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Autore: Persej Combe    23/09/2018    3 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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   «Ah, Meyer. Buonasera».
   Il professore l’aveva accolto nello studio con un sorriso stanco, sollevando piano la testa dalle carte, poi l’aveva guardato in silenzio. Pochi istanti appena, perché subito dopo era tornato ad impugnare la penna nelle dita e a scribacchiare. Meyer gli aveva fatto un cenno di saluto e si era richiuso la porta alle spalle.
   «Ne ha ancora tanto per oggi?» chiese, scrutando la mole di plichi e libri aperti sulla scrivania.
   «No, ho quasi finito. Anche perché tra poco c’è da chiudere il Dipartimento e se provassi a trattenermi anche un solo minuto di più mi caccerebbero», ridacchiò, «Lei? Ancora qui?».
   «Sì, ho incontrato quella tirocinante. Le serviva un confronto dei dati di Blaziken con quelli di qualche altro Pokémon».
   «Ho capito. Una brava ragazza, non le pare?».
   «Già».
   La penna del professore passava sulla carta. Nell’esaminare una formula complessa, ogni tanto Platan sospirava e si accarezzava i capelli. Meyer lo osservava, seduto all’altro capo del tavolo, seguendo il movimento della mano che andava a sciogliere i boccoli ricadenti ai lati della fronte.
   «Molto carina, anche», disse ad un tratto, col solo scopo di sondare la reazione dell’altro, che in risposta gli rivolse un’occhiata distratta, non avendo colto del tutto le sue parole: quando chiuse il tomo che stava sfogliando e lo ripose in ordine assieme al resto del materiale, gli lanciò un sorrisetto divertito.
   «È carina, è carina», ripeté quindi Platan, alzandosi dalla sedia e spostandosi verso la libreria «Ma, vede, è troppo giovane per me. Personalmente, ho dei gusti un po’ più maturi».
   Dopo aver sottolineato con una leggera enfasi la parola maturi, l’aveva guardato in silenzio un’altra volta come quando l’aveva accolto, e Meyer aveva avuto per un attimo l’impressione di affogare nel grigiore dei suoi occhi. Non poteva negare di compiacersi lui stesso di quelle frecciatine che di tanto in tanto egli gli indirizzava, sebbene sapesse di non essere l’unico oggetto di tali attenzioni.
   Tentennò, crogiolandosi nella sensazione che gli dava l’esser squadrato a quel modo da lui. Chiese: «Le dispiace se resto ad aspettarla?».
 
 
 
   Si erano scambiati qualche battuta, uno sguardo fugace sospeso nell’affievolirsi delle loro voci. Poi, di colpo, svoltato l’angolo, nella striscia nera tracciata dall’ombra degli edifici alla luce del tramonto si erano riversati l’uno contro l’altro in un bacio rovente. Si erano guardati un attimo, soltanto un attimo, gli occhi già languidi e vogliosi, per poi tornare a stringersi stretti in una morsa ossessiva, con le braccia che cercavano di inglobare l’intero contorno delle loro schiene. Nel turbinio dei respiri affannati e caldi, Meyer si lasciò soggiogare dalla bocca umida di lui, dallo schioccare ipnotico che quelle labbra producevano nel concedersi alle sue. Afferrandolo per i polsi, lo spinse contro il muro, e l’urto dei loro corpi fu piacevole. Sentì le sue dita andarsi a chiudere freneticamente tra le ciocche dei capelli per attirarlo ancora più vicino, ancora più vicino a sé. Lo raggiunse e continuò a rincorrerlo ogni volta che si allontanava, anelando a nient’altro che ad unirsi con lui, due poli opposti che dovessero a tutti i costi venire a collimare e combaciare tra di loro. Ad un tratto, però, lo avvertì svincolarsi leggermente. Allora fece scivolare il viso sul suo collo, docile docile, affondando nella sua pelle liscia e bianca.
   «Se mi beccano qui così, mi tolgono il posto», sussurrò Platan, il fiato corto che si allungava a sfiorargli appena le orecchie. Ma tradendo le intenzioni che aveva indirettamente espresso neppure un istante prima, tornò a cercarlo un’altra volta, e lo baciò di nuovo. Meyer si chinò su di lui, gli accarezzò le guance con le mani grandi e robuste. Nell’impressione imprecisa data dalla vicinanza dei loro visi, lo fissò negli occhi semichiusi, scorgendovi un bagliore delicato, intriso del più vivido piacere. Allora gli venne il capogiro, non capì più nulla se non il desiderio pressante di averlo tutto per sé per il tempo di qualche ora, di qualche momento: un peccato innocente.
   «Vieni da me, Augustine», mormorò «Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me».
   Il bagliore lascivo degli occhi di Augustine parve vibrare, e assottigliarsi e rimpicciolirsi come fiamma traballante nel vento mentre realizzava ciò che gli stava venendo offerto quella sera. Ogni cosa era tesa, sospesa in un limbo indefinibile e inaccessibile oltre quegl’occhi, nei quali Meyer non riusciva a penetrare più affondo di quanto gli fosse permesso. Restò in attesa della sua risposta. Non respirò neppure, né si permise di creare il minimo rumore. L’altro esitava. Lui continuava a scrutare quella sua scintilla incerta, col cuore in gola, osservando ogni suo impercettibile movimento. Ed eccola, si riaccrebbe, luminosa e calda. Sulla guancia, Augustine vi lasciò un ultimo bacio e fece scorrere piano le dita sul suo petto ampio, saggiandone le forme con delicatezza.
   Disse di sì. Dopodiché si trattennero pochi altri minuti, incapaci di staccarsi troppo presto l’uno dall’altro. In silenzio andarono, le mani nelle tasche e lo sguardo basso, come se niente stesse accadendo. Fu veloce: Meyer prese le chiavi della motocicletta, diede il casco ad Augustine, montò, incrociò un paio di occhi, udì qualche risata della gente che passava per strada e si sentì colpevole e clandestino, ma prima che potesse effettivamente rendersene conto era già in movimento, il peso dell’altro che premeva contro la schiena, una rassicurazione insolita all’interno di quella bolla solitaria in cui si era abituato a stare.
   Mano a mano che camminavano nel traffico, fra le luci dei fanali e il rumore dei clacson, non poté fare a meno di confrontare l’atteggiamento di Augustine con quello della ex moglie. Molte volte nel gesto di lei aveva scoperto un amore, un affetto, poiché non era stato soltanto un appiglio, un appoggio al quale sostenersi, ma la metà alla quale congiungersi, a cui unirsi nel bene e nel male, presenza costante e inaffondabile. Gli tornò alla mente qualche parola e un nomignolo sciocco che gli aveva affibbiato una volta con dolcezza, e la sua bocca prese per un istante una piega amara: perché questo era stato anni prima. Poi era subentrata una vaga freddezza, l’impressione di essere un mero oggetto, uno scudo dietro il quale appostarsi per pura abitudine, piuttosto che per necessità e trasporto. Sospirò mentre superavano una fila di macchine e avvertì una morsa lieve intorno ai fianchi.
   Augustine era completamente diverso. In quel suo stringersi contro la sua schiena non c’era amore, né affetto, solo il più semplice e puro desiderio di sesso, paziente, in attesa di essere soddisfatto. Meyer si chiese da quanto tempo non si fosse abbandonato così a un’altra persona, ammesso che si fosse mai effettivamente abbandonato così a un’altra persona, senza alcun tipo di impegno, né intenzione di instaurare un legame, un rapporto. Ogni volta che si fermavano ad un semaforo sentiva la mano di Augustine scivolare lungo l’addome, già pregustando ciò che sarebbe venuto dopo, quando si sarebbero spogliati e avrebbe potuto toccarlo sotto gli strati dei vestiti e del cappotto. Meyer distrattamente gliela prendeva, l’accarezzava, percepiva le sue dita annodarsi alle proprie, tracciare interminabili linee nel palmo, che giravano e rigiravano, poi si arrestavano e ricominciavano, e lui lo seguiva, instancabile, e sembrava che con quei movimenti già anticipassero entrambi i loro pensieri e le fantasie, nella complicità che si era venuta a creare nello stare vicini. Erano sensazioni alle quali Meyer si affacciava per la prima volta con leggero timore, poiché nel momento in cui la porta di casa sarebbe stata chiusa, sapeva che si sarebbe ritrovato davanti all’ignoto, a una voragine inconoscibile. Perché, sì, forse aveva cercato, aveva visto qualcosa, e forse a volte – o piuttosto molte – aveva immaginato di fare quelle stesse cose con lui, nudi insieme nel medesimo letto su cui prima era stato con la moglie, ma oltre a qualche nebulosa aspettativa, di quali certezze poteva rassicurarsi?
   La pressione del corpo di Augustine si fece più pronunciata mentre si spingeva sopra di lui, forse nel tentativo di indurlo a voltarsi per rubargli un bacio sfuggente dalle labbra ruvide. Ma bisognava ripartire, così Meyer gli concedeva un’ultima carezza ancora tra le dita lunghe prima di rimettere mano alle manopole del manubrio e andare.
   Una volta arrivati, parcheggiò. Spense il motore. Lasciò che Augustine potesse scendere, smontò a sua volta. Lo accompagnò al portone. Attraversando l’atrio, istintivamente gli strinse una mano e sentì i suoi polpastrelli sfiorargli le nocche.
   In ascensore non si dissero nulla. Lo sguardo di Meyer vagava da un punto all’altro, terribilmente ansioso e allo stesso tempo eccitato, evitando cautamente d’incontrare quello di lui. Gli capitò di fermarsi sulla sua bocca socchiusa, evidenziata appena dalla luce fioca e giallastra che veniva dal soffitto. Lunga e sottile, dal bel taglio lineare. Riportò alla mente la morbidezza che aveva tastato quando l’aveva baciata e per un attimo la vista gli evocò un qualche pensiero indecente. L’ascensore si arrestò.
   Uscirono sul pianerottolo e si avvicinarono quatti quatti alla porta di casa. Mentre infilava la chiave nella serratura, a Meyer tremavano e sudavano le dita. Accompagnato dallo scricchiolio sgraziato della porta invitò Augustine ad entrare, non si preoccupò nemmeno di accendere la luce. Il mazzo di chiavi scivolò a terra con un tonfo metallico. Augustine gli si presentava adesso solo nella penombra dell’appartamento. Di nuovo Meyer lo spinse contro la porta e di nuovo si riversò su di lui in preda ad un furore incontenibile, subito accolto con le più vive cerimonie. Si strinsero, si abbracciarono come assetati l’uno dell’altro. Si accarezzarono con prepotenza quasi brutale. Augustine fece per liberarsi della giacca e della borsa da lavoro con scatto irrequieto.
   «Ecco, sì», sospirò Meyer «Queste dalle a me».
   Quindi le prese, si tolse il cappotto a propria volta, lo sistemò con cura e in ordine insieme alle altre cose sull’appendiabiti dell’ingresso. Vide Augustine sorridere, o forse ridacchiare, non lo capì, non ci provò nemmeno, lo baciò e basta, abbandonandosi alle sue labbra, alle sue mani che lo toccavano fin dove riuscivano ad arrivare. Lo tirò a sé, stringendolo alla vita e conducendolo a tentoni attraverso il buio del salotto e poi del corridoio. Quasi perse l’equilibrio calpestando uno dei pupazzetti di Lem sparsi sul pavimento. In quel momento gli si focalizzò nella mente per pochi secondi il ricordo dei figli e la cura con cui avevano disposto i soldatini in fila a guardia della loro cameretta e provò un acuto rimorso nel petto. Ma Lem mi perdonerà, pensò, scalciandone uno da parte per farsi strada, seguito poco dopo da uno Psyduck di gomma, mi perdonerà.
   Stavolta si allungò risoluto verso l’interruttore della luce ad accendere quella soffusa del lumetto sopra il comodino. Si sedettero entrambi sul letto e poco dopo si sdraiarono, l’uno avvinghiato nelle braccia dell’altro.
   Ad un tratto, però, Meyer sentì Augustine gemere sotto di sé e reclinare la testa sul materasso mentre gli baciava il collo magro, ed ebbe un fremito lungo la schiena. Un ripensamento.
   Forse non era il caso. Forse non era ancora pronto ad una svolta del genere, a ricominciare così smaniosamente con quello che a conti fatti altro non era che uno sconosciuto. Si rimise a sedere, spinto dall’altro che nel frattempo iniziava a spogliarsi, e il risollevarsi così rapidamente gli fece girare la testa. Vide la camicia di lui aprirsi, e un bottone dopo l’altro il suo petto gli si mostrò davanti agli occhi. Si sorprese di quanto piacevole trovasse quella vista e di quanto desiderasse farla sua, più di quanto avesse creduto possibile. La fissò con lieve turbamento mentre Augustine lasciava scivolare via il tessuto lungo le spalle e la schiena per poi farlo cadere da qualche parte sopra il tappeto, senza troppi complimenti e del tutto consapevole dell’effetto dei propri gesti. Prima che potesse tornare a gettargli le braccia al collo, però, Meyer lo bloccò. Dalle labbra gli uscì un «Professore» a malapena percepibile, mormorato tra i denti, e Platan a quel suono parve come riscuotersi e arrestarsi, e rimase a fissarlo in silenzio.
   Dagli appartamenti vicini proveniva un rumorio di sedie che venivano spostate e di stoviglie apparecchiate sulle tavole. Doveva essere quasi ora di cena. Meyer allora si rese conto di come in tutto ciò avesse completamente perduto la cognizione del tempo, e seppur fosse una mancanza minima, inevitabilmente anche questo lo portò ad allarmarsi. Quanto era passato dall’ultima volta in cui aveva perso a tal punto coscienza di sé stesso? In tutta la sua vita, non si era mai concesso a nessun altro che a sua moglie. Gli parve di vederla, seduta anche lei sul letto a metà strada tra lui e il professore. Che si erano innamorati ancora ragazzini, ed era stata l’unica vita che avesse mai conosciuto. Rimase a guardarla, inerme e incapace di muoversi.
   Poi però all’improvviso, l’uomo che se ne stava dall’altro capo si avvicinò, trapassando il viso di lei e le sue forme tenere e rotonde, e si fermò di fronte a lui con uno splendore gentile negli occhi. Allungò le dita a serrargli le labbra e Meyer fu rapito dalla sua voce mentre sussurrava: «Per te stasera sono solo Augustine. Va bene?».
   Di colpo egli si ridestò. Si risvegliò nel suo abbraccio quieto, di un’intimità pura, priva di qualsiasi lascivia. Esitando, passò le mani sulla sua schiena. Percepì il contatto con la sua pelle nuda che si scaldava al proprio tocco. Poi lo travolse il respiro di lui che soffiava contro il collo. Si abbassò a poggiare la testa sulla sua spalla sottile, a raccogliere un poco del suo profumo, e nel piegarsi a posare l’orecchio udì i battiti del suo cuore, che si succedevano uno dopo l’altro serenamente, senza alcuna fretta. Lo strinse in silenzio.
   Provò una sensazione smile ad un amore, come quello che aveva versato nei confronti della moglie anni prima, e nella carezza delle sue ciglia che si chinavano a sfiorare le guance prima di risollevarsi immediatamente a scoprire gli occhi grigi, in quel brevissimo lasso di tempo, ebbe la fragile illusione che fossero da sempre stati amanti e che soltanto allora fossero riusciti a incontrarsi per la prima volta. Lambì le sue labbra con le proprie, dolcemente, poi vi premette un bacio sopra, e si diede a lui senza rimorso.



 
~ ~ ~



Ciao a tutti!
Come state? Spero tanto che abbiate passato delle belle vacanze e che la ripresa con gli studi e il lavoro non sia stata troppo traumatica!
Ho iniziato a scrivere questa storia dopo aver finito di pubblicare
A un passo dalla scogliera quest'estate e la si può considerare un suo spin-off. Più che altro confesso che mi è sfuggita di mano questa seconda coppia e piano piano è venuto fuori questo! :') Non sono sicura che possa essere bella quanto l'altra, ma l'idea mi piaceva molto e così ho deciso di provare a lavorarci un po' sopra lo stesso. All'inizio ero indecisa se renderla una raccolta, dato che anche in questa vorrei usare una struttura a flashback (stavolta più ad incastro), però poi ho visto che nell'insieme i capitoli avevano comunque una successione abbastanza coerente, perciò ho lasciato stare. V
edremo insieme come andrà a finire!
Per ricapitolare brevemente un attimo le cose per chi ne avesse bisogno, come forse avrete capito Meyer è il papà di Lem e Clem, e nell'anime aiuta il Professor Platan con le sue ricerche nelle vesti di Maschera di Blaziken/Blaziken Mask. Come quasi tutti i personaggi di Pokémon, anche Lem e Clem hanno un genitore mancante, ma in questa storia ho voluto inserire una madre per loro - di lei però ne parleremo meglio più avanti. Dopo l'episodio del rapimento della Garchomp di Platan da parte del Team Rocket, su Tumblr è nata questa ship tra lui e Meyer e sebbene non mi abbia mai colpito troppo, ultimamente ho finito per affezionarmici e quindi adesso eccoci qui! Per capire gli avvenimenti di questa storia non è necessario aver letto l'altra, dato che la maggior parte degli eventi si collocano precedentemente ad essa. L'universo di riferimento inoltre è quello dei giochi e non dell'anime, dato che non è presente Zygarde, ma esiste l'arma suprema con AZ e Floette.
Spero tanto che possa piacervi, per quanto magari possa essere un po' insolito vedere questi personaggi assieme! ♥
Un ringraziamento speciale va a GingerGin e JoksBK per avermi sostenuto su questo primo capitolo, e un abbraccio grande va invece a tutti voi che siete passati a leggere!
Ci vediamo il mese prossimo con Guzman! Yo!
Persej
  
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