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Autore: Gipsy Danger    09/09/2018    2 recensioni
In memoria. Sulle targhe non c’è scritto altro. In memoria degli abitanti svegliati dalla città che tremava fino alle fondamenta, e del Kaiju che ha superato il Miracle Mile per divorare il cuore di Vancouver. In memoria dei morti, della paura, delle sirene e delle fughe nel bel mezzo della notte. Quando guarda le fratture calcificate nelle ossa, lì dove i pugni dello Jaeger hanno infierito, non vuole pensare alla morte e alla paura. Quel che cerca di ricordare a sé stessa è che quella notte, la notte in cui avrebbero dovuto morire tutti, Vancouver si è svegliata, ha snudato le zanne e ha ruggito. La sua città ha denti più affilati di quelli del mostro venuto a massacrarli. In qualche modo, Vancouver sopravvivrà. Come lei.
Original Characters | Spin - off rispetto alla trama principale del film | Altresì detta, quel che succede quando una runner ficca il naso nel segreto meglio mantenuto del Distretto delle Ossa di Vancouver, e scopre che i mostri non sono in agguato solo sotto alla superficie oceanica | Warning: Body horror e accenni di gore.
Genere: Azione, Science-fiction, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Note d'apertura: Caro lettore, cara lettrice, se siete arrivati ad aprire la pagina non avrete potuto fare a meno di notare gli avvisi nell'introduzione. Come accennato, questa storia non riprende il cast del film, se non in maniera piuttosto vaga, in quanto importanti figure di sfondo, e non esplora gli avvenimenti di Pacific Rim. Siamo nei primi anni 20 del 2000, i lavori per il Wall of Life sono appena stati iniziati e c'è chi si trova da vivere come può... come potrete constatare presto. La narrazione alterna presente e passato recente, quindi spero di non confondervi troppo con i salti temporali (sono voluti). I personaggi che figurano in questa storia sono completamente originali, come il distretto delle ossa di Vancouver e la libertà di fantasticare sul Kaiju Blue. Sono aperta a critiche costruttive e commenti di ogni genere: sbranate entrambi, se volete, ma vi chiedo gentilmente di rispettare la proprietà autoriale dei primi. Vi ringrazio e buona lettura.
 
*

«Comincia dall’inizio,» le dice il poliziotto. La luce si riflette sulla targhetta appuntata alla tasca, sui capelli chiari, gli tinge la pelle color dattero di una sfumatura calda. Le linee degli occhi sono improntate al sorriso, ma non il volto. Quello è serio e preoccupato, e non dovrebbe essere così, non quando la conosce appena. 
Puoi fidarti di lui, dice la voce di Kaleb nella sua testa.
«Ti ascolterà,» dice la voce di Jutia, appoggiata alla porta. «Ogni parola.»
Comincia dall’inizio. Prima della nave. Prima dello sparo. Prima del cane. 
«La verità?»
Il poliziotto annuisce. La targhetta ondeggia sulla sua tasca. Le lettere ballano. Mu, Rhiki. 
Alysée intreccia le dita e si concentra sul riflesso della luce. Ha le labbra aride.
«La verità,» ripete.

La verità è che nelle strade di Vancouver c’era un mostro e non lo sapeva nessuno. Nemmeno Ari.
Nemmeno lei.
 
 

Kaiju Blues
 
RABbit on the Run



Then
 
La città è coperta di nebbia, uno strato grigio su uno skyline desaturato. Dal fronte marino i pescherecci non vedono altro che un enorme corpo avvolto in un lenzuolo, un gigante disteso lungo la costa, compatto e nero e cosparso di luci come i mostri che vengono dal Breach per spegnerle. Se la sirena d’allarme non tacesse da due settimane, i pendolari delle quattro del mattino crederebbero di essere nello stomaco di un Kaiju penetrato nel Miracle Mile.
Si vede l’oceano, dalla finestrella del sottotetto in cui si sono pigiati. 
Non è una buona cosa, secondo lei. Nei giorni buoni l’aria marina è una scocciatura, perché il rifugio che Ariel è riuscito a scovare a fatica tra i passaparola e le bacheche online del catasto fa schifo. C’è poco da fare. I muri sono sempre umidi. La salsedine intacca l’intonaco. Rovina i capelli, rendendoli crespi — oh sì, le importava dei suoi capelli, una volta. Ogni tanto l’istinto di metterli al riparo ritorna, ma per la maggior parte del tempo è una battaglia persa. L’odore del porto è un fantasma che li segue di angolo in angolo ed entra dappertutto, nella lana dei maglioni, sotto i vestiti, sotto la pelle, nel bucato che ritirano dalla lavanderia a gettoni del quartiere. 
Nei giorni cattivi Lys si sveglia con il fragore delle onde nelle orecchie e negli occhi il biancore della schiuma sul carapace del Categoria III, i crostacei e le reti impigliate tra gli enormi celiceri, la gobba grande come una montagne emersa dalle acque. Il suo corpo ha imparato a non strillare l’isteria nel cuscino, ma ogni volta spalanca gli occhi con la sensazione di avere il cuore lì, in fondo alla gola. Un giorno cadrà di fuori, un bolo rosso scuro che comincerà a svolazzare per il sottotetto come un uccellino prigioniero. Sbattendo contro il vetro della finestrella, thump-thump-thump, fino a spappolarsi. 
Svegliarsi fa meno male di dormire con gli incubi. È per questo che non fa storie, quando tocca a lei scendere dal letto presto. 
Si scolla a forza dalla finestra. Il pavimento è gelato sotto i suoi piedi nudi. In questo rifugio non hanno il riscaldamento e l’autunno comincia già a tendere le mani su Vancouver, infiltrandosi tra gli spifferi. Prima che arrivi l'inverno dovranno traslocare in un seminterrato o da qualche parte dove succhiare il calore dalla caldaia di qualcun altro, se non vogliono crepare nel loro letto. Ogni anno qualcuno del distretto ci resta secco così, congelato sotto un ponte o in un androne davanti ai cancelli del parco. 
Il freddo le sale lungo i polpacci e le aggredisce la schiena mentre accende il fornelletto e scalda l’acqua per il caffè. Dopo il brusio della fiamma che attecchisce, blu e puzzolente di gas, arriva la voce roca della sua coscienza. 
«Puoi prenderti una coperta, sai. Non muoio se me ne porti via una.»
Alysée stringe i denti, slacciando le braccia e costringendole a tornare lungo i fianchi. Ari la sta guardando. Sente i suoi occhi gialli da gufo e piuttosto di mostrarsi in preda ai brividi preferirebbe buttarsi nel fiume, o lui comincerà a menarla di nuovo sull’umidità, la muffa e mille altri problemi che li costringeranno a fare i bagagli domani. Non se ne vuole andare da qui, non ancora. L’unica bellezza dei tetti è che si può respirare, ancora per un giorno e forse anche quello dopo ancora. Con un po’ di fortuna, anche quest’anno ritarderanno il letargo fino all’ultimo.
Ari può brontolare quanto vuole. Nemmeno a lui piace passare sei mesi sottoterra.
Intanto che l’acqua bolle raduna la sua uniforme.
«Sei riuscito a dormire?»
«Abbastanza. Tu?»
«Mh.»
«Pensi di riuscire a mangiare qualcosa prima di uscire, o schiodare la bocca è troppa fatica?»
«Mangio, mangio. Non ti scaldare.»
Il caffè solubile le tira un calcio, iniettandole nelle vene un po’ di tepore. È amaro e latte non ce n’è, ma Lys lo manda giù lo stesso, vestendosi tra un sorso e l’altro. Calzetti. Scaldamuscoli. Leggins caldi e pesanti, sotto ai pantaloni della tuta. 
Il rotolo di bende è sul comodino. Ariel lo spia come se volesse incenerirlo. 
«Stavo pensando che invece di quella roba potresti comprarti un reggiseno sportivo,» bofonchia nel cuscino. «Quelli che non rischiano di bucarti un polmone se stringi troppo, sai. L’alternativa salutare.»
«Da quando ti intendi di reggiseni, Ari?»
«Non certo grazie a te. Ce li avranno, da qualche parte.»
«Come no. Chiederò al Victoria’s Secret all’angolo del distretto, se non ha chiuso.»
«Sai che cosa intendo.»
«Mi dai una mano?»
«No.»
Ad Ari non piacciono le bende. A dire il vero la lista delle cose che gli piacciono è piuttosto limitata, e Lys non se la sente di biasimarlo. Il distretto delle ossa non è per tutti: chiede resistenza e in cambio non concede tolleranza per le lamentele, e se lei per prima cominciasse a fare tragedie per una dannata fasciatura, tanto varrebbe chiudere bottega e lasciar perdere le consegne. 
«Ci sono runner, là fuori, che non si lasciano fermare da una cosa cretina come un rotolo di stoffa.»
«Ah sì? E corrono senza preoccuparsi delle tette al vento? Sembra una cosa interessante.»
«Come se ti piacesse quel genere di cose.»
«Non mi piace guardare Hank in faccia per buona parte della giornata, se è per questo, ma ehi. Il lavoro è lavoro.»
Lys serra le labbra in una smorfia. Si sfila la maglietta dalla testa, ancora calda di sonno, e la lascia cadere sul pavimento. Uno spiffero umido le accende una scia di pelle d’oca sulla schiena. Punta le mani sui fianchi, spavalda.
Ariel si mette a sedere con un sospiro da vecchio, posando i gomiti sulle ginocchia. «Usi lo stesso metodo di persuasione anche con i clienti difficili, Ornstein?»
«Vuoi una scarpa in faccia?»
Ari sospira di nuovo, passandosi una mano tra i capelli. I ricci sparano ovunque, un cespuglio castano arruffato dal sonno. Si è rigirato così tante volte, stanotte, che Lys non sa come faccia a non essersi imbozzolato nelle coperte come un bruco. Si proibisce di coprirsi mentre la fissa. Si saranno visti nudi almeno una ventina di volte, ormai, e non c’è nulla che lui non conosca — né la scia di efelidi che vanno impallidendo sul suo stomaco, né il profilo delle costole e il modo in cui suo corpo appare acerbo, senza curve pronunciate ad ingentilirlo. Le basta che Ari non si concentri sul solco scabro della cicatrice che le taglia la clavicola, in obliquo.
Si massaggia la spalla sinistra, nascondendo il segno nel palmo.
«Non ho tutta la mattina. Mi aiuti o no?» Le sta venendo la pelle d’oca anche sulla pancia, e se il gelo sale più in su, la cosa comincerà a diventare imbarazzante.
«Così puoi lamentarti che ho lasciato le bende troppo allentate?»
«Per forza, non le stringi mai come si deve.»
«Definisci “come si deve” su una scala da nastro adesivo a corsetto vittoriano.»
«Non posso correre perdendo rotoli per strada come una mummia.»
«Quindi hai in mente qualcosa come un livello pressa idraulica, immagino.»
«Immagina il mio medio, già che ci sei.»
Scansa a pelo il calzetto appallottolato che le arriva addosso. Ariel cerca il gemello tra le coperte, schioccando la lingua alla scarsità di proiettili. Soppesa i cuscini, valutandone l’efficacia, e crolla il capo. «Sei fortunata che non abbia niente altro a disposizione…»
«Non ti riporto nulla di quello che lanci. Sono in ritardo.»
«Di già?»
«E l’orologio ticchetta,» ribadisce lei, sedendosi sul bordo del letto. Gli rivolge le spalle. «Tic, tac, è tardi, è tardi.»
È tardi. La voce dell’urgenza ha preso le sembianze del coniglio bianco di Alice, nella sua testa. Alysée la sente picchiettare unghiette aguzze sul vetro di un cipollotto, in fibrillazione a tutte le ore del giorno e della notte. Tutta la sua sopravvivenza si basa sul tempo, il che è ironico, dato che per soddisfare la fretta dei committenti deve prendere a morsi il proprio. Ritagliare minuti alla colazione. Alla doccia. Ai convenevoli. Non chiacchiera con i vicini e non si ferma nei negozi. E Ari…
Ari è strano, ultimamente.
Le manca il fiato per dirglielo.
Un giro, poi due, poi tre. Ariel fa del suo meglio per lisciare le grinze, avvolgendola nelle bende. Sopra e sotto il seno. A croce sul davanti e poi intorno. Ha le mani delicate e ferme, mani fatte per guarire, eppure Lys non può fare a meno di odiarle un po’ per ciò che chiede loro di fare. Gonfia i polmoni a più non posso e trattiene il respiro per guadagnare quei due miserabili centimetri che faranno la differenza tra una lesione e un travestimento ben riuscito. La fasciatura la stringe come se fosse animata di volontà propria, ma sotto alla maglietta e alla felpa non si vede nulla. È un segreto tra loro e le mura del sottotetto.
Il respiro di Ari le smuove i capelli sulla nuca. Lys gli prende le mani e se le avvolge attorno, appoggiando le scapole contro il suo petto. Le dita color carta di zucchero si intrecciano alle sue, impedendole di cominciare a grattarsi furiosamente la pelle libera dalle bende. 
Sono loro due e il rumore distante della città che dorme, e la pioggia che picchietta leggera sul vetro. 
«Stanotte ti è tornata la voglia di parlare,» gli mormora. 
Ariel non le risponde, quasi apposta. 
Lys finge di tirargli un pugno sul ginocchio che sbuca alla sua destra, snello e asciutto sotto le coperte. Il commento le è uscito troppo acido. Non ha abbastanza respiri per tutto quello che vorrebbe dire e fare e i primi ad essere falciati, in regime di economia, sono sempre i sentimenti. Quando si permette di provare qualcosa finisce per esserne travolta, come ora.
«Torna a letto,» mormora. «Puoi dormire ancora un paio d’ore, prima che passi Lou Anne. Le dai l’affitto e poi te ne vai da Hank più riposato. Se ti presenti in negozio con quella faccia da cadavere non ti aprirà nemmeno la porta.»
«Lo farà comunque. Ha bisogno di me.»
«Finché non trova di meglio.»
Ari ride contro la sua spalla. Dura poco. La sua voce si spezza e le sue braccia la stringono, e Lys si ritrova pigiata contro di lui mentre un attacco di tosse cavernosa e umida si schiaccia contro la sua schiena. Invece di parole, tosse. Invece dell’ironia pungente, tosse.
Tosse, cazzo. 
A stringerla non sono solo le braccia di Ariel, né le bende avvolte strette a comprimerle il seno. Per un lungo istante lo zampettio del bianconiglio passa in secondo piano e il sottotetto la mura viva in un tunnel di tensione. La smania di correre le investe le gambe. 
«Ari?»
La spinge via. Lys si gira e gli prende le spalle. Ariel si preme una mano sulla bocca, di dorso, con gli occhi lucidi di sforzo. Il sudore gli ha imperlato l’incavo della gola, formando un reticolo di goccioline. Forse è l’angolo che ha preso la sua schiena, curvandosi, forse è il modo in cui si rimette dritto, ma Lys riesce a mettere a fuoco una miriade di piccoli dettagli che non le piacciono. La sfumatura viola sotto gli occhi, il sussulto delle sue scapole, il brivido. 
«Sei caldo? Fammi sentire.»
«Lascia stare. Non ho niente.»
«Col cavolo. Non tossivi così da quando abbiamo mollato quella topaia giù al porto.»
Il respiro torna con un risucchio e Ari si sottrae alle sue mani. La guarda in faccia con quei suoi occhi da barbagianni e le sorride.
«Ti piaceva, quella topaia.»
È il maledetto sorriso. Alysée sente le labbra che si piegano prima di poterle controllare, per nervosismo e tensione e perché ha bisogno di sapere che è stato solo un momento, un po’ di saliva scesa dalla parte sbagliata della gola. Lo spinge comunque sotto le coperte e gli tira il plaid a quadri fino al mento. Il bianconiglio riprende a zampettare. È tardi è tardi è tardi. È tardi e deve andare, qui non c’è bisogno di lei. Va tutto bene. Va tutto bene, no?
«Come no, un hotel a cinque stelle.»
«Si vedeva lo Shatterdome,» mormora Ari. Il sorriso scivola. «Te lo ricordi? La cupola, i fari. Gli elicotteri che facevano il via vai tutta la notte. Dovevo tenerti seduta ogni volta che uno Jaeger metteva il naso fuori dalle porte…»
«Smettila e dormi, prima che lo tappi a te, il naso.»
Ariel ride del suo tono acido, ma c’è una punta d’incertezza nel suo viso. Lys si alza. La battuta le suona stonata. Si calca in testa il berretto e si avvolge nella sciarpa, ficcando i piedi nelle scarpe da ginnastica. Consegne. Adesso. Se riesce ad allungare il giro potrà passare dal medpoint e scambiare qualche favore per uno sciroppo. 
Non si sa mai.
«Non aspettarmi alzato,» dice, infilandosi le bretelle dello zaino. 
Chiude la porta del sottotetto su uno spiraglio di sguardo ambrato e si sente una stronza, a scappare così, ma mentre sale i pioli della scala lo sente tossire di nuovo, e la voce del vento sul tetto è fredda e bagnata e infinitamente più rassicurante di quell’eco raschiato.

Now
 
«Mi chiamo Alysée Ornstein. Ho sedici anni. Mio padre si chiamava Richard Ornstein. Abitavamo a Downtown, sopra il locale che aveva aperto un anno prima che nascessi, il Mabel’s. Qualche volta i poliziotti si fermavano lì, quando non erano ancora stati assimilati dalle forze della Pan Pacific Defense Corp. Facevamo le ciambelle più buone di tutto il distretto. Non vi sto prendendo per il culo. Avevamo i certificati appesi alle pareti, e quando il Kaiju è arrivato alla città sono stati i primi a cadere. Mia madre era Nadie LaBiche, Cree Metìs di nascita. Non mi chiamava Lys, né Izzy, né uno di quei nomignoli da ragazzine. Come mi chiamava non sono fatti vostri. Non lo erano prima dei Kaiju e non lo sono nemmeno adesso che gli agenti si sono parcheggiati nelle nostre riserve e lungo la costa, tra i totem degli Haida, a fare la guardia ad un entroterra che non è mai stato loro. Non c’è più nessuno capace di pronunciare quel nome. A volte me lo dimentico perfino io. A volte devo ripetermelo, come un mantra. Io sono, io sono, io sono. Io sono.

Io sono sola.

Nel mondo dopo il primo Kaiju non ci sono più state ciambelle, non ci sono riserve, non c’è mia madre, non c’è mio padre.
Io sono tutto ciò che è rimasto. 
Se non vi piaccio, cazzi vostri.»


Then
 
I like digging holes and hiding things inside them
When I grow old I hope I won't forget to find them

La città è coperta di nebbia e anche così, velata dai residui grigi della caligine, è grande abbastanza da darle la sicurezza che il genere umano non si estinguerà mai. Non in questa fetta di continente, almeno. Lei non è come Ariel, che sogna di potersene andare dalla British Columbia e tornarsene ai boschi dell’Europa da cui è spuntato. La vastità di Vancouver, per Lys, è un salto nel vuoto. C’è qualcosa dall’altra parte, ma nel mezzo c’è la loro terra di nessuno, un testamento dell’ingordigia degli uomini. Con i mostri ai moli e gli spacciatori organici negli appartamenti più lussuosi della città, il Distretto delle Ossa è un piccolo mondo che per tirare avanti mangia tutto quello che arriva a portata. 
 
I build a home and wait for someone to tear it down
Then pack it up in boxes, head for the next town running
'Cause I've got memories and travel like gypsies in the night

Prima di correre Alysée avvolge le dita sulla ringhiera della balaustra, la scavalca e si siede con le gambe ciondoloni sulla strada sottostante. Mangia biscotti direttamente dalle tasche della felpa, se si ricorda di portarsene dietro, e ascolta la radio mentre osserva la strana atmosfera delle quattro del mattino. Le insegne dei nightclub in via di chiusura illuminano uno sciame di passanti che barcollano per i budelli delle strade. Le camionette della PPDC police pattugliano la strada, sciogliendo la neve con il calore dei motori e i getti d’aria compressa. Ultimamente gli agenti del distretto sono aumentati, e superarli senza arrampicarsi come uno scoiattolo diventa sempre più difficile. 
Le ossa sono sempre là. Si ergono bianche verso il cielo scuro, come dita puntate verso le stelle, e il cranio impalato sulle rovine del grattacielo più alto di Downtown osserva il piccolo regno che è fiorito tra le sue costole con quelle sue enormi orbite vuote. In memoria. Sulle targhe non c’è scritto altro. In memoria degli abitanti svegliati dalla città che tremava fino alle fondamenta, e del Kaiju che ha superato il Miracle Mile per divorare il cuore di Vancouver. In memoria dei morti, della paura, delle sirene e delle fughe nel bel mezzo della notte. 
Una volta Lys ha provato a proporre ad Ariel la sua tesi — l’imbecille alla guida dello Jaeger che aveva ammazzato il Kaiju non era più riuscito a tirare giù quel maledetto cranio dal grattacielo, e soprattutto il distretto non aveva i soldi per costruire un vero e proprio memoriale. Due piccioni con una fava. 
Ari non le ha rivolto la parola per una settimana intera. Lei continua a preferire la sua versione. Quando guarda le fratture calcificate nelle ossa, lì dove i pugni dello Jaeger hanno infierito, non vuole pensare alla morte e alla paura. Quel che cerca di ricordare a sé stessa è che quella notte, la notte in cui avrebbero dovuto morire tutti, Vancouver si è svegliata, ha snudato le zanne e ha ruggito. La sua città ha denti più affilati di quelli del mostro venuto a massacrarli. Non le servono dei dannati robot giganti per proteggersi, e nemmeno uno stramaledetto muro della pace per tenere fuori i Kaiju.
In qualche modo, Vancouver sopravvivrà.
Come lei.
And a thousand times I've seen this road
A thousand times
I've got no roots But my home was never on the ground

Di radio Kaiju Blues le piacciono le playlist, tenute insieme dalla sensazione surreale che il DJ abbia un satellite puntato su di lei giorno dopo giorno. Lys sa che ogni ascoltatore probabilmente condivide l’idea di essere il protagonista assoluto delle canzoni, ma la consapevolezza non riesce a toglierle il sottile piacere di immaginare che a qualcuno, là fuori, importi di lei. La sua seconda particolarità preferita è il nome del canale. È perfetto. Di pessimo gusto, e al tempo stesso così giusto. Radio Kaiju Blues. Sangue di mostro e malinconia. La fa sentire un minimo più bendisposta verso gli abitanti del distretto, malgrado buona parte di loro siano dei veri stronzi. Tutti hanno preoccupazioni, all’ombra delle Ossa. Il suo lavoro è farle svanire.
Alle mie preoccupazioni però non ci pensa nessuno.
Il fatto che il DJ faccia passare del vero Blues solo dopo le nove di sera è la ciliegina sulla torta.
Nessuno.
I've got no roots
But my home was never on the ground

Mentre si scalda Lys pensa alla sua radio illegale prediletta, una barchetta, un guscio di noce persa da qualche parte nel Pacifico. Pensa all’oceano e ad onde così grandi da superare i grattacieli, così immense e voraci da riportare i Kaiju negli abissi da cui sono spuntati. Pensa a come possa essere trovarsi in trappola tra il Breach e una tempesta, mentre inforca lo zaino e stringe le cinghie, ignorando il sudore che cola nel solco del petto bendato e lungo la schiena, e in cima al suo palazzo si sente sulla cresta di uno tsunami. 
Keiko Shinnouchi riesce a gestire una radio nel mezzo del maledetto nulla.
In bilico prima dello schianto. 
Se ce la fa lei, io non ho alcun motivo per non riuscirci.
Sedici anni e una stanchezza colata fin nel midollo.
A papà sarebbe piaciuta la loro musica. 
Sedici anni, viva e incerta su cosa significhi.
Cazzo, Ariel, dovevi per forza nominare lo Shatterdome e farti venire la tosse.
Un respiro profondo, in bilico, e Alysée si tuffa nei vicoli, del tutto inconsapevole di essere osservata.

 
I like standing still but that's just a wishful plan
Ask me where I come from, I'll say a different land
I count gates and numbers, then play the guessing game
It's just the place that changes, the rest is still the same

Now
 
«Com’era la tua giornata tipo?», chiede Mu, posandole davanti una tazza di tè caldo. Lo chiede con lo stesso tono con cui le chiederebbe com’è andata a scuola, se fosse uno zio o un cugino di diversi anni più grande di lei, e merda, adesso le è venuto in mente Declan. Non pensava a suo cugino da un pezzo, ma una volta evocato è difficile togliersi la sua ombra dalla testa. 
Lys stringe le labbra e annoda le dita. È un po’ meno disposta a farsi stare simpatico il poliziotto, ora, malgrado i modi affabili, gli occhi svegli e la consapevolezza che, se non ci fosse stato lui a tenerla stretta mentre Kaleb faceva pressione sulla sua gamba e le impediva di dissanguarsi nel retro della camionetta, a quest’ora sarebbe morta.
Non è mai stata brava con la gratitudine, nemmeno quando c'era qualcosa per cui essere grati.
«La stessa di un qualsiasi altro runner, immagino,» borbotta. «Almeno per voi poliziotti. Mi pagavano per portare merce illegale in giro per la città. Fine della magia.»
Sente la disapprovazione irradiata da Jutia anche senza voltarsi a guardarla. È stupido voler tracciare quel confine tra sé e loro, ora che vive praticamente in casa di uno della PPDC, ma ne ha bisogno. Si disegna un cerchio col gesso tutto attorno e richiude i due insiemi. Runner e agenti. Abusivi e garanti della legge. Pan Pacific Defense Corp e…
E me, suppone. Non può più trascinare Ariel nel suo stesso cerchio. Il suo unico amico è più simile a questa strana triade di benintenzionati decisi a salvarla che a lei, adesso.
«Ti dirò, buona parte di runner che arrivano in centrale non sono grandi chiacchieroni, e il resto che sappiamo su di voi sono nozioni da manuale. Ci dev’essere senz’altro qualcosa di più interessante di quella barba. Ho visto all’opera i tuoi “colleghi” in un altro distretto,» Mu sorride, appoggiandosi allo schienale della poltroncina. «Il modo in cui vi arrampicate, scivolate via e vi mescolate alla folla è incredibile, sembrate un esercito di Robin Hood metropolitani. Più poetico dei traffici di Hannibal Chau, se non altro.»
Lys prende la tazza per impegnare le mani. Il bordo ha ancora un vago odore di caffè impresso, al punto da farle venire il dubbio che Kaleb abbia fatto i piatti di fretta. Cerca di abbozzare un sorriso, sorbendo un sorso — sì, sa proprio di caffè — per prendere tempo.
La voce di Jutia interviene a troncare la sua esitazione, sobria e vagamente distaccata come al solito. 
«Non ci saranno arresti di massa, se è questo che temi.»
Gli occhi di Mu sfrecciano alla compagna di squadra mentre Lys tossisce, la lingua che brucia e il petto che formicola per il commisto di urgenza e tè finito di traverso.
«Come se me ne importasse qualcosa! So benissimo che non lavoravo per degli stinchi di santo e non mi sono mai piaciuti.»
«Non abbastanza da rifiutare di sostenere i loro traffici.» Jutia incrocia le braccia.
«L’alternativa era pulire i loro cessi, lavorare nei loro locali, combattere nei loro ring o intrattenere i loro visitatori benestanti. Nel distretto non c'è altro. Se l’intera baracca chiudesse dopo tutto questo schifo sarebbe oro colato.»  Forse la PPDC dovrebbe intervenire una buona volta e cancellare dalla faccia della Terra i distretti delle ossa, ma finché i Kaiju continuano ad arrivare ci sarà sempre un problema più grosso della criminalità organizzata. 
Non è questo il punto, comunque. E ora che ha dimostrato di avere la lingua ancora al suo posto, Lys non può più nascondersi dietro una vaga pretesa di ritrosia. Sposta lo sguardo tra il viso bellissimo e impassibile della donna appoggiata alla porta e Mu, che sta tornando composto sulla poltroncina solo ora. 
«È solo… Finché ero presa da quello, il lavoro era tutto, per me, e adesso sembra lontano. Lontanissimo. Come un altro mondo. Non so se mi spiego. Di fronte al…al resto non ha il minimo peso, e non…» Non conta niente. Non vale niente. Non sei nessuno, per questo sei qui dentro. Le parole di Rey sono ancora accompagnate dall’urto del suo corpo contro la grata, il crepitio dell’elettricità. Le memorie del laboratorio sono solo nella sua testa, ma mordono ancora, come la sensazione delle sbarre elettrificate tra le sue mani. «… Non… non mi piace ricordarlo. Ero una dei tanti. Quello che mi è successo avrebbe potuto capitare a chiunque.»
Mu le permette di immergersi nel silenzio per una manciata d’istanti appena, prima di chinarsi a cercare la sua attenzione. Si abbassa, gira il viso, la osserva di sotto in su. È un gesto buffo che lo fa assomigliare ad un gatto sornione, eppure gli riesce senza dare l’idea che la stia prendendo in giro. Quando finalmente riesce a incontrare il suo sguardo, le regala un sorriso calmo, e per un attimo i suoi occhi scuri sono specchi pronti a metterla davanti alla sua bugia. Potrebbe dirle che sta mentendo. Potrebbe ricordarle che nella sua deposizione iniziale il verbale dice che è stata scelta — “selezionata”, paragrafo venti, riga cinque, pagina settanta — con accuratezza, tra quella moltitudine, e obbligarla a fronteggiare la sua parte di responsabilità. La colpa implicita di essere stata troppo svelta, troppo distratta e troppo ambiziosa. Di essersi tirata addosso il pericolo.
«Ti piaceva correre, Alysée?»
Invece le chiede questo.
Lys annuisce.
«Più di quanto piaccia a me, suppongo.»
Un altro sì. Il soffice mormorio di Keiko Shinnouchi, alla radio, lascia il posto al beat di una vecchia canzone rock. Sono le tre. L’ora del revival. Brani dell'anteguerra Kaiju risorgono dalla tomba per saltare di generazione. 
«È quello che so fare meglio.» 
Mu inclina il capo, battendo il ritmo con la punta del piede, leggero leggero. Del gatto ha anche i passi, oltre che le espressioni.
«E com’era, correre nel distretto?»
Lys si massaggia la cicatrice sulla spalla. 
«Come uscire da una piccionaia di cemento e scoprire di avere le ali.» Le sembra un paragone stupido, inizialmente, ma inspira a fondo e prosegue. «Il rifugio… i nostri rifugi sono sempre stati piccoli, ma quando salivo sul tetto e cominciavo a correre lo spazio era tutto mio. Non c’era angolo che non potessi raggiungere, e senza il bisogno di ruote, razzi o ascensori. Mi facevano male i piedi e i polpacci, le costole. A volte mi faceva male tutto, ma se riuscivo a stringere i denti passava. Poco a poco. Era bello. Era-»
Mu appoggia i gomiti sulle ginocchia. 
«Era la tua vita, Lys. Non c’è niente di più importante, qualunque cosa ti abbiano detto.»
Alysée preme le labbra tra loro, mordicchiandosi l’interno della guancia. Dagli speaker scivola il brusio del basso, rintoccando il battito del suo cuore.  
«Uscivo di casa alle quattro del mattino, due ore prima di Ariel.»
Non succede niente. Non viene colpita da un fulmine per il suo tradimento. La porta non si apre di botto per far passare una squadra armata. Nessuno squillo di tromba del giudizio. Jutia socchiude un respiro così tenue da farsi sentire a stento sotto la musica. Lys si sente una sciocca.
«Alle cinque c’era il ritrovo al punto di distribuzione. Lo chiamiamo il drop, in gergo.»
«Come il lancio di uno Jaeger.»
Lys ricambia il sorriso soffice di Mu, malgrado lo stomaco annodato.
«Le regole sono semplici. Non più di cinque runner alla volta per drop. Non più di un pacco a testa ad ogni ritorno. Niente di più pesante di cinque chili. Non si torna al drop, se qualcuno ti insegue. Non si parla del traffico con nessuno. È tutto qua. Il primo giorno di servizio, uno della sicurezza aspetta fuori dal box di servizio, afferra il primo runner che gli capita a tiro, lo schianta contro il muro e gli ringhia in faccia la Legge.» Chiara e vera come il cielo, le viene in mente, come nel Libro della Giungla. Aveva cercato di sdrammatizzare per Ariel, quella volta che, tornata a casa, le aveva scoperto addosso quei lividi enormi, ma lui non aveva riso affatto. «Lo ripete ogni singolo giorno, prendendo di mira un runner diverso, finché non rimane inciso a fuoco.»
Forse ora hanno un’idea più precisa del perché sia così riluttante a parlare. Mu ha le sopracciglia aggrottate.
«Tutti i giorni?»
«Tutti i giorni.»
«E nessuno ha mai cercato di restituire il trattamento?»
«Solo quelli che non tenevano particolarmente a tenersi il lavoro.»
Obiezione rientrata. 
«Puoi continuare,» accenna Jutia, quando Mu rimane in silenzio. Lys prosegue, tenendo a bada il timore nascente che non piacerà più così tanto all’agente, quando avrà finito di parlargli di quella sua parentesi di vita.
«Il numero di consegne variava a seconda della giornata, a seconda delle variabili. L’importante per il boss era la qualità, più che la quantità. Potevano esserci tre pacchi in tutto, ma dovevano arrivare a destinazione indipendentemente da quel che c’era nel mezzo. Allarme Kaiju, scioperi, manifestazioni o agenti armati che fossero. Il runner di punta si occupava delle consegne più importanti. Io… facevo qualche extra, se il capo aveva da parte qualcosa di piccolo. A volte accettavo consegne inverse. Se a Midnight serviva qualcosa, toccava a me passare a ritirarlo.»
Le sente benissimo, le occhiate su di lei. Quella di Jutia sembra volerle scavare un buco nella nuca, quella di Mu è presa in contropiede.
«E la Legge?»
Lys fa spallucce.
«Rompevo già la Legge. Solo che Mid non se n’è mai accordo.» 



Then

Quando Lys aveva cominciato a lavorare per il cartello, Midnight le aveva regalato una vecchissima edizione de “La Collina dei Conigli”, il libro più inaspettatamente truculento su cui le fosse mai capitato di posare gli occhi. Le era sempre sembrato il genere di letture appropriato per il capo. Midnight ha uno sguardo di velluto blu e un sorriso affascinante, i tratti morbidi e rotondi di uno cresciuto a Leonidas, New Orleans, e capitato a Vancouver, Canada, per uno strano scherzo del destino. Parla con voce soffice e la sua risata si scioglie come miele sul pane. Con tutta probabilità, da qualche parte nella sua genealogia ci sono un paio di re del Voodoo. 
Lys l’aveva visto sparare personalmente alle ginocchia di tre runner di un cartello concorrente, quando questi avevano avuto la pessima idea di venire a rovistare nel loro drop. Non l’aveva mai dimenticato. Nemmeno quando Mid l’aveva fermata per infilarle nello zaino un pacchettino protetto in un vecchio foglio di giornale, prima di lasciarla andare.
«Aprilo solo quando arrivi a casa,» Lei e Ari, allora, non avevano uno straccio di casa, ma Midnight le aveva lasciato il beneficio del dubbio. «Non perderlo, Izzy.» E Lys aveva pensato: compiti per casa. Aveva pensato ad un pacchetto di droga camuffato da regalo. Vuole vedere se può fidarsi di me. Aveva pensato ad una mattonella esplosiva, quelle che i portuali assoldati dai trafficanti di materiale organico sbriciolavano nelle carcasse dei Kaiju per smantellarle prima. Domani lo rivorrà indietro.
Aveva pensato a tutto, ma non ad un libro, avvolto in una bella carta azzurra e verde. Un dono tutto per lei, con tanto di fiocco e dedica in prima pagina. 

 
“E la coda di El-ahrairah divenne di un bianco splendente come una stella, e le sue gambe crebbero, diventando lunghe e potenti. E lui corse tra le colline, più svelto di ogni altra creatura al mondo, con la voce di Frits ad inseguirlo: «Tutto il mondo ti sarà nemico, o principe dai mille nemici, e quando ti prenderanno, ti uccideranno. Ma prima dovranno prenderti, tu che scavi, tu che ascolti, tu che corri, principe dal piede veloce. Sii astuto e fervido d’inganni, e il tuo popolo non sarà mai distrutto, mai sarà sterminato.”

«Non lo sa proprio, vero?» Le aveva chiesto Ariel, passando le dita sulla dedica, senza nessun rispetto per l’inchiostro scuro o il tratto della stilografica — una stilografica vera! — che si arricciava sulla firma di Midnight, una semplice, elegante iniziale.
Alysée aveva smesso di saltare sul materasso scalcinato per meno di mezzo secondo, ubriaca di sollievo e di orgoglio, e gli era caduta addosso ridendo. Avevano fatto la lotta per una decina di minuti, con Ari che brontolava e cerca di togliersela di dosso e lei che rideva come una bambina, prima che lui riuscisse finalmente a sederlesi sopra.
«Lys. Non gliel’hai detto.»
«Detto cosa?» Il fianco le bruciava, le bruciavano i polsi serrati nella presa di Ari, le bruciavano le gambe sfinite dai chilometri macinati durante la giornata, ma la testa era leggera, leggera, colma di bollicine ed euforia al prospetto di un futuro luminoso. Una casa, pasti veri, soldi… tutto quello che avrebbe cancellato quella luce ansiosa dagli occhi di Ariel.
«Che sei una ragazza.»
 E la bollicine erano scoppiate. Così. 
«C’è scritto principe,» aveva ribadito Ariel, come se la reputasse un’idiota.
«Lo so che c’è scritto principe. C’è anche nel libro, che cosa dovrei farci?»
«Lys!»
«Che cosa dovrei farci?» Se l’era tolto di dosso. Uno scatto violento dei fianchi per sbilanciarlo contro il muro ed intrappolarlo sotto di sé, tra i mattoni freddi e uno sguardo pesante come una sassata. 
Si erano guardati in faccia, il libro premuto tra loro come uno scomodo cuneo. Ariel continuava a fissarla con quel maledetto sguardo di rimprovero. Tutta la spensieratezza era finita giù per lo scarico. In quel momento l’aveva odiato. E l’aveva odiato ancora di più quando, invece di tapparsi la bocca, quel deficiente aveva rincarato la dose.
«Sai che cosa ti farà se lo scopre?»
«So che cos’avrebbero fatto gli altri runner se l’avessi detto subito.» Questo l’aveva zittito. Al posto del timore era apparso uno scintillio di disgusto, e per un attimo Lys aveva sentito la fortissima tentazione di descrivergli nel dettaglio che trattamento le sarebbe stato riservato, al puro scopo di dimostrargli che lei lo sapeva. Sapeva benissimo che pericoli l'attendevano. Peccato non ci fosse modo di parlarne senza mettersi a piangere e perdere di credibilità. «Il gioco vale la candela. Correrò il rischio. Non lo saprà nessuno.»
«Lys—»
«Nessuno, Ari.» 
Quando ti prenderanno, ti uccideranno. Ma prima devono prenderti.
E nessuno l’aveva saputo. 

Kaleb non aveva fatto eccezione, almeno all’inizio.

 
Now


«Mu, se la smettessi di ridere forse questo interrogatorio tornerebbe sul binario giusto. Abbiamo un protocollo da rispettare.»
«Certo, certo.» Mu fa scattare la punta della penna a sfera un paio di volte, le narici che fremono e le labbra che tremolano. In rapida successione mette a posto il plico di documenti sparpagliati sulla tavola, sistema le matite nel portapenne e raccoglie la tazza, avvicinandola alla bocca prima di accorgersi che il contenuto è sparito già da un pezzo. Lo sbuffo si ferma da qualche parte nel suo naso e viene fuori in maniera così buffa che Lys deve mordersi l’interno della guancia per rimanere seria. Troppo tardi. Mu resiste esattamente due secondi. 
Poi si mette a ridere.
Jutia rotea gli occhi, dondolando la gamba accavallata sull’altra. 
«Mu.» Si strofina la tempia con le lunghe dita affusolate, spostando una ciocca di capelli dalla fronte. Il neon del soffitto trasforma il biondo chiaro in un bianco. Tra quel dettaglio e il lieve profumo floreale che emana, Lys si sente invadere per l’ennesima volta dall’impressione di essere al cospetto di una ninfa dei boschi.  
«Scusa, scusa, è che è una cosa così…» Niente da fare. Mu si asciuga la coda dell’occhio con la punta dell’indice, prendendo fiato. «Insomma, l’hai guardata? Senza offesa, Lys,» rassicura, alzando le mani. «Forse ho fatto l’abitudine a vederti vestire la parte della civile, ma ti giuro che non riesco a capire come diamine abbia fatto Kaleb a scambiarti per un maschio.»
«Figurati. Conferma la faccenda dell’identità insospettabile, immagino. Sai. A nessuno frega niente di Peter Parker o Bruce Wayne prima che si mettano il costume.»
«Grazie,» mormora Jutia, lanciandole uno sguardo tanto serio da sembrare tutt’altro che grata del suo intervento. 
«Sì, ma ci sono casi come Peter Parker e altri come Tony Stark. Troppo palesi e sotto gli occhi di tutti.»
Le labbra di Jutia si assottigliano in una linea pressoché invisibile. Sfiata un sospiro così lento e misurato che le sue spalle si muovono a stento.
«Quello che Mu dimentica di specificare,» accenna, fingendo di non vedere nessuno dei due, «è che Kaleb ha un’affinità particolare con determinati tipi di persone.»
«Oh, sì. C’è il branco, e poi c’è il resto del mondo.» Mu si sporge all’indietro contro lo schienale della poltroncina, picchiettando la penna sul tavolo. Sogghigna ancora, ma con una traccia di affetto a smussare gli spigoli. Il cameratismo è una scintilla vivida nei suoi occhi, una che Lys si trova ad invidiare. Tra lei e il resto dei runner non c’è mai stato lo stesso tipo di legame che intercorre tra gli agenti Centurio. Tolleranza, sorrisi a denti stretti e pochi scrupoli. Rispetto, al più. 
«Avevo i miei metodi,» concede, incrociando le braccia sul tavolo. «Mi arrangiavo con quello che riuscivo a trovare, per lo più.»
Mu le scocca un’occhiata felina. «Fa la misteriosa, signorina Ornstein?»
Lys gli sorride di rimando. «Qualunque cosa dica verrà usato contro di me fuori da quest’aula.» La delicatezza è una dote che non ha mai attecchito bene nel suo giardino, ma fa del suo meglio per ricordargli che situazione si trovi con il massimo tatto che le riesce, e l’agente si fa immediatamente più sobrio, annuendo. Non se n’è mai dimenticato. 
«Probabilmente Kal stava guardando il suo cane negli occhi,» commenta Jutia, sottovoce, mentre il registratore si accende di nuovo.
«Intensamente.»
Le prime cose che vengono incise sul nuovo olonastro sono uno sbuffo divertito e una nuova, calda risata.


Then


L’uomo di Midnight è di turno al posto di blocco. La fa passare in testa alla fila con un cenno delle dita, come si chiama un cane, e Lys si fa largo a gomitate in una piccola folla di questuanti. Saranno un centinaio, per ora. Portuali scaricati dai datori di lavoro da un giorno all’altro, squatters, frequentatori tardivi dei bar in preda agli strascichi dell’alcol. Quando si sarà alzato il sole arriverà il resto della baracca. Festaioli rimasti intrappolati nei club del distretto fino a tardi, pendolari, altri runner. La coda sarà così lunga da fare il giro dell’isolato.
Un uomo in una giacca sgualcita le afferra il braccio mentre si avvicina alla sbarra, puntandole in faccia occhi iniettati di sangue per la mancanza di sonno. 
«Cos’hai pagato per passare davanti a tutti?», le abbaia in faccia. Lys  si libera dalla sua stretta con una torsione veloce, senza nemmeno fermarsi. Prima di sparire tra le schiene si volta e gli mostra il medio. 
Le imprecazioni che la inseguono si spengono non appena uno dei patrol officer tocca il calcio dello sfollagente che porta alla fondina, ma la soddisfazione è di breve durata. Lo sguardo dell’agente passa dallo sconosciuto malconcio a lei. Lo vede aggrottare le sopracciglia bionde.
«Fammi vedere l’ID, ragazzo.»
Il mezzo sogghigno di Lys si restringe di una frazione. «Un attimo,» chiede, sfilandosi uno spallaccio dello zaino. Le sopracciglia dell’agente si uniscono in un unico fronte temporalesco. La cicatrice che ne attraversa una, verso l’esterno, è il lampo prima del brontolio del tuono.
«Dovresti tenere pronti i documenti prima di metterti in fila.»
«Già. Me ne dimentico sempre.»
«C’è un cartello in fondo all’isolato.»
«Mi piace sentirmi ripetere il promemoria. E poi lei ha una bella voce.»
La mascella dell’uomo ha una pulsazione minima. La barba gratta contro il bavero della giacca contrassegnata con lo stemma della PPDC, ma sotto lo strato blu scuro si intravedono abiti da civile. Una giacca termica, il cappuccio di una felpa, pantaloni da lavoro — niente a che vedere con le protezioni in kevlar degli altri agenti a guardia del posto di blocco. Ha i capelli di un biondo che sembra aver catturato il riflesso del sole, più lunghi del taglio a spazzola standard dei militari, e la pelle di qualcuno abituato a lavorare all’aperto, nonostante i morsi del freddo. Poco più chiara di quella di Declan, per la precisione. 
Lys lo odia un po’ di più, per il pugno di nostalgia che le affonda nello stomaco a tradimento.
Pesca la tessera identificativa dal fondo dello zaino e gliela porge. La ritrae all’ultimo, prima che le dita ruvide possano sfiorare la plastica.
«Mi scusi, agente, ma… la divisa che fine ha fatto? Non vorrei consegnare il cartellino alla persona sbagliata.»
Ora sono le narici dell’uomo a fremere, un palpito di fuoco che gli dipinge i lineamenti spigolosi in una luce più netta e dura. Lys lo sfida a fare un passo avanti, a trattenerla e a sobbarcarsi l’inconveniente di una fila che non farà che aumentare. Rigira l’ID tra le dita.
«Sa quel che si dice, di questi tempi non ci si può fidare di nessuno.»
«Dammi quel—»
«Dawnhall!» Abbaia l’uomo di Mid, marciando verso di loro.«C’è gente che aspetta. Che stai facendo?»
Il badge appuntato alla tasca della giacca recita L. Stevenson, un nome più falso di una banconota da tre dollari, ma i gradi sono autentici, e da come l’agente Dawnhall soffoca un ringhio e abbassa lentamente le mani, sono giusto giusto più alti dei suoi.
«Il mio lavoro, signore.» Lys si dipinge in faccia la sua miglior espressione innocente, quando Stevenson la squadra da capo a piedi. La recita ormai è collaudata: c’è tutto, il malcelato fastidio per il suo aspetto trasandato, l’atteggiamento da militare con un palo al posto della spina dorsale, le sopracciglia inarcate in direzione dell’espressione adombrata dell’altro agente.
«Ci sono problemi?»
«Nossignore. Come stavo dicendo al suo collega — è un collega, vero? — non vedere la divisa è un po’ fuorviante. Con tutti gli avvertimenti di fare attenzione…»
Senza dire una parola, Dawnhall pesca una catenina dallo scollo della giacca e le dondola davanti al naso le piastrine militari. Di secondo in secondo le sue labbra si fanno sempre più strette, la mascella che lavora come una pressa. Da dove tiri fuori l’autocontrollo, Lys non ne ha idea, ma annota il dettaglio. Almeno non è uno di quegli stronzi fanatici che prima sparano e poi fanno domande. 
Gli porge l’ID. La foto stampata sulla plastica le rivolge uno sguardo tetro, annoiato, l’occhiata di un ragazzo sulla soglia della trasformazione in teppista. Alistair Grey, 18 anni, generalità più o meno vere — il giusto pizzico di realismo per dare risalto alla menzogna. L’agente arraffa il bottino prima che lei ci pensi due volte, quasi le sfila un guanto con quella sua mano ruvida. Non la molla per un solo istante, fissandola negli occhi. I suoi sono quelli di un leone, castano dorato, profondi, capaci di divorarla in due morsi, come se fosse pronto a vederla ritrarsi per l’ennesima volta. La sua espressione si allenta appena quando lei rimane immobile, come un coniglio all’imbocco della tana. In attesa.
Stevenson intercetta la tessera prima che il collega possa anche solo sbirciarla.
«Ti dò un indizio, ragazzino: se nessuno gli sta sparando contro, è dei nostri. Ora fuori dai coglioni. Dawnhall, tu torna dentro a prepararti.»
«Ma—»
«Niente ma. Hai altre mansioni. Al resto penso io.»
Per un attimo Lys ha la certezza che Stevenson verrà ficcato di testa in un mucchio limaccioso di neve, ma per qualche miracolo l’armadio biondo riesce a trattenersi e batte in ritirata, testa bassa, sbuffando una nuvola di condensa. Il suo fiato è bianco sale sotto i fari del posto di blocco.
Lys ondeggia sulla punta dei piedi, cercando di non tremare. 
«Un raggio di sole fresco di arrivo.»
Stevenson alza appena lo sguardo, con l’aria di uno a cui hanno appena sputato nel caffè. «A posto. Prendilo e vattene.» Le preme l’ID contro il petto. Con due dita, come se avesse paura di beccarsi una malattia contagiosa semplicemente toccandola. «E stai alla larga da Oakridge. Stanno mobilitando altre pattuglie.»
«Perché?»
«Disordini.»
«E non te ne preoccupi?»
Stevenson la fissa, corrucciato.
«Io faccio solo la guardia di frontiera. Finché non arrivano qui, non me ne frega niente. Ora sparisci. È il tuo cazzo di lavoro.»
Sparisci. Quando i bambini alle feste di compleanno giocavano ad impersonare gli X-Men, azzuffandosi per accaparrarsi i poteri più interessanti, Lys scansava l’invisibilità come la peste. Non è un talento, è la risposta di una società che cerca disperatamente di far sì che le sue strade sembrino pulite. Una città disposta a rendere la cappa che l’avvolge ancora più soffocante. Si chiede se verranno lanciati lacrimogeni, se qualcuno verrà a cercarla nella nebbia con il manganello. 
Sparire. D'accordo. Nessun problema.
È il suo “cazzo di lavoro”, dopotutto.
«Signorsì, signor capitano.»
Stevenson esala un verso disgustato. Fosse per lui avrebbe già strappato lo sfollagente dalla cintura per taserarla, ma Lys gli cammina davanti come se non vedesse la sua bocca storta, il suo badge finto e la sua stupida divisa. È fuori dal recinto, e la città è sua. Adesso arriva la parte più facile: inforca gli auricolari e accelera, scaldando il passo mentre pregusta la corsa. 
Ora di correre.
I can feel it on the back of my tongue
All of the words getting trapped in my lungs
Heavy like a stone, waiting for the river to run

Mentre si allontana sente lo sguardo di Dawnhall fisso sulla schiena. 
L’ha detto, che questa giornata è cominciata male.
   
 
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