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Autore: MadLucy    31/08/2018    2 recensioni
Ermione, figlia di Elena e Menelao, non partecipa direttamente a nessuna delle leggendarie vicende della guerra di Troia. Ma osserva. È testimone della vita che vivevano le mogli e figlie greche durante i dieci anni e gli anni dei nòstoi, assiste allo svolgersi della saga degli Atridi fino alla sua conclusione. La sua vita dipende sempre dalle azioni degli altri. L'abbandono da parte di sua madre, le strategie politiche della sua patria, il matrimonio con uomini sanguinari. Ma i suoi pensieri erano solo suoi, e mi sono permessa di dare loro voce.
"In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori.
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?"
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Avevi una nuova stanza, nel palazzo. Quella che un tempo condividevi con Elettra ora era un deposito di ricchezze, di regali di nozze: le vecchie stanze evocavano tristi ricordi, a parere del giovane sovrano, e andavano evitate. Fissasti la tua immagine in uno specchio egizio. I capelli decorati di conchiglie, una veste di porpora, pesante, con un drappeggio sul petto bordato di pesanti ricami d'oro e perle. Principessa di Sparta, regina d'Epiro, regina di Micene -ma solo Ermione, quando ti guardavi negli occhi. 
Non potevi più dare le spalle a quell'angolo, quell'altare che non era più pulito. Il passaggio della violenza aveva lasciato il segno su di te. Fissasti le lacrime scendere, quelle che versavi perchè non potevi più fingere di non soffrire. Frena le lacrime, Ermione. Mantieni la compostezza che ti si addice. Non è il primo morto che si para sulla tua strada. Era la voce di Neottolemo, la voce della tua balia quando chiedevi di tua madre? Quella voce ti fece piangere ancora più forte. Quella verità sepolta, soffocata. Volevi tirarla fuori. Volevi che il mondo ne venisse a conoscenza. Di quella guerra che si era svolta lontano da Troia, durante essa, dopo di essa. Era un urlo di guerra. Non piangere. E invece piangevi, di rabbia. Per il dolore che non volevi sentire ma che ti stava aprendo la carne. Lascarsi dilaniare in silenzio non serviva a niente, la dignità non serviva a niente. Ti faceva solo sentire impotente e bugiarda. Non dovresti stupirti, Ermione. Non dovresti arrogarti questo diritto di soffrire. Sei stata fortunata, rispetto a molti altri. Te la sei cavata, alla fine. Sì, te l'eri cavata. Ma non ti era stato permesso di tenere gli occhi chiusi, e avevi visto troppo. Placati, placati. Quel pianto ti offuscava la mente, vi addensava un malore diffuso. Era un temporale, e una volta passato il cielo si sarebbe strappato, sarebbe venuto via come pelle morta rivelando un cielo vivo, nuovo, terso e azzurro. Quella era l'unica manifestazione di quella verità che ci sarebbe mai stata. Una volta consumata, sarebbe tornata l'omertà. Non avevi la forza per un gesto plateale, un suicidio, un omicidio. C'era stato troppo sangue. Versarne ne avrebbe chiamato ancora.
Se un tempo eri stata complice di Neottolemo, saresti diventata complice anche del tuo nuovo marito. Non lo avresti mai punito. Avresti nascosto sotto i tappeti di quel palazzo le macchie di sangue che non sarebbero venute via. Elena di Troia non avrebbe fatto così. Ermione di Sparta sì. Lei era obbediente, una brava figlia, una brava moglie. Non si ribellava, accettava quello che veniva deciso per lei. L'ancella perfetta per un mostro. 
Avevi le mani raccolte in grembo quando Oreste entrò. Ti limitasti ad ascoltare il rumore dei suoi sandali sul pavimento, senza spostare lo sguardo dallo specchio. Quegli occhi bagnati, fragili come foglie. Quei capelli afflosciati sotto ninnoli ridicoli, irrilevanti. Quando lo sentisti togliere il mantello, deglutisti. 
«Hai paura del talamo, cugina? Tu, una donna già sposata? Non mi sembra appropriato.»
Aveva ucciso Crisotemi. Tu ci avevi giocato insieme, da bambina. Crisotemi, lei se la ricordava, Ifigenia. Forse per questo aveva perdonato sua madre. 
«Mi repelle, tutto qui.» 
«Però mi sembra che apprezzassi quello che vedevi, la prima volta che ci siamo incontrati.» Oreste sganciò i fermagli d'ambra della sua veste. Il corpo bianco, levigato, glabro, proporzionato. Così diverso da quello di Neottolemo.
La prima volta che vi eravate incontrati, lui era un infante in fasce, un minuscolo grillo arricciato su se stesso, incapace di tenere la testa dritta.
«La lussuria non conta. Per me sei ancora un figlio, non un marito, Oreste. La lode alla tua bellezza era quella di un agricoltore verso la sua pianta d'acanto. Quello che accadrà stanotte per me sarà un delitto, e nulla potrà cambiare questo, perchè sono le leggi del mio cuore.»
Guardasti la sua testa accostarsi alla sua spalla, dentro lo specchio. I vostri visi vicini. I suoi occhi celesti come polle d'acqua pura.
«Penso che dovresti rilassarti. E lasciarti andare. Gli dèi hanno smesso di tormentarci. Nessuno ti giudicherà.» Le sue labbra sulla tua spalla.
Il piacere torbido che Oreste suscitò in te, tramite ambigue pratiche a scopo sicuramente non procreativo, sembrava opera di filtri o incantesimi. Lo provasti controvoglia e contrastata in se stessa, spaventata dalle meschine manipolazioni che tentavano di abbattere le tue resistenze morali. Il modo giusto per sopravvivere fu non pensarci. Smettere di pensare. Smettere di ricordare.
Ma tu non potevi del tutto dimenticare. Tornasti spesso ad Aulide, ad inghirlandare l'altare di fiori -crochi, i suoi preferiti- quell'altare che non avevi mai voluto vedere, che ti faceva paura, e che ora invece era la pietra miliare del rispetto verso te stessa, la prova che la tua versione della storia era esistita. Per Ifigenia, dicevi. Però intanto pensavi anche a Polissena. Una custode di sepolcri, di fantasmi. Elettra non commentava, lei che aveva sofferto per sua sorella, ma aveva deciso di scansare quel ricordo. Aveva tradito se stessa, e ora le restava solo la vita che la sua vendetta violenta le aveva assegnato. Regina di Focide. Partì subito dopo il matrimonio. La rivedesti di rado. Era meglio così. Vedere il simulacro di ciò che lei era stata aggirarsi per il palazzo a dare ordini ti faceva stare male.
Parlare con Oreste, riappellarti ai tempi in cui tra voi c'era affetto sincero, era inutile. Lui si sentiva nel giusto. Sentiva di stare portando avanti qualcosa di sano, sposandoti, di non aver spezzato la coerenza di un rapporto precedente del tutto differente.
«Solo una cosa mi mancava per essere felice,» insisteva, «te. Eri mia, sei sempre stata mia. Ci amavamo allora e ci amiamo adesso. Tu stessa dici che la cosa che volevi di più era ritrovarmi. Ora siamo insieme, il tuo desiderio è stato esaudito, no?»
Come potevi spiegargli che essere considerata come un possesso non ti piaceva? Come spiegargli che tutto era avvenuto nel modo sbagliato? Una realtà riflessa, sinistra.
Prima che potessi cominciare ad annoiarti, soffristi di nausee mattutine frequenti. Già sospettavi una qualche malattia continentale, psicosomatica, derivata dalla malinconia. Le ancelle non erano sorprese. Aspetti un figlio, signora. Tu eri scettica, è improbabile. Era improbabile, ma era vero. Il sangue mestruale di cui avevi preso l'abitudine di controllare la regolarità durante il primo matrimonio era scomparso. Quando glie lo dicesti, Oreste aveva un'espressione compiaciuta, come a dire cosa ti avevo detto? Odiavi il fato che riteneva giusto premiare con progenie delle nozze così sbagliate, come se piacessero agli dèi in cui non credevi. Pensavi al sangue di Elena e di Clitemnestra di nuovo congiunto insieme, ti pareva che non potesse portare fortuna. Un erede, dunque, per Micene, per la dinastia degli Atridi, per il trono lordo su cui Oreste sedeva. Un principino. 
Il rumore dello strofinaccio immerso in una ciotola d'acqua e strizzato, gocciolio limpido. La luce arancione e soffusa delle lucerne, le fiammelle che tremavano. I vapori speziati dell'incenso, le tende semitrasparenti dalle quali le serve sparivano e spuntavano rapidissime, e che servivano ad occludere la visuale agli uomini, i cui occhi non dovevano avere accesso a certi riti. Le mani che si avvicendavano tra le tue cosce, macchiate del tuo sangue, che non sembrava sangue, sembrava una fanghiglia scura, grassa, primordiale. Il ferro incandescente che vi usarono. La tua ultima guerra. I tuoi capelli fradici. E infine quel pianto, di affermazione, di protesta, di indignazione. Quel pianto di voce appena nata, come quando, rompendo un sasso, zampilla fuori una nuova sorgente. Un maschio. Oreste, gratificato, un profilo in piedi davanti al tuo letto. Hai fatto bene, sei stata brava. Gli sussurrò il suo nome all'orecchio, un nome cattivo, il vendicatore. Fu lui a offrirtelo tra le braccia. Piccolo esserino urlante. In quelle poche ore, non foste nessuno, senza nomi, senza titoli. Solo tu e lui, a dormire, estenuati da quella guerra. Quando ti svegliasti tutto era stato ripulito, le candele erano state spente, la luce del giorno era irrotta, un peplo bianco che nascondeva lo strazio del corpo. Il bambino dato da allattare a qualche balia. Tu immobile sul materasso, lo sguardo oltre la finestra. Era la tua unica forma di evasione. Non te ne saresti mai concessa altre. 
Riceveste molti visitatori, negli anni. Attori della guerra che conoscesti in ritardo. Odisseo, invecchiato, pronto a diffondere ovunque la propria stessa leggenda: era quello che la sapeva raccontare meglio. Tu gli parlasti di Telemaco, di come ti aveva fatto innamorare a vederlo, un virgulto di grazia e coraggio. Odisseo ti parlò dei nipoti che lui e Policasta gli avevano dato, Persepoli e Omero, un altro in famiglia con la lingua lunga, un contafiabe coi fiocchi. Infine, parlò di Neottolemo.
«Era irascibile, indisciplinato, arrogante, incapace di ammettere la sconfitta. In grado di massacrare un nemico o un compagno senza fare distinzioni. Assolutamente insopportabile. Ma mi ero affezionato a lui. Aveva circa l'età di Telemaco, e mentre mio figlio poteva crescere tranquillo nella sua casa questo ragazzo era stato trasformato in carne per guerra. La sua morte mi rattrista.»
Tu pensasti che la sua morte non avrebbe rattristato Neottolemo, lo avrebbe fatto ridere. L'unico modo che hanno di uccidere i finocchi, avrebbe detto, ben guardandosi dal ricavarne qualche merito. Sorridesti, impercettibilmente. Nel frattempo, Tisameno giocava a rincorrersi insieme a suo cugino Medone, il primogenito di Elettra e Pilade. Tu lo afferrasti al volo e lo reggesti per le spalle. «Saluta il re Odisseo, digli quanti anni hai.»
Lui si lagnava, cercava di sfuggirti. Era un pensiero stupido e romantico, ma nell'aspetto ti ricordava Telemaco, e lo facesti proprio per cercare, nello sguardo di quello che in un'altra vita avrebbe potuto essere tuo suocero, la stessa intuizione. 
Ti sarebbe piaciuto giurare che il tuo odio per Oreste durò per sempre, ma non fu così. Il tempo, i decenni, scalzarono i rancori. Ci vivevi accanto ogni giorno, ci affrontavi ogni vicissitudine quotidiana. E l'odio piano piano stemperò, sostituito dalla stanca bonarietà che si prova per chi invecchia insieme a noi. Oreste continuava a trascorrere lunghi periodi in Focide, per stare con Pilade, il suo amato: i vostri figli crescevano insieme come fratelli. Tu per Tisameno speravi solo che avesse dei buoni alleati, persone che lo proteggessero in una guerra, e incoraggiavi questa amicizia. Annusavi quella piccola nuca di capelli corvini, con lo stesso profumo profondo che aveva la testa di Oreste quando dormiva con te e Elettra, indifeso; la sola idea che lui stesso potesse essere coivolto in qualche nuovo conflitto della sua epoca ti faceva soffrire, ma non erano affari tuoi. Non è mai diritto dei genitori impedire la guerra. 
Fu lui che volle accompagnarti, quando esprimesti il desiderio di andare in Epiro. Tisameno era sempre stato il tuo confidente, durante gli anni -ti eri ripromessa che lui avrebbe avuto la madre che a te, che a Oreste, era stata negata- e sapeva tutto. E fu il migliore amico che avessi mai avuto. Andromaca ti salutò con una rigida formalità, ma nel suo sguardo balenava il ringraziamento che quindici anni prima non era stata in grado di formulare. Ora aveva di nuovo degli occhi splendenti, e scopristi il loro colore: castani, vellutati. Era invecchiata in fioritura, ritrovando la salute e l'antico splendore, con bracciali d'oro e non vesti da schiava. E fu così che conoscesti i suoi quattro figli, i ragazzi che ti restituirono una parte di Neottolemo. Danae fu la prima fanciulla a far arrossire Tisameno, con i suoi capelli rossi. C'era una specie di armonia in questo disegno.
Armonia, ma non simmetria. Non tutti coloro che avevano una colpa l'avevano scontata. La mano di Oreste ti aveva fatto del male, anche se fu quella che in seguito ti accarezzò, che ti difese, per il resto della vita. L'amicizia di Elettra non tornò, restò una leggenda che rievocasti in modo ormai idealizzato e perfetto da adulta. Telemaco non lo rivedesti mai più. Ifigenia, Polissena, Leonassa erano rimaste morte, Astianatte non era stato resuscitato dalla fine del suo assassino. Elena non provò mai rimorso, anche se fino all'ultimo ci sperasti, di vedere la sua nave sopraggiungere all'orizzonte: reclamare il suo diritto di madre di assisterti, di stringere il nipote, di chiedere il tuo perdono -anche solo per noia. Di farti delle confidenze sulla sua infanzia, la sua adolescenza, il rapporto con la sventurata sorella che tuo marito aveva ucciso, con tuo padre, con Paride. Da ragazza saresti stata impermeabile, ma all'età a cui eri arrivata saresti stata capace di ascoltarla, di capirla, addirittura. Invece morì da sconosciuta per te, e quel giorno tu e Oreste faceste un brindisi, alle madri di merda. La vittoria della seconda generazione era così, sbreccata, incompleta. Azzoppata dalle macerie di Troia, una città che era crollata portando con sè qualcosa di voi. 
Non hai mai rivisto Telemaco, ma hai rivisto qualcun altro della sua famiglia, dopo Odisseo. Quello accadde molti anni dopo, quando ormai Oreste era diventato identico al tuo ricordo di Agamennone, quando Tisameno era un adulto con dei figli a sua volta. 
«Sono Omero, regina di Micene» si annunciò, con un inchino riverente, «figlio di-»
«So che sei» rispondesti, con la laconica brutalità che era permessa ai vecchi. «Perchè sei qui? Tuo nonno tempo fa mi disse che sei appassionato di storie. Non in molti hanno ancora sentito la mia.»
Lui sorrise, raggiante. Il sorriso bello di Telemaco. «Sono qui proprio per questo.»
«E allora siediti, ragazzo,» ingiungesti, cercando di non tradire la gioia che quella risposta ti provocava. «Sarà lunga, ma mi sforzerò di cominciare dall'inizio.»
E cominciasti dall'inizio, anche se spesso col pensiero saltavi dei pezzi, ti ritrovavi a metà, percorrevi tutto a ritroso. Questa volta invece fosti una narratrice impeccabile. E l'inizio, per te, si trovava esattamente dove si svolgeva la fine. «Ero felice di essere a Micene...»
  
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