Storie originali > Noir
Segui la storia  |      
Autore: FrostrEldr    05/10/2018    1 recensioni
Quattro persone qualunque, quattro vite ordinarie. La tranquillità, lo squallore e la banalità costituisce il tessuto delle loro esistenze. La tela si squarcia improvvisamente per eventi apparentemente inspiegabili che trovano la loro soluzione quando si incontrano dopo un rapimento, la sparizione nell'ombra e a totale indifferenza del loro contesto sociale.
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il cielo era cupo, quella notte. Le stelle erano come spente, la luna a riposo nell’ombra. Alcune fosche nubi sorgevano dietro la schiera di casupole a margine della strada, fondendosi con i radi pennacchi di fumo che si levavano dai comignoli e dagli sfiati delle caldaie. La stradina era illuminata solo dagli alti lampioni, simili a soldati d’acciaio e verderame sempre sull’attenti. La loro luce ricopriva l’acciottolato di una patina argentea.
Harry camminava, quasi per inerzia, assorto nei suoi pensieri, col volto immerso nel bavero del mackintosh, infreddolito e con lo sguardo basso, ostacolato dal cappello di stoffa e velluto ormai scivolato all’altezza degli occhi.
Le prime gocce di pioggia, fredde e pungenti, iniziavano a grondare. Il suo passo si fece d’un tratto più frenetico, senza che questo perdesse di compostezza e dignità. I tacchi delle scarpe appena risuolate battevano con periodo più stringente sul mattonato del marciapiede. Improvvisamente, Harry incappò in un cesto delle immondizie e rinsavì, emergendo da quel groviglio di pensieri in cui era affogato come ogni sera.
Qualche attimo di smarrimento e confusione, poi riprese il cammino, seguitando nel suo deambulare signorile e sostenuto. Un qualche afflato di sottile paranoia lo inquietava. Si guardò più volte alle spalle, cercando di capire se fosse osservato. Una strana sensazione lo attanagliava.
Giunto nei pressi della cappella luterana sulla nona, una berlina nera con i vetri oscurati gli si affiancò. Il cuore di Harry passò dal trotto al galoppo, da un passaggio adagio passò ad un allegro: i suoi da lui emessi erano gli unici segnali di vita in quella strada quella notte, assieme al sommesso borbottio di quella vecchia Buick. L’auto sparì dietro l’angolo, superandolo senza gran forza.
Paranoia, dannata paranoia, deve aver pensato.
Un sospiro caldo nella gelida aria serale uscì dalla sua bocca giunto all’incrocio con la Sesta. Si immise in una stradina dal selciato scuro ed irregolare, poco illuminata. I ciottoli risplendevano del riflesso di una grande insegna a neon in fondo alla via, che di tanto in tanto andava in corto emettendo un suono sordo ed inquietante, un ronzio accompagnato ad una luce fastidiosa, a tratti giallognola. Iniziò a rallentare, anche se senza motivo. Osservava con circospezione i fumanti bidoni del pattume, traboccanti di rifiuti maleodoranti, su cui facevano baldoria quattro randagi spelacchiati. Ai margini della strada, tolde d’acqua putrida, paludosa, a disegnare le fondamenta tremolanti dei muri dai rossi mattoni aguzzi. Nel suo ritmo altalenante, Harry rallentava per specchiarsi, per vedere i pochi scampoli del suo viso. Riconosceva la sua tristezza, i suoi errori, il tempo passato invano, da solo. Si allontanava quasi inorridito, ma ogni volta ci ricascava, si fermava e soffriva, e così da capo più e più volte.
Giunse accanto ad una piccola porta di ferro, in parte verde e in parte coperta ruggine. A far guardia ad essa, un nugolo di perdigiorno, fannulloni e ubriachi che animavano l’ingresso con esclamazioni colorite, imprecazioni e oscenità verbali. Il fumo di sigaretta e i pesanti miasmi dell’ebbrezza creavano un’atmosfera fetida, irrespirabile. Scena più che familiare per Harry, che entrò deciso scostando la porta con fermezza e nella quasi totale indifferenza dei astanti.
Un tripudio di odori e suoni pacati accoglievano gli avventori di quel misero pub di periferia. Incredibile la differenza con l’esterno, tanto da far apparire quell’interno come un universo parallelo inconciliabile con quella viuzza. Nella saletta d’ingresso, una grande lampada a goccia, dalla tonalità gialla e calda, pendeva dal soffitto per il tramite di una spessa catena color rame finemente arabescata, lievemente impolverata ed annerita dal tempo.
Strofinate le suole con veemenza, sul consunto zerbino, Harry si tolse il cappello ed entrò nella sala che ospitava il bancone degli alcolici, scostando una tenda blu che fungeva da separé, anch’essa vissuta eppure stranamente elegante. Il parquet scricchiolava qua e là, a dimostrare la sua età a dispetto della luminosità offerta dalla cera. Tutto era accogliente, caldo, un posto sicuro in cui ritrovare un pezzo di sé e rifuggire i mali del giorno, un posto monotono ma al contempo sicuro, in cui scampare da quella che appariva una realtà sempre più irriconoscibile, fredda.
Così doveva intendere quel posto Harry, che avanzava tranquillo nella sala deserta, a passo quieto. Le sorde e afose luci accanto al bancone lo infastidirono per un attimo, come ogni volta. Allentò il nodo della sciarpa e si appoggiò pesantemente al banco. Richiamò il barista con un cenno degno di un lord ad una cena di gala. Frankie, questo il nome del mezzobusto dietro al banco, asciugava stancamente un cumulo di bicchieri di vetro verde opaco, consumati all’inverosimile.
Harry chiese il solito. Frankie avanzò di fronte alla scaffalatura.
Il barista si presentava come un signore grassoccio, rubizzo, dai lineamenti burrosi e vagamente irlandesi. Era lì dentro da una vita e in una stanza al piano di sopra c’era pure nato. Aveva ereditato il locale dal padre e aveva visto il peggio che quella città avesse potuto offrire in decenni. Vestito sempre con quei camicioni dai colori sgargianti e costantemente macchiati, sempre sghignazzante sotto i folti baffoni ingrigiti. Un buon uomo, fedele alla moglie e devoto alla famiglia e a un Dio che non lo aveva allontanato dai suoi affetti, come testimoniava quella pesante croce dorata appesa al collo.
Frankie passò a Harry un bicchiere di whiskey, in un piccolo cristallo appena lavato. Non si parlava in quel locale, solo un cenno dimostrò gratitudine. Il barista sorrise inarcando i baffi, poi chinò nuovamente il capo e ricominciò a pulire i bicchieri senza colpo ferire. Harry lasciò un nichelino sul banco, come sempre, con un gesto tanto composto e lento da sembrare irreale. Silenzio.
Si spostò nel grande salone delle pareti rosso intenso, qua e là segnate dal tempo, dal fumo e dall’umidità. Ampie zone color terra, marrone, rosso scuro si alternavano in un florilegio di tonalità dall’immenso calore, un mosaico di terre unico e irrinunciabile. Affianco alle pareti, tavolini dal dubbio gusto, un po’ stile liberty un po’ semplicemente kitsch, in legno di poco valore e dalla forma circolare, circondati da seggiole modeste, con le sedute ripezzate, in panno arancione chiaro. Osservava tutto come se fosse la prima volta. In fondo, un mobile imponente, sormontato da un piano in onice, su cui raccoglieva ogni sorta di bottiglia con etichette consumate e sbiadite, oltre ad una lampada da tavolo orientaleggiante, di dubbio gusto.
Silenzio, ancora quiete da quando era entrato. Due clienti erano ormai nelle braccia di Morfeo, stesi sui tavolini. Due loschi figuri, sulla quarantina, rozzi e malvestiti. Forse si stavano sfidando a carte, poker o chissà quale altro gioco. Pochi centesimi in palio, ma aveva prevalso Bacco. L’aria era irrespirabile, le sigarette mezze utilizzate avevano creato una coltre che sembrava troppo densa quella sera. Al centro del locale, un grande tavolo da biliardo, imponente, pieno e tornito con il tappeto verde ormai bisunto, illuminato da una lampada ad olio.
La vista di quel luogo pareva rassicurante, faceva sentire Harry a casa. D’improvviso, una bestemmia a squarciagola e un tonfo di un pugno sul tavolo fece trasalire l’avventore, non resosi conto di due ospiti nell’angolo. Eppure era solo parte della sinfonia quotidiana, per quanto squallida potesse apparire.
L’idillio con il caos non poteva durare, quella sera. L’atmosfera fetida, la foschia malefica che lo faceva tossire e lacrimare più del solito, quel silenzio e la luce angosciosa lo facevano tremare come mai era accaduto. La trachea gli parve serrarsi, di tanto in tanto.
Andare o restare? I suoi pensieri si erano arrestati e si concentrarono sulla scelta. Capì che uscire dal locale poteva servire a ben poco. Un groviglio di pensieri, dati, frasi e simboli rimbombavano nel suo cranio fracassandogli le tempie da dentro, creando un rumore da cui era impossibile fuggire. Cercava una distrazione, e si allontanò da quell’angolo nella speranza di trovarla.
Ad un tratto, parve che in una direzione la nebbia creata dalle senza filtro si diradasse, e con essa iniziò a svanire la sensazione di soffocamento. Si avvicinò al muro, il suo muro. I suoi occhi grigiastri, spenti, fissarono la parete dell’ala ovest, sulla quale Frankie aveva fatto appendere una copia di un quadro, dai colori brillanti, quasi fuori tono rispetto al resto dell’arredamento. Il nitore di quella copia contrastava con le pareti terribilmente rovinate. C’era però qualcosa di diabolico che conservava l’armonia, dopotutto, tanto da non far apparire l’insieme troppo assurdo. Giunse ad un tavolino lì affianco, scostò la seggiola e si sedette, il tutto con lo sguardo fisso sul quadro.
Conosceva bene quelle linee incerte e angosciate. La chiesa di Auvers, un Van Gogh, forse il migliore e di certo il suo preferito. Un’opera tarda, di uno spirito ormai distrutto dal peso dell’esistenza, una vita pesante come quella di Harry. Una copia perfetta, finemente incastonata in una cornice che, al pari del quadro, mal si conciliava con la decadenza tutt’attorno.
Solo da anni, imprigionato nella routine, in quella serie di piccoli e grandi rituali che gli assicuravano un po’ di tranquillità dopo anni burrascosi. La solitudine, prima ripudiata e poi accettata con la saggezza recata dagli anni, era dimensione che non permetteva l’emozione, non consentiva uno sfogo autentico. Tutto mirava ad un ordine, ad una normalità a fronte di una confusione che più e più volte lo aveva travolto, immobilizzato e assordato. Aveva rotto quel legame quasi primigenio con il disordine e si era recato in una dimensione tutta sua, Sentiva di poter finalmente pensare, elaborare, anche se apparentemente senza una qualche utilità.
Rimase assorto nei suoi pensieri mentre fissava quella goccia di bello in un mare di decadenza. I lineamenti gli si fecero contriti, quasi addolorati, in preda ad una lieve sindrome di Stendhal. Ripensò alla sua vita.
Un tizio con la camicia unta e sbottonata gli strattonò un lembo del cappotto, penzolando dal tavolo affianco, quasi a chiedere aiuto prima di rovinare sul pavimento. Harry non se ne accorse nemmeno, vide solo l’ubriacone disteso con il volto a terra, mentre Frankie sopraggiungeva a passo lento per raccogliere il povero stolto e condurlo fuori dal locale.
«È ora di tornare a casa, Jim! Vero, Harry?».
Quelle parole non scalfirono il flusso dei pensieri di Harry che quasi se ne infischiò. Guardò per un attimo la scena, poi si volse di nuovo verso il quadro.
Pennellate veloci ed inquiete, scie tremolanti di colore che definivano figure instabili, luci inquietanti. Tutto aveva un fascino evocativo, quasi perverso. Le brillanti ma acide tonalità in basso, a riempire il prato con tratti incerti, creavano un contrasto difficile da digerire. La chiesa al centro appariva maestosa, coperta dalla sua stessa ombra, quasi fosse un oscuro presagio o tetro giudizio su ciò che operava al suo interno. Le luci brevi e violente rievocavano episodi e immagini, a tratti dolorose.
Harry ricordava l’infanzia di stenti, in una squallida casupola di periferia, al confine con le grandi distese di grano e di frutteti che circondavano la città, Tante le amicizie di quel periodo, di quelle fresche e genuine, tipiche della giovinezza, perse tra morti tragiche, rotture irreparabili e distacco da lontananza. L’arancione dei tetti gli ricordava le parenti della sua stanza, spoglia e troppo spartana per un bambino, più simile ad una cella che ad un accogliente rifugio. Pochi giochi, qualche libro e vestito tenuto con cura estrema, una penna e un calamaio.
Era stato difficile ma anche questa condizione era lontana. Era diventato qualcuno, grazie alla sua sensibilità e al suo modo di vedere il mondo. Lavorava al Daily, si occupava di arte e cultura cittadina. Ripensava al suo percorso di vita, al fatto che guadagnò tutto grazie alle proprie forze, mentre le sue pupille viaggiavano sul dipinto con scrupolo e leggerezza.
«Strana la figura femminile al centro!» Lo pensava ogni volta. Una figura quasi indefinita e parte del tutto, in abiti bretoni, che percorreva il viale a sinistra, raffigurata di spalle quasi a voler scappare dall’osservatore. Gli ricordava i suoi trascorsi dolorosi con il genere femminile.
Alice, pensò. Aveva trovato una donna che gli facesse girare la testa, che lo muovesse dalle sabbie mobili della sua vita, che lo conducesse al benessere interiore, quello vero. La perse, in una fredda notte di novembre. Un incidente, si disse. Lottò per qualche tempo per scoprire la verità ma dovette mollare, lasciar perdere perché l’idea di doversi confrontare ogni giorno con quella perdita lo aveva divorato, consumato e distrutto.
Una lacrima gli inumidì l’occhio sinistro, senza scendere sulle gote, bloccata dal contegno che lo contraddistingueva fino a renderlo, agli occhi dei più, anaffettivo.
Un tale, dal volto secco e nodoso, si alzò dal tavolo accanto a sé, tentando di interloquire. Emise qualche primordiale suono gutturale, prima di stramazzare a terra, anche lui. Nemmeno l’ennesimo idiota smosse Harry dai suoi pensieri.
Pensava alla quotidianità fatta di continui litigi sul luogo di lavoro, alla concorrenza spietata intentata dai colleghi e al trattamento ricevuto dal dottor Bernstein, il suo datore di lavoro e direttore del giornale, che lo faceva sentire un buono a nulla pur essendo conscio che Harry fosse la sua punta di diamante. Si disse di voler fare una pazzia, quella sera. Continuava a fissare il dipinto e si sentiva bene, al suo posto. Pensò di volerlo acquistare. Era consapevole di dover contrattare con Frankie, brav’uomo ma abile commerciante, ma ormai era deciso nel voler portare via quel briciolo di bellezza da quel postaccio.
Si guardò attorno un’ultima volta, gettando uno sguardo di biasimo e disprezzo tutt’attorno, su quelle anime perse che consumavano la loro vita e le loro giornate offuscati dall’alcool. Un sereno, anche se deciso, disgusto.
Giunse al bancone, a passo veloce e deciso. Frankie era sempre lì ad asciugare bicchieri e mescere vino per gli avventori. Poi passò a strofinare con un panno il bancone d’acciaio, con calma serafica.
«Frankie, mi permetti un’informazione?»
«Fai pure, Harry. Bello parlare con qualcuno che è riuscito a rimanere sobrio…»
«Senti…quanto ti è costato quel quadro nel salone? Sai, quello con la chiesa e le linee tutte mosse…»
«Non l’ho pagato, non ho la minima idea di quanto valga. Era di mio zio, mi disse che è la copia di un dipinto famoso ma non ricordava né chi fosse il pittore né il titolo del quadro. Io non me ne sono mai interessato ma a me è andato bene lasciarlo lì...Non credo però che valga molto, in realtà, non è ben disegnato…»
Il tono di Frankie, piccato e allo stesso tempo sicuro di sé, iniziò a infastidire Harry ma allo stesso lo fece sorridere interiormente. L’ignoranza, in fondo, fa questo effetto.
«Certo…capisco» esordì Harry assecondando l’interlocutore. «A me piace, sai che mi interesso di quella roba lì…Quanto vuoi? Possiamo trovare un accordo».
Harry tratteneva a stento il fervore, dissimulando la soddisfazione di poter approfittare di tanta sprovvedutezza, con la sagacia che lo contraddistingueva.
«Non vale niente, vorrei piazzarci una bacheca per le locandine cittadine al suo posto…Sai, ci penso da tempo, ma chi ne ha, di tempo» affermò Frankie, tentando di carpire un sorriso con quella che gli pareva una battura, un gioco di parole. «Al comune mi hanno fatto un’offerta ma nulla di che…possiamo fare cento, se vuoi…non voglio spellare uno dei miei clienti migliori.»
Frankie sorrise e, cosa più stupefacente, parlava sul serio. Harry non credeva alle sue orecchie.
«Ma certo, certo…va benissimo…». Harry parlava tremando, per nascondere un effimero bagliore di felicità.
Lasciò un centone sul bancone, con grande leggerezza. Frankie lo guardò in controluce, per vagliarne la genuinità. Non ne vedeva spesso. Poi scrisse su un pezzetto di carta una specie di ricevuta e la consegnò a Harry. Era un uomo onesto, d’altronde.
Un saluto veloce e Harry si diresse verso l’ingresso, per uscire da lì. Sarebbe tornato, di questo era certo, ma con uno spirito differente. Prese un giornale da uno scaffale vicino alla cabina portabiti, ne separò i fogli e protesse il dipinto, assicurandolo dalla pioggerellina di quella sera. Nessun inquietante soggetto fuori dal locale. Uscì e riprese la strada al contrario.
Il freddo si era fatto più pungente, l’aria gelida sembrava tagliare i polmoni. Il fisico di Harry, già ampiamente debilitato, non sembrava risentirne particolarmente. Passo deciso, sguardo basso come al suo solito. Un incedere cadenzato, privo di interruzioni o tentennamenti. Casa sua era a pochi isolati. Rimaneva alquanto inquieto, quella sera. L’euforia dell’acquisto era svanita ed era tornato, prepotente, quel senso di vuoto, di mancanza; di cosa, non lo capiva mai, ma avvertiva quel vuoto. Sentiva crescere strani timori ma seguitava nel suo cammino.
Il freddo iniziò a farsi sentire a pochi passi da casi. Sprofondò ancor di più nel suo cappotto e nella sciarpa dal motivo quadrettato. Vide nuovamente passare quella berlina che lo incrociò a pochi passi dal pub. Il panorama desolato di quelle strade di quartiere si fece ancora più cupo.
L’auto si accostò al marciapiede, illuminando ogni dove con i grandi fari anteriori. Rallentò vistosamente, sino a fermarsi poco più avanti rispetto ad Harry. Questi accelerò il passo, senza dare nell’occhio, allontanandosi in breve. Era ormai ad un isolato da casa, quando una voce lo fece arrestare, spillando una goccia di gelido sudore dal suo sopracciglio.
«Fermati…» Nulla di più dalla bocca di una figura scura, indefinita, mista all’oscurità.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Noir / Vai alla pagina dell'autore: FrostrEldr