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Autore: Nina Ninetta    16/09/2018    7 recensioni
Viola è una ragazza disposta a tutto pur di conquistare il cuore della persona che ama, anche fare qualcosa di stupido come fraternizzare con il "nemico", ma talvolta ciò che noi detestiamo può rivelarsi un'autentica benedizione. La giovane si ritroverà a fare i conti con i problemi tipici degli adolescenti, un amore a due facce, un'amicizia persa e una madre emotivamente scompensata.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 25
Riprendersi la vita

 
 
La madre di William ci ospitò a casa sua, quella che suo figlio le aveva regalato appena la situazione economica era migliorata. È una casa indipendente, circondata da tanto verde e poche altre abitazioni, con zona giorno al piano terra e tre camere da letto al primo, ognuna con il suo bagno. Ad accoglierci, sulla soglia della porta, trovammo il compagno della donna: Giulio, l’uomo che aveva conosciuto circa cinque anni prima e con cui conviveva da tre, da quando Matteo e Willy erano partiti per la Repubblica Centrafricana insomma. Si erano conosciuti su un sito d’incontri e, sebbene la signora se ne vergognasse, ammise che era stato un vero colpo di fulmine (e di fortuna, aggiunse ridendo). Giulio, che superava già allora la cinquantina, ha i capelli brizzolati, alto e magro, tra l’altro gli occhiali gli donano un’aria da intellettuale che gli si addice benissimo: è un professore di storia dell’arte che si diletta a scrivere poesie.
Dahlia se ne innamorò a prima vista e si appassionò all’arte talmente tanto che nel giro di un anno è in grado di distinguere le diverse correnti pittoriche solo attraverso uno sguardo allo stile e ai colori del dipinto. L’uomo l’avviò anche alla lettura e all’apprendimento della poesia, inoltre alla giovane Dahlia è dato il permesso di leggere i suoi scritti ancor prima che siano conclusi, cosa che la inorgoglisce e non poco.
Giulio si ritrovò quattro estranei che gli piombarono in casa a scombussolare la sua quotidianità, sporchi, stanchi e con il viso funereo. A turno facemmo la doccia e dopo cena, che io e Dahlia lasciammo praticamente intatta nel piatto, chi per assenza di fame, chi perché a quei sapori non era abituata, mi ritirai nella stanza che era stata preparata per me e Will. Matteo avrebbe dormito sul divano del soggiorno, rifiutandosi di dividere il letto con la nonna e il suo compagno, mentre alla ragazzina spettò la terza camera da letto, tutta per lei.
Willy mi raggiunse a notte inoltrata, credo che fosse rimasto a chiacchierare con sua madre per tutto il tempo, trovandomi ancora sveglia e china sul diario che avevo scritto in quegli anni, con la testa fra le mani e le pagine dello stesso bagnate di lacrime oramai asciugate. Mi strofinò la schiena posandomi un leggero bacio sul capo. Restammo per qualche minuto così, a contemplare la notte illuminata dai pali della luce ai quali non eravamo più avvezzi, d’improvviso provai una profonda fitta al cuore ricordando il cielo stellato di Lobaye, adesso infuocato dalla guerra civile.
Nonostante la sua vicinanza rimasi sveglia a fissare il soffitto, abituando gli occhi alla penombra in modo da riconoscere ogni sagoma che abitava la stanza, dai mobili ai quadri appesi alle pareti. Il suo respiro era leggero e regolare, si era addormentato appena aveva posato il capo sul cuscino, credo che fosse stremato più di me poiché si era fatto peso di ogni responsabilità e della nostra incolumità, fino a quando l’aereo non era atterrato e ci aveva letteralmente consegnato nella mani di sua madre. Adagiai la fronte contro la sua, scrutando i lineamenti del volto, inevitabilmente pensai a Jenny, lontana e in pericolo.
Cosa stava facendo?
Stava bene?
Era con Jack?
Sentii la porta scivolare sui cardini e mi parve di udire un leggero piagnucolio. Mi sollevai puntando i palmi nel materasso e scorsi la figura esile di Dahlia, in piedi sulla soglia della camera. Mi fiondai giù dal letto, rischiando di rotolare sul pavimento con i piedi ingarbugliati nelle coperte, ma riuscii a rimanere in equilibrio in modo da inginocchiarmi dinnanzi a lei. Piangeva e si strofinava il viso, più che una ragazzina di tredici anni sembrava una bambina di tre. Le accarezzai i capelli ricci e crespi, credendo di intuire il suo malessere:
«Ehi, sei al sicuro adesso, sei qui con noi: ci sono io, c’è Mattew e  c’è… » lei mi passò le braccia dietro al collo, bagnandomi con le sue lacrime.
«Sto morendo» disse e la scostai da me per guardarla negli occhi, per rassicurarla che non stava affatto morendo. «Morirò dissanguata. Ho un’emorragia interna» emanò uno urlo stridulo e tornò a stringermi.
Allora compresi. Dahlia era diventata donna. Pessimo momento, pensai, di avere il menarca, adesso era costretta ad affrontare anche quest’altra novità. Dahlia ci aveva aiutato a lungo con i pazienti al villaggio e quelle diagnosi “morirò dissanguata” ed “emorragia interna” le aveva sentite da me e da Jenny quando avevamo rischiato di perdere una partoriente che aveva dato alla luce ben tre gemelli.
Di nuovo sciolsi il suo abbraccio e la presi per la mano, portandola fuori dalla stanza, evitando così che Willy si svegliasse e s’impicciasse in cose da donna!
Le spiegai l’intera situazione, cosa significava quello che era accaduto al suo corpo e i rischi che comportava il diventare “grande”. Forse esagerai, perché la mattina seguente, quando Matteo si sedette di fianco a lei durante la colazione, Dahlia si alzò tutta infastidita, annunciando che voleva stare seduta vicino a me o al massimo alla signora, la quale era stata messa al corrente della notizia da subito, trovandoci entrambe addormentate nella stanza riservata a Dahlia. Matteo la prese davvero male, non le parlò per diversi giorni e a nulla servirono i tentativi di Will di fallo rinsavire, l’aveva presa sul personale. Suo zio non poteva riferirgli la verità, non avrebbe comunque compreso il periodo difficile che stava attraversando Dahlia. Le cose cambiarono quando la ragazzina si ammalò, colpa del cambio di paese, dell’inverno rigido a cui non era abituata e al cibo che il suo intestino non riconosceva e quindi espelleva alla velocità della luce. Per tre giorni rimase incollata al letto, febbricitante e deperita. Matteo non si mosse dal suo capezzale e, quando la mattina del quarto giorno si svegliò da quello stato, trovò il suo amico a darle il bentornata con un gran sorriso.
Dahlia se ne innamorò.
Così come lei si era trasformata in una donna, lui stava diventando un uomo. In quei giorni gli era cresciuta la barbetta e i capelli si erano allungati, portandoli scarmigliati. Matteo non è una bellezza rara da togliere il fiato, ma riesco a comprendere quello che vede Dahlia in lui, giacché a sedici anni mi innamorai di suo zio, il quale potrebbe essere tranquillamente il padre o il fratello in fatto di somiglianza. 
 
Qualche giorno dopo andai a trovare i miei genitori nella casa che avevano abitato fin dal primo giorno insieme, la stessa dove ero cresciuta, portando Willy con me. Erano invecchiati entrambi, ma mi sentii sollevata vedendoli: a volte ci si aspetta il peggio e si rimane soddisfatti del risultato, poiché è meno brutto di quello che si immaginava.
Mio padre aprì la porta e lì per lì rimase impassibile, facendo scorrere lo sguardo da me al ragazzo che mi accompagnava. Non mi vedeva da parecchi anni, io ero dimagrita e i miei lineamenti si erano fatti adulti,Will non l’aveva praticamente mai incontrato.
«Papà» sussurrai, quindi mi abbracciò forte, portandomi dentro quasi di peso. In soggiorno c’era mia mamma, seduta sul divano davanti alla TV, a guardare un film senza interessarsi più di tanto, intenta a sferruzzare a maglia. Non era un hobby che le avevo visto fare da giovane, forse si era appassionata negli anni e soprattutto a causa della malattia. Mio padre la chiamò e solo allora alzò lo sguardo per incontrare il mio, commosso e lucido.
«Guarda chi c’è!» esclamò papà facendosi da parte. La donna sul divano, che era rimasta la stessa di sempre, solo con qualche ruga in più e gli occhi sperduti chissà in quale mondo, posò i ferri e la lana, si mise in piedi e aprì le braccia per posarmi le mani sulle spalle e lasciarmi due baci sulla guancia. Si comportava come se ci fossimo incontrate il giorno precedente e non tre anni prima. Di slancio la strinsi forte, inspirando a fondo il suo profumo di mamma.
Mentre lei continuava il suo lavoro, senza badare a noi, io Willy e papà ci accomodammo davanti a una tazza di caffè, cercando di sopperire l’assenza di tutto quel tempo e di metterci al corrente delle cose più importanti. Gli raccontai dell’avventura al villaggio, della morte del professor Andrea e di Jenny, che era rimasta per stare vicino al suo nuovo grande amore. Gli presentai William come meritava, partendo da lontano:
«Tu non te lo ricordi, ma era con me la sera che ricoverarono mamma all’ospedale» mio padre si scusò, però non riusciva proprio a ricordarsi di lui, spaventato com’era. Willy rispose che comprendeva.
Li lasciai a parlare di cose da uomini, di associazioni di beneficenza e dell’infortunio che aveva subito da calciatore. Io tornai in camera da mia madre, mi accomodai al suo fianco e la osservai lavorare ai ferri, ogni tanto mi lanciava uno sguardo accompagnato da un sorriso. Papà aveva confessato che dopo la mia partenza la mamma aveva passato un brutto periodo, nonostante le avesse nascosto che fossi dall’altra parte del mondo, in un villaggio sperso, lei si svegliava di notte piangendo e gridando di aver sognato sua figlia in pericolo. Lo psichiatra gli aveva raddoppiato la dose di sonnifero e le cose erano migliorate.
Mi lasciai scivolare sul suo corpo morbido, posandole il capo sul grembo, le gambe rannicchiate contro il seno. Mamma mi carezzò i capelli come faceva quando ero bambina:
«Non piangi più?» mi chiese.
Da sempre mi prende in giro per questa mia debolezza. Mi commuovo per qualsiasi stato d’animo, piango di felicità, di rabbia, di delusione, di dolore. Mi asciugai – manco a dirlo - una lacrima e risposi:
«Non riesco a non piangere» anche se non la vidi so che stava sorridendo divertita.
 

*****


Nei giorni a seguire provai a mettermi in contatto con Jenny ogni trenta minuti circa. Era diventata una sorta di ossessione, di mania. La chiamavo sul cellulare che, però, risultava costantemente spento, lo feci controllando la mia e-mail e quella di Willy o sbirciando nella cassetta della posta che stava in giardino. Ci tenevamo aggiornati sull’andamento della guerra attraverso il web, la televisione e i quotidiani. Costringevo Will a telefonare all’ambasciata del nostro paese a Bangui per chiedere informazioni sulla mia amica o – esortata da Dahlia – sul villaggio in generale. Quando Will mi confessò che del villaggio non era rimasto quasi niente, non lo dissi alla ragazzina, le mentii fino a convincermi personalmente che le capanne dei suoi famigliari fossero davvero ancora intatte.
Consigliati da Giulio e dopo esserci accertati che Dahlia fosse in regola dal punto di vista burocratico, iscrivemmo i due ragazzini a una scuola privata perché potessero integrarsi nella società, fare nuove conoscenze e studiare. La cosa li aiutò molto, tanto loro quanto noi adulti, avendo finalmente del tempo libero da dedicare alle nostre vite.


Un giorno, di buon ora, io e Will ci mettemmo in viaggio per raggiungere la casa che aveva abitato da calciatore e dalla quale mancava da almeno quattro primavere. L’appartamento era sito al quinto piano di un palazzo dallo stile moderno, così come l’interno della casa, dove i mobili erano ridotti all’essenziale. All’entrata un divano in pelle scura, una parete attrezzata con ante scorrevoli, un televisore di un millimetro di spessore e lo schermo grande quanto il parabrezza di un’automobile, tendaggi pesanti che scostai di lato per lasciare entrare la luce del sole, svelando un terrazzo che si affacciava su un panorama mozzafiato. Seguii Will in cucina, la stanza più piccola della casa, qui trovai un tavolo con due sedie, una cucina con tre fornelli, cinque stipi e un frigorifero. Un’intera camera era riservata allo sport, Willy rise mostrandomi quella che lui chiama “la mia palestra ambulante”. Su diverse mensole erano adagiate le svariate medaglie, coppe e riconoscimenti ricevute durante la sua breve avventura calcistica. Le osservai una a una, leggendo la targhetta che ciascuna riportava e immaginando il dolore provato nell’apprendere che non ne sarebbero state aggiunte altre a quella collezione.
La stanza successiva che mi mostrò fu il bagno, ampio e accogliente, dipinto di una tenue sfumatura verde, con una vasca idromassaggio rotonda e in grado di ospitare almeno due persone. Fissai il marmo immacolato, con il cuore che iniziava a battere più forte. Improvvisamente una rivelazione mi aggredii come un felino inferocito: io e Willy non facevamo l’amore da così tanto tempo che non riuscivo a ricordare l’ultima volta che eravamo stati insieme. Lui continuava a parlare, a mostrarmi i piccoli dettagli della toilette, ma io non riuscivo a smettere di fissare la vasca, coperta da un telo di plastica trasparente. Senza accorgermene lui aveva smesso di farfugliare e mi stava osservando a sua volta. Si avvicinò intrecciando le mani intorno alla vita mi abbracciò, posando il mento sulla mia spalle destra. Entrambi adesso eravamo rivolti verso la vasca, lui prese a baciarmi il collo, scostando i riccioli.
Stava pensando quello che stavo pensando io.
«Funziona?» gli chiesi indicando l’idromassaggio, combattendo contro l’istinto di voltarmi  e afferrargli il viso per baciarlo sulla bocca e perdermi fra le sue braccia.
«Adesso lo scopriamo» si allontanò da me e tirò via il telo che era servito a proteggerla dalla polvere. Azionò la levetta dell’acqua e udii un rumore come di risucchio quando aprì i rubinetti. Attendemmo qualche secondo, poi l’acqua cominciò a sgorgare dai fori della vasca, limpida e calda, iniziando a riempirla.
Willy tornò da me, con un sorriso beffardo dipinto sul volto, si tolse la maglia rimanendo per metà a corpo nudo, mi passò entrambe le mani dietro al collo, attirandomi a lui. La sua lingua scivolò fra le mie labbra, le dita corsero lungo il suo addome dalla pelle olivastra, mentre il fruscio dell’acqua ci faceva da sottofondo.
Dopo aver fatto l’amore ordinammo la cena che consumammo – affamati come dei predatori – sul terrazzo, accomodati sopra il dondolo che lo abitava. Mi sarebbe piaciuto rimanere a scrutare la città illuminata per tutta la notte, stretta a lui, cullata dal dolce dondolio dell’altalena, ma un ingenuo bacio sulle labbra si trasformò in un nuovo e sconcertante attacco di passione che ci trascinò in camera da letto, a suon di sussurri osceni e risatine nervose.  
Ci addormentammo come bambini, abbracciati in un intrico di gambe e braccia, e finalmente dopo tanto tempo mi risvegliai a mattino inoltrato, riposata e di buon umore.


 

Epilogo
 

I mesi sono passati veloci e la primavera è arrivata - come ogni anno - da un giorno all’altro: i fiori sono sbocciati e il sole si è fatto più tiepido.
Di Jenny ancora nessuna notizia, ma non perdo le speranze, so che lei è viva e sta bene, appena ne avrà la possibilità mi telefonerà e già mi ci vedo, a piangere come una fontanella con il cellulare vicino all’orecchio.
Oggi sono andata al supermercato con Willy e Matteo. Tra qualche giorno è il compleanno di Dahlia e le stiamo preparando una festa a sorpresa. In realtà credo che non sappia neanche cosa sia una festa, ma Matteo ha insistito così tanto che non ho saputo dirgli di no. Mentre passeggiavo fra le corsie, alla ricerca di palloncini e decorazioni varie, ho sentito la sua voce che mi chiamava, con quella cadenza interrogativa tipica di lui.
«Viola?!» come a dire “sei proprio tu?”
Mi sono voltata, interdetta, e Christian era a qualche passo da me, con un bambino di qualche anno per mano, biondo e grassottello.
«Cris… » ho sussurrato.
Se dicessi che non ho mai pensato all’eventualità di ricontrarlo un giorno, mentirei. Ci ho pensato, diverse volte, ho provato a immaginare le sensazioni che avrei provato e la sua espressione nel vedermi, ma in quel momento ho scoperto di non provare assolutamente nulla.
Christian non è cambiato poi così tanto: lo stesso sguardo bonario dagli occhi castani; i capelli gelatinati tirati di lato, qualche filo bianco sparso qua e là; la fronte con una ruga in più. Lui mi ha fissata con un’espressione da pesce lesso.
«Come stai, Cris?» gli ho chiesto, più per interrompere il momento imbarazzante.
«Bene, bene» il silenzio è calato di nuovo, ma solo per un attimo, prima che lui proseguisse. «E tu?»
«Io… » non avrei neanche saputo da dove iniziare. Cosa mi stava chiedendo in realtà? Come me la passavo in quel periodo o come fosse andata la vita per me? Poi è sbucato Willy, con il suo fare irriverente di sempre, mentre rideva di Mattew per qualche assurdità che probabilmente aveva detto - in buona fede. Tuttavia, incontrando gli occhi di Christian, il sorriso si è smorzato. Ho provato una sensazione di deja vu così forte che davvero mi è parso di fare un salto indietro nel tempo.
«Ah, Will! Ti ricordi di …»
«Come no!» ha risposto subito lui, tendendogli la mano. Christian gliel’ha stretta e sono rimasti così per svariati secondi, mentre Cris spostava l’attenzione sull’adolescente che ci accompagnava. Si è schiarito la voce e ha domandato:
«É vostro figlio?»
«Oh no, no» ho precisato io, scompigliando i capelli di Matteo che si è ritratto infastidito. «Lui è Mattew, il nipote di Will.»
«Ti somiglia» ha continuato Christian ritirando finalmente la mano da quella di William mentre mi guardava. «Ha i tuoi stessi lineamenti delicati» e io sono rimasta a bocca aperta.
Fin da quando avevo incontrato Matteo, la sera della cerimonia di beneficenza, quando mi aveva lasciato il biglietto scritto da Willy, avevo subito notato che non aveva la stessa sfacciataggine tipica della sua famiglia. Matteo mi era parso diverso, più sensibile e dolce in un certo senso, e Christian ha confermato il mio parere.
In quell’istante le parole dell’anziana del villaggio “ma sarai comunque mamma, la mamma di un bel bambino che hai fatto nascere” si sono rivelate in tutta la loro essenza.
Adesso so.
So che Matteo è mio figlio e che tutto ha un senso. Le nostre scelte, quello che facciamo e quello che decidiamo di non fare, ci portano proprio dove dovremmo essere, nulla accade per caso, alla fine ci troveremo dove ci spetta di diritto. La mamà lo chiamerebbe Fato, qualcun altro karma.
Io la chiamo vita.
Una giovane donna, che avrà avuto la mia età ma che le diverse gravidanze hanno invecchiato visibilmente, è spuntata dalla corsia parallela a dove stavamo noi, con altri tre bambini al seguito, due intorno alla decina, l’altro più piccolo. Era la moglie di Christian, quella fidanzata così gelosa da allontanarci e che in ogni caso non mi ha presentato. Con un cenno del capo si è congedato da noi, da me, per sempre.

William è stato di cattivo umore per tutta la giornata, lamentandosi del fatto che Cris lo aveva guardato in modo strano e con rancore e per farmi indispettire ha iniziato a rivolgersi a me con gli appellativi di un tempo, anche solo per chiedermi le cose più banali:
«Verdina, dove hai messo il telecomando?» oppure «Azzurra, hai visto quella camicia viola» ridendo a crepapelle. All’inizio sono stata al gioco, poi mi sono infuriata e gli gridato di smetterla di fare l’idiota, anche se idiota lo sei, che non avevamo più sedici anni e via discorrendo. Lui ha proseguito dicendo:
«Hai ragione, Stellina rossa, non abbiamo più sedici anni, soprattutto perché allora mi trattenevo dal farti quello che avrei voluto» ha abbozzato un ghigno, mi ha baciata issandomi a sedere sul tavolo della cucina e mi sono sciolta sotto di lui.

 

***** 

Mezz’ora fa è squillato il cellulare di Willy.  Ha risposto, mentre io ero mezzo addormentata sul divano, è tornato e mi ha ceduto il telefono, sillabando che cercavano me. Ho risposto senza troppo entusiasmo, convinta che fosse sua madre, Matteo o Dahlia.
Invece era Jenny!
Proprio come avevo predetto sono scoppiata in lacrime, continuando a farfugliare il suo nome, mentre mi raccontava velocemente le vicende che le avevano stravolto la vita, cose tipo “… ho chiuso centinaia di ferite senza anestesie” oppure “… ho infilato una mano in un buco sanguinante nell’addome di un uomo per fermare l’emorragia” e ancora “… io e Jack stiamo bene”. Mi ha detto che stava chiamando dall’ambasciata, che la guerra è finita, che adesso non sarà facile rimettere in sesto un’intera nazione, ma che faranno di tutto per riuscirci.
«Abbiamo bisogno del vostro aiuto, Viola. Di te e di Willy.»
Ho chiuso la conversazione dopo un’ora circa. Ho guardato Will e gli ho detto che dovevo tornare laggiù, da Jenny, dalla gente bisognosa, ora più che mai. Mi ha fatto un gran sorriso, come piace a me, e ha risposto che senza di lui non vado da nessuna parte e che devo smetterla una volta per tutte di minacciarlo di lasciarlo. Ho riso, ho pianto e l’ho baciato su tutto il volto.
Abbiamo deciso di ripartire dopo aver sistemato le cose qui, soprattutto con Matteo e Dahlia,  Entrambi siamo d’accordo sul fatto che stiano meglio in questo paese che in quello, almeno per il momento. Poi un giorno ci raggiungeranno, se lo vorranno.
 
Sdraiati uno di fianco all’altra, nel grande lettone del suo appartamento, abbiamo pensato di rivivere insieme tutte le vicissitudini che ci hanno visti protagonisti finora, ma con una certa leggerezza nell’anima, poiché adesso conosciamo il finale della nostra storia e sappiamo che sarà un lieto fine.
Partendo da quando facevamo finta di essere due sedicenni che si amavano e si tenevano per mano, condividendo momenti difficili come la malattia di mia madre, comprendendo troppo tardi i reali sentimenti di entrambi, passando per gli anni che ci hanno visti lontani, dall’infortunio alla morte di Lu, seguendo per la sua difficile riabilitazione, fino ai momenti vissuti insieme al villaggio.
Ricominciamo d’accapo allora, dal principio, da dove tutto è iniziato:
«Facciamo un patto.»

 
 

fine

  
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