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Autore: lou0987    22/10/2018    0 recensioni
Dal primo capitolo: ''Quando diede nuovamente luce a quelle iridi erbose, ricercò con lo sguardo Grace. Era ancora nella stessa posizione assunta quella mattina, rifiutandosi di mangiare, occupata ancora a fissare la porta d’ingresso come se sperasse nell’arrivo di qualcuno. E Edith improvvisamente sentì una fitta dolorosa da qualche parte dentro al suo organismo. Gli occhi iniziarono ad inumidirsi e forse iniziò anche a piangere, ma non se ne accorse perché quelle gocce salate scesero piano e silenziosamente, e la sua bocca non emise alcun rumore. Le ricordava incredibilmente Lauren ogni qual volta Jamie spariva la notte. Passava le ore ad aspettare che tornasse, fissando con il fiato sospeso la porta di casa, fin quando non tornò più.''
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Londra – Barnes. Agosto 1987

Un dito sottile e pallido si incollò insistentemente nel campanello di una piccola casa nella zona di Barnes. La figura molesta sembrava non volerne sapere di staccare quell’ultima falange dall’oggetto in metallo e pregava nel mentre che nessuno passasse da lì e vedesse quel viso a metà tra il disperato e lo spazientito.
«Un attimo!» E la voce fu accompagnata da un rumore metallico che indicava finalmente l’apertura di quel portoncino che Lauren stava iniziando ad odiare. E ancora di più, quel giorno, odiò non trovarsi davanti la figura di Michael che fu sostituita da una sconosciuta bionda.
«E tu chi saresti?» Tirò su con il naso, Lauren, passandosi la mano sotto gli occhioni scuri così simili a quelli di Michael. Voleva, forse, scacciare i rimasugli di lacrime salate dal viso pallido non rendendosi conto che quell’espressione vuota era in grado di spiegare, da sola, il tumulto che aveva dentro.
«Chi saresti tu, se permetti» Edith la guardò con un’espressione spaesata, arrivando a uno sguardo infastidito davanti a quell’atteggiamento per lei inspiegabile. Lauren le degnò uno sguardo carico di astio, perché non aveva voglia di combattere con nessun’altro per quel giorno: voleva un minuto di pace; voleva un minuto di quiete dopo la tempesta; voleva sedersi, per un po’, raccogliere i cocci che Michael le avrebbe indicato e riprendere da capo come ogni volta.
«MICHAEL DOVE CAZZO SEI?» E urlò al nulla, Lauren, entrando in quella casa che conosceva come le sue tasche e ignorando quella biondina accanto a lei che continuava a guardarla come se fosse appena uscita da un manicomio. «Smettila di fissarmi. Sei la nuova ragazza di Michael? Perfetto!» E la squadrò, con poco tatto. «MICHAEL HO BISOGNO DI TE, ESCI FUORI».
Fu la prima volta che le vite di Edith e Lauren s’incrociarono: Edith era troppo spaventata dal mondo e Lauren, invece, era troppo arrabbiata.
«Michael non c’è, smettila di urlare come una pazza»
«Se me l’avessi detto prima, al posto di fissarmi come un’ossessa, mi sarei risparmiata le corde vocali»
E detto questo si diresse in cucina e si rannicchiò nel divano con la chiara intenzione di aspettare il ritorno di Michael. Non ci furono più parole tra le due, durante quella giornata, ma l’unica cosa che le tenne compagnia fu il rumore costante dei singhiozzi di Lauren.
 





Londra, Barnes – Gennaio 2010

Con un colpo scaraventò a terra la sveglia e portò la stessa mano sui suoi occhi per stropicciarli, così d’aiutare le palpebre ad alzarsi.
«GRACE DOUGLAS ALZATI IMMEDIATAMENTE E VIENI A FARE COLAZIONE» Alcuni tonfi, segno del pugno chiuso di Edith che colpiva per tre volte la porta della sua camera, accompagnarono un piccolo sbuffo e un «Sì» sussurrato che ovviamente la donna non avrebbe mai sentito. Si alzò così dal letto con calma, continuando a passarsi la mano sugli occhi e ogni tanto su quei capelli color grano arruffati che stavano continuando a crescere come non mai, arrivandole ora quasi a metà schiena. Raggiunse la porta della camera da letto, lasciata ancora in quella dolce penombra grazie alle fessure presenti sulla finestra che permettevano ai raggi timidi di dicembre d’impregnare la stanza. Con un piccolo sbadiglio entrò in cucina trovandosi Aaron già accomodato e pronto per uscire di casa, con una tazza di latte davanti in cui faceva affondare qualche biscotto preparato probabilmente dalla stessa Edith. Accanto a lui c’era Michael Hogwood, 45 anni, capelli brizzolati e barba leggermente più lunga del normale - di quelle morbide, dove da piccola le piaceva tanto infilarci le mani in un gesto infantile e rilassante. Spesso le capitava ancora di pensarci, a quegli attimi, quando la notte diventava buia e Grace cadeva sotto il peso dei ricordi. Di spalle, Edith era intenta a finire la preparazione degli amati pancake. Non c’era nulla di particolare in qual quadretto familiare, ma se Grace ci dovesse ripensare ora le verrebbe da sorridere davanti al ricordo di quelle mura, di quell’odore di zucchero bruciato e cannella la mattina, del rumore di quel rubinetto che nessuno si decideva ad aggiustare e che perdeva acqua in continuazione, con un ticchettio continuo, come a voler scandire il loro tempo.
«Buongiorno!» Disse la ragazza mentre prendeva posto a tavola, legandosi i capelli in una coda mal fatta solo per non farsi disturbare durante il pasto. E Aaron s’incantò davanti a quel gesto ma Grace non si accorse di nulla. Grace non si era mai resa conto di nulla, in vita sua: ad Aaron quella figura sembrava sempre sul punto di crollare, di rompersi, era come se camminasse continuamente in bilico su un filo appeso nel vuoto. Quel suo sorriso, che le colorava il viso anche nei giorni più bui, faceva crollare su di Aaron una malinconia esasperante, come se si aspettasse di non poterlo più ammirare da un giorno all’altro. Eppure Grace rideva, la maggior parte del tempo, e correva, e viveva con una tale intensità da spaventarlo.
«Buongiorno bambina» E sotto gli occhi di Grace si presentò finalmente il tanto desiderato pancake con marmellata, seguito in contemporanea da una lieve carezza lungo il capo. Socchiuse gli occhi e alzò debolmente gli angoli della bocca all’insù in risposta al gesto e alle parole di Edith. Era una bella donna – pensava spesso Grace - esattamente come era bello Michael. Aveva 41 anni e a Grace sembrava sempre una sorta di angelo messo accanto a lei da qualche strano contorto gioco del destino. Le sue braccia esili erano state il suo rifugio in lunghe notti senza fine, dove le lacrime avevano prosciugato ogni cosa. I suoi occhi erano stati l’appiglio necessario durante quella crescita turbolenta, durante gli attimi in cui Grace si sentiva quelle iridi verdi incollate al viso come se Edith aspettasse l’ennesima espressione per riportare alla mente i volti di Lauren e Jamie. Edith era il ricordo, malinconico e costante, della mancanza dei suoi genitori e nei suoi lineamenti c’erano tutti gli anni che aveva passato a ricostruirsi, c’erano le delusioni, c’era Lucas Hamilton, c’era la paura di un bambino a 19 anni, c’erano gli incontri con Michael, le amicizie perse e ritrovate, c’erano – anche se lei non ne parlava mai – le notti passate a vomitare un whisky di troppo. C’erano le lacrime per Lauren e Jamie Douglas.
«Se vuoi che ti accompagni a lavoro faresti bene a sbrigarti» Aaron non la guardò mentre pronunciava quelle parole, intento a sgranocchiare l’ennesimo biscotto con fare annoiato.
«Aaron, immagini quanto sarebbe bello avere una macchina tutta per me così da non dover ripetere questo teatrino ogni mattina?» Sorrise ironica Grace, lanciando un’occhiata veloce a Micheal mentre masticava con calma un altro pezzo di pancake.
«Tanto quanto trovare nuovamente il cofano completamente distrutto» Fu infatti Michael a proferire parola, alzando gli occhi color cioccolato dal quotidiano che come ogni mattina era intento a leggere.
«Oh, andiamo … Avevo appena preso la patente e avere Aaron accanto a me che mi urlava contro per ogni minimo sbaglio di certo non mi aiutava.» Il ragazzo scosse lievemente la testa in un silenzioso è sempre colpa mia.  «Non posso dipendere ancora da voi per ogni minimo spostamento» Grace regalò una smorfia alla sua famiglia, incrociando le braccia al petto e mostrando un tenero broncio involontario.
«Finchè vivrai sotto questo tetto limitiamo al minimo i danni, d’accordo?» Grace avrebbe capito troppo tardi il significato di quella frase. Michael le sorrise lievemente, alzandosi dal suo posto e avvicinandosi a lei così da lasciarle un bacio veloce sulla fronte prima di uscire dalla cucina. Una bambina, ecco come si sentiva. Grace era sempre stata in bilico tra due poli: da una parte il controllo costante ma silenzioso che Michael, Edith e Aaron esercitavano su di lei e le sue giornate e dall’altra il loro continuo accontentarla per qualsiasi scelta facesse. Quando aveva deciso, dopo nemmeno un anno, di lasciare l’università per iniziare a lavorare, Grace pensava di trovarsi davanti il totale disappunto di Michael, il dispiacere di Edith e la derisione di Aaron. Non accadde nulla di tutto questo, perché nulla venne detto. “Va bene” dissero “Se è quello che vuoi”. Grace sapeva di dover essere contenta per quell’appoggio familiare che altri, magari, agognavano. Eppure per diverso tempo pensò che tanto, loro, avrebbero avuto la stessa identica reazione davanti ad un “Ho deciso di prostituirmi”. La verità che Grace sentiva sulle spalle esili era che il suo essere orfana portasse chiunque – soprattutto la sua famiglia - a trattarla come se lei fosse fatta di cristallo, come se per limitare al minimo i danni non si dovesse far troppo baccano per evitarne la rottura.  
Aaron, tra tutti, era quello che maggiormente le faceva sentire il peso del suo passato addosso - quando il blu dei suoi occhi si posava su di lei con una nota di tormento a sporcarne le iridi, quando le stava sempre un passo indietro per non perderla mai di vista come se avesse paura di vederla sparire all’improvviso. La verità è che da quando ne aveva memoria Aaron Hamilton non le aveva fatto mai mancare niente in quello che doveva essere un rapporto tra migliori amici, tra fratelli: i sorrisi e le risate, le confidenze dette a bassa voce, le merende condivise, la sua spalla dove poggiava la fronte per nascondere le lacrime che minacciavano di uscire, le litigate, le riappacificazioni attraverso le sberle che gli assestava come ammonimento. C’era tutto quello che voleva nel loro rapporto ma non quello che avrebbe voluto, lei e Aaron erano un mucchio di legnetti secchi lasciati a bruciacchiare piano accompagnati da una lieve fiamma che mai sarebbe diventata fuoco vivo – Aaron non lo permetteva mai. Così Grace negli anni si accontentò di quel torpore, facendoselo bastare a patto che lui continuasse ad essere la sua ancora in quel mare senza fine.
Edith, ora accomodata nel tavolo, sorrise davanti a quella scena mentre sorseggiava la sua cioccolata calda.
«Beh, perché non lasci che Grace guidi la macchina almeno fino alla caffetteria?» Il capo biondo di Edith si rivolse a quello scuro di Aaron e lui ridacchiò alzandosi dalla sedia e portano sul lavandino la tazza vuota.
«Preferirei restare in vita ancora per qualche anno, mamma» E prima di sparire nella sua camera per finire di prepararsi, Aaron scompigliò con forza la chioma color grano di Grace
«Oh, perfetto! Grazie a tutti per la fiducia» e borbottò anche un «Vaffanculo» che arrivò chiaramente alle orecchie di Edith guadagnandosi così la prima occhiataccia della giornata.

 
***

Si cambiò nel modo più veloce possibile, infilandosi un paio di jeans presi a caso dall’armadio e un maglione rosso che l’avrebbe protetta dal gelo londinese di quella mattina. Si fiondò fuori dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo e si ritrovò Aaron davanti che le porgeva il capotto, mentre la guardava di sottecchi con il chiaro intento di ammonirla per quel leggero ritardo.
«Oh, andiamo … Non rompere, eh»
Fece roteare gli occhi – acqua sporca, come quelli di suo padre – e gli afferrò il capotto. Lui non disse niente e nel mentre si voltò verso la figura dietro di loro, così fece anche Grace. Edith reggeva tra le mani una fialetta con un liquido marroncino al suo interno che la ragazza afferrò con un mezzo sorriso – il mezzo sorriso, come quello di sua madre - di ringraziamento.
«Ricordati di prenderlo appena possibile, d’accordo?»
Grace annuì e le schioccò un bacio veloce sulla guancia.
«Ho ventuno anni, Edith, so quasi badare a me stessa.»
E le fece un occhiolino prima di voltarsi verso la porta d’ingresso ed uscire, facendosi investire dal gelo di Londra e da quel manto grigio che si ergeva sopra la sua testa. Una volta seduta dentro la macchina ingurgitò tutto d’un colpo il contenuto della fialetta, chiudendo strette le palpebre e buttando la testa all’indietro. Una smorfia comparve nel suo viso una volta completato il tutto e Aaron le rivolse un’occhiata veloce cercando di non perdere l’attenzione verso la strada.
«Sai per quanto ancora dovrai prendere quello roba?»
«Fin quando avrò il dolore alle ossa.»
«Lo prendi da quando hai sedici anni»
«Lo prenderò fino a quando ne avrò bisogno, perché devi chiedermelo ogni volta?»
«Perchè prendi la stessa medicina da anni e il dolore è sempre lo stesso»
Nel ripensarci ora, Grace avrebbe potuto accorgersi tante di quelle volte di ciò che attorno le accadeva, di quale sarebbe stato il suo futuro e di cosa era impregnato il suo passato. Aaron era come Hansel della famosa fiaba dei fratelli Grimm: le lasciava piccole molliche di pane per permetterle di trovare la strada, ma gli uccellini avevano divorato tutto e di quel percorso non vi era mai traccia.
«Sei quasi sopportabile quando ti preoccupi, lo sai?»
«Vaffanculo, Grace»
Soffiò una risata dalle labbra, prima di distogliere lo sguardo da lui e rivolgere la sua attenzione verso quella strada che conosceva a memoria, perché era sempre la stessa ogni mattina. Le dava sicurezza, ogni volta – e in quelle stesse strade le sarebbe piaciuto perdersi e camminare, per ore, per vedere dove mai potesse arrivare da sola.
Era dall’età di sedici anni che Grace aveva iniziato ad avvertire dei dolori insopportabili che, una volta presentati, duravano per un giorno intero. Accadeva a cadenza mensile e arrivava inesorabile, come le urla che risuonavano per tutto il quartiere di Barnes. I medici non avevano ancora compreso quale patologia affliggesse Grace, ma i controlli regolari le davano la sicurezza che non ci fosse nessun tipo di peggioramento – perché più in basso di così non sarebbe mai potuta cadere. Tutt’oggi, seduta in una panchina solitaria di Londra all’età di 29 anni, Grace sente ancora quel dolore bruciarle le ossa, strapparle i muscoli, raschiarle i tendini. Ma dopo il dolore, ora, c’è la libertà.


 
***

Sentì il motore spegnersi e si accorse d’essere arrivata a destinazione. Non scese immediatamente, preferendo farsi cullare ancora un po’ dal calore presente dentro l’abitacolo. .
«Vuoi che ti apra io lo sportello, principessa, o credi di riuscire a farlo da sola?»
La schernì Aaron con un mezzo sorriso e in risposta lei semplicemente scese dalla macchina vedendo subito dopo una chiara figura dirigersi verso di lei. Anche quella sagoma era la sua amata, dolce e bella routine. Se avesse dovuto dire un colore, per descrivere June  McLaughlin, avrebbe detto sicuramente giallo. Come i suoi capelli: non il color grano dei capelli di Grace – grano, come quelli di suo padre – ma gialli. June non era gli steli di paglia inondati dal sole, June era il sole. Giallo come i suoi occhi, color miele quando il tempo non era clemente e incredibilmente luminosi quando il sole di Londra tornava a fare visita e si scontrava con le iridi di lei. Giallo come un bracciale, uno smalto, un paio di scarpe, qualunque cosa indossasse il giallo ero sempre presente in lei. Era il suo sole personale e la conosceva da una vita intera, da quando ne aveva memoria. I suoi genitori erano amici fedeli di quelli di June, soprattutto Jamie Douglas che a quanto dicono le leggende si trovava nelle peggiori situazioni insieme a Richard McLaughlin.
«Come mai non ti vedo ancora dietro il bancone a prepararmi un mocha?»
June le mise due dita sulla fronte per spingergliela indietro, sorridendo nel fare quel movimento. Grace si ritrovò a roteare gli occhioni ma lasciò a June la libertà di finire quel gesto, quel saluto, quasi assecondandola facendo ricadere un po’ la testa all’indietro prima di sbuffare e sistemarsi la borsa sulla spalla.
«Regalami una macchina, allora» June ridacchiò, in quel modo cristallino che solo lei aveva, comprendendo la connessione perché non vi era niente tra loro due che potesse essere nascosto «Che bello iniziare la giornata con una buona discussione in famiglia» Grace borbottò qualcosa in risposta alla battuta dell’amica incamminandosi verso l’ingresso della caffetteria seguita da June e Aaron che probabilmente avevano iniziato a chiacchierare tra di loro riguardo quel piccolo e simpatico inconveniente della macchina. Entrambi erano soliti, prima di dirigersi a lezione, fermarsi da Grace per una seconda colazione della giornata e quello rimaneva un loro sciocco segreto: se Edith avesse saputo che i quintali di cibo non bastavano ai suoi ragazzi probabilmente ne avrebbe fatto una tragedia. La semplice verità è che Aaron e June spesso non prendevano nulla se non il classico mocha e un americano; restavano lì solo per chiacchierare, prenderla in giro per le sue distrazioni, per guardarla, osservarla, controllarla.
Il rumore delicato del campanello che avvertiva dell’entrata di un nuovo cliente nella caffetteria fu coperto totalmente dal vociare costante delle persone presenti al suo interno.
«Douglas, sei in ritardo di soli cinque minuti. Il mondo sta per finire. Muoviti a cambiarti» Fannie Williams le lanciò in mano il grembiule nero da indossare «Sì, buongiorno anche a te» borbottò Grace mentre iniziava a togliersi il capotto e la borsa.
«I soliti, Fannie»
«Dovrete aspettare, ho dei clienti da servire»
«E noi cosa siamo, scusa?» Allargò le braccia, Aaron, facendo notare l’ovvietà della situazione.
«Dei rompipalle, ecco cosa siete» E si allontanò tenendo tra le mani un vassoio con sopra diversi cappuccini e qualche biscotto, premurandosi di mostrarsi cordiale con qualsiasi tipo di cliente che non fossero loro. Conoscevano Fannie da diversi anni, da quando quella caffetteria all’angolo era diventata il loro ritrovo nelle giornate uggiose londinesi. Gli anni passati lì dentro avevano permesso a entrambe le parti di prendersi qualche libertà in più nel rapporto che, semplicemente, faceva sentire i ragazzi a casa. Fannie aveva 35 anni, capelli neri sempre in disordine e due iridi scure come il carbone. I fianchi morbidi e i lineamenti delicati del viso potevano farla apparire come la più dolce delle anime, ma loro sapevano bene quanto il suo essere scorbutica fosse una prerogativa del rapporto che avevano instaurato. E la cosa divertiva tutti, in realtà.
«Grace …» La ragazza sorrise malefica
«Oh, Aaron. Scusami ma c’è davvero tanta gente oggi e non vorrei far arrabbiare Fannie. Sai … Preferirei restare in vita ancora per qualche anno» Una piccola frecciatina che fece sorridere Aaron incredulo, scuotendo la testa, mentre la chioma color grano prese a trafficare dietro al bancone iniziando la sua giornata lavorativa.
«Un mocha così non l’avevo mai provato» June le lanciò un’occhiataccia prima di compiere qualche passo indietro apprestandosi a lasciare il locale con Aaron «Ci vediamo più tardi, principessa. E vedi di non far esplodere la caffetteria» un’esagerazione, ovviamente, proferita da June: era distratta come poche persone al mondo, questo era certo. 
«Sì sì, e voi vedete di and-»
«DOUGLAS IL TOAST STA BRUCIANDO»
Aaron e June risero di gusto chiudendosi la porta alle spalle.
Quanto pagherebbe Grace, ora, per sentire di nuovo quelle risate accanto a lei.

 




Londra – Barnes. Agosto 1987

Il portoncino di casa si rinchiuse con un tonfo e Lauren alzò gli occhi scuri e sporchi di pianto verso quella figura che fece il suo ingresso nel campo visivo. Edith sedeva al tavolo, con calma, e ringraziò mentalmente la nuova presenza che spezzò quel silenzio carico di tensione che aveva paura di distruggere.
«Che è successo?» Non salutò nessuno e i suoi occhi erano dedicati solo a quella figura minuta e spezzata sul divano.
«Vengo a vivere qui. Non voglio tornare da mamma e papà»
«Che è successo?» Voleva una risposta, Michael. Era così abituato a quelle scene che sapeva benissimo che prima o poi sua sorella se ne sarebbe andata di nuovo e di nuovo sarebbe ritornata da lui con la paura delle urla che la loro madre poteva lanciare contro di lei. Non avrebbe retto altro per quella giornata e Michael lo comprese.
«Lo fa ancora, Mich. Non ha mai smesso e io sono stata una stupida a non accorgermene. Lo fa ancora, lo farà sempre. E i soldi per l’affitto, Michael! Non posso continuare a chiedere a mamma e papà di mantenermi perché quello stupido ha bisogno della sua dannata droga. Fammi restare qui» E fu una supplica, la prima di una lunga serie. A quell’epoca Michael non lo sapeva ancora che darle asilo in quella casa avrebbe significato veder sfumare lentamente la figura di sua sorella, appassire come le foglie in autunno, piegata dalla vita e dall’amore. E Edith rimase ad osservare quella scena da spettatrice, fissandosela in memoria, non sapendo che per tutta la vita avrebbe ricordato quell’esile figura – così simile a lei – che l’avrebbe accompagnata per gli anni futuri, fedele amica e sorella d’anima.
«Ti piace ancora la torta di mele, vero?» Chiese Michael, ancora in piedi davanti a lei, regalandole un mezzo sorriso.
E anche Lauren sorrise, tra le lacrime.
   
 
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