con il silenzio come
unico compagno. L’avrebbe studiato alla luce della luna: il
sole era ormai
tramontato del tutto.
I suoi occhi
erano abituati
all’ombra, così quel fioco chiarore le
bastò.
Non le ci volle
molto a
distinguere le figure rappresentate sul foglio. Se riconoscere quei
tratti fu
questione di secondi, la prima lacrima richiese poco di più.
Temendo di
rovinare l’immagine,
si allontanò, ma non per questo smise di fissarla.
Scoprì
di ricordare
incredibilmente bene quel giorno.
«Bravi,
così! Restate in posa, ragazzi! Non ci vorrà
molto».
Ascoltando
le parole del padre, Dubhe si rassegnò a restare immobile
accanto agli altri.
Era un’idea strana, quella di ritrarli insieme, ma
l’uomo sembrava tenerci
molto.
«Adesso
ti sembra che non vi separerete mai», le aveva detto quella
mattina, «ma
crescendo in genere si prendono altre strade. Tra vent’anni
potresti esser
contenta di lasciarti andare ai ricordi con
un’immagine».
“In
fondo, perché no?”. Dubhe volse lo sguardo sul
ragazzo in piedi accanto a lei.
Non le sarebbe certo dispiaciuto avere un ritratto con Mathon.
Aiutandosi con
gli esercizi
di respirazione appresi dal Maestro, si calmò.
Asciugò le lacrime con un lembo
della veste e si accostò nuovamente al disegno.
Suo padre era
stato davvero
abile: quelli erano solo tratti di grafite e pigmenti, eppure vi vedeva
rivivere gli amici di un tempo.
Davanti
c’erano Sams e
Renni, i gemelli; entrambi magrissimi, sedevano imbronciati.
Probabilmente
avevano considerato uno spreco di tempo quel far da modello a suo
padre. Lo
sguardo di Renni, notò avvicinandosi, era rivolto su un
sacco posto accanto a
lui: la loro preda,
ricordò Dubhe.
Prima di costringerli all’immobilità, quel
pomeriggio suo padre li aveva
portati a caccia. Anche per questo avevano accettato.
In piedi dietro
al sacco
riconobbe Pat. Quanto le voleva bene, da piccola! Non le nascondeva mai
nulla.
Sorrise tristemente: la Pat del foglio rideva, giocando con i riccioli.
Sprizzava vita. Lo spettacolo cui aveva assistito quella mattina era
ben
diverso; forse non era colpa solo della guerra.
Quasi non
riconobbe la
bambina accanto a lei. Ero
così…
spensierata.
Aveva potuto
permetterselo;
quel pomeriggio nessuno avrebbe immaginato la tragedia che si sarebbe
verificata solo pochi mesi dopo. E allora lei poteva permettersi di
dare la
mano a Pat, felice, e fissare Mathon con sguardo incantato.
Già,
Mathon. Le era piaciuto
davvero tanto, ma non avrebbe saputo dire perché.
Studiò il suo piccolo corpo,
gli occhi verdi che sembravano scrutarla freddi dal ritratto. Forse era
stata
la sua magrezza, a conquistarla? Non
importa quale fosse il motivo. Eravamo solo due bambini.
Ma poi erano
dovuti
crescere, troppo in fretta. Soprattutto lei.
Con questa
consapevolezza,
arrivò a studiare l’ultimo membro del gruppo, il
loro capo: Gornar. Represse un
brivido. Si stagliava imponente accanto a
Mathon, ma Dubhe si focalizzò sui suoi occhi. Erano
socchiusi, vivi; molto
diversi da quelli spalancati che l’avevano tormentata per
anni, con le loro
pupille fisse e piccole…
Si
scostò bruscamente e
respirò a fondo.
Quel ritratto le
aveva
ricordato le centinaia di pomeriggi passati a giocare con i suoi amici
tra
corse, gare di pesca, lotte. Si era divertita così tanto,
adesso le sembrava un
sogno. Un giorno, però, il primo di un’estate
ormai lontana, tutto era mutato
in incubo.
Quando aveva
ucciso Gornar,
un’ombra le era scivolata sul cuore e vi era rimasta.
Lei stessa
l’era diventata.
Rivide ancora
una volta lo
sguardo spento del suo amico d’infanzia, ma pochi secondi
dopo la sua mente gli
sostituì l’immagine appena vista.
Tornò
al ritratto; si
accorse che non le provocava dolore, solo… amarezza.
L’eco di un rimpianto della
vita che avrebbe potuto avere.
Fu allora che
l’avvertì con
certezza: l’ombra aveva lasciato il suo cuore. A scacciarla
era stato Learco, che
ogni notte la rassicurava con un bacio sulla fronte. Learco che non
aveva
esitato ad accettarla nonostante tutte le atrocità che aveva
commesso.
Learco, il sole
che l’aveva
salvata in ben più di un modo.
«Non
voglio perderti mai più. Io senza di te non esisto» gli
aveva detto quando, riaprendo gli occhi dopo aver ceduto alla Bestia,
aveva
scoperto di essere viva. L’aveva detto senza rifletterci, ma
capì di aver avuto
ragione. L’ombra non può
esistere senza
la luce.
«Non
accadrà», le aveva
risposto Learco. Le aveva promesso di restarle
accanto.
Perché
ora lei esitava a
fare altrettanto?
E nonostante
tutto,
diventare regina… un’occhiata al foglio le
rammentò il futuro che avrebbe
dovuto attenderla: con tutta probabilità, sarebbe diventata
una contadina, come
i suoi genitori.
Il destino,
tuttavia, aveva
voluto diversamente.
Animata da
un’improvvisa certezza,
si affacciò fuori dalla stanza. Non c’era nessuno,
ma trovò quel che cercava:
appese alle pareti, varie torce illuminavano i corridoi silenziosi. Ne
prese
una.
Nel dar fuoco al
ritratto
non versò una lacrima.
Avrei
dovuto lasciarmi quella vita alle spalle molto tempo fa.
Stremata, rimise
la torcia
al suo posto e, rientrata in fretta, si gettò sul giaciglio.
Per la prima
volta da quando
Learco le aveva comunicato la sua intenzione di sposarla, le ci vollero
pochi
secondi per scivolare in un sonno profondo, senza sogni.
Il mattino
seguente la luce
del sole, entrando dalla finestra che aveva lasciato aperta la sera
prima, le
ferì gli occhi. Aveva dormito più a lungo del
solito.
Neanche mezz’ora dopo lasciò il palazzo, diretta alla tomba di Ido.
~NdA~
Salve a tutti!
Questa storia ha preso forma dalla fusione di due idee; qualche mese fa, su un gruppo facebook (Parole tra le dita) assegnarono un prompt da sviluppare al volo, anche solo con una frase, in un gioco: "Ombra". Mi venne subito in mente Dubhe e buttai giù la metafora dell'ombra con un'ombra sul cuore dove Learco è il sole in grado di scacciare le ombre.
Questo è stato il primo passo; il secondo tassello l'ho preso dal contest "Foto Ricordo" di Fiore di Cenere: un personaggio doveva provare un'emozione guardando una foto (o un equivalente, in fandom come questo dove le foto non esistono).
Ero indecisa su chi dovesse trovare la foto e consegnarla a Dubhe; alla fine mi è sembrato fosse più realistico fosse qualcuno che viveva al villaggio, e ho ripescato Pat.
Così è nato questo missing moment che si inserisce nell'epilogo delle Guerre. Licia Troisi racconta brevemente lo smarrimento di Dubhe di fronte alla proposta di Learco e l'incertezza nel prendere la decisione: infine, la fa andare sulla tomba di Ido. Qui ricorda la domanda che lo gnomo le aveva posto, "Hai trovato quello che cercavi?", e riflette su 'passato, presente e futuro'.
Dopo, c'è il matrimonio (*__*).
Questo è quanto: se avete amato non solo questa saga, ma proprio Dubhe (e Learco) la metà di quanto ho fatto io, spero che questa lettura non vi sia dispiaciuta!
Per me, nonostante un paio di incertezze permangano, è stato bello scriverla.
Ispirazione permettendo, tornerò a scrivere su di loro, magari qualcosa in cui Learco appaia fisicamente.
Bene, stop alle divagazioni. Grazie per essere passati!
Un saluto,
Mari