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Autore: Il Maiale    25/10/2018    4 recensioni
Ho ucciso mia madre.
Non una volta sola, ma tante.
Una volta l’ho uccisa nel sonno, mentre dormiva accanto a mio padre le ho messo le mani attorno al collo e ho stretto fino a che non è diventata blu.
Una volta l’ho uccisa spingendola dalle scale di casa di nonna, forse era il giorno di natale.
Una volta l’ho uccisa avvelenando il passato di zucca che a lei piace tanto. Certo… perché piace solo a lei quella roba arancione senza sostanza, quindi la dobbiamo mangiare tutti. Senza forma, senza un perché. Continua a dire che l’ho sempre mangiato da piccolo, ma non è vero. Falsa come pochi mia madre.
Terza classificata al contest “Il mio personale modus operandi" indetto da Not_only_fairytales.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Terza classificata al contest “Il mio personale modus operandi" indetto da Not_only_fairytale e portato a termine da Elettra.C.



J'ai Tué ma Mère

 

 

Ho ucciso mia madre.

Non una volta sola, ma tante.

Una volta l’ho uccisa nel sonno: mentre dormiva accanto a mio padre le ho messo le mani attorno al collo e ho stretto fino a che non è diventata blu.

Una volta l’ho uccisa spingendola dalle scale di casa di nonna, forse era il giorno di natale.

Una volta l’ho uccisa avvelenando il passato di zucca che a lei piace tanto. Certo… perché piaceva solo a lei quella roba arancione senza sostanza, quindi la dobbiamo mangiare tutti. Senza forma, senza un perché. Continuava a dire che l’ho sempre mangiato da piccolo, ma non era vero. Falsa come pochi mia madre.

Ho immaginato di aver messo del cianuro nel suo piatto, come nei film che mi obbligava a guardare con lei abbracciati sul divano ogni venerdì sera.

Le chiamava le serate “mammina”.

Avrebbe smesso di mangiare in quel suo modo disgustoso, avrebbe fatto cadere il cucchiaio nel piatto facendo schizzare quello schifo addosso a tutti, si sarebbe stretta la mano attorno al collo e poi si sarebbe accasciata a terra.

Io sarei scattato verso di lei e, notando le labbra blu e l’odore di mandorla misto a zucca nel suo alito, mi sarei girato verso mio padre, anche lui chino su di lei, e gli avrei detto: “Si tratta di cianuro”.

L’ho visto fare in un lungometraggio con Poirot mentre mia madre mi stringeva il braccio come farebbe una fidanzata, dicendo che era incredibile che tutti non si fossero accorti che l’assassino era proprio il tizio che aveva parlato per primo. E si stupiva, si arrabbiava con la televisione.

Ma che ti arrabbi?

La odiavo.

Anche il cane la odiava, continuava a pisciarle in giro per casa per farle i dispetti.

Mentre mi stringeva il braccio, facendo quei suoi versi di stupore da ragazzina della terza elementare, la uccisi colpendola più volte sulla tempia con la bomboniera della mia comunione che si trova sul tavolino di fronte al divano. Le avrei fracassato la testa.

Non ho sempre pensato a come uccidere mia madre ogni giorno.

Tutto è iniziato quando avevo otto anni e ce ne stavamo nel bosco in montagna a fare una scarpinata.

Era domenica, eravamo in famiglia e c’erano tutti. Mamma, papà, mia sorella, i mie cugini, i miei zii, i nonni, forse anche qualche amico di famiglia. Li odiavo uno ad uno, ma mia madre la odiavo di più.

Ora che ci penso ci muovevamo come si muovono nei film i poliziotti e i volontari che cercano una persona scomparsa in mezzo alla foresta, noi cercavamo i cadaveri dei ricci.

Mi ero allontanato e me ne stavo sulla riva del torrente a fare gli affari miei. Il giubbino che mi avevano messo, quando facevo per chinarmi, si gonfiava talmente tanto che mi sembrava di soffocare tra le piume d’oca. I guanti che avevo erano quelli senza dita, mi rimanevano solo i pollici opponibili.

Raccoglievo da terra come può raccogliere un granchio.

Sta di fatto che rovistando tra le foglie secche e colorate, mentre dietro di me sentivo le risate a qualche battuta squallida di mio padre, trovai una mano alla quale era attaccato un braccio al quale era attaccato un cadavere.

Aveva un braccialetto al polso, feci in tempo a metterlo in tasca.

Gli tolsi qualche foglia impigliata nei capelli e cercai di guardarla in viso ma ricordo che feci una grande fatica a girargli il volto. Era rivolta a pancia in giù, nuda, sommersa dalle foglie secche e colorate. Mi ci sedetti a cavalcioni per guardarla meglio.

Nella frazione ti tempo prima che sentissi quella pazza di mia madre urlare al Signore Eterno, realizzai il concetto di mortalità umana.

Qualcuno mi alzò da terra e corse via con me in braccio, mio padre urlò di chiamare la polizia ma era tardi, io avevo avuto l’illuminazione, ero stato abbagliato dalla luce della consapevolezza.

Le persone. Possono. Morire.

Mi hanno mandato da uno psicologo una volta a settimana da quella domenica; io ad ogni seduta lo tranquillizzavo dicendogli che non ci pensavo più al cadavere nudo di quella ragazza, il problema era forse che glielo stavo ripetendo ormai da dieci anni.

La consapevolezza che tutti possono morire e che tutti possono uccidere mi fece crescere un animale dentro al cuore.

Un animale velenoso che custodii e nascosi al mondo.

Una sera, uno di quei venerdì, abbracciati come se ci volessimo bene, guardavamo una maratona di Hichcook. Mio padre se ne stava sulla poltrona con gli occhiali sul naso a controllare il suo profilo facebook.

Il cane aveva pisciato di fronte alla tv ma a nessuno fregava più nulla.

Mia madre aveva poggiato la testa sul mio ventre e pensai che avrei potuto tranquillamente tirare a me la sua collana di perle soffocandola fra le mie braccia.

Dissi: «Mamma posso chiederti una cosa?»

Senza distogliere lo sguardo dalla TV gli chiesi: «Perché non mi hai fatto adottare da piccolo?»

Lei non capì.

Pensò ad una battuta e si mise a ridere.

Come se poi io sia mai stato famoso per la mia simpatia.

Le madri dei miei amici erano diverse dalla mia.

Loro non si facevano metà discorso in mente e metà a voce alta sperando che le capissi.

Loro non entravano nelle stanze dei loro figli parlando di quella cosa lì che si è fatta quel giorno che oddio non se lo ricorda.

E non sto scherzando, non mi si è frullato il cervello.

Mia madre diceva: «Amore ma quindi quella cosa lì alla fine come è andata, cioè come si chiama quel colore che abbiamo visto quel giorno in negozio? Ommioddio devo chiamare assolutamente quell’altra per dirle quella cosa che altrimenti mi dimentico.»

E ti si friggeva la materia grigia se solo provavi a comprenderla. Se solo provavi ad entrare nel suo mondo.

La maggior parte del tempo volevo urlarle in faccia di stare zitta perché tanto nessuno capiva mai niente di quello che diceva.

Oppure veniva da me e mi diceva: «Ma quindi quella cosa lì gliel’hai detta?»

Ma quella cosa lì, cosa? Ma a chi? Ma di che cazzo stai parlando?

Mia madre non ha mai amato mettere i soggetti nelle frasi.

Mia madre non ha mai amato mettere una logica nelle frasi.

Cominciai a pensare seriamente di ucciderla la settimana prima del mio compleanno, sarei diventato maggiorenne.

L’illuminazione mi venne guardando una serie tv che seguiva quella stronza. Non so se ha mai immaginato che tutte le cose che mi propinava, avvinghiandomi a se con una mano e con l’altra stringendo saldo il telecomando, mi sono sempre servite per immaginare nuovi scenari per la sua morte.

Sta di fatto che in quella puntata si parlava degli angeli della morte.

Sono infermieri o medici o missionari che pongono fine ai pazienti sofferenti o troppo vecchi, o per un senso di onnipotenza, ma non giudico nessuno.

Mia madre era una sofferenza ed aveva vissuto abbastanza. Era la vittima giustificabile.

Il modus operandi della maggior parte di loro era di iniettare dell’aria nelle vene affinché avvenisse un' embolia. Morte sicura. 

Lo avrei fatto mio.

Avrei provocato un' embolia a mia madre la notte del mio diciottesimo compleanno.

Avremmo festeggiato insieme a tutti i parenti, avremmo bevuto e mangiato e ancora bevuto.

Sarebbe stata così ubriaca, facile preda del mio ago, che non si sarebbe accorta di nulla. Né dell’ago, né della morte.

Era un piano talmente semplice che mi diedi dello stupido a ripensare a tutte quelle morti pittoresche e rumorose che le avevo dedicato.

Il pomeriggio del mio compleanno mia sorella venne in camera mia e, seduta sul letto, mi lanciò il regalo dicendo: «Penso che mamma e papà ti abbiano regalato un auto. Il nostro viziatello, io me la sono comprata da sola la macchina.»

Mia sorella non era gentile, ma non la odiavo. La compativo. Certe sere non tornava a casa a dormire e nessuno se ne era mai accorto.

Una madre dovrebbe sapere se sua figlia dorme a casa o meno, dovrebbe sapere cosa fa, chi frequenta e dove si rifugia quando è triste. Avrei ucciso mamma anche da parte di mia sorella.

Il regalo era un copri-volante di pelo rosso.

«Non ti piace?» disse, «peccato pensavo fosse il tuo genere.»

E lo sapevo che c’era l’intento di offendermi dandomi del finocchio, ma per me non lo era e non la odiavo. 

La mia sessualità era abbastanza ambigua, diedi anche di questo la colpa a mia madre.

Le diedi la colpa di essere stupida.

Fece per andarsene con il mio regalo in mano e gli chiesi: «Hai mai pensato di uccidere mamma?»

Lei si strinse nelle spalle, si poggiò al telaio della porta e mi disse che sì, forse una volta aveva desiderato di essere orfana, ma non aveva mai pensato ad un modo per ucciderla.

Guardando avanti a me, verso il cucino ai piedi del letto dissi: «Perché io invece penso di averci dedicato tutta la vita.»

Gli addobbi per la festa li aveva scelti mamma. Non mi piacevano.

Avevo preso una siringa dalla scatola dei medicinali, l’avevo scartata e con cura l’avevo nascosta sotto il mio cuscino. Avrei dovuto solo togliere il tappo di plastica e prendere un po’ d’aria.

Verso le otto eravamo tutti a tavola a mangiare.

Verso le dieci venne il momento dei regali e della torta.

Mamma e papà mi avevano regalato una macchina, i nonni mi avevano pagato la patente, gli zii un portachiavi con dei brillocchi incastonati. Sorrisi pensando che quella sera avrei ucciso mia madre.

Ad oggi vi dico che non ho mai preso la patente, non mi sono mai seduto in quella macchina e il portachiavi l’ho perso la settimana dopo.

Mamma dopo i regali, commossa, perché pensava fosse quello che volevo, andò in cucina a prendere qualcosa per tagliare la torta che aveva fatto in casa.

Mamma faceva torte diverse ogni domenica. Le ricette diceva di trovarle su internet.

Avevano tutte lo stesso sapore.

Conscio del fatto che quella non sarebbe stata diversa mi girai verso mio cugino, che continuava a martellarmi il cervello su qualche ipotetica prestazione speciale della mia nuova macchina, quando si sentì dalla cucina rumori di piatti rotti.

Corremmo tutti, qualcuno mi spinse indietro. Mia sorella cominciò ad urlare, mio padre chiamò mia madre per nome.

Mia zia disse: «No caro, non guardare… non di nuovo...»

Ma mia madre stesa in una pozza di sangue l’avevo vista eccome.

Una pozza di sangue e piscio.

Il piscio del cane.

Quello sul quale la polizia disse che scivolò con i piatti e i coltelli in mano.

Gli stessi coltelli che cadendo le si erano conficcati nel petto.

Ricordo che caddi in ginocchio nascondendomi il viso con le mani.

Ricordo che cominciai a piangere a dirotto, quei pianti penosi con il singhiozzo e il naso colante.

Tutti si strinsero attorno a me mentre continuavo a dire che non era giusto, che lei non sarebbe dovuta morire così. Ed era vero, doveva morire per embolia.

Mio padre mi abbraccio, anche lui con le lacrime, mi allontanò e mi fece sedere sulla sua poltrona.

I miei nonni vennero e mi strinsero a loro e io non la smettevo proprio di piangere.

Quel pianto che ti chiude la gola.

E niente… nemmeno la soddisfazione di ucciderla mi ha dato quella stronza.








Note autore: Non si hanno nomi perché non sono fondamentali nel racconto, rappresenta la vita che potrebbe vivere chiunque in qualsiasi parte del mondo. Non spiego nemmeno il perchè di questo odio così radicato perché come si prova un amore viscerale e irrazionale per la propria madre, allo stesso modo si può provare questo odio irrazionale che non trova sempre origine in un atto specifico che gli ha dato il via. 

Questo ragazzo non è nessuno e allo stesso tempo è tutti noi. Ha una sua personalità, un suo pensiero e allo stesso tempo è passivo alla vita.

Il genere è Noir poichè il protagonista nella sua mente è la vittima che vuole essere carnefice (cosa fondamentale nel Noir è che il protagonista non sia un investigatore ma appunto o la vittima o l'assassino), un racconto nero nella mente segnata di un bambino di otto anni il cui sogno nel cassetto era uccidere la propria madre.
Detto questo, spero vi sia piaciuta, spero di aver spiegato ciò che poteva non convincere il lettore, spero di avervi lasciati con un po' di amaro in bocca.

 







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