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Autore: Deliquium    23/09/2018    3 recensioni
E questa dovrebbe essere una divinità? Un essere fragile?
Il cuore gli esplode in petto. Scosso da fremiti non riesce ad avanzare. È solo una bambina. Venuta al mondo da poco. Afferra la lama della daga, il dolore lo riporta indietro, gli ricorda il suo proposito. Il sangue scorre, sporca invisibile la veste scura.
Se lei muore, ogni cosa può essere salvata.
Sei volte diecimila stagioni.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gemini Kanon, Gemini Saga, Sagittarius Aiolos
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Rovine'
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Tre volte diecimila stagioni (Saga di Gemini)

Questa sei tu, la traccia di un sogno
che riapre il suo labirinto
nella notte degli inganni, quando
il sapore della vecchiaia
è già un vento freddo.

Ennio Flaiano.


È una notte tiepida questa. Una notte che si potrebbe definire immobile se non ci fosse la brezza a smuovere le fronde degli alberi, a piegare con delicatezza le ginestre affacciate sul cupo mare.
La luce della luna biancheggia i contorni, altrimenti oscuri: definisce un paesaggio immerso nel riposo. Quella di una lampada si accende dietro la tenda di una finestra. Un'ombra si delinea: forse un uomo. Si toglie la giacca, una camicia. Il profilo chino sul corpo dormiente. Una moglie? Un'amante? Forse un letto vuoto. La luce si spegne.
La strada rotola, deserta, tra due fila discontinue di case. I balconi traboccano di fiori chiusi su loro stessi a trattenere il calore del sole. La porta di un locale si apre. Un uomo vi esce. Si aggrappa al corrimano di ferro battuto che lo conduce in superficie. Una risata ebbra gli deturpa il volto. Si muove ondeggiando al ritmo di una ballata interiore.
Si ferma. Il volto rivolto alla luna. Le nubi s'intrecciano, scorrono. La notte si fa buia.
Alla fine della strada, oltre la città, attraverso la provinciale che sale verso la Montagna, oltre il bosco sacro agli dei, il tempo ruota su sé stesso. Immobile canta all'infinito una canzone cortese che non ha mai fine: di una dama dagli occhi scintillanti e la pelle diafana, di nobili cavalieri tra le colonne di un tempio, di fantasmi che non si ricordano di essere morti e continuano a bramare la vita, di un dio che si specchia in una spada di ossidiana, nella solitudine dei suoi ricordi.
La brezza che viene dal mare, che tutto vede, nulla comprende, scivola per i vicoli del villaggio ai piedi del Sacro Monte, imprime moto a una girandola iridescente piantata in un vaso di fiori, sale le scale di pietra, lambisce le Case vuote.
Sale, oltre il Tempio, oltre la millenaria scalinata, oltre l'imponente statua recante lo scudo e la vittoria alata, per poi spegnersi.
È solo una brezza, non un vento, non una tempesta, non un uragano.
Ci vuole uno sguardo che al pari del divino abbracci ogni cosa. Guardi oltre le mura spesse, scivoli negli anfratti bui, si srotoli per le strade.

La volontà, la brama di un posto nel mondo, lo sciabordio delle onde contro gli scogli, lo trattengono al di qua del regno del sonno e dei morti.
È una notte tiepida. Una notte oscurata dalle nubi. Dove la brezza si spegne a un passo dalla verità e la luna osserva, non vista, nascosta dietro un manto di vapore.
Kyros si arrampica sulla roccia, rifugge la marea nell'abbraccio della pietra. Ma essa è madre assente, arida. Il suo grembo non ha anfratti nei quali rifugiarsi e aspettare che tutto passi.
Scivola, cade, batte la schiena, la testa, spreme via la voce, in un dolore accecante e silenzioso. Il mare lo inghiotte, lo trattiene per un istante, gli sussurra promesse di allori e scranni vuoti, prima di risputarlo nell'aria.
Lui boccheggia, si aggrappa alla roccia, gli occhi chiusi. È vivo. Ancora.

Il volto di Kyros emerge dall'oscurità di un'immagine riflessa. La pelle diafana, le sopracciglia sottili, delineate dalla natura, segnano lo sguardo. Le labbra sono stirate in una linea sottile.
Il volto di Kyros non è il volto di Kyros.
Il tempo di Andréas è scosso da respiri profondi. Ci ha pensato a lungo. Giorno dopo giorno. Ora dopo ora. Istante dopo istante. A rapporto dal Gran Sacerdote. In compagnia del Sagittario. Per le vie di Rodorio. Ci ha pensato e ripensato. Percorrendo tutti i futuri possibili. Ha visto tutte le morti, inscenato tutti i possibili epiloghi. Ha indossato i panni di Andréas, i panni di Saga di Gemini, i panni di un folle, di un uomo che passa. Ma ha visto un unico futuro. Sognato un unico incubo.
Chiude gli occhi segnati dalle notti insonni. Richiama alla memoria i contorni del sogno: una valle di morte sulla quale non splende mai il sole.
Ha rinchiuso suo fratello nella prigione del mare perché sapeva scorgere la verità della sua anima, nella speranza che il suo cosmos arrivasse a spegnersi come la fiamma di una candela in un giorno di pioggia.
Ma Kyros è tenace. Si aggrappa alla vita, con i pugni stretti alle sbarre della prigione.
Quali mani, quali palmi e dita arrossa il sangue di Sion?
Chi ha levato la mano per primo?
Andréas osserva i suoi palmi lavati, le dita affusolate da fanciulla. Perfette nonostante l'impeto delle battaglie. Sono mani di un Santo. Mani di un dio. Mani di un uomo che ha compiuto una Scelta, nella notte in cui la luna si rifugia dietro le nubi e la brezza tiepida s'inginocchia ai piedi della Montagna.
Si chiude la porta alle spalle silenziosamente. Il volto nascosto dalla maschera di porcellana. Il mondo che vede è arrossato dal vetro cremisi che cela il suo sguardo. È un mondo pornografico, un mondo sanguigno.
Il corridoio è illuminato da lampade elettriche dalla forma di fiamma. Una coppia di soldati cammina verso di lui. Si ferma ai lati, composta. Le spalle dritte, la testa rivolta verso l'alto.
«Eccellenza», lo salutano.
Lo sguardo fisso e orgoglioso.
Andréas si limita a un cenno del capo. Passa oltre. Gli abiti che indossa gli appartengono da un mese. Ci ha impiegato tre volte tanto per apprendere le abitudini, il modo di camminare, la gestualità che caratterizzava Sion. Ha scomposto ogni suo discorso e, al fine di padroneggiarlo, ha ricomposto un logos identico dentro di lui.
È salito fino alla cima della montagna vestendo l'oro di Gemini e ne è sceso indossando la veste dell'uomo più vicino alla dea, una nuova anima, il suo terzo nome.
La lama della daga raffredda la pelle dell'avambraccio contro la quale è nascosta. Gli ricorda la verità del suo proposito. Un passo, due passi, tre passi. Il corridoio curva nell'oscurità per poi espandersi in una sala delimitata da colonne e bracieri spenti. La luna è ricomparsa, svestita di nubi. Lo segue al di là delle finestre, lungo la sala, il corridoio, fino alle scale. È lì, sempre. Ovunque lui vada. La luna lo osserva.
Andréas si ferma. La guarda.
Parlami, le comanda.
Fermami, la implora.
Chi ha comandato? Chi ha implorato? Dietro la maschera di porcellana il volto di Andréas si contrae.
Non tre. Quattro sono i nomi che è arrivato ad indossare.
Quello datogli da sua madre. Quello venuto con l'investitura. Quello del demone che abita il suo corpo. E il nome dell'uomo dietro la maschera.
Una fila di soldati protegge la porta. Sono affaticati dalla veglia notturna. Hanno lance di facciata, cinturoni di pelle ai quali sono appese pistole cariche. Questo è il ventesimo secolo, l'ultimo quarto di secolo. Chiama prudenza. E violenza.
Riconosciuto, Andréas oltrepassa la porta. È il Gran Sacerdote. È il padre putativo della piccola Athena. L'uomo scelto dagli dei per condurla nel mondo, insegnarle ad essere dea. Potrebbe tal uomo arrecare danno, nuocerle, ucciderla?
No, naturalmente. Ma Andréas non è tal uomo. Andréas ha quindici anni e l'anima immortale mai scesa dal ciclo delle reincarnazioni.
Quanto è profonda la colpa che la mia anima sta espiando?
Tre volte diecimila stagioni.
La stanza è vuota. Debolmente illuminata da applique di cristallo e ferro. La culla è rialzata, vi si giunge salendo tre gradini. Circondata per tre lati dalle alte vetrate, riceve il chiarore degli astri, e la carezza della notte.
La bambina dorme. Il volto sereno. Una nuvola di capelli castani ombreggia il capo. La boccuccia si muove, rumina debolmente, sorride. Sogna una madre che non ha mai avuto. L'abbraccio di un ventre sconosciuto. I pugnetti chiusi fremono appena.
Andréas trattiene il respiro, mentre fissa la bambina riconosciuta come Athena. Una dea.
E questa dovrebbe essere una divinità? Un essere fragile?
Il cuore gli esplode in petto. Scosso da fremiti non riesce ad avanzare. È solo una bambina. Venuta al mondo da poco. Afferra la lama della daga, il dolore lo riporta indietro, gli ricorda il suo proposito. Il sangue scorre, sporca invisibile la veste scura.
Se lei muore, ogni cosa può essere salvata.
Sei volte diecimila stagioni. La follia lo afferra, lo incatena. Ogni cosa deve essere compiuta. Questa notte, perché tutto possa riprendere a scorrere.

Avverte il suo cosmos ancor prima di udire la sua voce.
«Gran Sacerdote?» domanda titubante.
I capelli castani sembrano biondi al chiaror della luna. Indossa la tenuta d'allenamento. E Andréas è certo che Orestes ha continuato ad allenarsi fino a quel momento, che stava rientrando, ma qualcosa, il suo istinto di Santo, lo ha condotto nel Tempio, alla culla dell'Infante Athena.
E' il futuro Grande Sacerdote. Ogni porta si apre al suo passaggio.
Un istante è passato. Quello successivo, la lama biancheggia. Andréas sa che non potrà fare nulla. Cala la lama, conscio che non raggiungerà mai il cuore della bambina. Un sospiro gli sfugge dalle labbra nascoste dalla maschera di porcellana, mentre la mano di Orestes afferra la lama impedendo il deicidio.
Un sospiro di liberazione del quale Andréas nemmeno si rende conto.
La sua mente viaggia rapida, mentre l'altro urla.
«Cosa fate, Grande Sacerdote? Siete impazzito?»
Impazzito? Sì, forse. Forse lo sono. Forse no.
Strattona la mano, libera la daga. Di nuovo si avventa sulla bambina. Il suo corpo gli appartiene e non gli appartiene. Il demone che ha condiviso con lui il suo nome, è lui, e allo stesso tempo non lo è. È colui che Kyros ha visto mentre il mare si infrangeva sulle rocce di Capo Sunion. Il diavolo travestito da angelo che passeggia in un Eden deserto.
«Fermatevi, vi imploro, Grande Sacerdote.» Orestes gli afferra il polso, lo spinge via. È pronto a far sparire la lama nelle sue carni, se questo servisse a salvare Athena.
Anche lui, Andréas, era pronto a farlo. Avrebbe dato la vita per Athena, tutte le sue vite. Ma Sion non lo aveva ritenuto degno. Lo aveva trattato come uno qualsiasi. Lui che poteva sconfiggere un dio, se avesse voluto.
Il mondo gli si offre nel tenue splendore dei suoi colori lunari. Non più pornografici, non più sanguigni.
Solleva la mano, carezzandosi la guancia nuda.
«Tu?»
Gli occhi di Orestes si spalancano distrutti dalla consapevolezza, mentre Andréas smette di pensare, richiama il suo cosmos convogliandolo nella mano destra. Un colpo con il quale è sicuro di uccidere entrambi.
Penserà poi a una storia da raccontare. Di come Aiolos di Sagitter ha ucciso la divina Athena, di come lui ha ucciso il futuro Grande Sacerdote, ma non ha potuto salvare la piccola. Piangerà il Grande Sacerdote, si maledirà per aver scelto Aiolos. Nessuno troverà mai Saga di Gemini. Il fiume del tempo riprenderà a scorrere in un nuovo anfratto.
Il colpo esplode, dilania, ferisce a morte.
La luce incendia la notte per un momento, prima che tutto ripiombi nell'oscurità.

Andréas s'inchina, raccoglie la maschera di porcellana. Il suo volto è ombreggiato dall'impassibilità del fallimento.
I frammenti della culla sono sparsi sul pavimento.
Alza lo sguardo a incrociare gli occhi severi del giovane Capricorno.
Le sue labbra sono stirate in una lama.
«Hai fallito», gli dice trattenendo a stento il panico.
Shura non è mai stato d'accordo con l'uccisione della bambina e Andréas aveva dovuto lavorarci a lungo perché il dubbio sulla sua divinità sfiorasse il Capricorno.
«Una bambina, Shura. L'Esercito dell'Oltretomba sta per avanzare e loro ci mandano una bambina? Guardala? Non ha nemmeno un misero cosmos.»
E il dubbio aveva attecchito all'anima del Capricorno.
«Cosa vuoi che faccia?» Gli chiede, senza guardarlo.
Andréas lo guarda per un'istante. Il profilo indurito del ragazzo gli rammenta la loro colpa.
Nove volte diecimila stagioni.
«Lo sai, Asura» è tutto quello che gli dice prima di lasciare la stanza ormai immersa in un'oscurità senza luna.

Note dell'Autrice - la Notte degli Inganni è un missing moment con il quale ho sempre tentato di non confrontarmi. L'ho lambita in altri scritti. Ho raccontato il prima, il dopo. Mai la notte in sé. Ma, ieri, mentre rileggevo le citazioni da “Il Diario degli Errori” di Ennio Flaiano mi sono ricordata di quella che apre questo scritto e il resto è venuto da sé.
Secondo l'orfismo la metempsicosi è l'espiazione per un'antica colpa compiuta dall'anima, tale concezione si è radicata nel Pitagorismo prima fino al Platonismo e successivi.
Tre volte diecimila stagioni è, secondo Empedocle, il numero di reincarnazioni che l'anima deve superare prima di giungere alla Dimora degli Dei.

Questa è opera di fantasia.
Saint Seiya, i suoi personaggi e ogni richiamo alla serie citata appartengono a Masami Kuramada. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo come omaggio da parte di un fan. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo sono immaginari, e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente né intesi come denigratori. In particolare, i personaggi, le ambientazioni e le situazioni da me create, mi appartengono; per poterli utilizzare altrove, o per riprodurre questa storia o parti di essa è necessario il mio consenso.

   
 
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