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Autore: Lisaralin    24/10/2018    4 recensioni
Nel mondo dell'oscurità, una Replica incontra il suo creatore.
[ambientata durante KH3D; non tiene conto degli ultimi trailer di KHIII]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Riku Replica / Repliku, Vexen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Margine Oscuro

 
 
 
“I parametri vitali sono regolari. Nessuna funzione appare compromessa.
”Dovrebbe già aver ripreso conoscenza.”
“Non capisco. Guarda, il battito cardiaco è lievemente accelerato. Le pupille si muovono sotto le palpebre.”
“Sta sognando?”
“Oppure… “
 
***
 
È difficile stabilire se le voci provengano da dentro o da fuori.
Dentro, ovvero nella sua testa: che è pesantissima, come se il cervello fosse annegato nel piombo fuso e poi solidificato, attaccandosi alle pareti del cranio.
Fuori, ovvero la spiaggia: la sabbia fine e fredda sotto un cielo perennemente d’inchiostro. L’unica luce proviene da un astro pallido, una luna forse, o una nana bianca giunta alla fine del suo lunghissimo ciclo vitale.
Una nana bianca.
Una stella morta, esplosa in una gigante rossa una volta bruciato tutto l’idrogeno presente nel nucleo, e infine collassata di miliardi di volte le dimensioni originali, ridotta a uno spettro dell’antico splendore.
Perché gli vengono in mente queste informazioni? Ridicolo, considerato che non riusciva a ricordare nemmeno il proprio nome.
Prima e dopo la spiaggia, soltanto oscurità.
Oscurità dentro, oscurità fuori.
E freddo.
“Non riesco a credere che qualcuno voglia risvegliarti.”
La terza voce è tutta un’altra questione. Si trova decisamente fuori, ed è aggressiva. Lo tormenta. Non ha un corpo distinguibile, ma è un tutt’uno con l’oscurità che avvolge perpetuamente la spiaggia silenziosa. Da quando ricorda l’oscurità, ricorda anche la terza voce. Cioè da sempre.
“Non posso credere che qualcuno senta la tua mancanza.”
Il lato positivo della terza voce è che sembra saperne più di lui, e ogni tanto si lascia sfuggire qualche informazione utile. Risvegliare, ha detto.
Allora è tutto un sogno? E qualcuno è preoccupato per me.
Per deduzione logica, dunque, la voce n. 1 (imberbe ma sicura di sé; ragazzo giovane?) e la voce n. 2 (molto profonda, uomo di mezza età?) si trovano fuori dal sogno. Esiste quindi un collegamento tra la spiaggia nell’oscurità e qualsiasi cosa si trovi oltre. Verosimilmente, se le persone fuori riescono a stabilire un contatto con lui, anche il contrario dovrebbe essere possibile.
Forse è venuto il momento di rispondere al suo tormentatore misterioso.
“Perché no?”
In risposta alla sua domanda l’oscurità si addensa in un punto ai confini della spiaggia, si concentra in un grumo dentro al quale sono appena distinguibili i movimenti di una creatura viva. È da lì che proviene la voce.
“Per essere una grande mente ricordi davvero poco.” Anche questa voce è giovane, ma al contrario della n. 1 vibra per il disprezzo e la derisione. “Ma per te non sono mai stato abbastanza importante, vero? Mi hai buttato via come carta straccia appena non hai più avuto bisogno di me.”
La voce si incrina per un attimo, come vetro sul punto di spezzarsi. Gli suscita istintivamente tristezza. Forse anche l’altro è prigioniero del sogno oscuro ma, al contrario di lui, non ha nessuno che cerchi di riportarlo indietro.
“Dicevi che ero speciale. Che eri orgoglioso di me. Avrei dovuto capire subito che l’unico orgoglio che provavi era per te stesso.”
Orgoglio.
L’affermazione fa agitare qualcosa nel fondo della sua memoria, ma cercare di acciuffare quel ricordo è come nuotare controcorrente. Gli sfugge dalle dita e si fa beffe di lui, mentre i polmoni si gonfiano d’acqua e il peso enorme nella sua testa lo fa precipitare inesorabilmente a fondo.
Scivola sulla sabbia gelida, stringendo tra i palmi delle mani le tempie pulsanti.
 
 
***
 
 
Saïx aveva studiato a lungo il fascicolo, immobile, lo sguardo concentrato a masticare e digerire ogni carattere stampato. La luce azzurrina proveniente dalle capsule di sospensione galleggiava placida sul suo viso di pietra, rendendo ancora più aguzzi i bordi della sua cicatrice.
Dopo un tempo infinito, che Vexen aveva trascorso camminando su e giù per il laboratorio, lo sguardo del n. VII si posò finalmente su di lui.
“Dieci pagine per concludere semplicemente che un fantoccio è migliore dell’altro.”
“Non migliore” puntualizzò Vexen, infastidito. Non solo Saïx piombava inaspettatamente nel bel mezzo del suo importantissimo lavoro, non solo lo faceva attendere come un inserviente mentre esaminava il suo rapporto – come se avesse avuto l’intelligenza per capirci qualcosa, tra l’altro – ma ora aveva persino l’ardire di minimizzare il frutto prezioso della sua ricerca.
“Più adatto alle esigenze del Superiore. Questo non significa che anche No. II non abbia il suo valore.”
“A me sembrano perfettamente identici.”
Identici. No. I e No. II, identici. Non sentiva una tale sciocchezza da quando Demyx aveva affermato che il Mondo Che Non Esiste era piatto.
Le due future Repliche per il momento erano uguali nell’aspetto esteriore: due corpi privi di caratteri sessuali e tratti somatici. Ma le somiglianze finivano lì.
Chiunque poteva notare che i cicli sonno-veglia di No. II erano più irregolari e irrequieti, o che No. I tendeva a nuotare verso il bordo della capsula in risposta a movimenti esterni – una volta aveva addirittura poggiato il palmo sul vetro mentre Vexen passava a controllare i parametri vitali. Le loro risposte a stimoli di varia natura erano spesso diametralmente opposti: il battito cardiaco di No. I accelerava quando l’illuminazione del laboratorio diminuiva, mentre su No. II la penombra aveva un effetto calmante.
Ancora prima che i ricordi venissero impiantati dentro di loro, le due Repliche avevano sviluppato il nucleo di una personalità indipendente. Era sbalorditivo.
“Come indicato chiaramente nel mio rapporto… “
“È irrilevante.” Saïx gli restituì il fascicolo con un gesto sbrigativo. Per un attimo Vexen ebbe la visione di se stesso che scagliava a terra il n. VII e gli faceva ingoiare il rapporto pagina dopo pagina. Servì a non fargli perdere il controllo, quantomeno.
“Allora No. I riceverà i ricordi del custode del Keyblade. L’altro fantoccio non ci serve. Puoi distruggerlo.”
E prima che Vexen potesse dire qualsiasi cosa Saïx si fece inghiottire da un varco oscuro e scomparve.
“Distruggerlo, dice lui! Che faccia tosta!”
Le pagine del rapporto svolazzarono quando Vexen scagliò via il fascicolo con stizza, e andarono a posarsi ai piedi delle due capsule.
“Distruggere una creatura speciale come te dopo il lavoro titanico che ci è voluto per portarti in vita… è un crimine, credimi.”
I valori che lampeggiavano sul display della capsula di No. II erano leggermente alterati. La Replica si rigirava in modo nervoso tra le pareti di vetro.
“Ma non prestare attenzione alle parole di quel troglodita.”
Le Repliche non potevano capire le sue parole, ovviamente, ma durante i mesi in cui era rimasto rinchiuso giorno e notte a lavorare su di loro aveva preso l’abitudine a considerarle suoi interlocutori. Dopotutto anche degli stimoli verbali potevano rivelarsi utili alla loro crescita intellettiva.
“Non ho alcuna intenzione di distruggere una forma di vita così speciale.” Poggiò la mano sul vetro come aveva visto fare a No. I. Attraverso i riflessi azzurri vide No. II che pian piano cessava di agitarsi, rilassando finalmente i muscoli nell’abbraccio dell’acqua.
“Ti prometto che farò buon uso di te.”
 
 
***
 
 
“Ienzo, vieni a vedere.”
“Il battito è di nuovo accelerato.”
“Credo che abbia mormorato qualcosa prima, ma non sono riuscito a capire.”
“Even… che cosa ti trattiene lì dentro?”
 
 
***
 
La sabbia inghiotte il rumore dei suoi passi, perciò lo scienziato si accorge di lui solo all’ultimo momento. Sussulta mentre solleva lo sguardo, ma i suoi occhi hanno perso la patina di confusione.
Il fatto che li abbassi un attimo dopo gli fa capire che lo ha riconosciuto.
Finalmente si ricorda di lui.
“Perché?”
Lo incalza prima che l’altro possa riorganizzare i pensieri e prepararsi una risposta artificiale delle sue.
“Sei andato contro gli ordini dell’Organizzazione pur di non distruggermi. Cosa è cambiato dopo? Perché mi hai consegnato a Larxene senza neanche provare a difendermi?”
È pronto a sopportare le sue proteste, a subire i suoi insulti. A sentirsi trattare di nuovo come un oggetto rotto.
Il bastardo ha persone che lo aspettano, da qualche parte nel regno della luce. Non ha la minima idea di cosa significhi essere abbandonati. Perdere il conto dei giorni in un mondo nero, dove precipitano tutti quelli per cui non c’è spazio sotto il sole, con la certezza che nessuno si ricorda di loro, che nessuno verrà mai a cercarli.
La risposta non è quella che si aspetta. In effetti, è un’altra domanda.
“Te lo ricordi? Ricordi il tempo in cui eri ancora nella capsula?”
Curiosità e stupore prendono il sopravvento nella voce dello scienziato. Solleva di nuovo gli occhi su di lui, ed è uno sguardo che schiude la porta a ricordi non voluti.
Si sentiva traboccare di energia quando aveva mosso i primi passi nel Castello dell’Oblio. Vexen lo aveva fatto combattere contro alcuni Heartless evocati dalle carte: i movimenti erano scaturiti in modo naturale, come se avesse trascorso mesi ad allenarsi invece che a riposare nel mondo ovattato della capsula. Colpo su colpo, una danza che aveva la precisione e l’eleganza di un ingranaggio micidiale. Ma una danza non è tale senza qualcuno ad ammirarla, a compiacersi per la sua bellezza.
Alla fine Vexen gli aveva messo una mano sulla spalla, e lo aveva lodato.
“L’oscurità agisce in modo strano” si limita a rispondere, a denti stretti. “A pensarci bene è una beffa. Gli unici ricordi autentici che ho sono quelli del tempo passato con te.”
Si lascia andare anche lui sulla sabbia, ma tiene lo sguardo ostinatamente fisso sulle increspature morbide del mare, appena screziato dalla luce della luna. Sente l’altro muoversi nervosamente al suo fianco, probabilmente agitato dalla sua vicinanza. Potrebbe afferrarlo, in effetti. Fargliela pagare.
La verità è che non servirebbe a nulla. L’unica cosa che il ragazzo cerca, ormai, è una risposta.
“Potrei dirti che non avevo altra scelta. Che Axel e Larxene mi avevano messo con le spalle al muro. Ma immagino che non ti soddisferebbe.”
Lo colpisce l’assenza di scherno nelle parole del suo creatore. Non è la voce sicura e determinata che ricorda.
“Potrei dirti anche che non avevo un cuore. Ma non cambierebbe quello che è successo.”
“No, infatti.”
Si stupisce di non riuscire a provare tutta la rabbia che vorrebbe rovesciare in faccia al suo creatore, nemmeno in questo momento. Forse l’oscurità gli ha risucchiato via anche quella.
Ha risucchiato anche la parlantina dello scienziato, a quanto sembra.
Vexen ha spiegato quello che doveva in modo neutro e oggettivo, verità semplici che la Replica, in fondo al suo cuore (se davvero ne ha uno) già conosceva. Ma non è sufficiente. Non lo sarà mai, e questo lo sanno entrambi.
Si volta quel tanto che basta per spiare l’altro di sottecchi. Anche lo scienziato tiene lo sguardo fisso sul mare, ma i capelli biondi, quasi privi di colore nel bagliore spettrale della spiaggia, nascondono completamente la sua espressione.
Mel mondo dell’oscurità il tempo non ha significato, perciò No. II non sa valutare quanto a lungo la Replica e il suo creatore abbiano guardato insieme l’orizzonte. Il suono della risacca è continuo ed eterno come l’oscurità del cielo, e possiede una qualità ipnotica.
“Il futuro può cambiare, però.”
No. II si riscuote di sorpresa. Non si aspettava che l’altro parlasse ancora. Per la verità non si aspettava che succedesse nient’altro, ormai, in quel loro piccolo mondo.
“Non sarebbe difficile trovare un modo per riportarti indietro, se riuscissi a uscire di qui.”
“E io dovrei fidarmi di te?”
Ma il suo grido si confonde con il suono della risacca e si spegne nell’oscurità. Accanto a lui non c’è più nessuno. Nessuna voce rassegnata, nessuna figura insieme a cui guardare il mare. La sabbia è intatta, fredda. Indifferente.
Il suo creatore non è più lì.
No. II urla, prende a pugni la sabbia. Si squarcia la gola a furia di imprecare contro l’uomo che avrebbe dovuto prendersi cura di lui e che invece lo ha abbandonato per la seconda volta.
Dietro gli occhi spingono appuntite le lacrime, e il ragazzo si abbandona sul terreno, copre la fronte con le mani per non vedere più nulla. Il suono delle onde lo culla placidamente verso l’oblio.
Finché il rumore dell’acqua non assume i contorni di due voci. Lontane, impalpabili, tanto che in un primo momento il ragazzo è convinto di averle soltanto immaginate.
Le parole, tuttavia, sono chiare.
 
“Non mi sembra il caso di alzarsi così presto, Even.”
“Taci. Abbiamo del lavoro da fare.”
  
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