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Autore: Mary Black    12/09/2018    2 recensioni
I giorni passano uno dopo l'altro, o almeno così le sembra – scopre di essere incapace di misurare il tempo, senza il suo orologio regolato sul sole, scopre di non saper nemmeno restare sola con se stessa, senza la sua vita a farle da contorno.
Fuori dalla sua cella, ogni tanto sente la musica. È un canto delicato, vibrante, ricco di note.
Forse un po' triste.
Lena lo ascolta con piacere, torturandosi le unghie e contorcendosi sul giaciglio. Tutto quel bianco la fa impazzire.
Si ritrova a pregare che il Visitatore torni una seconda volta.
Genere: Science-fiction, Suspence, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I Visitatori

 

Anno 2237



Lena si agita appena, nel sonno dorato che le sigilla le palpebre. È scossa da spasmi delicati, il suo corpo snello si flette, le sopracciglia scattano e quasi si congiungono sulla fronte aggrottata... ma poi si distendono, pacifiche, obbedienti.

Nel dormiveglia di velluto in cui è imprigionata, tutto è morbido, ovattato, caldo. Lena annega nei suoi sogni – remoti, incantevoli, niente labirinti, niente mostri.

 

*

 

È il vento a risvegliarla.

È un suono così fastidioso, così pungente. Lena cerca di ignorarlo, rigirandosi, dibattendosi, ma i suoi sogni si riempiono di spifferi, di fruscii, di quel crepitio da incubo che non le dà tregua – il vento le fischia nelle orecchie, le grida nella testa, e i suoi sogni si infrangono uno dopo l’altro, in una dissolvenza perlacea che le fa venire voglia di cavarsi gli occhi, pur di non guardare, pur di non dover capire.

Si risveglia con una scossa. Si sente il corpo pesante, viscido; un cerchio di fuoco le corre lungo le tempie, ma è niente in confronto alla pressione che avverte in gola, alla sensazione di soffocare.

Con un movimento convulso, Lena sbarra gli occhi. Il panico esplode quando si rende conto che non vede niente. No, niente non è corretto, ma è tutto sbagliato, tutto distorto. Lena sbatte freneticamente le palpebre, ma onde concentriche d’un azzurro anomalo si schiudono come fiori nel suo campo visivo.

Lena inizia a piangere senza nemmeno rendersene conto. È così confusa, così spaventata. Il dolore alla testa è feroce, le impedisce di pensare bene, di schiarirsi le idee – i suoi pensieri sono lontani, come reminiscenze perdute, come ricordi di una notte passata a bere per dimenticare un amore spezzato.

Le lacrime le colano sul viso, ma non si mescolano allo strano liquido gelatinoso e caldo in cui è immersa. Lena sa di dover stare calma, ma tra saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo.

Le sembra di essersi svegliata da ore, di essere prigioniera da ore, e invece non è passato neanche un minuto. Con la mente raschiata dal panico, non si accorge subito che i singulti del suo pianto isterico le stringono la gola già serrata, ed è con un brivido di autentico terrore che avverte di avere qualcosa ficcato giù per la trachea.

Impazzita, Lena cerca di portarsi le mani al collo, ma il liquido d’un azzurro ultravioletto è denso, melmoso. Le sue braccia si muovono con esasperante lentezza, conquistano faticosamente un centimetro dopo l’altro, finché alla fine le dita le si schiantano contro il mento.

Rantolando, Lena si tasta frenetica il volto. Avverte qualcosa di liscio, incredibilmente freddo, sembra una specie di boccaglio. È una maschera, realizza con un brivido, una maschera che le permette di respirare anche nel liquido violetto in cui è immersa.

Il crepitio, insistente, continua, ronzandole nelle orecchie. Lei capisce che si era sbagliata: non era vento, non lo era affatto, è il rumore della melma che la tiene prigioniera, è il suono delle onde concentriche che si allargano quando si muove.

Afferra i bordi della maschera e tira, incurante delle conseguenze.

Una piccola parte del suo cervello annebbiato sa che è una pessima idea strapparsi dalla gola la macchina che le permette di respirare, soprattutto quando si trova immersa in una sostanza sconosciuta. Ma la parte irrazionale di lei – quella che ha visto i suoi sogni crollare in dissolvenza e ha aperto gli occhi su un mondo di onde d’un azzurro ultravioletto – non sopporta la sensazione che le dà la gola ostruita, non sopporta di essere in trappola.

Lena tira e non fa male, ma si sente comunque scoppiare il cuore nell’avvertire il tubo di metallo, gelido, che scivola contro le pareti della sua gola.

Lo sputa via, grata di essere arrivata alla fine, e sente sulla lingua il gusto del liquido azzurrino. È salato, come il mare, e allo stesso tempo è un sapore completamente nuovo.

Alieno, le suggerisce una vocetta beffarda nella sua testa.

Già senza fiato, Lena si costringe a spingersi attraverso la melma spettrale. Il suo corpo si muove lento, troppo lento, ma alla fine trova una parete di vetro con la punta delle dita. La tasta, ma sembra infinita, e allora fa l’unica cosa che le pare sensata, col cervello a corto di ossigeno e la vista distorta: risale verso l’alto. Nuota tra le onde concentriche con lentezza, col crepitio che le scrocchia nelle orecchie e la testa che esplode, finché il suo viso infrange la superficie del liquido e lei si ritrova di nuovo a contatto con l’aria.

Trae un respiro ansante, convulso. L’aria fresca è meravigliosa lungo la gola infiammata, sulla sua pelle accaldata.

Schiude gli occhi, tremante, ma non vede altro che pareti liscissime, d’un bianco abbagliante, e la vasca di vetro in cui è ancora immersa, piena del liquido d’un azzurro ultravioletto che crepita piano.

Con la mente ancora annebbiata dal dolore, cerca di capire dove possa essere, ma non ci sono punti di riferimento, né finestre. L’unica certezza è il calore della melma che ondeggia attorno al suo corpo cosparso di tremiti, la melma che fruscia suadente in quella che, lo capisce all’improvviso, è una capsula di sopravvivenza.

Dove sono finita?

Lena si costringe ad issarsi fuori dalla capsula, tremante. I polsi le cedono diverse volte, ma alla fine riesce a scivolare sul pavimento bianco. Il tonfo del suo corpo bagnato è attutito dal liquido gelatinoso che le è rimasto addosso, ma lei scatta lo stesso a guardarsi intorno. Ha il terrore che la sentano.

Sa che non è più sulla Terra. Lo sa perché non ha mai dimenticato, nemmeno quando dormiva, che la guerra con i Visitatori è molto lontana da una fine. Non ricorda molto di come sia finita nella capsula – una luce, un dolore sordo dietro il collo, uno strappo -, ma è certa di essere stata rapita. Come tanti altri prima di lei.

Nel silenzio remoto della stanza dalle pareti d’un candore abbacinante, Lena sente rimbombare il battito del proprio cuore.

E poi un fruscio, un crepitio, una musica.

Lena sviene prima di poter percepire il tocco freddo del Visitatore sulla nuca.

 

*

 

Era un giorno di maggio come tanti, quando la prima astronave aliena comparve in cielo.
Faceva caldo, un caldo surreale per un mese così pacato – il mese delle spose, Kyle ripeteva sempre che loro due avrebbero scelto un dicembre irto di ghiacci, non rose e albe dorate, come tutti gli altri.
Lena ricorda che quasi correva tra la gente che affollava la piazza, coi libri stretti al petto e i capelli neri che le ricadevano tra le ciglia. Qualche passante si voltava a guardarla, incuriosito: dopo la rivoluzione tecnologica del 2169, erano in pochi a usare ancora i libri. Il cartaceo era diventato una rarità, ma non nel mondo accademico, dove conviveva pacificamente accanto agli schermi ultrapiatti e alle celle di memoria impiantate nella corteccia cerebrale. Era anche per questo che Lena aveva scelto quel campo – amava la sensazione delle pagine sotto le dita, il fruscio setoso quando le scorreva. Suo padre sosteneva che era stata una pessima idea, che avrebbe dovuto dedicarsi all’ingegneria aerospaziale e fare richiesta per andare a vivere in orbita, su una delle quattro stazioni che gravitavano attorno al pianeta – era quello il futuro, diceva. Lena non gli aveva dato retta.

Scostandosi una ciocca ondulata dal viso, accelerò il passo. Era in ritardo, come sempre, ed era anche più grave del solito: il professore di letteratura la stava aspettando per discutere del suo dottorato, e non era proprio il caso di farlo attendere.

Ricorda come se non fosse passato più di un anno il momento in cui era inciampata, spargendo una decina di libri piuttosto costosi sul selciato della piazza. Le era sfuggita un’imprecazione a denti stretti, ma non aveva fatto in tempo a chinarsi che erano cominciate le grida, seguite da un silenzio attonito ancor più agghiacciante.

Un’ombra scura era scesa sulla piazza, lenta ma inesorabile. Tutti guardavano in alto, ma Lena si sentiva il collo rigido, bloccato. Aveva ancora un braccio allungato per afferrare uno di quegli stupidi libri.

Chissà se anche Kyle sta guardando in alto.

In cielo, un triangolo perfetto si stagliava contro il sole, come in un’eclissi.

Nero, nero, nero.

 

*

 

Lena riprende conoscenza dopo giorni di affilato nulla, ma non lo sa. Le sembra passata soltanto una manciata di istanti da quando si è issata fuori dalla capsula di sopravvivenza e si è lasciata cadere sul pavimento candido, la pelle velata d’azzurro violetto – ricorda con orrore il crepitio del liquido contro le orecchie, il tubo di metallo infilato in gola.

È di nuovo in una stanza completamente bianca, le pareti sono arrotondate, concave. Gli unici elementi presenti sono il ripiano su cui è sdraiata e un riquadro di un azzurro tenue, vacuo, che si increspa appena, all’apparenza senza uno schema, incassato nel muro davanti a lei. Lena crede che sia l’ingresso della sua cella, ma non si fida abbastanza di se stessa e delle sue impressioni per provare ad avvicinarsi e ad aprirla.

La testa le fa ancora un male del diavolo, tutto quel bianco le dà fastidio agli occhi. Il ripiano su cui l’hanno sistemata non è duro, ma non è nemmeno un letto di piume e il suo corpo indolenzito lancia la sua protesta in scricchiolii sinistri quando lei si solleva a sedere.

Ha addosso una specie di camice, del consueto candore immacolato. È morbido e caldo, ma Lena dubita che sia stoffa: sotto le dita ha la consistenza dell’acqua quand’è agitata, sembra turbinare sotto i suoi polpastrelli esitanti.

Lena studia quella tonaca per ore, senza sapere cosa fare. Nella stanza non c’è nient’altro da poter osservare, e le sue mani con le unghie rosicchiate a sangue non sono un bello spettacolo ­– ed è meglio che non ci pensi, che non rimugini.

Il tempo pare non passare mai. Lena tenta di dormire, ma il ricordo della capsula – le onde concentriche, quell’azzurro alieno, il crepitio beffardo – glielo impedisce. Teme che se precipitasse in un sogno, questa volta non si sveglierebbe.

Se solo ci fosse una finestra.

 

*

Lena ricorda bene quand’è scoppiata la guerra. Non era trascorsa neanche una settimana dall’arrivo degli alieni – le reti nazionali non facevano che ronzare di notizie sui Visitatori, chi sono, cosa vogliono, perché non se ne vanno.

Le cose erano iniziate a sfuggire di mano nell’arco di cinque, maledetti giorni. Lena non sa cosa sia successo, ma conosce abbastanza il suo governo per sapere che probabilmente ha peccato di “prudenza”, a voler essere indulgenti.

Erano cominciate le luci nel cielo, a tutte le ore della notte. I notiziari descrivevano minuziosamente gli attacchi terresti ai danni dei triangoli neri che sostavano nell’atmosfera. Peccato non arrecassero nessun danno. Le astronavi aliene continuavano a girare in orbita, apparentemente imperturbabili. Non c’era stata risposta.

Poi erano cominciate le sparizioni. In tutto il mondo. Quasi soltanto donne.

Era tardi per la diplomazia, ma i politici ci avevano provato lo stesso. Nessuna risposta, solo luci accecanti nel cielo.

La popolazione era insorta, c’erano stati disordini, proteste, caos, e infine guerra. Guerra e morte in ogni angolo del pianeta.

Nessuna risposta – solo luci e quel silenzio asettico, inumano.

Lena ricorda la paura, mentre vedeva il suo mondo scomparire in mille, fragili pezzi. I governi cadevano, le città venivano messe a ferro e fuoco, il panico dilagava, come un’infestazione letale.

E la gente continuava a sparire.

Le luci nella notte ora non significavano più astronavi amiche pronte a cacciare il silenzioso invasore. Ora le luci gridavano che la caccia era aperta.

 

*

 

Quando il riquadro celeste incassato nel muro si solleva, Lena quasi non se ne accorge. È persa nei suoi pensieri, nei ricordi terribili della guerra – ripensa a Kyle, Kyle dal sorriso appena accennato che non ti faceva mai capire se ti amava sul serio oppure no, Kyle con gli occhi di un blu quasi marcio e la voce piena.

È il ronzio ad attirarla. È appena percepibile, poco più del frullo d’ali di una farfalla, ma nella stanza bianca non c’è niente, non succede niente, non esiste niente, e quindi Lena se ne accorge.

Solleva lo sguardo in un gesto meccanico, il corpo snello ancora abbandonato sul ripiano adibito a giaciglio, e il respiro le si spezza in gola.

Sulla soglia, il Visitatore sosta immobile, silenzioso.

Non assomiglia a un essere umano, anche se a una prima occhiata i contorni possono sembrare gli stessi. È alto, altissimo – Lena stimerebbe quasi il doppio di lei nel suo metro e sessantadue, se non fosse sotto choc.

Ha quattro arti, lunghi, affusolati, che terminano in appendici curiosamente rigide, ramificate. L’epidermide è di un grigio lucente, traslucida – sotto pelle danza un intrico di vene d’un azzurro violetto, ombre più scure delineano la struttura dello scheletro, un bagliore distante pulsa negli organi vitali, con un brillio luminescente che sparisce ad intermittenza.

Il Visitatore, con movimenti lenti, aggraziati, rassicuranti, posa davanti a lei una ciotola bianca. Al suo interno giacciono cinque pastiglie dai colori brillanti. Lena fatica a guardarle.
Afferra la ciotola con mani tremanti, indugiando con lo sguardo sugli arti inferiori dell’alieno. Lui – o lei? – non indossa nulla, eppure non ha tratti sessuali distinguibili ad occhio nudo.

“Prendile.”

Il sussurro le rimbomba nella testa, perfettamente chiaro, perfettamente udibile, un’eco un po’ metallica a sottolineare che non è una richiesta. In un angolo remoto del suo cervello, Lena realizza di aver udito come una musica, ma non se ne ricorderà per molto tempo ancora, perché in quel momento decide di sollevare lo sguardo sul volto del Visitatore.

Dove dovrebbe esserci il viso dell’alieno, non c’è altro che quella pelle traslucida, grigio fumo. Due piccole fessure allungate, nere come abissi, si schiudono nella parte alta del volto. Sono occhi, illeggibili, extraterrestri – neri come un’eclissi, ma senza luce. Sulla cima del cranio, un intreccio di ossa curiosamente ritorte e aggrovigliate tra loro sembra proteggere la scatola cranica. La testa è collegata al torso da un collo lungo, sinuoso, che presenta due tagli netti da ciascun lato – se Lena fosse meno sconvolta, forse si accorgerebbe della vibrazione impercettibile che scuote i due lembi di pelle quando la musica tintinna nella stanza.

Lena si caccia le pastiglie in gola pur di farlo andare via, le iridi velate di lacrime.

“Sei stata brava.”

 

*

 

Quando il Visitatore esce dalla stanza, il riquadro celeste ritorna al suo posto, vorticante.

Se Lena non fosse così stremata, forse si accorgerebbe della musica, appena fuori dalla soglia della sua prigione. È una conversazione, e nella sua lingua suonerebbe più o meno così.

“Ti ha visto.”

“Sì.”

“Non devi parlarle, conosci la procedura.”

“È inoffensiva...”

“No, è irrilevante. Ricordalo.”

 

*

 

Abbandonata sul suo giaciglio inospitale, Lena ripensa con angoscia ai suoi ultimi giorni sulla terra.

Ricorda come il pianeta fosse devastato dalla guerra, dalla violenza, dal terrore. Senza un governo a guidarla, la gente pareva impazzita: c’era chi si comportava seguendo un istinto primordiale di pura sopravvivenza, chi si lasciava dominare dai propri demoni affamati, chi si nascondeva come un ratto. E poi c’erano i fanatici, che la notte salivano sulle colline e accendevano fuochi per venerare gli dei-alieni, venuti a distruggere un mondo corrotto, venuti a donare il silenzio della loro razza superiore. Tra le danze caotiche, i fanatici imploravano di venire scelti e di sparire tra i fasci di luce che piovevano dal cielo – Lena ricorda ancora le loro litanie nauseanti nella notte, i canti tribali, le scintille dei roghi.

Lei e Kyle erano scappati via, attraversando foreste, fiumi, villaggi disabitati. Dappertutto c’erano solo morte e disperazione. E la notte, le luci. Nessuna risposta da loro.

Lena ricorda il volto duro di Kyle, mentre si aggiravano per rovine fantasma, mano nella mano, come se l’umanità si fosse estinta e al mondo fossero rimasti soltanto loro. Ricorda la paura, l’incertezza – ma anche l’euforia, la scarica di adrenalina, l’amore viscerale che le si risvegliava dentro ogni notte, quando scivolava su di lui, “Così se ci dovessero prendere, saremo insieme, insieme”, sospirato sulla sua bocca fino a non averne più le forze.

E poi avevano incontrato loro. La Resistenza, si facevano chiamare. Era un nutrito gruppo di persone, riunite sotto la guida di un’assemblea. Cercavano di riportare l’ordine in una terra schiava del terrore, e allo stesso tempo abbracciavano la via della diplomazia. I loro obiettivi a breve termine prevedevano di riuscire a ristabilire la pace sulla Terra. A lungo termine, invece... l’idea era di stabilire un contatto. Era la prima razza aliena con cui gli esseri umani entravano in contatto, ed era un avvenimento troppo importante per non sfruttarlo.

Kyle aveva annuito, quando avevano spiegato loro che il governo era stato avventato nel dichiarare guerra a una potenza aliena sconosciuta. Era sembrato così ragionevole, con la luce del fuoco a illuminarne i lineamenti decisi, così concentrato. Uno dei tre dell’assemblea a capo della Resistenza aveva assicurato loro che gli alieni non erano ostili: d’altronde, avevano forse mai risposto agli attacchi delle astronavi terrestri? Avevano mai distrutto o minacciato l’umanità? Kyle era sbottato in una risata un po’ amara, ma lei sapeva che condivideva le idee di quel gruppo di ribelli. Anche Lena era d’accordo, ma era rimasta zitta – pensava alle luci nella notte.

Erano rimasti con la Resistenza. Un posto fisso, cibo tutti i giorni, poche responsabilità... Lena sapeva fin dall’inizio che non era destinato a durare.

Chiusa nella cella dalle pareti d’un bianco abbacinante, si sente un topo in trappola. Ripensa ai canti dei fanatici nella notte, che pregavano di essere scelti, e una risata squilibrata le sgorga dalle labbra rosicchiate a sangue.

E pensare che era stata così stupida da unirsi alla Resistenza, da credere che i Visitatori non fossero invasori, non fossero crudeli. Aveva davvero creduto che fosse stata la solita politica umana, distruttiva e poco lungimirante, a rendere la guerra inevitabile. Era stata stupida, talmente stupida...

Ora che è prigioniera e Kyle là fuori chissà dove, a milioni di chilometri da lei, le sue idee non le sembrano più tanto superiori. La risata s’interrompe all’istante e Lena soffoca un singhiozzo tra i denti, il volto sepolto tra le mani.

 

*

 

I giorni passano uno dopo l’altro, o almeno così le sembra – scopre di essere incapace di misurare il tempo, senza il suo orologio regolato sul sole, scopre di non saper nemmeno restare sola con se stessa, senza la sua vita a farle da contorno.

Fuori dalla sua cella, ogni tanto sente la musica. È un canto delicato, vibrante, ricco di note.

Forse un po’ triste.

Lena lo ascolta con piacere, torturandosi le unghie e contorcendosi sul giaciglio. Tutto quel bianco la fa impazzire.

Si ritrova a pregare che il Visitatore torni una seconda volta.

 

*

 

Le sue preghiere vengono esaudite da un dio che non esiste, e l’alieno torna a farle visita. Si palesa nella stanza senza un fruscio e si arresta sulla soglia, immobile.

Senza il terrore della prima volta, Lena riesce a guardarlo meglio. La sua pelle traslucida che permette di vedere cosa succede appena sotto la superficie la affascina, con le ombre delle ossa, i guizzi dei capillari e delle vene, il bagliore indistinto degli organi. Lena lascia scorrere lo sguardo sugli arti lunghi, esili, sulle appendici ritorte dove, in un umano, ci sarebbero le mani.

E poi lo guarda in faccia.

Quel volto alieno con la pelle tirata sulle ossa le mette i brividi. Non ha una bocca, un naso, niente: solo quella pelle grigio fumo, appena traslucida, e le fessure oblique degli occhi – sembrano buchi neri, magnetici, impossibili.

L’appalto osseo sul cranio della creatura le ricorda un intrico di rovi, solo che questi sembrano fatti di metallo e non di spine.

Nonostante la mostruosità di quel volto, Lena non è spaventata. Non come l’altra volta, almeno.

Forse è perché il Visitatore non ha un’aria affatto minacciosa, immobile sulla porta come la statua di un idolo pagano di altri tempi – o forse è il sollievo a impedirle di provare paura, il sollievo di non dover più subire quella solitudine d’un bianco crudele.

“Seguimi.”

La voce metallica le rimbomba nella testa con un crepitio soffuso. Nella cella, risuonano debolmente alcune note.

Lena aggrotta appena le sopracciglia. Non sa come sia possibile, ma capisce perfettamente quello che l’alieno vuole dirle. Lo capisce tra i suoi pensieri, chiaro, lineare, ma le sue orecchie avvertono solo quella musica che – ormai le è piuttosto chiaro – è la sua lingua.

Non si muove, il capo sollevato per guardare quel volto privo di lineamenti.

“Riesci a capirmi?”

“Sì.”

Il tono non cambia, sempre freddo, sempre metallico. Non sembra ostile, ma lei non si alza lo stesso.

“Seguimi.”

Senza aggiungere altro, le volta le spalle ed esce dalla sua cella.

Lei fissa con vaga apprensione il vuoto che ha lasciato, ma alla fine si decide a seguirlo. D’altronde, potrebbe fare diversamente? Non vuole nemmeno immaginare che cosa potrebbe succedere se si rifiutasse, se il Visitatore dovesse obbligarla a obbedire – il pensiero di quegli arti ramificati addosso le mette i brividi.

Con cautela, esce dalla stanza. Si ritrova in un corridoio lungo, asettico, del solito bianco snervante – l’illuminazione è troppo alta, le brucia gli occhi, le ricorda i suoi sogni che crollavano in dissolvenza.

L’alieno è fermo, la aspetta. S’incammina senza voltarsi indietro.

“Dove mi stai portando?”

Nessuna risposta.

Camminano per qualche minuto, senza un suono. C’è qualche svolta, ma loro proseguono sempre dritti, in un paesaggio candido che la costringe a tenere socchiuse le palpebre. Lena si ritrova quasi a rimpiangere il liquido d’un azzurro ultravioletto.

“Chi sei?”, ritenta, esasperata.

L’alieno non dà segni d’averla sentita.

Lena sta quasi per mettersi a urlare, quando lo sguardo le cade su un oblò che interrompe il corridoio. Prima che il Visitatore possa anche solo pensare di fermarla, scatta verso quella specie di finestra, vi si aggrappa con le unghie martoriate.

Siamo in orbita, pensa con un fremito.

Là fuori, c’è il vuoto, nero, oscuro. La Terra è vicina, luminosa, tutta azzurra e verde – di un colore così pacifico, così equilibrato, non quel bianco che non la fa dormire.

Lena sente gli occhi riempirsi di lacrime, al pensiero di essere così vicina. Così vicina.

Kyle...

“Seguimi.”

L’eco metallica la raggiunge, distante, disinteressata. L’alieno non si è nemmeno fermato a fissarla. D’altronde, dove potrebbe andare?

Dove potrebbe scappare?

Dopo un interminabile minuto, Lena si stacca dall’oblò e prosegue lungo il corridoio. Sa che resistere non ha alcun senso.

Finalmente, arrivano a destinazione. Il Visitatore la fa entrare in una stanza grande, circolare, piena di macchine che ronzano piano, che si illuminano a intermittenza, fioche.

Lena non riesce a intuire a cosa possano servire, ma sente i brividi artigliarle la schiena.

“Siediti.”

Lei obbedisce, un po’ stordita. Lungo la parete più lontana della stanza, corre una capsula di sopravvivenza, il liquido al suo interno crepita, beffardo. Il panico minaccia di sopraffarla al pensiero di rischiare di dover tornare lì dentro.

Si siede su un ripiano simile al suo giaciglio, osservando l’alieno che sfiora appena le macchine di lucido metallo con quegli arti nodosi. Quasi non le tocca, ma quelle rispondono lo stesso al suo comando. Pigolii, luci, come quelle nella notte.

Lena prende un respiro tremante, prima di parlare.

“Siamo su una delle vostre astronavi. Lo so. Chi siete? Cosa volete?”, ci pensa un attimo, poi si corregge, “Cosa vuoi da me?”

Nessuna risposta. Quelle spalle aguzze restano voltate verso le macchine, come se lei neanche esistesse.

Un principio di panico le serra la gola, ma Lena lo domina con rabbia – deve controllarsi, lo sa, Kyle non vorrebbe mai che si lasciasse uccidere per un commento di troppo.

Il Visitatore si volta e le si avvicina. Tiene in mano una specie di provetta, solo molto più lunga del normale: sarà almeno venti centimetri.

“Il braccio, prego.”

Lena resta paralizzata, incapace di muoversi.

Ci siamo, pensa, ora mi ucciderà. Mi staccherà un braccio o mi inietterà qualcosa di letale dritto in vena, e io non rivedrò mai più la Terra, mai più il sole, mai più Kyle.

Mai più.

Scuote il capo con decisione, stringendosi le braccia al petto. I capelli corvini le ondeggiano contro le guance scarne, le ostacolano la visuale, ma lei non ha occhi che per i bagliori alieni che si intravedono appena sotto la pelle del Visitatore, quella pelle che non è altro che un velo di fumo.

Vivono in un mondo di bianchi, grigi, azzurri. Forse non possono vedere altro.

“Non ti farò alcun male. Il braccio, prego.”

Lena si pianta i denti nel labbro per non lasciarsi sfuggire il gemito terrorizzato che le era risalito in gola. Sa di non doversi mostrare spaventata, ma tra saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo.

“Mi serve il sangue. Il braccio, prego.”

Quel tono così cortese e così freddo la manda fuori di testa.

Dannati loro e i loro occhi neri come abissi, dannata la loro fissazione per il bianco, dannata la loro voce che sembra un canto e dannata la loro traduzione meccanica che le risuona in testa in mille echi distorti.

“No”, ripete lei, stridula, “Voglio sapere cosa succede sulla Terra. Voglio sapere perché, voglio tornare a casa!”

L’alieno inclina lievemente il capo verso di lei per guardarla meglio.

“Il braccio, prego.”

“No!”

Il Visitatore non si scompone. Si limita ad avvicinarle alle braccia incrociate la provetta.

Una luce, uno scoppio di dolore, e quella comincia a riempirsi di sangue. Rosso, scuro, umano.

Lena perde completamente la testa.

Cerca di muoversi, ma scopre di essere come paralizzata sul posto da una forza sconosciuta, da quella luce che le piove serafica sulla pelle. Può ancora parlare, però, e allora si mette a gridare, senza ritegno, le lacrime che le squassano il petto.

“Lasciami andare, lasciami stare! Voglio andare a casa... Oh, ti prego, ti prego, farò tutto ciò che vuoi, qualunque cosa!”

Nessuna risposta.

“Perché?”

Il Visitatore canta qualcosa in risposta, ma stavolta la traduzione non le risuona nella testa.

Non può parlare con me. Vorrebbe, ma sa di non dovere.

Il sangue continua a riempire la provetta, piano.

 

*

 

I giorni passano tutti uguali, nella stanza bianca che è diventata la sua prigione.

Il Visitatore non è più tornato, da quando le ha preso il sangue. Le pastiglie continuano ad arrivare, saziano la sua fame e la sete – ma non possono fare niente per l’insonnia, per gli incubi.

Lena si rosicchia le unghie e si tortura le labbra, ma sa che cosa fare la prossima volta che verrà a trovarla.

Non ha intenzione di arrendersi senza combattere.

 

*

 

Il Visitatore la va a prendere, silenzioso come sempre. Il rettangolo celeste che tiene chiusa la stanza si solleva, crepitante, e Lena segue l’alieno nel corridoio, docile.

Cammina in silenzio, senza una parola – ripensa ai fanatici coi loro roghi nella notte, ripensa alle suppliche lasciate senza risposta.

Poi vede una curva, il corridoio si snoda in un secondo svincolo. Sempre bianco, sempre vuoto.

A volte, si è chiesta se su quella maledetta astronave non ci siano soltanto lei e lui.

Lena scatta e si mette a correre, imboccando l’altra via senza fermarsi. Il respiro le si affanna subito, si sente debolissima, e sa, lo sa, che non c’è alcuna speranza, alcuna possibilità di salvezza, ma che cosa può fare? Gli esseri umani sono creature irrequiete, che amano la libertà, che non sopportano una fine in gabbia.

Il corridoio sembra non finire mai. Lena sente solo il rumore del suo respiro spezzato e della sua corsa sempre più debole.

E poi all’improvviso eccone altri due. Alti, spettrali, come mostri in un labirinto di specchi che riflettono solo luce bianca così forte da ferire gli occhi – Lena pensa ai canti nella notte, al credo blasfemo di quei pagani che veneravano gli dei-alieni, e per un attimo le sembra di capire.

Li supera di corsa, improvvisamente rapida, improvvisamente piena di energie, ma loro non cercano nemmeno di fermarla. Come sempre, non hanno reazioni, nessuna che lei possa notare.

È con sgomento che si rende conto di essere tornata davanti alla sua cella. Lui è dentro che la aspetta.

“È inutile fuggire. Non c’è nessun posto dove andare.”

La sua voce metallica trafigge secca i suoi pensieri e la musica si spande, dolce come miele. È incredibile che un essere così imperturbabile, così granitico, sappia produrre dei suoni talmente belli, così intensi da farle salire le lacrime agli occhi.

“Perché lo fate? Che cosa volete?”

Nessuna risposta, solo quel silenzio un po’ beffardo che le ricorda il crepitio della melma azzurrina.

Le cedono le caviglie e crolla a terra. I capelli neri le si chiudono attorno al volto quando si affloscia su se stessa.

Il Visitatore lascia sul suo giaciglio la consueta dose di pillole e nutrienti che servono a tenerla in forze, e Lena capisce che forse una speranza c’è.

“Non le prenderò più, se non inizierai a parlarmi. E se mi costringi, mi farò del male.”

La sua voce risuona tagliente. L’alieno non dà segno di averla sentita e non si volta a guardarla, ma non sta più camminando per andarsene.

Lena continua, incoraggiata.

“Vorrei solo poter parlare un po’. Sapere che cosa ci faccio qui, che cosa succede sulla Terra, come sta...”

Come sta Kyle, stava per dire, ma si morde le labbra, incerta.

“Non sono un pericolo per te. Puoi parlare con me...”

Il Visitatore esce dalla stanza senza un suono.

Lena si torce una ciocca di capelli e inizia a gridare senza nemmeno rendersene conto.

“Impazzirò se continuerai a non parlarmi. Odio tutto questo maledetto bianco!”

Nessuna risposta.

 

*

 

Il Visitatore non le parla, ma da un giorno all’altro la luminosità nella sua cella si affievolisce, fino al punto in cui il bianco non le brucia più gli occhi.

Allora non sei un mostro.

Lena sa che cosa fare.

 

*

 

Quando l’alieno ritorna per portarle le pastiglie, Lena lo attende seduta sul letto a gambe incrociate. Non riesce a contare il tempo, ma il suo corpo ha sviluppato una sorta di sveglia interna e riconosce da solo il momento in cui arriveranno i nutrimenti, così quando le viene fame lei sa di doverlo aspettare.

Quando le posa vicino la ciotola con le pillole, lei la butta ostentatamente sul pavimento.

“Non prenderò più una sola di queste robe, senza una spiegazione.”

Lui resta ad osservarla per un po’, o almeno quella è l’impressione che le dà. Non è per nulla espressivo, col volto senza lineamenti e gli occhi neri come abissi.

“Voi umani siete una razza strana.”

Il sollievo è così intenso che Lena rischia quasi di mettersi a piangere.

L’alieno la guarda, immobile.

“Io rispondo se tu rispondi. Chi è Kyle?”

La musica del suo canto si spande nella stanza, suadente, incantevole, ma lei è paralizzata e non l’apprezza.

Kyle.

Non avrebbe mai immaginato che il Visitatore sapesse. Come può essere? Forse le legge nella testa, esattamente nello stesso modo in cui ci infila la traduzione metallica del suo canto.

Forse...

“Ne parli ogni notte. Quando sogni. Kyle, Kyle, Kyle. Continui per ore.”

Lena resta immobile, paralizzata dallo stupore.

Continui per ore... E tu ascolti, ogni notte. Per ore.

L’alieno è incuriosito da lei, non ha più dubbi. Forse potrebbe provare a sfruttare quest’interesse per ottenere qualche informazione, ma non sa se ne sarà mai capace, non le sembra di avere la lucidità mentale per farlo.

Scuote i capelli ondulati, raccogliendo le gambe contro il seno.

“Chi sei?”

“Io rispondo se tu rispondi.”

Lena si morde un labbro, infelice.

“Kyle è l’amore della mia vita. Sai cos’è l’amore?”

“Sì.”

Lei sgrana gli occhi, sorpresa. Aveva aggiunto quella domanda retorica con rabbia, sicura della risposta negativa, e invece...

“Chi siete?”

L’alieno resta in silenzio per un po’, poi comincia a cantare dolcemente, mentre la voce metallica del traduttore le si insinua nella testa.

“Siamo i Visitatori. Il nome della nostra razza non ha corrispettivi nel vostro linguaggio primitivo. Veniamo da lontano, da un pianeta freddo, bianco e azzurro. In cielo brillano due soli e ruotano cinque lune.”

Lei lo ascolta affascinata, suo malgrado. Per un attimo, dimentica di essere una prigioniera su un’astronave aliena, dimentica di essere stata rapita.

Attende che lui le ponga la sua domanda, ma quando non lo fa, prosegue.

“Siete come noi?”

“Sii più precisa, prego.”

“Hai detto che sai cos’è l’amore. Anche voi vi innamorate?”

L’alieno la guarda con quegli occhi neri in cui non brilla nessuna luce.

“Sì. L’amore porta avanti la nostra razza. E l’amore è finito tre secoli fa.”

Lena aggrotta la fronte. Non capisce bene che cosa lui voglia dire, sospetta che il traduttore debba adeguarsi alle diversità immense dei loro linguaggi, ma qualunque sia la ragione le parole dell’essere restano oscure, criptiche.

“Che cosa vuol dire che l’amore è finito?”

“Abbiamo smesso di produrlo.”

“L’amore non si produce” obietta lei, svelta.

“Ma le sostanze chimiche che lo regolano, sì.”

Lena si sente stringere il cuore in una morsa. Una parte della sua mente sta intuendo dove finirà il discorso, e l’irrequietudine inizia a scorrere, mischiandosi a un preludio di panico.

“Perché siete venuti qui?”

Non fa in tempo a finire la frase che un altro Visitatore compare sulla soglia. I tagli sulla sua gola vibrano quando comincia a cantare, una musica rapida, angosciante, feroce. La traduzione non viene attivata, ma Lena afferra il senso ugualmente.

Non parlare con l’umana.

 

*

 

Fuori dalla cella di Lena, i due Visitatori si fronteggiano con l’espressione immobile di sempre.

“Non devi parlare con lei. È una cavia.”

“Sì.”
“Ricordatelo.”

 

*

 

Nonostante l’avvertimento dell’altro, il Visitatore torna a trovarla. Chiude la soglia vorticante alle sue spalle, le posa la ciotola con i nutrienti accanto e poi rimane fermo nella stanza, in piedi, rigido, gli strani arti ritorti abbandonati lungo la figura affusolata.

Lena pensava già di impazzire, e invece eccolo di nuovo lì.

“Sei tornato” la propria voce colma di gratitudine la disgusta subito, “Temevo non potessi.”

“È così.”

“Ma sei qui.”

Nessuna risposta.

Lei stira le gambe davanti a sé, osservando incuriosita il suo volto senza lineamenti né espressioni, i tagli che vibrano sulla sua gola quando parla – quando canta.

“L’ultima volta che sei stato qui parlavamo dell’amore.”

Lui resta in silenzio, ancora. È un silenzio serio, puntiglioso, ma non disturbante – lui non le fa paura, anche se la tiene prigioniera in un mondo di un bianco soffuso.

Lena manda giù le proprie pillole nella speranza di renderlo più incline al dialogo, ma il Visitatore non si scompone. Gli occhi neri, vitrei, luccicano appena, ma per il resto è una statua di sale.

“Non ne puoi parlare, vero?”

Ancora silenzio. Lena pensa con terrore che forse non le parlerà mai più.

“No. Non è sicuro.”

“Per te?”

“Per te.”

Lena non insiste, anche se vorrebbe dirgli che lo sa che non è sicuro, che tutta la sua situazione non è altro che un grande, annunciato disastro, e che lo dovrebbe sapere anche lui, visto che sono stati loro a rapirla e a confinarla in una maledetta astronave aliena per Dio solo sa quale ragione.

Non lo fa, però.

“Cosa succede sulla Terra? Questo puoi dirmelo?”

L’alieno la guarda, immobile – un monolito grigio fumo, quegli occhi neri che calamitano la sua attenzione.

Quando inizia a cantare, Lena si sente sciogliere le gambe dal sollievo. Il bisogno di non restare sola è semplicemente lacerante. Anche più forte del desiderio di sapere che cosa sta succedendo sul suo mondo.

 “Il vostro governo si è riformato, la popolazione è sotto controllo. La guerra tra le nostre specie prosegue.”

E così la guerra non è finita. D’altronde, perché avrebbe dovuto? Loro rapiscono la sua gente, rapiscono gli umani, e chissà cosa diavolo ne fanno, chissà cosa faranno a lei... ma è un pensiero che non riesce a turbarla, non davvero – sull’astronave aliena, la crudeltà pare bandita.

“Dovete fermarvi. Avete seminato il caos...”

“Non è possibile.”

“La diplomazia è sempre la scelta migliore.”

L’alieno piega appena il capo da un lato, studiandola. Con interesse, le sembra.

Lena non conosce molto bene la politica planetaria terrestre o le strategie difensive adottate dal governo, ma conosce loro, i Visitatori, abbastanza da riuscire a intuire quale potrebbe essere il problema.

“Se non c’è dialogo è difficile che una guerra trovi la fine.”

“Spiegati.”

Lena sbuffa appena.

“Intendo che la tua razza non può entrare in un territorio alieno e non dire mezza parola. È considerato un atteggiamento ostile, sai.”

“Abbiamo tentato. Non siamo stati capiti.”

“Riprovateci.”

“Non sarebbe utile.”

“Funzionerà.”

“Come lo sai? Sei un esemplare giovane, anche per il vostro modo di contare gli anni.”

“Non sono una bambina” sbotta Lena, fredda, e poi aggiunge, con appena un velo di rammarico, “Funzionerà perché ora sanno di cosa siete capaci.”

 

*

 

Per qualche giorno, le pillole arrivano senza di lui. Una luce, ed eccole sul pavimento, nella solita ciotola candida.

Lena cerca di arrestare la delusione, l’ansia, ma è così difficile. I ricordi della sua vita sulla Terra le sembrano sempre più lontani, velati, inessenziali. È difficile ricordare una vita piena di colori, di brividi, di passione, nella cella asettica in cui è confinata. Nell’astronave, tutto è bianco o azzurro, senza sfumature, senza ombre – il colore più violento che ha visto finora è stato il rosso del suo sangue.

Anche pensare a Kyle non è più un sollievo. Non sapere se è vivo le rende difficile respirare, le stringe la gola in una morsa che ha il sapore del metallo. Crederlo morto la fa impazzire.

A volte lo sogna, ma sono sempre incubi. Lo vede di notte, su una collina, che danza attorno a un rogo. Le fiamme gli straziano il viso pallido, i capelli lunghi ondeggiano nella brezza, le scintille gli finiscono addosso, bucano la stoffa leggera della sua t-shirt scura. E quando apre gli occhi, non ci sono iridi di un blu quasi marcio ad attenderla, ma solo tenebra, tenebra infinita – e Lena si sveglia urlando, tutte le volte.

Sa che non lo rivedrà mai più.

 

*

 

Il Visitatore torna mentre lei sta dormendo. Avverte la sua presenza anche nel limbo perlaceo dei suoi incubi, che crollano in dissolvenza come un castello di carte.

Quando si sveglia, ha il viso bagnato di lacrime. Ha di nuovo sognato Kyle che venerava gli dei-alieni per essere scelto.

Si passa le mani sulle guance, asciugandosi la pelle.

“Perché?”

Lena cerca di ignorare la domanda, tirandosi a sedere. Una parte di lei, una parte molto aguzza, vorrebbe rispondere che il perché è semplice, che lui e la sua specie di dannati invasori le hanno rovinato la vita. La parte più debole di lei – il topo in gabbia che impazzisce per la solitudine – gioisce del suo arrivo e resta in silenzio.

“Perché?”, ripete, e per la prima volta le sembra di cogliere, nella sfumatura metallica del traduttore, un principio d’angoscia.

Il suo canto, però, resta dolce come il miele. Nessuna fretta e nessuno stridio.

Forse un po’ triste.

“E tu perché sei tornato?”

“Io rispondo se tu rispondi.”

Lena si lascia sfuggire un sorriso amaro. Sa che gli darà la risposta che vuole, e perché non dovrebbe? Non ha più niente da salvare.

“Mi manca Kyle. Lo sogno tutte le notti. Incubi.”

Lui rimane in silenzio e lei scuote il capo.

“Non puoi capire.”

“Capisco.”

Lena solleva gli occhi verdi sull’alieno gentile. Ha un aspetto ancora un po’ inquietante, ma è buono con lei.

“Perché sono qui?”

“Per aiutare.”

La risposta non si fa attendere.

“Come?”

Lui comincia a cantare e lei ascolta, immobile, come incantata.

“Cinque secoli fa, la mia razza incominciò a cercare un modo per vivere per l’eternità. Noi siamo molto più avanzati di voi umani, ma le nostre competenze non erano sufficienti. Vennero condotti esperimenti di genetica applicata, venne modificato il DNA a quasi metà della popolazione del nostro pianeta.”

La solita storia. Il solito grande sogno. Vincere la morte... ma non si può combattere l’inevitabile.

L’esperimento fallì. La nostra vita ora è più lunga, ma il prezzo è stato terribile. Nell’arco di una generazione, nacquero solo piccoli malati.”

Lena si scopre incapace di staccare gli occhi da quel volto senza lineamenti.

“Conosci l’ormone che voi umani chiamate ossitocina?”

Solleva le sopracciglia, stupefatta. Non è un’esperta di chimica, ma praticamente tutti sulla Terra sanno che è l’ossitocina che regola i rapporti madre-figlio, ed è sempre lei alla base delle relazioni sentimentali.

Lena sa bene cosa sia perché una volta, ridendo, Kyle le ha detto che il suo cervello si inondava di ossitocina quando era vicina a lui. Bastava uno sguardo. Lena non si era mai sentita di contraddirlo – ricordava l’euforia, i brividi, il calore lungo la schiena.

“La molecola dell’amore... ma cosa c’entra?”

“La nostra razza vive grazie ad essa. Regola il comportamento sociale, i rapporti tra i membri della specie, equilibra le emozioni. Se l’ormone non entra in circolo, siamo incapaci di riprodurci. Gli esperimenti genetici colpirono la ghiandola che secerne l’ormone, quella che voi chiamate ipotalamo. I piccoli nascevano con la ghiandola atrofizzata. Le madri, che avevano l’organo danneggiato, li lasciavano morire per mancanza di istinto. Morirono a centinaia prima di riuscire a trovare una soluzione.” 

Lena lo ascolta cantare, paralizzata, l’eco metallico le risuona in testa come una sentenza di morte.

“Sintetizzammo l’ormone. Un duplicato sintetico, poco accettabile. È impossibile trovare il giusto dosaggio. La mia gente continua ad avere reazioni inappropriate, in base al livello di ormone in circolo in quel momento. L’accoppiamento è diventato un atto meccanico, volto unicamente alla riproduzione. La gestazione è molto dolorosa nella nostra specie e le femmine devono essere costrette ad avere una progenie, perché non ne sentono il bisogno.”

Lo ascolta, sempre più sconvolta. La sua fantasia sfrenata delinea un mondo senza amore, un mondo freddo, meccanico, ostile – bianco, bianco, bianco.

“Gli effetti collaterali sono enormi. Pur con tutta la nostra tecnologia, non riusciamo a trovare una cura farmacologica appropriata. Non riusciamo a riattivare la ghiandola. Siamo sulla via dell’estinzione.”

Lei resta in silenzio per qualche minuto. Quando parla, scopre senza sorpresa che le trema la voce.

“È per questo che siete qui. Anche noi produciamo l’ossitocina... sul nostro mondo, tutti hanno ossitocina in circolo, persino gli animali!”

“Sì.”

Lena si solleva, camminando nella stanza, ben attenta a stargli lontana. Il suo cervello è sovraccarico di informazioni, ma non si sente così viva da settimane.

 “Volete la nostra ossitocina? Volete estrarla dal nostro ipotalamo?”

“Abbiamo cercato in molte galassie una specie che secernesse l’ormone.”

“Non hai risposto!”

“Sì. No.”

Esasperata, si gira di scatto a fissarlo.

“Ci rapite per fare degli esperimenti.”

Non è una domanda.

“Cercate una cura.”

“Sì.”

“Perché non avete preso degli animali? Dei mammiferi. Il nostro mondo non ne è più pieno come un tempo, a causa dell’inquinamento, ma ce n’è rimasto un bel numero.”

“Non sarebbero rilevanti.”

“Perché?”

“Non ci serve la vostra ossitocina. Abbiamo quella sintetica. Ci serve il vostro DNA.”

“Siamo troppo diversi.”

“No.”

Lena si zittisce, turbata. Forse dovrebbe essere più sconvolta, ora che sa che i Visitatori l’hanno rapita per fare di lei una cavia da laboratorio, ma il sollievo di sapere la verità al momento ottenebra tutte le altre sensazioni.

 Vogliono del DNA, solo un po’ di DNA. Poi mi lasceranno andare. Non ha senso che mi trattengano... e poi, si renderanno conto da soli che, qualunque cosa vogliano farmi, siamo incompatibili a livello genetico, è pura follia...

Solleva di scatto lo sguardo su di lui, ancora immobile, ancora alieno.

“Perché sei tornato, comunque?”

“Per dirti che sei stata utile. Le trattative con la tua specie sono cominciate.”

 

*

 

Lena pensa di continuo a che cosa significhi vivere senza amore. Anzi, è persino qualcosa in più. Da quello che il Visitatore le ha svelato, loro sono più schiavi degli essere umani dell’ormone dell’amore: regola i loro sentimenti, le interazioni sociali, il desiderio di maternità. Lena si chiede come sia possibile che siano sopravvissuti a un cambiamento del genere. Nell’arco di una generazione, si sono ritrovati ad essere vuoti, freddi, senza emozioni. Come rettili.

Senza più nemmeno l’impulso sessuale.

Quando lui torna da lei, è piena di domande.

“Come fate a vivere senza spinte emotive? Come fate a scegliervi un compagno? Com’è possibile che vi prendiate cura dei vostri piccoli?”

“Ormone sintetico.”

“Hai detto che non bastava.”

“Non basta. Siamo qui.”

Lena lo guarda con gli occhi lucenti enormi, sgranati, fissi sul suo volto.

“Siamo qui da molti anni. Non ve ne siete mai accorti. Abbiamo iniziato a prendere qualche esemplare della vostra razza molto tempo fa. Poi vi riportavamo sulla Terra.”

Lena si lascia andare ad un’esclamazione poco femminile, ma non se ne accorge neanche. È troppo su di giri, dopo giorni di solitudine d’un bianco abbagliante.

Crede ancora che la lasceranno andare. Dopotutto stanno trattando col governo, e perché trattare, se non sono disposti a liberare i loro prigionieri?

“Tutta quella gente che raccontava di essere stata rapita dagli alieni all’inizio del millennio! Non dirmi che eravate voi.”

“Sì.”

“Perché?”

“Per testare la compatibilità.”

“Quale compatibilità?”

Nessuna risposta.

 

*

 

“Le trattative con gli umani sono finite. Basta perdere tempo. È ora.”

“Sì.”

 

*

 

È il canto fuori dalla sua cella a svegliarla.

Lena apre gli occhi appena in tempo per vedere il Visitatore ritto sulla soglia.

“È ora.”

Un brivido le corre lungo la schiena.

“Di fare cosa?”

“Di andare.”

“Dove?”

“Seguimi.”

Suo malgrado, Lena si costringe a seguirlo. Non ha motivo di temerlo, non le ha mai fatto del male, è sempre stato gentile con lei, eppure... eppure non è tranquilla, continua a fissare quegli arti ritorti come se si aspettasse di vederseli piombare addosso. È un pensiero stupido, eppure ne è ossessionata.

“Le trattative con la tua specie sono finite.”

Lei solleva lo sguardo su di lui, stupita, ma l’alieno sta ancora camminando e non dà segno di volersi fermare. Lei lo segue, docile, sorpresa – ma la sensazione di pericolo non scompare.

“Mi lascerai andare?”

Nessuna risposta.

Lena lo segue meccanicamente, ma nella sua testa c’è un silenzio candido che ronza e crepita piano.

Nessuna risposta.

Arrivano in una sala enorme. A Lena basta uno sguardo per riconoscere decine e decine di capsule di sopravvivenza, tutte piene fino all’orlo del liquido d’un azzurro violetto in cui si è svegliata settimane prima.

E di persone. Ci sono persone che galleggiano nella melma.

Le trattative con la tua specie sono finite.

La realtà dei fatti le precipita addosso, spietata. Tutto acquista un senso. I Visitatori non volevano una guerra. Se l’avessero voluta, la Terra ora non sarebbe altro che un po’ di cenere che gira attorno al sole. Volevano solo qualche esemplare.

Lena sente il sapore della bile risalirle in gola.

Ora è tutto chiaro. Terribile, ma chiaro. Tutto, tranne la gentilezza disinteressata del suo carceriere.

“Che cos’è questo posto?”

Non pensava di essere l’unica ad essere stata rapita, certo. Ma non credeva nemmeno che ne avessero presi così tanti. Ci sono centinaia di capsule nella stanza, e quella è solo una delle astronavi che sono arrivate sulla Terra. Che stupida, che illusa. Sarebbe disgustata dalla sua stessa ingenuità, se non fosse paralizzata dall’orrore.

Il Visitatore risponde con un canto breve, melodioso. Come sempre, quando non vuole ignorarla ma non vuole nemmeno che capisca, non permette al traduttore di farle riecheggiare dei suoni comprensibili dentro la testa. Se lo avesse fatto, Lena avrebbe sentito soltanto una parola.

“Non ti capisco”, mormora lei, e incomincia a piangere.

L’alieno la fissa con quegli occhi imperscrutabili, illeggibili.

Da rettile, sono gli occhi di un rettile. Dio, come ho fatto a non accorgermene prima?

“Ti ho detto la verità. Ho risposto a tutto.”

“No! Perché sono qui? Che cosa mi farete?”

“Il vostro governo ci ha permesso di prendere un piccolo campione di popolazione. Cinquecento esemplari. Saranno sufficienti. In cambio lasceremo il vostro sistema solare e non faremo più ritorno.”

Il respiro le si incastra in gola, sta rischiando di soffocare.

“Voi siete una razza primitiva, ma siete a base carbonio, come noi. Il nostro DNA è incompatibile col vostro: non potremmo mai mescolare le specie. Ma l’ormone che producete è identico al nostro. Vogliamo trovare una cura per la ghiandola atrofizzata. Vogliamo tornare a secernere ossitocina in maniera fisiologica. Voi sarete utili.”

Lena pensa che è una follia, ma è troppo spaventata per poterlo dire. Il canto prosegue, delizioso e letale.

“Non c’è garanzia di riuscita, ma niente può restare intentato. Abbiamo preso esemplari maschi e femmine, studieremo il vostro sistema ghiandolare e i vostri meccanismi di accoppiamento. Non ci sarà bisogno di un secondo prelievo di esemplari.”

Vogliono allevarci come cavie da laboratorio. E tutto per l’ossitocina, per l’amore...

Lena è paralizzata dalla consapevolezza.

Era quasi arrivata a pensare che gli alieni non fossero dei mostri, che ci fosse una spiegazione, che le luci nella notte fossero tutto un errore. Era arrivata a credere che tutto si sarebbe risolto per il verso giusto. Almeno per una volta, almeno per una volta.

“Stiamo per partire per il nostro pianeta. Ci vorrà molto tempo, tanti dei vostri anni. Dormirai nella capsula. All’arrivo, troverai me.”

E così la sua vita sarà quella: intrappolata nella melma d’un azzurro violetto che crepita senza sosta, imprigionata in incubi che si squarciano in dissolvenza uno dopo l’altro. Costretta a dormire, a galleggiare con un tubo di metallo infilato giù per la gola.

Il panico le azzoppa le gambe, Lena perde l’equilibrio e finisce contro la parete candida.

“Non avere paura. Non ti farò alcun male.”

Il Visitatore le si avvicina appena e le indica con un artiglio ritorto qualcosa dietro le sue spalle. Lena non ha alcuna voglia di girarsi a guardare, ma lo fa.

E non avrebbe dovuto.

“L’ho preso per te.”

Il viso di Kyle, addormentato, è esattamente come lo ricordava: la pelle chiara, le labbra perfettamente cesellate, le ciglia dorate; i capelli lunghi gli ricadono fin sulle spalle. Dorme apparentemente sereno nella sua capsula, immerso in quel liquido violetto che lo fa sembrare estraneo, odioso, alieno.

Lena sente le gambe tremare e la testa spegnersi e le lacrime colare.

Non può essere vero. Dio, fa’ che non sia vero...

“Perché non sei felice?”

Il volto del Visitatore è inespressivo, come sempre, ma il suo canto armonico rivela una punta d’apprensione. Lena scoppierebbe a ridere, se il suo mondo non le si stesse sgretolando tra le dita.

Kyle è a meno di cinque metri da lei. Kyle è stato rapito. Kyle sarà prigioniero, per sempre.

Lena sa di stare per perdere il controllo e sa di non dovere, ma tra saperlo e saperlo fare c’è una differenza del diavolo, come diceva sempre suo padre.

E una parte di lei, piccola, meschina, un po’ beffarda, non fa che ripeterle in un orecchio “almeno sarete insieme, insieme, insieme, insieme...”.

Lena si ficca una mano davanti alla bocca per impedirsi di urlare.

“L’ho preso per te”, ripete il Visitatore, morbido, serafico, gentile, “Quando arriveremo sul nostro pianeta, potrai stare insieme a lui. Avrete dei piccoli. Non in laboratorio, alla maniera umana. La nostra razza vi vuole felici, vuole che l’ormone circoli nel vostro sangue.”

Lena scatta a guardarlo. Il viso pietrificato, gli occhi verdi sbarrati. Nel suo futuro vede un ventre gonfio e un bambino che non amerà mai.

I singhiozzi le escono di bocca sempre più striduli, sempre più isterici. Il Visitatore la guarda, senza capire.

“Credevo volessi rivederlo, credevo fosse tutto ciò che volevi”, ripete, tra le sue lacrime.

Nel suo futuro vede Kyle con gli occhi blu che bruciano di rabbia, Kyle che la accusa senza dire neanche una parola – è colpa tua, avresti dovuto stare zitta, non avresti dovuto fidarti, non avresti dovuto sognarmi. Lena sente le forze venire meno e vede una prigione di un bianco lancinante, vede un ventre gonfio e un bambino che non ameranno mai.

“L’ho preso per te. L’ho preso per te. L’ho preso per te.”

Lena non fa che sentirselo rimbombare dentro la testa, mentre crolla addormentata in una melma d’un azzurro violetto che esplode in onde concentriche ad ogni suo singulto.

Per te.

 

 

 

Note dell’Autrice

Miei cari lettori, questo è il mio primo esperimento di un racconto di fantascienza. Me lo ha chiesto mia madre, che è un’appassionata, come regalo di compleanno e io ho voluto provarci. Per tutta la parte di chimica mi sono affidata al mio fidanzato, che è un tossicologo e ne sa sicuramente più di me: spero che quello che ho ideato sia di vostro gusto e che lo riteniate credibile. Mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate!

  
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