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Autore: Ghen    30/09/2018    7 recensioni
Dopo anni dal divorzio, finalmente Eliza Danvers ha accanto a sé una persona che la rende felice e inizia a conviverci. Sorprese e disorientate, Alex e Kara tornano a casa per conoscere le persone coinvolte. Tutto si è svolto molto in fretta e si sforzano perché la cosa possa funzionare, ma Kara Danvers non aveva i fatti i conti con Lena Luthor, la sua nuova... sorella.
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Non solo quello che sembra! AU (no poteri/alieni) con il susseguirsi di personaggi rielaborati e crossover, 'Our home' è commedia, romanticismo e investigazione seguendo l'ombra lasciata da un passato complicato e travagliato, che porterà le due protagoniste di fronte a verità omesse e persone pericolose.
'Our home' è di nuovo in pausa. Lo so, la scrittura di questa fan fiction è molto altalenante. Ci tengo molto a questa storia e ultimamente non mi sembra di riuscire a scriverla al meglio, quindi piuttosto che scrivere capitoli compitino, voglio prendermi il tempo per riuscire a metterci di nuovo un'anima. Alla prossima!
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altri, Kara Danvers, Lena Luthor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ours'
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27. Inadeguato


Era nato in una tiepida mattina di marzo. Un figlio voluto, in special modo da sua madre: una giovane intelligente, bella e ambiziosa che aveva conquistato il posto accanto all'erede dei Luthor. Si diceva che nonostante Lillian non fosse nata in una famiglia ricca, avesse l'aristocrazia nell'animo e che fosse stata una di queste cose a toccare il cuore di Lionel Luthor ai tempi. Si somigliavano, andavano d'accordo, e che ci fosse amore o meno, come dicevano le malelingue, i due erano stati destinati. Così com'era destinato a una vita di successi il loro bimbo, che avevano chiamato Alexander.
Lex Luthor era un bambino attento, silenzioso e timido. Prima di frequentare una scuola privata sapeva già parlare tre lingue, risolvere espressioni matematiche da liceo e suonare due strumenti. I suoi genitori lo avevano preparato a tutto, aveva avuto gli insegnanti privati migliori che lo avevano seguito passo per passo per essere il migliore, e lo era, ma se c'era una cosa per cui non era stato preparato, quello erano i rapporti sociali. Era entrato a scuola con l'unico scopo di spiccare, ma il suo diventare il migliore della classe e il ragazzino più lodato degli insegnanti lo aveva reso anche il più odiato della scuola. La sua era una scuola prestigiosa, non esistevano piantagrane e ognuno di quei ragazzi voleva emergere, Lex Luthor aveva sbaragliato la concorrenza e lo avevano preso di mira per questo. Aveva passato il primo anno di medie a mangiare da solo in un angolo, a doversi aspettare qualche colpo da chi gli passava vicino, di essere scambiato per la porta quando giocavano a pallone, perfino dai suoi stessi compagni di squadra, e di essere picchiato alla fine delle lezioni. Tutti lo conoscevano, tutti parlavano di lui, tutti lo odiavano; perché se non lo odiavano, allora finivano per essere emarginati anche loro.
«Cos'hai lì?», gli aveva chiesto suo padre un giorno. L'autista era andato a prenderlo a scuola e una volta in villa lo aveva guardato un solo attimo, ma quel solo attimo era stato sufficiente. Si era avvicinato e gli aveva toccato il viso tastando appena, come avrebbe fatto con qualcosa di troppo fragile, l'occhio destro tumefatto.
Li aveva sentiti parlare di quello, la sera a seguire, quando pensavano che ormai dormisse da un pezzo. Sua madre aveva singhiozzato come non l'aveva mai sentita, come non pensava neppure ne fosse capace. Poi l'aveva sentita starnazzare parole d'odio, come invece sapeva che riusciva a fare benissimo.
«Voglio andare a parlare con la scuola, ci siamo capiti? Non si devono nemmeno lontanamente permettere di toccarlo. Incivili piccoli bastardi. Non sanno contro chi si sono messi».
Suo padre non era sembrato della stessa opinione. «Siamo stati ragazzi anche noi, Lillian, te lo ricorderai. Se andiamo a parlare con la scuola, sarà preso ancora più di mira».
«È un bambino, Lionel. Tu lo vedi come un ragazzo, ma ha appena compiuto undici anni. È timido, non sa socializzare. Se vedrà che i suoi genitori sono dalla sua parte, magari…».
«Non sa socializzare perché ha passato i suoi undici anni a casa invece di frequentare la scuola con i coetanei fin da bambino. Ma tu eri contraria».
«Non osare dare a me la colpa di quanto sta succedendo! Lex ha ricevuto la migliore istruzione proprio perché non doveva dipendere da un istituto che lo avrebbe distratto con giochi da bambini. E tu non hai obiettato, mi pare. Certo, se fossi stato più presente durante questi anni invece di andarti a divertire altrove, e ti saresti preso cura di nostro figlio…».
«Ci sono sempre stato per nostro figlio». Suo padre aveva lasciato la stanza e sceso le scale per il salone con passo svelto, chiudendo lì la discussione. Si stavano separando, allora ne era già certo. L'accusa di sua madre era fondata: Lionel Luthor era ancora più assente e aveva iniziato a trattarlo da adulto dai nove anni; e i giochi con lui erano spariti, erano sparite le favole, erano sparite le colazioni a base di pancake cucinati da lui. Era quasi sparito lui dalla sua vita.
La mattina seguente a quella discussione, l'uomo lo aveva preso da parte prima che l'autista lo avrebbe accompagnato a scuola, decidendo di dire al figlio qualcosa che, da lì in avanti, lo avrebbe accompagnato durante la sua vita.
«Non puoi farti mettere i piedi in testa. Reagisci ora o continueranno a farlo per tutta la tua vita. Non gli stessi ragazzi, ma gli stessi sentimenti, gli stessi motivi. Sapranno che con te potranno prendersela sempre, come se potessero annusare la tua paura. Ti perseguiteranno».
«Ma loro sono più grossi di me».
«Saranno sempre più grossi, Lex», gli aveva stretto le spalle piccole e gracili. «Ma tu sei un Luthor, sei intelligente e capace. Se non puoi batterli in un modo, trova un altro per farlo. Trova il tuo modo».
Spinto da quelle parole aveva provato a reagire, sferrando un pugno. Dopo avevano dovuto portarlo in infermeria e chiamare la sua famiglia, perché lo avevano picchiato più forte. Suo padre non lo aveva neppure guardato al rientro, mentre l'autista li riportava a casa. Era rimasto così deluso.
Alla fine dell'anno scolastico si era sentito sollevato e pronto per ricominciare. Nuovo anno, nuove conoscenze. Si sbagliava: i primi mesi erano la calma che precedeva la tempesta, capendo quanto mai prima che ciò che gli aveva detto suo padre era vero e che ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto ad assoggettarlo. Quei colpi e quelle offese lo stavano lentamente distruggendo. Si sentiva debole, non voleva più andare a scuola e si sforzava di farlo solo per non deludere ulteriormente suo padre perché, anche se lo sentiva distante, Lex non aveva mai smesso di cercare la sua approvazione. Si sentiva solo, e vuoto.
Finché una mattina qualcosa gli frullò per la testa. Doveva comprare un nuovo spartito per il piano, così aveva portato a scuola i soldi da casa e, dopo aver visto un bulletto prendere i soldi da un altro bambino, una scintilla era passata per la sua testolina: invece di dare i soldi ai bulli che lo tormentavano, avrebbe pagato uno di loro per essere protetto. A cosa serviva sapersi difendere se qualcuno avrebbe incassato i colpi al posto suo, seppure per soldi? Luis era un ragazzino di prima media ma grosso almeno due volte lui. Quelli del suo anno gli stavano ben alla larga: era bastato fargli fiutare l'offerta di essere pagato un tanto al giorno per metterlo dalla sua parte. Il tanto al giorno era diventato un tanto alla settimana, poi al mese; Luis era stato il primo, e poi altri si erano uniti a lui. Sua madre si era arrabbiata perché comprava meno spartiti di quanti ne comperasse prima, ma non gli importava: finalmente riusciva ad andare a scuola sereno. I bulli che lo tormentavano a scuola erano spariti, diventati agnellini pronti al macello. Durante la seconda media, Lex Luthor era diventato il capo. Eppure, se pensava, o almeno all'inizio, che diventare il boss della scuola avrebbe risolto tutto, avrebbe presto scoperto che si sbagliava. Quando i bambini della scuola diedero una festa, scoprì solo il giorno dopo di non essere stato invitato.
Ora era temuto, forse era il più ricco, e non era di certo più una vittima, ma era rimasto solo.

«Non la voglio qui!», sua madre aveva gridato dalla loro camera da letto.
Lex aveva da poco compiuto tredici anni e, come al solito, si ritrovava ad ascoltare le conversazioni private che non erano affatto private di sua madre e suo padre. Stavolta aveva centrato il tema del discorso prima ancora di sentirli iniziare a parlare: l'amante di suo padre era scomparsa tragicamente e lui era rimasto l'unico tutore in vita della figlia che aveva avuto con quella donna. Suo padre voleva portarla a casa, ma Lex sapeva che non sarebbe mai successo poiché sua madre era contraria e, se sua madre era contraria, allora non se ne faceva niente come al solito.
«Non capisci che andrà a finire in un istituto se non la portiamo qui?».
«Cosa vuoi che me importi? Dimmelo, Lionel. Non capisco perché dovrebbe interessarmi. L'hai avuta con la tua amante: è morta? Sua figlia non è un mio problema».
La faceva facile, aveva pensato il ragazzino. Lex aveva poi scrollato le spalle e si era coperto meglio col lenzuolo, cercando di trovare di nuovo concentrazione per leggere una seconda volta L'isola del Tesoro, che si stava portando dietro da troppi giorni, ormai.
«È una Luthor, Lillian».
A quelle parole era seguito uno strano silenzio e Lex aveva di nuovo sollevato gli occhi dal libro per ascoltare meglio ciò che succedeva al di là del muro. La loro famiglia aveva sempre dato molta importanza al loro nome: il suo nonno paterno, scomparso quando lui aveva nove anni, era solito prenderlo da una parte e raccontargli di quanto contassero per la storia di National City, che doveva essere orgoglioso di essere uno di loro e che un giorno avrebbe dato il suo nome ai figli. Così importanti che con la lettera del cognome, dovevano portare anche quella del nome: per questo motivo lui era stato cresciuto come Lex, invece di Alexander. Se suo padre voleva mettere in crisi Lillian con i suoi principi, quello era il modo giusto.
«È una bastarda».
«È mia figlia», aveva ribattuto lui.
«Va bene! Va bene!», l'aveva sentita urlare e se l'era immaginata alzando le braccia con fare nervoso. «Portala qui. È una Luthor. Quella bambina troverà in me una madre, ma non pensare che andrà bene così: avrà in me una madre, ma io non avrò mai in lei una figlia».
Suo padre era uscito dalla stanza poco più tardi e, avvicinando l'orecchio alla parete, Lex aveva sentito sua madre piangere. A volte aveva davvero odiato suo padre. Per quanto sua madre fosse una donna con un carattere difficile, Lex non aveva mai accettato il fatto che suo padre l'avesse tradita ed era certo che se anche a lei fingesse di andar bene, in realtà non le andava bene per niente. Era normale che si arrabbiasse ed era normale non volere quella bambina. Una sorella? Davvero suo padre avrebbe portato una bambina a casa sua che avrebbe dovuto trattare da sorella? Non era pronto, in special modo perché lei era il frutto di ciò che aveva rovinato il rapporto dei suoi genitori e aveva già deciso che l'avrebbe odiata. Non sarebbe stato difficile. Avrebbe fatto rimpiangere a quella bambina il fatto di non aver desiderato di andare in un istituto. Non avrebbe condiviso con lei tutto ciò che aveva. Per niente al mondo lo avrebbe fatto.
Così, quando si era ritrovato faccia a faccia con lei pochi pomeriggi più tardi, Lex aveva faticato a salutarla. Era piccola, con un nastrino giallo tra i capelli e indosso un vestitino scialbo, non sembrava una Luthor. Anche se si chiamava Lena.
«Falle fare un giro della casa, Lex», gli aveva ordinato suo padre.
Lui era rimasto dapprima immobile, a guardarla, poi le aveva chiesto di seguirlo. Fermandosi al piano di sopra, per un attimo pensò di buttarla per le scale. Sarebbe stato facile, un incidente poteva capitare, non avrebbero dato la colpa a lui, o se non altro sua madre lo avrebbe protetto. Però, un gesto cambiò tutto: Lena si era voltata, aveva cercato la sua mano e, dopo averla stretta, aveva sceso le scale con lui mano nella mano. Lex non ce l'aveva fatta, si era arreso subito: non a gettarla dalle scale, ma ad odiarla. Era stato attento che non mettesse male un piede, che si tenesse, e l'aveva portata giù sana e salva. Lei lo aveva chiamato fratello quando l'aveva portata fuori, dopo che Lillian li aveva guardati di malo modo, come se si aspettasse che in fondo un incidente capitasse davvero.
Lillian Luthor odiava Lena, Lex lo sapeva. Era riuscita in ciò che lui non aveva avuto successo. Tuttavia, crescendo, Lex si era anche reso conto che sua madre in uno dei suoi propositi aveva fallito: aveva giurato a se stessa che non avrebbe trovato in Lena una figlia, ma era successo senza che se ne rendesse conto.

Lena aveva seguito gli stessi piani scolastici che aveva seguito Lex e ancor prima di compiere cinque anni aveva imparato a scrivere e leggere e a suonare uno strumento. Solo che, a differenza del maggiore, suo padre aveva deciso che avrebbe frequentato le scuole elementari e Lillian non aveva avuto da replicare. La bambina aveva seguito una rigida serie di regole ed era stata richiamata la tata che se n'era andata ai dodici anni di Lex. Se non fosse stato per lui, era convinto che Lena sarebbe morta di noia prima di avere l'età per entrare a scuola.
Eppure, per quanto le volesse bene, non riusciva a non essere geloso di lei. Vedere suo padre che ancora le raccontava la favola della buonanotte, che la portava con lui fuori quando doveva spostarsi per lavoro, che le faceva dei regali, che al mattino le preparava i pancake lo mettevano di cattivo umore. Voleva odiarla e non ci riusciva. Era una delle tante cose che non gli riuscivano.
Lui canticchiava e lei aspettava col piattino davanti al bancone che la colazione fosse pronta. Erano insopportabili.
«Ecco a te, tesoro», le aveva detto una mattina. «Aspetta, aspetta: le fragole! Eccole».
Lei aveva iniziato a mangiare e suo padre aveva alzato lo sguardo e lo aveva visto lì, impalato che li guardava. Forse doveva avergli fatto pena, aveva pensato, come un cucciolo abbandonato.
«Lex, ne vuoi?».
Allora sapeva che doveva rifiutare e fingersi superiore, ma… «Sì». Gli aveva sistemato un piatto accanto a quello di Lena e poi messo su un pancake anche per lui. Così erano ricominciate le loro colazioni, con sua madre in sottofondo che sgridava il marito che la colazione poteva prepararla Marielle.
Lena era stata un'amica ancor prima che una sorella, per Lex. Era l'unica che non lo reputava uno scemotto, né un bambino ricco a cui sottrar qualche soldo, né un vittima da prendere a pugni, oppure un pericoloso piccolo capo dei bulli della scuola. Era solo Lex. Eppure si vergognava che l'unica persona che riusciva ad entrare nel suo cuore era una bambina di cinque anni.
Si iscrisse sotto consiglio di un suo insegnante in una scuola di judo in modo che non si fosse sentito più insicuro, frequentando le lezioni in concomitanza a quelle extra di piano, che lo odiava ma sua madre non gli avrebbe mai permesso di mollare, e i tornei di scacchi. Lui amava gli scacchi e aveva insegnato a sua sorella a giocare; era rimasto subito così fiero di lei.
«Va bene. Adesso tocca a te». Lena lo aveva guardato e poi guardato la scacchiera, mordendosi il labbro inferiore. Poi aveva alzato una manina per muovere una pedina e lui l'aveva rimbrottata subito: «No, no, non puoi! Te l'ho detto che non puo-», si era bloccato, lasciandola fare e osservandola. Accidenti, era stata… «Bravissima», aveva raccontato a sua madre, «Eccezionale! Non ha solo imparato a giocare, mi ha battuto per la prima volta; è veramente eccezionale per una bambina così piccola, deve poter giocare anche lei ai tornei».
«No».
«No? Perché non-».
«Perché è piccola, e avrà avuto fortuna. E ora smettila di strillare come un matto, Lex, ne riparleremo quando sarà più grande».
Oh, non aveva atteso che fosse più grande: fortunatamente, quando si trattava di Lena suo padre era sempre pronto ad ascoltare e grazie al lui la iscrisse al suo primo torneo per i bimbi delle scuole elementari. Era arrivata terza, ma era la bambina più piccola a partecipare e, l'anno dopo, aveva vinto il suo primo torneo.
«Perché non porti mai un amico a casa?», gli aveva chiesto Lena una notte, intrufolata in camera di Lex com'era solita fare, mentre i loro genitori erano convinti dormissero entrambi. Erano seduti a terra su un tappeto, giocando con qualche peluche a forma di animali.
Lui aveva abbassato i peluche e l'aveva guardata accigliandosi un po', come ferito da quell'insolita domanda. «Non ti basto più?».
«Ovvio che sì», per poco non gridava e lui le aveva tappato la bocca, facendole cenno di fare silenzio. «Ma giochi solo con me e io a scuola gioco con molte bambine. Anche alle lezioni di piano».
«Non mi piacciono le lezioni di piano».
«Non è vero».
«Sì che è vero».
«Non è vero».
«Sì che è vero! Shh», l'aveva sgridata, tappandole di nuovo la bocca. «Non mi piacciono le lezioni di piano», aveva ribadito.
«Allora perché ci vai?».
«Perché come nostra madre ti costringe a stare seduta a tavola finché tutti non hanno finito di mangiare, costringe me ad andarci. Lascia perdere». Si era intristito, forse troppo.
«Okay…», anche lei aveva abbassato i peluche che aveva in mano, guardandone uno con distrazione. «E non hai un amichetto?».
«No», aveva sbottato e poi lanciato una mucca peluche dall'altra parte della stanza. «Lascia perdere». L'aveva guardata e, capendo che si stava intristendo anche lei, aveva provato a cambiare strategia: «Mi basti tu».
Lena aveva subito riso. «Non è vero».
«Sì che è vero», l'aveva buttata a terra per farle il solletico.
Non era vero. Non le bastava affatto, ma voleva convincersi che fosse così. Al suo quindicesimo compleanno provò lui a dare una festa, in modo da non essere escluso, e a dispetto della paura che lo tormentava erano venuti in molti, ma nessuno aveva festeggiato con lui e si erano solo goduti la festa, i gonfiabili in giardino, il clown, lo spettacolo teatrale che aveva ingaggiato sua madre, rendendosi conto che aveva di nuovo fallito. Era stata Lena, come avesse capito che la festa non aveva funzionato, ad andare da lui, trovandolo dietro la porta del bagno e così sedendosi vicino.
«Tu sei la mia anima gemella, lo sai?».
«Che cosa vuol dire?».
«Che non mi serve nessun altro, se ci sei tu accanto a me».
«Va bene», aveva risposto la bambina, quasi seienne.

E, così, la sola amicizia con sua sorella se l'aveva fatta bastare, se non altro fino ai diciassette anni. Era un ragazzetto alto, con i capelli che tornavano sempre sugli occhi e qualche ricciolo, due brufoli appena pronunciati, curato e dalla pelle lucida. Aveva una cotta per una sua compagna di classe come tanti giovani della sua età e, come tanti giovani della sua età, anche lui non riusciva a fare colpo. Per via della fama trascinata fin dalla scuola media e da quella che lo precedeva che riguarda i suoi genitori, nessuna ragazzina voleva uscire con lui per paura e nessun ragazzino voleva essergli amico. Sua madre una volta aveva detto che quando i bulli lo tormentavano, non sapevano contro chi si erano messi: ora che erano più grandi, però, il guaio era che lo sapevano.
«Scusami, ma mia madre ha detto che non posso parlare con te».
«Scusa, ti ho spinto? Mi dispiace, mi dispiace davvero, non volevo, puoi perdonarmi?».
«Tu sei Lex, giusto? I miei non vogliono che parli con te».
«Sei Lex? Mi dispiace, ma non ho il permesso di frequentarti».
«Sei quello ? Il Luthor? Tua madre ha fatto licenziare mio padre, stammi alla larga».
«Lex Luthor? Emh, scusami, mi hanno chiamata».
«Scusa… Lex, vero? Ho da fare, adesso. Ci vediamo… o forse no», aveva detto poi, bisbigliando.
Lex era diventato inavvicinabile.
Naturalmente aveva provato a parlarne con sua madre quando lei aveva intuito il suo cattivo umore una volta a casa dal liceo, e aveva presto capito di aver fatto un terribile errore a confidarsi con lei.
«Ti stai lamentando perché non riesci a farti degli amici? Andiamo, Lex, credevo che non ti interessassero cose come queste…».
«Certo che mi interessano», lui aveva aggrottato le sopracciglia, «Sono l'unico a non avere nessuno».
«Hai noi. Non era abbastanza logico? Hai perfino Lena… come farete ad andare d'accordo non ne ho idea», aveva aggiunto a bassa voce, riprendendo a leggere la sua rivista.
«Non basta».
«Ah, e così non basta?».
«No! Voglio qualcuno della mia età, non capisci, qualcuno con cui uscire e divertirmi, e giocare, e fare tutte le cose che fanno i ragazzi normali».
Lei lo aveva guardato accigliandosi sempre di più, posando la rivista sul tavolino del soggiorno. «Mi pare di capire che l'adolescenza parli per te, Lex: tu non sei un ragazzo normale, è chiaro questo? Perché mai vorresti esserlo? Vuoi uscire e drogarti come tutti quelli della tua età? Accomodati. Tuo padre ed io non ti impediremo di comportarti come ritieni più adatto, poiché sappiamo che sei abbastanza intelligente da sapere cosa è meglio per te, ma se vuoi fare il selvaggio, aspettati qualcosa di contro», si era alzata dal divano e avvicinata a lui. «Ne subirai le conseguenze com'è giusto che sia. Se mai dovessi perdere di vista l'obiettivo dello studio per queste sciocchezze, lo capirai», gli aveva poggiato una mano su una spalla e guardato negli occhi vitrei. «Ti ritieni insoddisfatto perché non hai amici? Pensa a quando sarete adulti, quando i tuoi coetanei dovranno faticare per trovare un posto e tu avrai la Luthor Corp pronta per te. Pensaci».
Lui si era scrollato e lei aveva ingigantito gli occhi. «Non la voglio la Luthor Corp! È colpa di ciò che siamo, come Luthor, se non riesco a piacere a nessuno».
Lex non se lo aspettava. Era il primo e unico schiaffo che gli diede sua madre da sempre. Improvviso, veloce, rumoroso e forte; tanto da far spaventare perfino lei, quasi sul punto di chiedergli scusa per poi ripensarci. Lex se n'era andato perché odiava piangere in pubblico, proprio come lei.
E così era lo studio l'unica cosa a cui doveva pensare? E lo studio sarebbe stato. Aveva ripreso in mano vecchi progetti a cui stava lavorando l'estate prima per passare il tempo libero ed era andato alla Luthor Corp. Si era diretto ad uno dei laboratori, pensava fosse vuoto, ma poco prima di aprire la porta aveva sentito la voce di suo padre e si era affacciato alla finestrella, scorgendo lui in compagnia di quel suo collega. Lex non riusciva a fare a meno di essere geloso anche di quel giovane uomo, perché perfino lui riusciva ad ottenere le sue attenzioni: c'era per Lena, c'era per sua moglie e c'era per il suo lavoro. Lex aveva sbuffato e se n'era andato, provando con un altro laboratorio. Mesi di lavoro e infine le sue pillole verdi avevano acquistato anche un buon sapore: usando una parte della droga che girava in quel periodo, la vertigo, la stessa che tanto sua madre citava, combinata con lo studio, ciò che per lei era l'unica cosa che contava. Sarebbe stato il suo progetto della vita, pensava, perché avrebbe sempre dovuto mettere cervello e mani per migliorare la formula.
«Sai, io non mi arrabbierei più di tanto se non hai amici», aveva esclamato Lena un pomeriggio, poco prima che lui si dirigesse alla Luthor Corp per lavorare alla formula.
«Ah, no? E perché mai?». Era facile per lei, pensava, quando la bambina riusciva ad avere un sacco di amichette con cui parlare a scuola, alle lezioni di piano e anche nei tornei di scacchi.
«Sono adolescenti, Lex: gli adolescenti non sono maturi sufficientemente e si lasciano condizionare».
Lui aveva sorriso ma, subito dopo, scosso la testa. «Devi sapere una cosa, Lena: la maturità non ha a che fare con l'età. Una volta si cresceva prima, giusto? Allora l'ago della maturità pendeva da un'altra parte. In linea generale, la maturità resta un percorso privato. A volte non si è mai abbastanza grandi per essere maturi. Pensaci».
«Mmh…», lei aveva stretto gli occhi e passato due dita sul mento. «Va bene, hai ragione».
«Ma certo che ho ragione», le aveva passato una mano sulla testa, prima di uscire.
Le sue pillole diventarono famose proprio nel corso del suo ultimo anno di liceo. Martin era un ragazzetto nuovo nell'istituto, nuovo in città, così tanto che dei Luthor non sapeva niente, se non di averli già sentiti nominare. Lex era stato incaricato di fargli fare il giro della scuola e così, quando lo vide ingerire la pillola poco prima del suono della campanella, ne era rimasto affascinato:
«Amico, cerchi di sballarti prima di lezione? Sei completamente fuori».
«Trattieni i tuoi entusiasmi, amico», gli rispose cauto, eccitato di aver potuto usare quella parola. «Questa non serve per sballarsi, ma per aumentare la concentrazione. Aiuta lo studio».
«E funziona?».
Lex si era sentito gonfiare il petto, orgoglioso di poter dire che era ovvio che funzionasse avendole create lui stesso.
«Amico, sai cosa si dice dalle mie parti? Se sei bravo a fare qualcosa, allora fatti pagare. Io ne compro subito, così mia madre la smetterà di darmi dello scansafatiche. E in più mi sembrerà di sballarmi».
L'idea di Martin gli era sembrata piuttosto sciocca, ma quando veramente si era deciso di ordinargliene un sacchetto, tutto prese il via. Si era sparsa la voce appena Martin aveva migliorato davvero i suoi voti e molti altri avevano ordinato le pillole verdi per sapere se realmente funzionavano. Lex Luthor si era adagiato sugli allori: i ragazzi e le ragazze, ora, andavano da lui, senza dover rincorrere nessuno. Aveva messo mano alla formula più volte nello stesso periodo; aveva cercato di migliorarla quando qualcuno aveva lamentato mal di testa e aveva preso in prestito ingredienti base di altre droghe sintetiche, lasciando sempre più la presa sulla vertigo. Finito il liceo aveva già cambiato la formula quattordici volte ed eliminato il fastidioso effetto dipendenza.
Aveva clienti, il numero delle sue vendite salivano e il suo nome non faceva più paura da quando veniva associato alle sue pillole.
«Devi uscire anche oggi?». Lena lo aveva guardato con rimprovero; ormai passava sempre meno tempo con lei. «Ho un torneo di scacchi, oggi. Non puoi mancare, lo sai». La bambina gli si era attaccata a un braccio e Lex aveva preso un grosso boccone d'aria, per poi inchinarsi e sistemarle i capelli dietro le orecchie.
«Tornerò in tempo per il torneo, vedrai. Quando sarai lì e ti girerai intorno, mi vedrai già seduto sugli spalti perché non posso perdermi nemmeno una tua partita. Te lo prometto».
Lei lo aveva guardato storcendo un labbro, per poi annuire. «Mmh, va bene».
Tuttavia, era rimasto per la prima volta a chiacchierare con alcuni nuovi clienti che avrebbero frequentato la sua stessa università e si era sentito così bene, così parte di qualcosa, che aveva finito, per un po', per dimenticarsi di lei. Aveva guardato l'orologio e si era sentito in colpa, il suo sguardo si era impallidito tanto che gli avevano chiesto se avesse perso un appuntamento. «No, no. Dovrei andare a un torneo di scacchi della mia sorellina. Ha dieci anni e conta su di me».
Uno di loro aveva subito riso. «Anche io ho una sorellina. Sta sempre appiccicata, una seccatura».
Lui aveva ridacchiato meno convinto. «Già. Anche lei».
Tornato a casa, Lena non lo aveva neppure guardato. In quel periodo i loro genitori erano più su di giri del solito e badavano a loro raramente, tanto che a sostenerla per il torneo era rimasto solo l'autista.
«Paul mi ha fatto i complimenti», aveva sbottato, salendo le scale davanti al fratello. «Paul», aveva rimarcato, «L'autista. Sono arrivata seconda perché tu non c'eri».
«Sei arrivata seconda perché sei bravissima e il vincitore avrà avuto fortuna».
«Non ha avuto fortuna: era bravissimo e tu non facevi il tifo. Contavo su di te», aveva le lacrime agli occhi, davanti alla porta di camera sua.
«Lena, mi dispiace… Non mancherò più, davvero, lo prometto».
«Mi avevi già promesso che ci saresti stato oggi». Aveva chiuso la porta e lui aveva sbuffato, prendendo passo per andare nella sua stanza. Si era sentito in colpa, ma al diavolo, era sempre stato con lei, ora che finalmente aveva qualcun altro con cui parlare… Lei non avrebbe capito, era ancora una bambina, ma lui aveva bisogno di respirare aria pulita. La loro differenza d'età non si era mai fatta pesare così tanto come in quel momento.

Passavano gli anni e i clienti, aumentati a macchia d'olio tra alcune università e due licei, erano diventati l'unica soddisfazione di Lex Luthor. Certo, le pillole gli avevano conferito un'innegabile popolarità e le ragazze che facevano le carine con lui, che volevano sedersi nel trono al suo fianco, erano diventate parecchie, ma anche se con alcune di loro era riuscito ad avere contatti e rapporti, nessuna lo aveva mai veramente toccato al cuore. Sapeva che i suoi genitori avevano litigato con alcuni vecchi colleghi d'affari e avevano perso ingenti sbocchi di denaro in poco tempo, così, colto da un'insolita fretta, Lionel aveva deciso di iniziare il suo primogenito al lavoro alla Luthor Corp di Metropolis, approfittando del fatto che stesse per finire gli studi. Lex non era tanto distratto come forse credevano i suoi genitori e sapeva benissimo che erano in affari criminali per anni e che, improvvisamente, avevano tagliato i contatti. Non sapeva con chi di preciso e certamente cos'era successo, ma conosceva bene le voci che correvano su di loro a National City, e in special modo gliene parlavano i suoi clienti che, da un po' di tempo a quella parte, aveva iniziato a definire amici. Andando a Metropolis per la Luthor Corp, Lex aveva espanso il suo territorio e iniziato a vedere anche lì le sue pillole, seppure per una sola università. Aveva cambiato la formula tante volte in poco tempo dopo che alcuni studenti avevano cominciato a sentirsi male, cercando di individuare il problema. Lena si era offerta di aiutarlo, ma lui le aveva espressamente detto che avrebbe risolto il problema con le sue sole forze. Non riusciva ad ammettere, in realtà, che lo stress lo stava mangiando dentro. Gli studenti che lamentavano di stare male dopo aver ingurgitato le sue pillole stavano diventando sempre più numerosi, alcuni clienti si erano rifiutati di pagarlo ed altri lo avevano insultato dicendo che come Luthor non avrebbero dovuto fidarsi di lui, che era come la sua famiglia.
«Amici? Non siamo mai stati amici, Luthor: prendevo solo le tue pillole, ma adesso che molta gente sta male penso che mi tirerò indietro. È tutto qui».
«Non sono mai stato tuo amico, al massimo cliente, e adesso ho deciso di smettere».
«Lasciami in pace, Luthor. Tu e la tua famiglia puzzate di marcio».
Le parole delle ultime porte in faccia gli erano rimbombate in testa giorno e notte, mentre lavorava alla formula e mentre tentava di lavorare alla Luthor Corp a fianco a suo padre. Finalmente stava passando del tempo con lui e non riusciva a concentrarsi come avrebbe voluto, continuava a sbagliare e a essere distratto, non riuscendo a fare altro che deluderlo. A deluderlo ancora proprio come da bambino. In più, sentiva sua sorella distante come mai prima. Aveva quattordici anni e non aveva quasi più tempo per lui, tra studi e amiche. Lei le aveva.
Lex si sentiva di nuovo solo, di nuovo incapace, inadeguato a tutto, anche di riuscire nelle cose più semplici. Aveva iniziato a soffrire di attacchi di panico e per questo, ogni mattina prima di dirigersi a lavoro, si faceva fermare dall'autista in un bar, in modo che potesse sciogliere la tensione. Era stanco, davvero. Si sedeva lì davanti al bancone e ripensava a cosa doveva fare per uscire da quella brutta situazione. Si rivedeva di nuovo bambino e inchiodato dalla paura in mezzo alla palestra, con tutti i bambini che cercavano di colpirlo con un pallone. Anche se era passato tanto tempo da allora, le ferite non guarivano mai. Non potevano.
Altri clienti, o amici, dissero di voler interrompere, non riusciva a sistemare la formula e suo padre gli aveva gridato di restare con lui con la testa quando lavoravano.
«Scusami, scusami…», aveva deglutito, passandosi le dita sulla fronte e chiudendo pesantemente gli occhi, «sono davvero stressato e… non lo so, forse ho bisogno di riposo».
«Pensavo sapessi tenere meglio la pressione. È evidente che mi sbagliavo», gli aveva ribattuto e Lex si era sentito ferito.
Possibile che nessuno facesse uno solo sforzo per comprenderlo? Per avvicinarsi davvero a lui?
«Lena». Quella sera era tornato a National City poiché aveva bisogno di staccare, di passare del tempo con la sua sorellina. Non vedeva l'ora di vederla e parlare con lei. «Ehi». Aveva aperto la porta di camera sua, dopo che aver bussato e chiamarla non erano stati sufficienti e l'aveva vista che si abbassava le auricolari dalle orecchie, seduta davanti alla sua scrivania. «Cosa fai? Disturbo?».
«Sto studiando», lo aveva guardato con curiosità. «Credevo che saresti rimasto a Metropolis».
«No, sono stanco e volevo solo… vederti».
Lei aveva addolcito lo sguardo, facendo una smorfia. «Mi dispiace… pensavo che non ti avrei visto se non per il fine settimana e sono sotto con lo studio».
Lui aveva scosso subito la testa, dicendole che sarebbe stato per un'altra volta. Si era rifugiato in dependance e si era messo un dvd, in modo che potesse riposarsi. Almeno aveva ancora se stesso. Ma poi…
«C'è un posto anche per me?».
Lena si era affacciata dalla porta e lui aveva sorriso, annuendo e facendole il gesto di avvicinarsi. Era ancora lì e solo per lui. Aveva sentito il petto scaldarsi di nuovo; la sua anima gemella lo aveva trovato anche quella volta. Era bello poter ridere e parlare liberamente con Lena.
«Quindi adesso ti trasferirai a Metropolis?».
«È possibile», aveva stretto le labbra con dispiacere. «Il lavoro chiama e purtroppo non posso far altro. Ma non subito, insomma, con il tempo…».
Lena lo aveva guardato in modo triste. «A te nemmeno piaceva l'idea di lavorare per la Luthor Corp».
«No, non mi piaceva infatti», aveva concordato, sbuffando appena. «Ma sono un Luthor, Lena. Siamo Luthor. Non possiamo far altro che accettarlo».
«Io non sono proprio una Luthor», aveva sussurrato lei.
Lex non aveva capito se quella prospettiva per lei era rassicurante o d'altro canto triste. Una cosa però la sapeva per certo: non poteva dirle la verità. Così l'aveva abbracciata ribadito che come Luthor non potevano fare altro che accettare il loro destino.
Accettarlo. Accettarlo e andare avanti. Ma Lex era il primo a non crederci e a non volerlo accettare. Per questo motivo, non trovando proprio nessun modo per liberarsi da quella situazione, da quella vita che lo opprimeva da sempre, aveva manomesso i freni dell'auto. Il suo autista era palestrato e non aveva pensato nemmeno per un attimo che non avrebbe potuto farcela, per il resto doveva solo sembrare un incidente. Era stanco. E Lena, per quanto gli volesse bene, aveva sempre fatto amicizie e sapeva che non sarebbe rimasta sola. Non aveva nessun altro e non sarebbe mancato a nessun altro. Naturalmente aveva fatto male i conti, non valutando che un certo Clark Kent lo stava pedinando da un po' e che, quel giorno, gli avrebbe salvato la vita che lui non voleva più.

Clark Kent era stato il suo raggio di sole in una vita buia. Dopo un po' di tempo erano diventati amici, veri amici, e tutto aveva ricominciato ad andare per il verso giusto: aveva modificato la formula e messo in circolo una nuova partita di pillole verdi più sicure; i clienti erano aumentati di nuovo e qualche altro studente che, di tanto in tanto, stava male non lo spaventata più perché sapeva che avrebbe corretto l'errore, che ci sarebbe voluto del tempo, ma che studiando gli effetti sarebbe riuscito a risolvere il problema. Era fiducioso. Si sentiva un ragazzo nuovo.
Con l'aumento della produttività, si era reso disponibile ad avere una complice che l'aiutasse a consegnare le pillole verdi. Non che la conoscesse bene, ma l'amica di sua sorella, che si faceva chiamare Roulette, sembrava la persona giusta allo scopo: aveva una buona parlantina, gli studenti già la conoscevano e si faceva rispettare. Era così che si erano messi in attività insieme.
Quando la vedeva, quella ragazza lo affascinava. Sì, certo, c'erano ben nove anni di differenza, ma lei lo ammaliava. Ogni volta che apriva bocca, sembrava che Veronica Sinclair stesse flirtando con lui. Ma era il suo modo di fare, lo sapeva. Faceva così con tutti. Anche con sua sorella. Non era da lui, infatti, che si rifugiava diverse notti al mese. Come del resto facevano altre ragazze.
Così non era rimasto sorpreso quando una mattina aveva visto Veronica uscire dalla camera di Lena. Era presto, saranno state le quattro e dieci minuti, e gli era venuto appetito passata la notte a rivedere alcuni dati per la Luthor Corp, invece di dormire. L'aveva vista uscire quando era già affacciato alle scale, e così era sceso in cucina e lei era apparsa a pochi passi dopo di lui, avvolta in una vestaglia di un verde scuro. Di Lena.
«Il rosso è il tuo colore».
Lei aveva alzato le sopracciglia, avvicinandosi al frigo e versandosi una tazza di latte freddo. «Come, scusami?».
«Non il verde, dicevo. Il verde, in ogni sua sfumatura, sta bene a Lena. Lo indossa bene. Ma il tuo colore, invece, è certamente il rosso». Riprendeva a masticare una merendina al cioccolato che lei gli sorrise compiaciuta, dondolandosi un po', dietro al bancone.
«Vedrò di tenerlo a mente, allora», aveva risposto lei avvicinandosi, continuando a bere. «Uomo d'affari, scienziato brillante, ora ti intendi di moda: ci sarà qualcosa che non è nelle tue corde, Lex Luthor? Sei pieno di sorprese».
Lui aveva sorriso, forse si era un poco imbarazzato, ma di sicuro non lo mostrava. «Pensavo lo stesso di te, sai? Piena di sorprese, come amica di giorno e amante di notte».
Lei si era seduta davanti a lui, mettendo una gamba sopra l'altra. La vestaglia era scivolata da un lato ma Lex aveva guardato appena, continuando a fissarla, invece, negli occhi a mandorla sicuri e pieni di sé. «C'è qualcosa che vuoi dirmi, fratello maggiore?».
«Non ho intenzione di fare la paternale a Lena, non vedo perché dovrei dire qualcosa a te. Non sono affari miei, però…», aveva finito la sua merendina e accartocciato la carta, per poi piegarsi il tanto per appoggiare il peso sulle gambe, guardandola con attenzione, «però tieni a mente che è la mia sorellina quella con cui vai a letto e che sono una persona un tantino… volubile», aveva assottigliato le labbra, accennando un altro sorriso.
Lei non si era minimamente scomposta ed era una delle cose che più gli piacevano di lei. «Tendi a minacciare ogni ragazza, o Jack, che gira intorno alla tua sorellina?».
«Solo quelle che ritengo ne abbiano bisogno».
«Oh», aveva abbassato gli occhi e lo aveva scrutato a lungo, nel suo pigiama a quadri e l'aria dura. «Allora mi ritengo fortunata. Tienimi d'occhio, fratello maggiore. Sia chiaro che questo non deve intaccare la nostra collaborazione».
«Affatto. Ci tengo quanto te», aveva fatto una smorfia lui. L'aveva tenuta sotto attento sguardo quando, con movimenti lenti e appena sinuosi, se n'era andata per tornare da Lena.
Aveva dormito poco e male e in questo modo, poche ore dopo, l'aveva sentita andarsene dalla villa. A volte restava per colazione, altre, specie quando i loro genitori erano in casa, fuggiva via come una ladra alle prime ore dell'alba. Non sapeva bene perché, ma Veronica Sinclair era riuscita a conquistare la sua fiducia per quanto riguardava il commercio delle pillole, ma non per come girava intorno a Lena.
«Allora… tra te e Veronica». L'aveva fermata dopo aver pranzato ed era uscita fuori in giardino a prendere una boccata d'aria fresca. «State insieme?». Lena lo aveva guardato a lungo prima di decidere di rispondere:
«Sì e no».
«Tu e Jack vi siete lasciati?».
«Sì… e no».
«Sta spesso via, non è vero?».
«Sì. E no».
«Lena».
Lei aveva sbuffato e si era seduta schiena contro un albero, reggendosi la gonna e mantenendola pulita dai fili d'erba. Lui si era inchinato, guardando verso la sala da pranzo solo un attimo, attento che la loro madre non li stesse spiando. «Jack ed io stiamo passando un momento particolare. Non ci siamo lasciati, ma non stiamo nemmeno insieme come prima. Veronica ed io, invece, ci teniamo… compagnia», aveva sussurrato fissando un punto vuoto, giocando a muovere l'erba in mezzo alle dita di una mano. Infine, presa coraggio, aveva guardato Lex negli occhi. «Pensi di riprendermi?».
Lui le aveva preso la mano e l'aveva allontanata dall'erba, stringendola con le sue mani. «Che razza di fratello maggiore sarei, se non fossi dalla tua parte? Stai sperimentando, Lena… Che tu voglia stare con Jack, o che scopri di essere omosessuale, ti sosterrò. Volevo solo assicurarmi che fosse tutto a posto con Veronica».
«Non ti piace?».
«No, al contrario. La ritengo piuttosto sveglia, ma non vorrei ti facesse del male».
Lena aveva sorriso, stringendo le sue mani di rimando. «Siamo amiche, Lex. E non c'è nient'altro a parte questo e il sesso. Non mi ferirà un suo rifiuto o qualcosa del genere».
Lui aveva annuito, grato della risposta. Era troppo preso dalla sua sorellina per capire che, in realtà, il suo problema con Veronica Sinclair era vederla con lei, e non certo per istinto di protezione. Avevano smesso di parlarne quando avevano visto arrivare Clark. Aria smarrita, si era aggirato per il giardino da solo, quando dovevano avergli detto che lo avrebbero trovato lì. Lena era rimasta ancora un po' sull'erba e Lex gli era andato incontro; si erano stretti le mani e dato così una pacca su una spalla.
«Tutto a posto?», gli aveva chiesto Clark al suo sguardo perso: Roulette era lì.
Era passata vicino a loro, li aveva salutati con un gesto con la mano e aveva raggiunto Lena davanti all'albero, intanto che Lex sospirava. «Sì. Sì, certo».
«Non mi piace quella ragazza», gli aveva detto lui, quando entrambi si erano girati a guardarla.
«Me lo hai già detto, Clark. È una a posto, non ti preoccupare». Gli aveva ridato due pacche sulla schiena ed erano tornati dentro.
Clark aveva iniziato ad andare spesso a trovarlo; non gli aveva regalato solo la sua amicizia, ma un nuovo inizio. Forse proprio per questa ragione non si sarebbe mai aspettato che qualcosa avrebbe potuto incrinare i loro rapporti.
«Non lo voglio qui, in questa casa», aveva sentito sua madre dire a voce un po' troppo alta quella notte, come tante altre notti prima, e Lex si era messo ad ascoltare, ancora intento a ricontrollare i dati della formula delle pillole verdi.
«È amico di Lex. Parla più piano, Lillian», aveva sentito suo padre, «Potrebbe sentirti. Non dovremo parlarne qui».
Troppo tardi, aveva pensato il ragazzo, dato che erano anni che li ascoltava come se le pareti fossero state di carta velina. I due erano separati in casa ormai da un sacco di tempo, eppure quando volevano discutere tornavano lì, proprio vicino alla sua stanza, nella camera che era rimasta a Lillian. Si era avvicinato al muro con l'orecchio teso, per assicurarsi di non perdersi nulla.
«Gli ha salvato la vita e gli siamo tutti debitori, ma non voglio che si avvicini a noi», aveva sbottato sua madre, «Quel ragazzo non-», si era fermata ed era seguito un breve silenzio.
«Lex era così felice di portarlo a casa… Temi nel conoscerlo? Immagino come ti faccia sentire, probabilmente come fa sentire me. È una cosa che ti spaventa», era seguito un breve silenzio. «Andiamo, Lillian, lascia perdere. Puoi farlo? Puoi farlo?», aveva ribadito.
Questa volta era stata sua madre ad uscire dalla stanza per prima.
Il giorno dopo, lui e suo padre si erano diretti di nuovo a Metropolis e Lex non aveva fatto a meno di notare quanto il suo genitore fosse silenzioso. Aveva aspettato che fossero all'interno dell'azienda, chiusi in ufficio, per iniziare a parlare:
«Non ho mai fatto domande quando avete smesso di avere rapporti con precedenti colleghi di lavoro, quando mi hai chiesto di stare attento a quella vecchia volpe, ma adesso devo farti delle domande… papà, e vorrei che tu sia sincero con me così come io sono sincero con te: quanto i vostri precedenti affari erano coinvolti con Clark Kent e la sua famiglia?».
Lionel era sbiancato, quella mattina. Mai si sarebbe aspettato quella domanda, segno che, in fondo, aveva sempre sottovalutato suo figlio. Non era riuscito a fare a meno di dire la verità, di dirgli tutto quanto, chi erano e perché erano morti, dell'esaltazione di Rhea Gand, dell'organizzazione, di come non avrebbe potuto dirlo al suo amico. Lionel si era sfogato. Aveva sottovalutato il suo ragazzo e ora si era aperto con lui, discutendo insieme di colpe o non colpe, facendolo arrabbiare ma al tempo stesso rendendolo partecipe di un grande aspetto della famiglia Luthor.
«Non vuoi capire, Lex: è la tua eredità. Tuo nonno era uno dei fondatori dell'organizzazione; siamo alcune delle radici di National City. E abbiamo sbagliato ad andare avanti, ci siamo tirati fuori e paghiamo ogni giorno. E forse dovremo ancora pagare il prezzo più alto».
Lex lo aveva guardato immobile; seppure per certi versi disgustato, non ne era affatto sorpreso e tutto aveva acquistato un senso. Solo a casa, a Metropolis, era riuscito a sfogarsi lui, da solo, colpendo il muro. Clark era suo amico e i Luthor erano stati complici di chi gli aveva rovinato la vita, ne erano quasi responsabili e, forse, avrebbero anche potuto salvare la sua famiglia. Ci avevano provato, ma forse non era stato abbastanza. Avrebbero potuto fare di più, allora? Si erano avvolti nel silenzio per paura, invece di farsi avanti. Chi era davvero la sua famiglia? Di quali altri reati si erano macchiati; quante vite avevano distrutto? Lui era come loro?
Una cosa, però, la sapeva per certo: avrebbe mantenuto per sé quelle informazioni. Avrebbe ingoiato il boccone amaro e sarebbe andato avanti fingendo di non averne mai saputo niente. Lo avrebbe fatto, in special modo le avrebbe nascoste a Clark perché non avrebbe potuto perdere il suo unico vero amico, non doveva pagare lui il prezzo di ciò che era accaduto in passato, eppure, un giorno…
«Cosa sai tu di cosa mi è successo? Di cosa è successo alla mia famiglia?», gli aveva urlato Clark. Aveva scoperto le pillole che gli aveva tenuto nascosto e quello…
Lex aveva sentito una forte fitta alla bocca dello stomaco e gli era mancata l'aria, ma aveva cercato con tutti i modi di restare concentrato perché, assolutamente, non voleva perdere Clark e doveva restare lucido. A quel punto, una fetta della verità sarebbe potuta andare in suo soccorso. «Mi dispiace, Clar-».
«Tieniti i tuoi dispiaceri! Da quanto lo sai?».
«Qualche mese. Forse».
«E in tutto questo tempo non hai pensato di dirmelo? Non hai trovato un solo momento per parlarmene?».
«Te ne sto parlando ora», gli aveva detto piano. Aveva cercato di avvicinarsi a lui e dargli una pacca sulla spalla, ma Clark si era tirato indietro. «Siamo amici. Non sapevo come dirtelo e pensavo di proteggerti, Clark, cerca di capirlo».
Ma no. Clark non voleva capirlo. Non voleva capirlo esattamente come tutti gli altri, non era diverso, e forse non erano mai stati davvero amici. Clark Kent se n'era andato dalla sua vita così com'era venuto, portando dietro con sé la nuova vita che gli aveva presentato, restituendogli solo tristezza e vuoto.
E, come ogni volta che si sentiva solo, aveva cercato rifugio in sua sorella. Aveva deciso di trasferirsi definitivamente a Metropolis e una mattina era andato a trovarla in università per dirle che tornando in villa non lo avrebbe trovato. Roulette era sparita e aveva lasciato il suo lavoro; non gli restava altro. Una ragazza gli aveva detto che l'avrebbe trovata uscendo dal laboratorio di anatomia e, una volta lì, affacciandosi alla porta, aveva intravisto Lena presa in giro da un ragazzo. Lui le lanciava qualcosa e lei faceva finta di niente.
«Chi è quello? Da quanto tempo fa così?».
«Oh, lascia perdere. È un ragazzo un anno più grande; ha saputo che farò due anni in uno e cerca di prendermi in giro», aveva scosso brevemente la testa, sbuffando. «Per cosa sei passato?».
Lex voleva rispondere, ma quel ragazzo era dietro di loro e rideva con il suo gruppo di amici, facendo pernacchie con la bocca e bofonchiando di come i Luthor avessero comprato il corpo insegnanti. Non aveva capito davvero il reale motivo che lo aveva spinto a farlo. Se davvero quel ragazzo se lo era meritato. Se in lui aveva rivisto gli anni di prese in giro alle sue spalle. Se non voleva che anche solo una goccia di ciò che gli era successo capitasse a Lena. Se perché frustrato e di nuovo sconfitto dalla vita. Ma lo aveva fatto: era andato da lui e, senza dirgli nulla, gli aveva sferrato un pugno. L'inatteso colpo aveva spinto il ragazzo contro il muro e il gruppo di amici era rimasto paralizzato, indietro, intanto che Lex lo colpiva ancora. E ancora. Lo aveva gettato a terra e aveva continuato a colpirlo. Ancora. Ancora. Due insegnanti avevano allontanato Lex da quel ragazzo o avrebbe finito per massacrarlo. Lena stava gridando; era una delle tante voci che si erano alzate in pochi attimi. Ma era tutto sordo e Lex non aveva sentito. Non aveva sentito fino a quella domanda:
«Ma sei fuori di testa? Cosa ti prende?». Lena era arrabbiata: una vena era comparsa sulla sua fronte, le narici dilatate, gli occhi erano di ghiaccio, assottigliati.
Lui si era passato una manica contro il naso, abbozzando appena un sorriso. «Mi comporto da Luthor…».
Lo avevano portato via intanto che il ragazzo passava dall'infermeria all'ospedale. Lillian aveva convinto i genitori della sfortunata vittima dello sfogo di Lex a non sporgere denuncia e lui si era trasferito a Metropolis. Lex e Lena non si erano più sentiti per un po'.


***


Ma se loro non si erano sentiti più, Lex aveva ritrovato una cara conoscenza durante le sue prime settimane di vita indipendente a Metropolis. Veronica Sinclair aveva lasciato l'università e si era trasferita anche lei, suo malgrado, proprio da quelle parti.
«I miei genitori non hanno preso bene il mio abbandono degli studi e mi hanno tagliato l'accesso alle carte. Sto cercando lavoro e speravo che un vecchio amico, nonché vecchio capo, potesse aiutarmi».
Lui aveva sorriso, decidendo di riprenderla con sé. Aveva scoperto che quella ragazza aveva ancora un grande potere su di lui. E così, quando lei aveva mostrato interesse nei suoi riguardi, Lex non era riuscito a fare a meno di ricambiare.
«Ti devo avvertire, Veronica: non sono qualcuno capace di amare. Se pensi che vivrai una favoletta al mio fianco, ti sbagli di grosso».
«Se pensi che vorrò la favoletta, sei tu a sbagliarti di grosso», gli aveva sfiorato una guancia e lui aveva chiuso gli occhi come ammaliato, solo per un attimo. «Anche quando stavo con Lena non facevo che guardarti, Lex. Mi sei sempre piaciuto».
Lui aveva abbozzato un sorriso e poi le aveva stretto i capelli, spinto delicatamente contro un muro, e aveva appoggiato con foga le proprie labbra sulle sue. Allora non sapeva per quanto sarebbe durato i loro rapporto, né gli interessava davvero. Aveva preso Roulette tra le braccia e lei si era spinta su di lui, chiudendo le gambe attorno ai suoi fianchi.
Non ci sarebbe mai stato del tenero tra loro, Lex ne era sicuro, ma qualunque cosa li legasse, per lui era più di quanto mai si sarebbe aspettato.
«Cosa fai?». La mattina successiva, Veronica si era alzata dal letto e, nuda e scalza, si era affacciata davanti alla porta del bagno adiacente alla camera da letto, osservando Lex che, davanti allo specchio, si rasava la testa.
«Do un segno chiaro a un nuovo inizio», aveva risposto lui, senza guardarla.
Il ragazzo incapace era cresciuto e si era svegliato un Luthor.

































***

Eccoci di ritorno con un capitolo particolare, incentrato sulla mia versione per questa fan fiction di Lex Luthor. Un Lex inadeguato a tutto, sconfitto su ogni aspetto, che infine ha accettato la parte più oscura di se stesso per andare avanti. Cosa ne pensate?
A parte questo, abbiamo anche potuto leggere di come Lex e Lena erano uniti, di cosa ha fatto allontanare i due per un po', dell'importanza di Clark nella vita di Lex e che nonno Luthor, padre di Lionel, era uno dei fondatori dell'organizzazione che, tra le altre cose, ha ucciso i genitori di Kara e Clark.

Considerando che lunedì ho diversi impegni, ho pensato di pubblicare il capitolo in anticipo! Spero sia stato gradito :D
In ogni caso, il prossimo capitolo arriverà di lunedì, ahah! Il capitolo 28 riprende da dove abbiamo lasciato con il 26 e si intitola Il piano :)



   
 
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