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Autore: CHAOSevangeline    16/09/2018    9 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
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Salve a tutti!
Prima di tutto vi ringrazio per aver aperto questa storia.
Di solito non mi dilungo mai nelle note iniziali, ma in questo particolare caso ci tenevo a fare delle precisazioni che non mi andava di rimandare alle note di fine capitolo. Questa storia è una rivisitazione in chiave moderna del mito di Giacinto. Ho cercato di rendere più attuali alcuni avvenimenti di quest’ultimo adattandoli ai nostri tempi e di toccare sia gli aspetti più leggeri che più tristi del mito.
I personaggi sono delle mie interpretazioni, basate sulle diverse versioni della storia e sui tratti caratteristici ricorrenti dei suoi protagonisti.
Mi è sempre piaciuta la mitologia greca, ma mentirei se dicessi che ne sono esperta: ho cercato comunque di informarmi e di fare un lavoro accurato, che spero apprezzerete.
Buona lettura!


 

A Giacinto



I.
Giacinto



La legge dell’attrazione, in fisica, è quella regola per cui la forza che due corpi esercitano l’uno sull’altro tende ad avvicinarli reciprocamente.
Entrambi sono immobili, al loro posto, ma la loro energia li spinge uno verso l’altro in un moto inevitabile, talvolta più lento, talvolta più accelerato. Non è nessuno a deciderlo: è solo la natura che compie il proprio corso.
Ti svegli una mattina e ti accorgi di essere accanto alla persona giusta; di essere stato catturato nell’orbita di quella persona giusta e che con un pizzico di fortuna, se la vostra forza è reciproca, che anche lei è diventata un satellite nella tua.
Sua sorella Polybea aveva ripetuto fisica appena il giorno prima, per un esame, altrimenti la mente di Giacinto non sarebbe nemmeno stata sfiorata da un concetto tanto scientifico.
Ciò che era matematico lo repelleva; ecco spiegata la necessità di romanticizzare qualsiasi assioma o regola.
Era fatto così: prima l’arte, poi la scienza. Prima il cuore, poi la testa. L’emozione precedeva ogni altra cosa e pur essendo spiegazioni e teoremi talvolta comodi, Giacinto non ne sentiva la necessità: ciò che di più bello c’era al mondo non aveva bisogno d’essere spiegato; se era bello, ciò che era sufficiente comprendere era la sua stessa bellezza. Nulla di più.
Non pensava a sé stesso mentre lo diceva, era troppo modesto, eppure le persone che nel corso della vita avevano incrociato il suo cammino, il fiato mozzato e il cuore che perdeva un battito, forse avevano ripetuto la sua stessa affermazione: che non poteva esistere spiegazione per una bellezza tanto sublime.
Giacinto era un ragazzo, aveva poco meno di vent’anni. Due enormi occhi verdi con cui scrutava il mondo e dei ricci d’ebano tanto definiti da sembrare statuari. Pareva un efebo, Giacinto, la pelle lattea come quella di un marmo. E in effetti non sarebbe stato tanto assurdo essere ingannati e credere appartenesse a un museo, quello della vita, per essere ammirato in qualità di uno dei più belli esseri viventi al mondo.
Ma lui di questo non si rendeva conto: era innocente, o forse sarebbe stato meglio dire inconsapevole; pensava a come rendere più romantici i concetti fisici studiati dalla sorella e al proprio album da disegno, non a sfruttare la propria bellezza per un qualche tornaconto.
Forse era proprio questo suo essere del tutto ignaro del proprio possibile ascendente a renderlo tanto ben voluto e bello di una bellezza incorrotta.
Ignorava i propri pregi più di quanto non volesse.
Scacciò le briciole della gomma dal foglio con il fianco di una mano, la matita che tornava sul luogo dello strumento usato prima di lei tracciando il proprio passaggio con un leggero segno di grafite.
Giacinto amava disegnare, lo faceva da che aveva memoria. Disegnava e disegnava qualsiasi cosa gli passasse per la testa: paesaggi? Aveva già provato; fiori? Ne aveva studiati a centinaia; volti? Aveva ritratto almeno una volta tutti i propri conoscenti. Per esercizio, diceva, ma non di tecnica: dal viso di ognuno riusciva a estrapolare qualcosa, fosse anche solo un dettaglio in grado di aiutarlo a migliorare uno studio che portava avanti da anni. Lo studio.
C’era un ritratto che Giacinto continuava a fare, ne erano pieni i suoi album da disegno; gli angoli dei quaderni erano tappezzati di occhi, labbra sempre simili. Sempre della stessa persona. Le caratteristiche principali di quell’individuo si vedevano anche nei disegni di quando Giacinto era più piccolo, tempo in cui il biondo grano corrispondeva al giallo sole e i tratti del pennarello sconfinavano dagli incerti bordi tracciati col nero.
Suo fratello si riferiva al ragazzo che disegnava sempre chiamandolo «il suo amico» e Giacinto era convinto trovasse inquietante la sua ossessione nel perfezionare sempre più la sua immagine.
«Stai ancora disegnando il tuo amico?» gli chiedeva. Giacinto rispondeva ogni volta con un piccolo cenno del capo e un sorriso appena imbarazzato.
Perché non c’era nulla di male nell’avere una piccola fissazione, ma un poco si sentiva inquietante anche lui.
Sua sorella era più di supporto. Alle volte si sedeva al suo fianco, a prescindere da cosa stesse disegnando, perché trovava rilassante osservare la sua mano che si muoveva sul foglio, il rumore della pelle contro la carta. Le piaceva osservare la genesi di disegni tanto vivi, il loro nascere dalla sua mano e vedere la passione che metteva in ognuno, il frammento di cuore con cui rendeva reale, concreto, vivente ogni volto, creatura o paesaggio.
Perché poco ci vuole a creare, ma tanto a dar vita.
Gli aveva suggerito di trovare un nome a quel giovane dai lineamenti scolpiti, le labbra cesellate e i capelli biondi che Giacinto si ostinava a disegnare.
Non ne trovava uno che fosse degno, però.
Ritratto dopo ritratto aveva la sensazione di catturare qualcosa in più. Una volta era un lineamento, una fossetta. Quella volta si trattava dell’espressione: la sentiva familiare, come se già l’avesse vista in un istante interminabile della propria vita. Perfetta per il suo amico: un sorriso fiero e sicuro, quasi provocante, ma che a lui appariva in qualche modo dolce e di conforto.
Se la legge dell’attrazione era vera e se il volto che continuava a mettere su carta apparteneva a qualcuno, Giacinto sperava che il suo continuo disegnarlo generasse una forza sufficiente da attirarlo a sé anche solo per chiedergli spiegazioni. In quel caso, ecco, solo in quello, le avrebbe apprezzate. O forse si sarebbe accontentato di qualsiasi parola giungesse dalla bocca di quel ragazzo nel caso in cui fosse esistito davvero al mondo e lui lo continuasse a disegnare per un qualche sortilegio.
Giacinto teneva stretto il labbro inferiore fra i denti, ombreggiando e segnando la carta su quella panchina nel cortile della sua accademia. Quando l’ispirazione lo coglieva tirava fuori il suo sketchbook in qualsiasi momento. Aveva addirittura monopolizzato il tavolino di un bar della stazione dopo essere sceso dal treno che lo avrebbe riportato a casa, una volta, non avendo potuto rimediare prima a causa del viaggio passato tutto in piedi, accalcato fra persone che nemmeno conosceva. Era arrivato a casa tardi per cena, ma ormai non doveva più giustificare il proprio estro artistico né ai fratelli, né ai genitori. Se anche qualcuno lo avesse chiamato per chiedergli dove fosse, in un simile momento avrebbe risposto a «mh-mh» e «ah-ha» tenendo la cornetta stretta fra orecchio e spalla, senza interrompere il proprio lavoro né ascoltare davvero.
Perché Giacinto non sentiva nulla quando disegnava, solo emozioni, soprattutto quando disegnava lui.
Solo emozioni.
«È davvero molto bello.»
Giacinto non sentiva nulla quando disegnava. Tranne allora.
Alzò in fretta il capo, quasi quella voce fosse un richiamo ideato su misura per il suo orecchio, per smuovere delle corde che mai nella sua vita aveva sentito vibrare.
La frequenza Giacinto era appena stata scoperta.
Dovette abbassare il capo una volta e alzarlo un’altra ancora prima di riuscire a dare senso al confuso pensiero nato nel suo cervello, tanto assurdo gli era parso. Quando gli occhi si puntarono sul ragazzo – perché era un ragazzo quello che aveva parlato – dinnanzi a lui, Giacinto riuscì a capire: i suoi occhi si erano convinti, senza sbagliare, di aver visto sfumare il ritratto che lui stesso stava realizzando nel viso di una persona.
Da vivido ritratto a realtà fatta di carne e respiri.
Era sorpreso, curioso, sconvolto.
Gli occhi azzurri del giovane sconosciuto erano fissi nei suoi e nemmeno quando Giacinto li aveva distolti questi erano caduti sul blocco. Gli incisivi di Giacinto lasciarono il suo labbro, arrossato e lucido. Su quello però, gli occhi del ragazzo dai capelli dorati, caddero.
Non riusciva a crederci: persino i colori che aveva sempre usato per dipingerlo corrispondevano.
Nella sorpresa scordò di chiedersi se il ragazzo si fosse reso conto di essersi appena complimentato con sé stesso, quasi avesse pronunciato un «sei davvero molto bello» al proprio riflesso nello specchio.
«Ti… ti ringrazio», rispose Giacinto.
Giacinto non era una persona timida. Attraeva anche perché brillava di luce propria, una luce sicura nell’insicurezza che celava. Eppure era una luce che in nessun’altro aveva trovato. La donava, ma non poteva prenderla da nessuno.
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Giacinto era in panico e stava perdendo la propria occasione. Nemmeno riusciva a pensare che se quello sconosciuto gli aveva rivolto la parola forse voleva sentire la sua voce, ascoltarlo.
«Scusami, non ti volevo disturbare.»
Stava per parlare ancora, ma Giacinto nemmeno se ne accorse.
«Non ti preoccupare!» Si schiarì la voce. «Cioè, non è un problema. Mi ha fatto piacere.»
Sorrideva il ragazzo di fronte a tutta la sua agitazione. Ma sebbene si trattasse di quel sorriso fiero a lui ben noto, Giacinto non poteva fare a meno di trovarlo dolce.
Oh, maledizione. Quei sentimenti lo confondevano.
«Se non è un problema allora potrei anche presentarmi? Ti farebbe piacere?»
Il giovane lo chiedeva come se la sua decisione fosse già stata presa, ma volesse dare a Giacinto la parvenza di poter intervenire in quella situazione, di partecipare più di quanto la sua perduta lucidità gli avesse permesso fino a quel momento di fare.
Un piccolo cenno, poi la mano del giovane si tese verso di lui. Giacinto si alzò in piedi, abbandonando sulla panca di marmo il proprio blocco da disegno: doveva costruirsi la propria occasione, riprendersi e non sembrare del tutto un maleducato che nemmeno si era alzato in piedi.
«Io sono Apollo.»
Apollo.
Tre sillabe di pura poesia.
Subito Giacinto ebbe la sensazione fosse quello il nome che aveva cercato per anni sotto suggerimento di sua sorella. Che al volto perfetto sulle pagine del suo album il nome Apollo calzasse a pennello come nessun’altro avrebbe mai fatto.
O forse voleva dire che era quello sconosciuto, con il suo nome, a calzare a pennello al ritratto che aveva realizzato per anni, con il suo nome e la sua voce, il suo sorriso e il suo sguardo orgoglioso?
Forse aveva messo fin da piccolo su carta i propri desideri e questi si erano appena realizzati grazie ad una misteriosa divinità. Forse era lui a vederlo identico, quando così non era.
Giacinto non lo sapeva e seppur nel bel mezzo di una situazione che di spiegazioni aveva bisogno, si rese conto ancora una volta di quanto i chiarimenti non servissero, non a lui; accettava quel momento così com’era e avrebbe potuto vivere anche tutta la vita quel mistero. A patto che quello sconosciuto non se ne andasse.
Gli sarebbe parso tutto naturale, ma solo a quella condizione.
Le dita di Giacinto si strinsero intorno a quelle solide e robuste di Apollo.
«Giacinto.»
«Giacinto? È un bel nome», disse. «Insolito, se posso dirlo.»
«Anche Apollo», gli fece notare il ragazzo.
La risposta pronta aveva fatto ritorno e a giudicare dall’espressione sul volto del biondo era stata apprezzata.
«Hai ragione. Abbiamo una cosa in comune, direi.»
Le loro mani ancora non si erano lasciate. Fu Apollo a sciogliere la presa, dopo aver guardato per un istante le loro dita ed essersi lasciato andare a uno sbuffo di risata. Ma non per schernire.
Quella stessa mano corse fra le sue ciocche bionde, raccolte morbidamente dietro la testa. Giacinto desiderò di poter compiere lo stesso gesto, di tracciare un sentiero in quel campo di grano ondulato.
Non gli era mai capitato di essere scosso da un tale interesse, da una simile attrazione. Subito pensò che la sua speranza più grande poteva essere solo una: che se la forza di attrazione che Apollo esercitava su di lui era tale, la sua fosse equivalente. Perché così non solo non avrebbe dovuto pazientare, ma si sarebbe sentito anche meno solo nel provare quel turbinio di emozioni e sensazioni.
«Ascolta, so che è un po’ strano, forse…» cominciò Apollo.
«Chiedimi di uscire », pensò Giacinto. « Chiedimelo. Anche solo di continuare a parlare. Ti prego, ti prego, ti prego.»
«Ma ti andrebbe se ti offrissi un caffè?»
«Sì.»
Giacinto pensò che avrebbe potuto rispondere in quel modo altre cento volte per osservare il sorriso che sbocciò sul volto di Apollo.


«Quindi studi belle arti.»
«E tu medicina.»
E il loro primo caffè insieme era quella sottospecie di acqua acida erogata dalle macchinette vicino alla biblioteca del polo universitario. Cittadella comune per un po’ tutti i corsi e per fortuna, o non si sarebbero incontrati.
«Come mai questa scelta?» indagò Apollo.
Non c’era il peso di un giudizio nella sua voce, né le tracce di un tono inquisitorio. Solo genuina curiosità. A Giacinto piaceva che volesse sentirlo parlare di sé, così decise di accontentarlo anche se avrebbe potuto rispondergli rivolgendogli la stessa domanda, solo per ingorda conoscenza. Decise di aspettare il proprio turno, per questo.
«Disegnare è l’unica cosa che so fare», rispose. «E che credo mi interessi fare.»
«Lo dici come se non fosse un traguardo da molto.»
Ora il tono di Apollo sembrava volerlo rimproverare, le sopracciglia leggermente aggrottate in un’espressione severa.
«Lo dico perché sono di fronte a un uomo che potenzialmente salverà delle vite», ribatté Giacinto.
Apollo rise. Di gusto, perché erano lontani dalla biblioteca e poteva concedersi di farlo. Una risata profonda e melodiosa.
Giacinto rimase incantato.
«Io? Io salvo i corpi. Tu salvi l’anima. Potremmo dire che facciamo lavoro di squadra.»
Era la frase più bella che avesse mai sentito pronunciare sull’arte. Una verità assoluta. Capì che Apollo comprendeva l’arte come pochi, che aveva una sensibilità propria di pochi.
E che non gli sarebbe dispiaciuto fare gioco di squadra con lui.
«E poi credo che per tanti io stia barando.»
«Che intendi?» si riscosse Giacinto.
«La gente dice che ho un dono naturale. Non per vantarmi, ma sono un tirocinante alquanto brillante», spiegò. «Senza contare che a quanto pare ho un tocco miracoloso.»
«Davvero?»
«Davvero.»
«Dovrai farmelo provare una volta.»
Apollo indagò il suo viso. Potevano non aver chiarito cosa intendesse, ma non c’era malizia nell’espressione di sincera sorpresa sul volto di Giacinto. Dal canto suo contava solo che quella fosse una promessa di rivedersi.
«Stai dicendo che vuoi rivedermi?»
Dovette chiederlo. Impellente come l’aria.
Giacinto si era ripreso. Non che l’incantesimo sortito dalla comparsa di Apollo fosse stato sciolto, che nessun effetto legato alla sua presenza aleggiasse più intorno a lui, ma stava riuscendo a fargli vedere una parte più sincera di sé. Forse la più sincera, una porzione del proprio essere che mai aveva mostrato a nessuno.
Si sentiva legato a lui e a patto che quel legame ci fosse non gli interessava indagarlo o comprenderlo: ne percepiva i benefici e questo gli era sufficiente.
Dopo quelle parole tornarono a sorseggiare il loro caffè – o intruglio al caffè – in silenzio. Era la prima volta che lo bevevano da quando avevano cominciato a tenerlo in mano, le dita intorno alla plastica non toccata dal liquido per non ustionarsi. Era tiepido, quasi freddo: avevano parlato troppo prima di ricordarsi del pretesto che li aveva spinti a trascorrere del tempo insieme.
Se anche, davanti alla panchina, Apollo gli avesse chiesto di sedersi perché voleva soltanto parlargli, Giacinto non avrebbe rifiutato.
«Ecco dov’eri! Ti ho cercato dappertutto!»
Il brusio dell’ingresso, fra studenti che attendevano l’inizio delle lezioni e chi come loro beveva un caffè in compagnia, avrebbe coperto quell’esclamazione se solo non si fosse distinta in prorompenza; Giacinto si sarebbe sporto ugualmente per controllare cosa stesse succedendo. O forse no, perché non aveva occhi che per Apollo.
Questo solo perché non conosceva quella voce. Per Apollo era diverso.
Fu come uno schiaffo capace di riportarlo all’ordine.
Una ragazza lo affiancò in fretta. Era alta quasi come lui, dai lunghi capelli castani e occhi di un grigio penetrante. Se l’azzurro di Apollo era il cielo terso, quello della ragazza corrispondeva alla coperta lanuginosa delle nuvole in un giorno di pioggia.
Sembrava la copia femminile di Apollo, ma priva dello stesso fascino che il ragazzo esercitava su Giacinto.
«Ti sei scordato che ho bisogno di una mano? O stai solo facendo finta?»
Apollo alzò gli occhi al cielo, Giacinto sorrise certo che una spiegazione sarebbe arrivata.
«Giacinto, questa è mia sorella Artemide», cominciò. «Artemide, questo è Giacinto. E tu mi stai facendo fare una pessima figura.»
La ragazza sorrise a Giacinto, ma si voltò in fretta verso Apollo.
«E tu stai rovinando la tabella di marcia dei miei studi. Scusa se non siamo tutti geni come te», lo rimproverò.
«È colpa mia», cominciò Giacinto. «Temo che potrei averlo distratto.»
I suoi occhi indugiarono in quelli di Apollo mentre lo diceva e lui gli rispose con un sorriso furbo e al contempo sorpreso; Apollo aveva compreso il proprio ascendente su Giacinto, ma da quelle parole ebbe la sicurezza che Giacinto fosse conscio di averlo a propria volta.
Artemide fece guizzare la propria attenzione prima su Giacinto, poi su Apollo.
«Sta tranquillo. Se devo stabilire io di chi è la colpa e ti trovi contro Apollo, sappi che sarà sempre colpa di Apollo.»
Il ragazzo dai capelli biondi gettò il proprio bicchierino di caffè nel cestino e guardò Giacinto con espressione sofferente.
«Guarda cosa mi tocca sopportare», sembrava dire.
Giacinto si sorprese di essere riuscito a immaginarlo dare voce a quella frase, per giunta con il suo stesso tono di voce. Aveva come l’impressione che Apollo volesse trasmettergli proprio quel messaggio.
Si conoscevano davvero solo da un’ora?
La mano di Artemide si arpionò al polso del fratello.
«Salutalo adesso.»
Apollo si ritrovò ad essere trascinato via.
«Mi dispiace, il dovere mi chiama!» si giustificò Apollo fra le risate di Giacinto.
«Devi salvare qualcuno anche se in modo diverso da come insegna la medicina, io posso aspettare!»
No, non era vero. Sentiva come se parte dell’equilibrio perfetto raggiunto quel pomeriggio stesse tornando a sbilanciarsi. Sentiva il bisogno di parlare di quell’incontro, di gridare dalla gioia in un cuscino.
Quando vide Apollo venire inghiottito dalla biblioteca, ghermita di studenti a quell’ora, Giacinto gettò il proprio bicchiere ormai vuoto e camminò. Gli pareva di stare sulle nuvole, metri e metri sopra i comuni mortali in una bolla di gioia incorruttibile.
Solo una volta comodo sul sedile del treno lo realizzò.
Non gli aveva chiesto il numero.





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Ricompaio nelle note finali per ringraziare, di nuovo, stavolta chi è arrivato fino alla fine di questo primo capitolo.
Mi auguro davvero vi sia piaciuto e che vogliate dirmi cosa ne pensate!
Questo è il primo di sei capitoli, più o meno lunghi, che cercherò di pubblicare con una cadenza regolare (immagino circa una settimana) per non lasciar intercorrere troppo tempo tra uno e l’altro. Ho scelto di non dilungarmi troppo in questa storia, un po’ come esercizio: spesso tendo ad essere troppo prolissa e basandomi in questo caso su una storia già nota ho cercato di narrare l’essenziale, tentando di renderla piacevole per chi già conosce il mito originale, ma esaustiva per chi invece magari non ne sa nulla.
Anticipo che gli avvertimenti e il rating potrebbero subire delle lievi modifiche nel corso della pubblicazione, perché gli ultimi capitoli sono ancora in fase di stesura.
Sfrutto questo spazio per fare un po’ di pubblicità alla ragione per cui mi sono imbarcata in quest’impresa. Come accennavo nelle note iniziali mi piace la mitologia greca, ma ho avuto poche occasioni per approfondirla. Non conoscevo il mito di Giacinto – o forse lo conoscevo e non ne ricordavo l’esistenza. La ragione per cui ho scelto di approfondirlo e scriverci dandone una mia versione è stato un fumetto di Martina Masaya, intitolato appunto “Giacinto”. Mi ha colpita molto ed è una lettura che vi consiglio davvero!
Altro ringraziamento doveroso è quello a tutte le persone che mi hanno sopportata, a Rika che mi ha spronata a postare nonostante volessi attendere di concludere l'intera storia e ai miei amici che si sono sorbiti le mie paturnie per timore che non uscisse nulla di originale.
Mi farebbe davvero piacere ascoltare le vostre opinioni, prima del prossimo capitolo <3
Per chiunque voglia seguire questa storia, vi ringrazio ancora.
Alla prossima!
   
 
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