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Autore: Roscoe24    22/08/2018    12 recensioni
“Ahi,” si lamentò, toccandosi la fronte. Ci sarebbe spuntato un bel bernoccolo, se lo sentiva.
“Oh santi numi!” sentì esclamare e poi di nuovo il botto metallico dello sportello che veniva chiuso. Alec aveva ancora le mani sulla fronte, quindi non poteva vedere chi fosse il suo interlocutore. La verità era che si stava vergognando così tanto di essersi comportato come un tale imbranato che non aveva il coraggio di togliersi le mani dal viso.
“Ehi, là sotto. Tutto bene?” lo sconosciuto appoggiò le mani sui polsi di Alec, il quale percepì il tocco caldo contro la sua pelle. Curioso, si liberò la faccia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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                                                                                                                    I look around me and see a sweet life
                                                                                               

                                                                                            ◊


Il pianto del bambino svegliò Alec dal sonno in cui era caduto solo tre ore prima. Il suo cervello si svegliava ancora prima che il suo corpo si rendesse effettivamente conto di farlo, attivato da quell’istinto di protezione già profondamente radicato in lui e che quel frugoletto che avevano preso con loro da sette mesi a questa parte aveva terribilmente accentuato. Alec era iperprotettivo, nei confronti del figlioletto e Magnus non perdeva mai occasione di farglielo notare.
Nathan Lightwood-Bane, Nate per i suoi papà, era un bellissimo bebè di otto mesi dalla pelle scura, le guance paffute, e gli occhi di un profondo e vispo castano, che guardavano curiosi il mondo pieno di figure molto più grandi ed imponenti del loro piccolo proprietario. Per questo Alec tendeva ad essere troppo un papà chioccia. Anche in occasioni dove, a detta di Magnus, non era necessario – tipo la settimana prima, all’asilo nido, quando un bambino di un anno aveva avuto l’ardire di rubare il sonaglino a Nate. Il piccolo aveva pianto e Alec, ormai sulla soglia della porta dell’asilo, aveva fatto dietrofront con l’intento di andare a consolare il suo cucciolo. E magari insegnare a quel bulletto che i giochi non si rubano. Ma Magnus, dall’alto della sua razionalità, l’aveva afferrato per un braccio e l’aveva spintonato fuori dall’edificio.
«Sapevo che era troppo presto per l’asilo nido!» Si era lamentato con il marito, che invece gli aveva scoccato un’occhiata indulgente.
«Amore. Ne abbiamo già parlato. La pediatra ha detto che gli farà bene e lo aiuterà a socializzare.»
«Ha
otto mesi, Magnus. Non sa nemmeno come si fa a socializzare!»
«Tu hai ventisette anni e non ne sei ancora capace. Se ti avessero mandato al nido, forse, sapresti farlo. Vuoi che Nate diventi come il suo papà?»

Alec gli aveva lanciato uno sguardo offeso. «Io so socializzare.»
«Non puoi mentire a me, amore. Ti conosco meglio di te stesso.»

«È in momenti come questo che mi chiedo perché ti ho sposato, lo sai?»
Magnus aveva liquidato quella frecciatina e si era fatto più serio. «Alexander. So che è dura, va bene? Separarsi da quel fagiolino è difficile, ma è necessario per la sua crescita. Sono solo un paio d’ore e poi torniamo a prenderlo. Sgridare un bambino poco più grande del nostro non velocizzerà il tempo.»
«No, ma aiuterà a far capire a quel piccolo delinquente che non deve infastidire nostro figlio.»

Magnus aveva storto la bocca alla parola delinquente, ma aveva sorvolato sulla discutibile scelta di parole del marito. Invece, gli aveva preso una mano e gli aveva baciato le nocche. «Ti amo per tanti motivi, e questo tuo lato protettivo è uno di questi, ma adesso stai esagerando. Quel bimbo non l’ha fatto di proposito.»
«Ne sei certo?»
Alec era ancora scettico e nemmeno l’espressione sicura del marito lo convinceva totalmente. Ma non poteva negare che Magnus avesse ragione.
Incredibile come Magnus fosse quello razionale dei due, talvolta, pensò Alec mentre spostava le coperte dalla sua parte del letto e si metteva seduto. Si passò le mani sulla faccia per svegliarsi meglio, sentendo il metallo degli anelli contro gli zigomi. La fede d’oro alla mano sinistra e la fedina argentata a quella destra, che portava da dieci anni, ormai. Sorrise e si alzò, dirigendosi verso il lettino che stava vicino al suo. Nate piangeva – la bocca spalancata faceva bella mostra dei suoi incisivi inferiori (lui e Magnus avevano fatto una festa a cui tutta la famiglia aveva partecipato entusiasta, quando erano sbucati uno dietro l’altro. Maryse aveva persino fatto una torta a due piani, giustificando quella scelta dicendo che ogni dentino meritava un piano per essere festeggiato a dovere) – impegnandosi al massimo per far capire ad almeno uno dei suoi papà che aveva fame. Come percepì il tocco familiare di Alec stringergli il corpicino, avvolto in un pigiamino giallo, il suo pianto si calmò, fino a cessare.
“Non vogliamo svegliare l’altro papà, vero fagiolino?”
Era stato Magnus ad alzarsi quando il piccolo aveva pianto, tre ore prima, permettendo ad Alec di potersi riaddormentare, sebbene si fosse svegliato ugualmente.
“Andiamo di là, prepariamo la pappa. Vuoi la pappa?” domandò, avvicinando l’indice della mano libera al naso del piccino. Nate afferrò il dito del padre ed emise un versetto che Alec interpretò come di approvazione.
Mentre si incamminava verso la cucina con il figlio in braccio, accendendo le apposite luci, fece attenzione a non fare rumore e continuò a cullare il bambino, cantandogli sottovoce la sua canzoncina preferita della nanna. “Un elefante si dondolava…” Alec si interruppe, quasi come se Nate fosse stato in grado di finire la frase e, arrivato in cucina, cominciò a preparare il latte in polvere con una mano sola. Impresa non troppo facile. “Sopra al filo di una ragnatela. E ritenendo il gioco interessante…” Prese il biberon pieno di latte e lo adagiò dentro al microonde, azionandolo. “Andò a chiamare un altro elefante!” Alec continuò a cullare il bambino, mentre guardava il biberon che girava, scaldandosi, all’interno del microonde. Quell’aggeggio si dimostrava più utile di quanto si sarebbe mai immaginato. Meno male aveva dato retta a Magnus e l’avevano comprato, quando si erano trasferiti in quel loft di Brooklyn, cinque anni prima.
Vivevano insieme da cinque anni ed erano sposati da due.
Aveva sentito parecchi commenti, la maggior parte assolutamente non richiesti, da parte di persone che facevano parte di quella fazione della sua famiglia che trovava sempre da ridire su qualsiasi cosa facesse – e con le quali era costretto a relazionarsi almeno una volta l’anno, a Natale, per il quieto vivere. Suo padre e sua nonna erano i primi in trincea a giudicare sottovoce – come se Alec non li sentisse, poi – le scelte di vita del primogenito Lightwood. A ventidue anni era troppo giovane per andare a vivere insieme a qualcuno; a venticinque era troppo giovane per sposarsi. Alec si era chiesto più di una volta se tutti questi problemi non derivassero dal fatto che tutte queste attività venissero condivise con un uomo, Magnus, e dal fatto che, in fondo, sia suo padre che sua nonna continuassero a chiamare l’omosessualità di Alec «una fase» che speravano sarebbe finita presto. Un po’ provava pena per loro. Ma poi si ricordava che non erano venuti né al suo matrimonio, né al battesimo del piccolo Nate e la pietà che provava nei loro confronti svaniva.
Il timer suonò e i pensieri di Alec vennero interrotti. Sistemò meglio il bambino, in modo che fosse saldo su un unico braccio, il sinistro, e con il destro potesse aprire il microonde e afferrare il biberon. “Adesso papà assaggia la pappa. Non vogliamo che sia troppo calda, vero frugoletto? Non vogliamo farci la bua alla lingua.”
Nate si esibì in un versetto, un ghe-ghe accompagnato da un sorriso che Alec interpretò come un assenso. Avendo una mano occupata, Alec non poté testare la temperatura del latte sul polso, quindi aprì la bocca e lasciò cadere un po’ del contenuto del biberon sulla lingua. Tutto apposto, non bruciava. I primi tempi, quando Nate era con loro da poche settimane, Alec aveva il terrore che avrebbe ustionato il palato del suo bambino, ma poi aveva imparato. Aveva imparato molte cose, in realtà: a cambiare un pannolino, a preparare un bagnetto con l’acqua non troppo calda, ma nemmeno troppo fredda; a preparare le pappe per lo svezzamento a pranzo e a cena, alternando ancora il latte durante le mangiate notturne. Aveva imparato a fare le lavatrici con programmi diversi, perché altrimenti i vestitini del bambino si rovinavano. Magnus era più bravo di lui, in questo – aveva rovinato solo una tutina, Alec ne aveva rovinate almeno cinque prima di capire come impostare il programma. Aveva persino imparato un sacco di canzoncine per bambini, contagiando anche Jace, sotto lo stupore generale di tutti che, al contrario, pensavano avrebbe preso in giro Alec fino alla fine dei suoi giorni. Zio Jace, invece, si era impegnato per imparare tutte le canzoni della nanna per appropriarsi del nipote, quando andava a trovare il fratello, e farlo dormire. Izzy aveva persino messo in guardia Clary sull’apparente istinto paterno latente in Jace, ma la rossa aveva guardato l’interessato, che teneva il bambino in braccio, con gli occhi verdi colmi d’amore e qualcosa che assomigliava alla voglia di maternità. Chissà, forse di lì a poco Alec sarebbe diventato zio Alec e Nate avrebbe avuto un cuginetto. O una cuginetta.
“Hai fame, fagottino?” Chiese Alec con  la voce colma di tenerezza, mentre avvicinava il biberon alla bocca del bambino, che cominciò a mangiare non appena avvertì il sapore del latte sulla lingua. “Ma che bravo che sei.” Lasciò un bacio sulla fronte del piccolo.
Le voci sulle sue scelte di vita erano state critiche anche per quanto riguardava l’adozione. Non era il momento giusto. Erano troppo giovani. Dovevano aspettare. Ma quando Catarina aveva accennato ad un bambino abbandonato sulla porta dell’ospedale dove lavorava, avvolto in una copertina, Magnus ne aveva parlato per giorni. Continuava a chiedersi che ne sarebbe stato di lui, quale fosse il destino che lo attendeva. Così piccolo e già solo. E la soluzione per loro era apparsa chiara e semplice, quasi come se fosse l’unica: quel bambino sarebbe diventato il loro bambino. Catarina per un pelo non era esplosa dalla gioia, quando le avevano comunicato la loro intenzione di fare domanda per adottarlo. Era stato naturale farlo, così come era stato naturale per loro andare a vivere insieme e sposarsi. Certo, non era stato facile. Le loro vite erano un tantino diverse da come se le erano immaginate da ragazzini. Erano stati in Grecia, alla fine, ma solo per il viaggio di nozze. Alec lavorava in una libreria – Magnus aveva una lista rifornitissima, quasi infinita, di battute inappropriate sui librai sexy – e non aveva ancora pubblicato nessun libro, ma si ritagliava dei momenti durante la giornata per scrivere il giallo che gli ronzava in testa. Magnus faceva il fotografo in uno studio che si occupava principalmente di matrimoni, ma accumulava una parte del suo stipendio per poter aprirne uno tutto suo, un giorno. La loro vita non era perfetta. Avevano i problemi e le preoccupazioni di ogni coppia, e adesso anche quelle di ogni genitore, ma andava bene così. Erano insieme e sapevano che sarebbero riusciti a fare tutto, finché avevano l’un l’altro e il loro bambino.
“Per essere uno che odia i nomignoli sdolcinati, ne hai usati parecchi.”
Alec quasi sussultò udendo quella voce, ormai abituato al silenzio. Si voltò verso l’entrata della cucina, dove Magnus, con una vestaglia aperta sopra i pantaloni del pigiama, stava appoggiato allo stipite della porta – il viso struccato, ma illuminato da un sorriso bellissimo, che nemmeno l’ombra del sonno che ancora aveva addosso riusciva a corrompere.
“Non volevo svegliarti.”
Magnus si staccò dallo stipite e si diresse verso Alec. Gli diede un bacio su una guancia. “Non mi hai svegliato.” Lasciò un bacio anche sulla testina del bambino. Nate era ancora intento a mangiare e teneva una manina cicciotta appoggiata a quella di Alec, che reggeva il biberon, come ad intimargli di non portargli via il suo cibo. Magnus osservò il contrasto tra le pelli, tra quella chiarissima, bianca, di Alec e quella scura, nera, del loro bambino. Era un contrasto che adorava, che creava un equilibrio – il loro equilibrio – e che dava un’idea di completezza, la stessa che si trovava yin e nello yang. Bianco e nero. Gli opposti che creano la perfezione. Per Magnus era così. La sua famiglia era perfetta, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi se, un giorno, il fatto di venire da una famiglia interrazziale dove i genitori erano dello stesso sesso avrebbe portato dei problemi a Nate.
Stranamente, era stato Jace a tranquillizzarlo. Magnus ricordava quell’episodio come il giorno in cui aveva realizzato che sotto la testa biondo ossigenata di Trace ci stava effettivamente un cervello pensante e funzionante in un modo sbalorditivo. Era andato a trovarli con la scusa di voler salutare Alec, quando in realtà sapeva benissimo che suo fratello era a lavorare – Magnus sapeva che i fratelli e la madre di Alec stravedevano per il bambino e che ogni momento era buono per piombare in casa loro, senza preavviso alcuno, e spupazzare un po’ il piccolo, o portargli dei regali. La loro casa ormai era invasa da peluches e giocattoli di ogni genere, ma andava benissimo così – e si era piazzato nel suo salotto, spaparanzandosi sul divano facendo giocare Nate, che aveva appena cinque mesi, e che si esprimeva in risolini euforici ogni volta che Jace faceva una faccia buffa o una pernacchia. Magnus aveva sorriso, di fronte a tanta tenerezza, ma poi un pensiero colmo di preoccupazione lo aveva assalito e Jace, che a quanto pare aveva un occhio vigile per certe cose – Magnus non l’avrebbe mai detto – si era accorto di quel cambiamento. Perciò, aveva sollevato il bambino davanti alla propria faccia, rivolgendolo verso Magnus, e aveva detto, con una vocetta che doveva assomigliare a quella di un bebè: «Cosa ti preoccupa, papà Magnus?»
Magnus gli aveva lanciato un’occhiata truce e Jace si era fatto serio. «Davvero, cosa ti preoccupa, Magnus?»
«Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa che mi preoccupa?»
«Il tuo muso lungo. Sei inguardabile e deprimente. Non sono venuto qui per deprimermi, ma per giocare un po’ con mio nipote. Quindi, non fare il difficile. Sputa il rospo, almeno posso tornare a fare quello per cui sono venuto.»
«Pensavo fossi qui per salutare tuo fratello.»

Jace l’aveva liquidato con un gesto sbrigativo della mano. «Ufficialmente sì, praticamente no. Avanti. Che c’è?»
Magnus aveva sospirato e, arrendendosi,  era andato a sedersi accanto a Jace. Nate, appena aveva visto il padre, aveva agitato le gambine e allungato le braccia  cicciotte verso di lui. Magnus l’aveva preso in braccio, la schiena del piccolo appoggiata al suo petto; Nate aveva stretto un dito di Magnus nel suo pugnetto. «E se dovesse sentirsi a disagio perché è stato adottato? Magari a scuola lo prenderanno in giro. Non voglio che mio figlio soffra per dei pregiudizi.»
Jace aveva inchiodato i suoi bicromatici occhi profondi nei suoi, facendosi serio come mai l’aveva visto da quando lo conosceva. «L’ultima parte. Ripetila.»
«Mi stai prendendo in giro, per caso?»
«No, voglio farti focalizzare su una cosa. Ripeti l’ultima frase.»
«Non voglio che mio figlio soffra per dei pregiudizi.»

Jace aveva allungato una mano verso il piccolo, accarezzandogli una guanciotta. «Le parole cruciali sono mio figlio. Voglio raccontarti una cosa.» Fece una pausa per alzare gli occhi dal nipote al cognato. «Quando ero piccolo, un gruppetto di bambini del catechismo diceva che ero figlio di nessuno, che nessuno mi voleva bene perché non avevo una mamma e un papà. Non era certo un mistero che fossi stato adottato. Pensai che era vero. Maryse e Robert non erano i miei genitori biologici, quindi, quei bambini doveva necessariamente avere ragione. Non ti nascondo che una volta a casa, piansi. Ma è stata l’ultima volta e sai perché? Perché mia madre mi ha sempre detto che non importava il sangue, lei mi amava e mi sentiva figlio suo. Sei figlio mio, Jace, esattamente come lo sono i tuoi fratelli, mi ha detto. Ci credeva lei, quindi ci credevo anche io. Mi ha insegnato a non permettere mai a nessuno di farmi sentire come non volevo sentirmi. Lei era mia madre, Alec, Izzy e Max erano i miei fratelli. Lo pensavo io, lo pensavano loro, quindi era così. Non mi importava degli altri, fin tanto che l’opinione della mia famiglia era quella.» Fece un’altra pausa, che impiegò per lasciare un fugace bacio sulla manina libera di Nate. «Finché tu e Alec continuerete a sentire questo bambino figlio vostro, eventuali possibili commenti non lo scalfiranno più di tanto perché avrà il vostro amore. E quello di tutti noi. Questo non cambierà mai.»
Se Magnus avesse avuto l’abitudine di abbracciare Jace, l’avrebbe fatto, ma non si erano mai scambiati un segno così intimo di affetto in un decennio, quindi si era limitato a ringraziarlo con un sorriso colmo di gratitudine sulle labbra e gli occhi lucidi per un pianto emozionato che si sforzava di trattenere.
“…E lui è un’eccezione.”
Magnus si destò dal suo ricordo, prestando attenzione ad Alec. Nate aveva finito di mangiare, quindi adesso Alec gli stava dando dei gentili colpetti sulla schiena per aiutarlo a digerire. Non si dondolava più, notò Magnus con una punta di tenerezza: i primi tempi, Alexander aveva la tendenza a muoversi, come se, appunto, fosse su un dondolo, ma quando Nate aveva rigurgitato su metà delle sue magliette, aveva capito che era meglio stare fermo, in attesa che il piccolo digerisse in modo appropriato. Magnus aveva approfittato di quelle occasioni per provare a sbarazzarsi delle magliette scolorite e bucate del marito, ma Alec si era opposto fortemente. Una volta in particolare, Magnus, dopo aver fatto addormentare Nate e averlo adagiato in un’altra culla che tenevano in salotto, vicino al divano, si era diretto in bagno, dove sapeva che Alec stava sciacquando la sua maglietta, vittima dei rigurgiti del bambino, e aveva mostrato particolare interesse riguardo la possibilità di sbarazzarsi di metà armadio del marito.
«Non butterai i miei vestiti. Basta lavarli.» Aveva detto Alec, mentre strofinava la saponetta contro la stoffa, ormai quasi consunta, di una maglietta che un tempo era stata nera. Questo, comunque, portava a qualcosa di positivo: Alexander a torso nudo.
«Lavare le stesse cose in lavatrice per quindici anni, le consuma, Alexander. Lasciami rinnovare il tuo guardaroba.»
«No. E non provare a mettere su quell’espressione, Magnus.»
L’aveva ammonito, ma Magnus non aveva desistito e aveva mantenuto la sua espressione da cucciolo, con tanto di occhi grandi e supplichevoli. «Smettila. Sono serio, Magnus.» Aveva detto, abbandonando la maglietta nel cestello dei panni sporchi e puntandogli l’indice contro.  Alec era così irremovibile a volte. E di conseguenza, non era colpa di Magnus, se era passato a metodi non proprio onesti, per riuscire nel suo intento. Se suo marito non fosse stato così testardo, lui non sarebbe stato costretto a passare alle maniere forti. Magnus, dall’alto della sua piena consapevolezza, si era approfittato – cosa di cui, ripensandoci adesso non andava molto fiero – delle debolezze di Alec e, dopo aver fatto finta di dargli ragione, si era avvicinato per dargli un bacio, prima delicato e poi un po’ più esigente. Era sceso fino alla gola, dove aveva succhiato la pelle candida e sensibile, fino a strappare respiri sempre più ansimanti all’altro, mano a mano che la sua bocca scendeva, appropriandosi di lembi di pelle nuda. Solo quando Alec aveva portato le sue mani dentro la maglietta dell’altro, Magnus si era allontanato. Era stata una mossa così meschina da parte sua, ma non ce la faceva davvero più a vedere Alec andare in giro con quei vestiti rovinati.
Alec, con la pelle segnata dai marchi rossi che gli aveva lasciato Magnus, l’aveva guardato con gli occhi ridotti a due fessure, pienamente consapevole di essere stato raggirato. «Sei uno stronzo.»
«Linguaggio. Non vorrai farti sentire dal nostro bambino usare determinate parole.»
«Il bimbo dorme, non può sentire ciò che dico.»
«Sì che può sentirlo. Non è bello appellare papà in questo modo.»
«No, non può sentirlo. Soprattutto perché è in un’altra stanza. E non è bello nemmeno cercare di manipolare papà-»
indicò se stesso «-con il sesso.»
Magnus si era avvicinato di nuovo, ma Alec stava in guardia, questa volta. Osservò i marchi sul suo collo, le labbra gonfie di baci e desiderò baciarlo ancora. Discutere sui metodi poco ortodossi di Magnus, anzi che usare le loro bocche per togliersi il respiro a vicenda, gli sembrava una perdita di tempo. «Papà ha ragione.» Convenne, riferendosi ad Alec. «Papà non userà più metodi manipolatori per cercare di distruggere le magliette inguardabili dell’altro papà.»
«Dobbiamo decisamente trovare un modo per distinguerci, o quando imparerà a parlare non sapremo chi sta chiamando.»
Alec aveva abbassato la guardia e Magnus si era avvicinato un altro po’, allungando una mano per accarezzargli le labbra con il pollice.
«Ci penseremo, ma non adesso. Adesso vorrei fare dell’altro.»
Alec aveva riso e si era avvicinato a Magnus, azzerando completamente la distanza che c’era tra di loro e piantando i suoi occhi sulla bocca dell’altro. «Ad esempio?»
Magnus in tutta risposta l’aveva baciato, quasi divorandogli la bocca, e afferrandogli i capelli dietro la nuca con così tanta foga da tirarglieli. Alec aveva emesso un sospiro piacevolmente sorpreso e le sue mani erano finite sotto la maglietta e Magnus, questa volta, se l’era fatta sfilare. Avevano camminato fino alla loro camera da letto, senza smettere di baciarsi e disseminando i loro vestiti in giro per la casa nel tragitto. Magnus poi aveva spinto Alec sul materasso e si era messo sopra di lui. Era ancora più bello di quando l’aveva conosciuto. I suoi tratti si erano induriti, diventando ancora più decisi e mascolini. La linea della mascella, con il tempo, era diventata più marcata e Magnus istintivamente aveva seguito quel perimetro con l’indice, sentendo la sensazione ruvida della barba sotto il polpastrello. Alec l’aveva guardato con la fronte corrugata, notando il cambio di espressione nel viso del marito.
«Che c’è?» Alec gli aveva fatto passare le braccia intorno alla schiena, abbracciandolo.
«Niente. Pensavo.»
«In un momento simile ti metti a pensare?»

Magnus aveva riso, appoggiando la fronte sulla spalla di Alec. «Qualcuno è impaziente.»
«Ehi, è colpa tua. Hai imbastito tu questo giochetto seduttivo per convincermi a buttare la maglietta.»
Gli aveva baciato la fronte.
«E la butterai?» Magnus si era sistemato sui gomiti e Alec aveva allentato l’abbraccio, permettendogli di muoversi meglio.
«Solo se mi dici a cosa stavi pensando.»
«Davvero?»

Alec aveva annuito. «Ne butterò solo una, però.»
«Mi sta bene.»
Magnus aveva alzato le spalle e gli aveva dato un bacio sulla fronte. «Pensavo a te, al fatto che ti ritengo ancora la persona più bella che abbia mai visto. E che ti amo, ogni giorno di più.»
Alec gli aveva regalato un sorriso, di quelli ampi, luminosi e colmi d’amore, e aveva ribaltato le posizioni. L’aveva baciato fino a fargli mancare il respiro, prima di fare l’amore, prima di farlo suo, una volta ancora.
Prima di amarlo, di nuovo, come solo lui sapeva fare – con il corpo e con l’anima.
“Un’eccezione a cosa?” domandò Magnus, sorridendo mentre lo sprazzo di quel ricordo lasciava la sua mente.
“Alla mia repulsione per i nomignoli. È così carino che è impossibile non usarli.” Alec portò il viso del bambino alla sua altezza, sollevando leggermente il figlio con le braccia, e gli lasciò una serie di baci schioccanti sulla guancia, mentre Nate ridacchiava.
“Capisci cosa provo, allora, pasticcino. Anche tu sei così carino che è impossibile non usarli.”
“Io sono un uomo, Magnus.”
“Oh, ma lo so.” Fece Magnus, allusivo. Gli occhi felini del maggiore percorsero il corpo dell’altro, soffermandosi troppo all’altezza del bacino. Alec, nonostante fosse completamente coperto dal suo pigiama, nonostante gli anni passati insieme e gli sforzi per imparare a gestire le sue reazioni, si trovò ad arrossire, sotto quello sguardo così intenso.
“Non comportarti così davanti al bambino! Niente allusioni, niente… occhiate eloquenti.
Magnus non riuscì a trattenere una risata, mentre pensava a quanto fosse adorabile Alexander con le guance rosse. Era una caratteristica che amava, in lui, ed era felice che con il tempo non fosse venuta meno.
“E comunque, Sua Maliziosità, intendevo che sono troppo grande per certi vezzeggiativi.” Chiarì, sistemandosi il bimbo in braccio, facendolo sdraiare per farlo riaddormentare.
“Ma sei ancora dannatamente carino. E finché rimarrai carino, io continuerò ad usare nomignoli, zuccherino.
Alec alzò gli occhi al cielo e si rivolse al bambino. “Papà vuole sempre avere l’ultima parola. Non trovi sia fastidioso?”
Magnus si avvicinò, posizionandosi dietro Alec – che lo lasciò fare – e gli circondò la vita con entrambe le braccia. “Non sono fastidioso. Dico solo la verità. Sei il mio zuccherino.” Gli lasciò un bacio tra le scapole e Alec arrossì – di nuovo, contro ogni sua volontà, incapace di controllare quella reazione.
Magnus sciolse l’abbraccio (Alec sentì la mancanza di quel contatto)  per spostarsi di fronte al compagno. Alec notò che i suoi occhi ambrati erano fissi sul figlio, che cominciava a cedere al sonno: la pancina piena e il contatto con uno dei suoi papà erano sempre una combo letale, che lo faceva cadere in un sonno quasi immediato. “Vuoi farlo addormentare tu?” chiese, con una voce soffice. Alec sapeva quanto Magnus adorasse far addormentare il piccino e anche se era una cosa che lui stesso amava fare, ancora di più amava guardare l’espressione beata sul viso del marito ogni volta che Nate si rannicchiava contro di lui, prima di chiudere gli occhietti e cedere al sonno.
Magnus alzò gli occhi su Alec e questi sentì il cuore saltare un battito e riprendere la sua corsa accelerata, stupendosi del fatto che dopo dieci anni insieme, la sua reazione fosse sempre la stessa – forse, addirittura amplificata da tutte le esperienze che avevano vissuto, e che vivevano, insieme. “No, amore. Fallo addormentare tu.” Magnus sorrise e si sporse per baciare Alec sulle labbra e successivamente il piccolo sulla testa.
Alec non era mai stato così felice. In realtà, realizzò, la sua felicità aveva subito dei cambiamenti in crescendo. Era stato felice quando aveva incontrato Magnus, la prima volta. Ancora di più lo era stato quando si erano dati il loro primo bacio. E c’era stata la prima volta che avevano fatto l’amore, quello l’aveva reso così felice che aveva temuto che il cuore potesse scoppiargli. Ma era un ragazzino, ancora ignaro di cosa gli avrebbe riservato la vita, di quale grado immenso di felicità avrebbe toccato. Non sapeva che il suo cuore sarebbe stato riempito ancora, e ancora, e ancora, fino a raggiungere un livello superiore di beatitudine. Alec era appagato, era soddisfatto. Era sposato con l’uomo che amava, e che rispecchiava tutto ciò che aveva desiderato, ed era stato così fortunato da aver avuto la possibilità di crescere un figlio meraviglioso con colui che Alec reputava la sua anima gemella.
Magnus lo faceva stare bene e lo accettava per come era, lasciandolo libero di essere se stesso, sebbene allo stesso tempo, Alec desiderasse impegnarsi per essere una versione migliore di se stesso – sia per Magnus, che per il loro bambino, diventato una parte fondamentale della loro vita. Un bambino che gli aveva insegnato che esiste un altro tipo di amore, forte e intenso, che parte dalla porzione più profonda dell’anima. L’amore che si prova verso un figlio era qualcosa di veramente indistruttibile, destinato solo a crescere giorno dopo giorno.
Sì, Alec era felice.
Indipendentemente dalle voci critiche, dalle occhiate di suo padre, dal fatto che non avesse ancora mosso un passo per provare a farsi perdonare per come si era comportato e come si comportava.
Non gli importava. Aveva dato retta a Magnus e non si era fatto dominare dal rancore che aveva provato per quell’uomo. Aveva semplicemente scelto di lasciar perdere e di concentrarsi sugli aspetti positivi della sua vita – su suo marito e suo figlio, sui suoi fratelli e sua madre che avevano amato Nate da subito, nello stesso modo in cui lo amavano lui e Magnus.
Magnus.
Ancora una volta, era lui il fulcro di tutto. E Alec sapeva che il suo cuore gli sarebbe appartenuto per sempre.
Aku cinta kamu.”
Magnus lo guardò sorpreso e Alec gli rivolse un sorriso storto, di quelli che l’avevano caratterizzato fin da ragazzino, con un unico angolo della bocca alzato. “Che c’è?” domandò, “Te l’ho già detto: tu lo dici nella mia lingua, io lo dico nella tua.”
Magnus sorrise, gli occhi scintillarono in un misto di amore e commozione, e si sporse per dargli un bacio a stampo. “Allora ridillo.”
Aku cinta kamu, Magnus. Ora e per sempre.”
Magnus gli afferrò il viso tra le mani, accarezzandogli le guance coperte di barba. Alec chiuse gli occhi, godendosi quel contatto, ma li riaprì immediatamente, come se avesse il timore di perdersi qualcosa di fondamentale, non ricambiando lo sguardo del marito.
Magnus gli sorrise. “Ti amo, vi amo, anche io.” Abbassò una delle mani per accarezzare una guancia paffuta di Nate, che ormai dormiva, ignaro delle dichiarazioni d’amore che stavano avvenendo tra i suoi papà.
Erano stati due adolescenti scettici che non avevano mai creduto nel lieto fine: Magnus per le sue ragioni, legate principalmente all’esperienza traumatica connessa alla madre, e Alec per le sue, legate ai pregiudizi che aveva suo padre e che l’avevano spinto a credere che avrebbe passato la vita a nascondere la verità.
Ma esistono le sorprese, le svolte e gli imprevisti piacevoli, come un armadietto aperto piazzato al momento giusto nel corridoio di un liceo il primo giorno di scuola e un ragazzo così sbadato da non farci caso, finendoci a sbattere contro.
E quell’incontro aveva fatto capire ad entrambi che i lieto fini non si cercano, arrivano e ci colpiscono con la loro stupefacente intensità. E, a quel punto, non rimane altro che ricredersi, accettarli e ringraziare il fato di essere stati così fortunati.





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Eccomi di nuovo! Allora, l’idea è nata dopo aver letto “Nascono alcuni ad infinita notte” racconto presente ne “Le Cronache dell’Accademia” di Cassandra Clare. Il bambino non si chiama Max per questioni logistiche: seguendo la trama della serie tv, il più piccolo dei Lightwood è vivo, di conseguenza Alec non prende spunto da lui per dare un nome a suo figlio – nome che, in questa storia, non ha un significato particolare, semplicemente mi piaceva come suonava!
Specificazione a parte, siamo arrivati alla fine. La vera fine e mi dispiace più di quanto mi sarei mai immaginata. Questa storia è nata come un esperimento, un “proviamo” che doveva durare si e no sei capitoli e qualche settimana. Di certo non mi sarei mai aspettata di arrivare a scriverne ventidue e di impiegare undici mesi per concluderla. È stata un’esperienza bellissima e questo lo devo solo a voi: ai lettori silenziosi che aumentano sempre di più, arrivando a toccare numeri che non avrei nemmeno immaginato; a coloro che hanno messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite; ai recensori, a quelli che hanno commentato la storia dall’inizio e a quelli che “ho trovato la tua storia solo ora…” – mi avete riempito il cuore, davvero, non solo perché siete sempre stati dolcissimi, ma perché avete scelto di dedicare parte del vostro tempo a leggere questa storia e a dire la vostra, in alcuni casi suggerendo anche situazioni che ho poi inserito nella trama. Siete stati il carburante di questa fanfiction, sappiatelo. Senza di voi, senza la vostra accoglienza, non avrei continuato per così tanto tempo. Mi avete costantemente dato la spinta, ispirandomi a cercare di scrivere qualcosa che potesse piacervi, qualcosa che potesse addirittura essere considerato “bello” – anche se, ammettiamolo, devo ancora imparare un sacco di cose!
Tutto questo per dirvi che è stato un periodo piacevole, come lo è stata la vostra compagnia e di questo non potrò mai ringraziarvi abbastanza.
Sembra un discorso fatalistico, ma in realtà questo è il mio modo per dirvi “arrivederci” perché non è la nostra ultima caccia (i riferimenti a #NotOurLastHunt non sono casuali) e tornerò a scrivere e ad intasare questo sito *risata malefica in lontananza*
Vi ringrazio ancora e vi mando un enorme abbraccio! <3
Un’ultima cosa… #SaveShadowhunters perché la speranza non la dobbiamo perdere! (:


 
   
 
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