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Autore: Black Swallowtail    14/11/2018    1 recensioni
"Nessuno sa come reagire. È la prima volta che in un paesino come questo qualcuno viene massacrato. No, non solo massacrato. Sventrato, rivoltato, le interiora sparse in giro. Il cranio scavato, come se qualcuno avesse sfondato le ossa per cercare qualcosa al suo interno, il cervello ridotto a poltiglia colante. Gli occhi, cavati, solo due buchi neri grumosi, con ancora nervi sfilacciati e sangue coagulato. Uno schifo. Una violenza malata, fuori di testa.
Qualcuno ha detto disumana.”
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La casa di fango

 

"Sette agosto, ore sedici e cinque minuti. Sei minuti. Prego, dica il suo nome, cognome, data di nascita e residenza."

Il ragazzo si agita sulla sedia, a disagio. I suoi occhi infossati, circondati da un profondo strato violaceo ed innaturale di occhiaie, si muovono nervosamente tutt'attorno, senza controllo, come se cercasse, o meglio, si aspettasse di vedere qualcosa strisciare alle sue spalle. Gli ultimi segni del trauma, insieme alle ciocche di capelli divenute pallide, a striare la zazzera disordinata che ricade umida e sporca sul suo viso.

Confuso, mi getta uno sguardo tremante, come a chiedermi conferma che sia tutto tranquillo, che stia andando tutto come dovrebbe. Mi massaggio stancamente una tempia, raccogliendo la calma e la pazienza per imprimerle nel mio esaurito tono di voce, "Va tutto bene. Forza, nome e cognome, data di nascita, residenza. Sono solo formalità."

"E la... e la telecamera?" balbetta, facendo cenno alla piccola macchina con talmente tante modalità da essere sprecata per riprendere le testimonianze di qualche piccolo idiota di periferia.

"La telecamera serve per raccogliere le testimonianze," spiego pazientemente, tamburellando le dita sul mento, tra la barba incolta, "se per caso avessi voglia di rivedermi la tua faccia e sentire le tue parole."

Scuote la testa, con uno scatto tanto improvviso da farmi inarcare un sopracciglio, la scuote con tanta decisione da spingermi a chiedermi il motivo di tanta ansia. Un innocente, di solito, non ha problemi a farsi registrare, a vomitare fuori tutto di fronte ad un registratore.

Eppure, questa volta non c'è l'ansia di chi è messo ai ferri corti, nella sua espressone scavata, raggrinzita, nella sua pelle sporca di sangue e fango, ma c'è solo assoluto terrore, una paura tanto profonda da farmi torcere le viscere.

Una volta, ho visto un uomo affogare. La paura nel suo volto, mentre l'acqua invadeva i polmoni, mi è rimasta impressa abbastanza da impedirmi di avvicinarmi all'acqua; sono passati quindici anni, e di quando in quando, nel buio, quando non riesco a dormire, mi sembra di rivedere la scena istante per istante, quando i suoi polmoni sono scoppiati, la sua faccia è diventata bluastra e l'acqua marina lo ha riempito. Per ogni istante di questa lenta, agonizzante morte, i suoi occhi sono rimasti tanto enormi, sbarrati, colmi di un terrore assoluto e primordiale, da nausearmi.

Nello sguardo di questo povero idiota di ventuno, ventidue anni, c'è qualcosa che supera la paura, che trascende perfino l'orrore della morte, la realizzazione di stare soffocando.

“Ascolta...” mi avvicino a lui, trascinando la sedia attraverso la sala asettica, fino a raggiungere il basso tavolo d'acciaio che ci separa, poggio entrambi i gomiti sulla superficie gelida per sporgermi verso di lui, “Facciamo in questo modo, ascoltami. Ora tu dirai il tuo nome, cognome, e tutto il resto; poi, spegnerò la telecamera,” faccio un cenno con la testa verso il minaccioso treppiede, cercando di dare alla voce un tono conciliante, “e poi mi racconti tutto quanto. Al resto penserò io. Ti sta bene?”

Non risponde, forse perché non ha compreso le mie parole, forse perché non le ha ascoltate. A volte, sembra perdersi di colpo, come spegnersi, e i suoi occhi si annebbiano, quasi stesse pensando a qualcos'altro con una tale intensità da staccare un cavo, da qualche parte nel suo cervello provato; devo schioccare le dita di fronte alla sua faccia per farlo sobbalzare un attimo e ripetergli, lentamente, parola per parola, la mia proposta.

Il rumore della telecamera, quel basso continuo rumore statico riempie l'aria per un istante, mentre questo emaciato cadavere riesce ad annuire, le braccia che tremano leggermente nonostante i suoi sforzi di tenerle sotto controllo. È da quando lo hanno trascinato qui che non riesce a smettere di tremare come una foglia, le gambe sotto al tavolo che battono tra di loro ritmicamente, il piede che struscia avanti ed indietro senza mai fermarsi.

“Il mio nome è Malcom. Malcom Pickman. Sono nato qui, a Williamshire, nel millenovecentonovantaquattro. Vivo in Saint John Street, al numero venticinque B.”

Mi alzo in piedi. Lentamente, con lenti movimenti impacciati, trattenendo le imprecazioni, riesco a staccare la telecamera dal cavalletto e, dopo qualche istante, riesco a trovare il pulsante per spegnerla. Con un leggero pigolio elettronico, l'oggetto si spegne. Lo poggio di fronte a lui, in modo che possa osservarlo, rendersi conto che nessuno sta riprendendo qualsiasi cosa voglia raccontarmi.

Mi lascio andare contro lo schienale, i polpastrelli delle dita che si toccano, incrociando la figura storta e svuotata di Malcom Pickman, che si morde l'interno della guancia, Pickman con il labbro spaccato, le mani piene di graffi ed il respiro affannoso, come se avesse corso per chilometri. Pickman dagli occhi sfuggenti e tremanti, quasi gli fosse rimasto impresso nella retina qualcosa di orrendo ed insopportabile.

“Allora, Malcom; posso chiamarti Malcom, vero?” Annuisce, poco più di un accenno di movimento, il suo sguardo rimane fisso sulla lente della telecamera. Allungo una mano verso il bottone d'accensione, dandogli un colpetto, la luce rossa si spegne con un vago singhiozzo elettronico e la sua espressione si rilassa per un istante, neanche fosse scampato ad una minaccia di morte. “Allora, Malcom. Ho una serie di domande da porti, una serie di domande alle quali è estremamente importante, fondamentale, che tu risponda sinceramente.”

Si porta una mano al viso, passando lentamente i polpastrelli sul viso tumefatto, sui lividi, sui segni della colluttazione, “Vorrei farlo... Io vorrei poterle dire la verità, ma...” Esita, la voce si spezza mentre affonda la faccia nei palmi delle mani, sfregandosela con rabbia, quasi sperando di cancellarla, di farla sparire, “Ma poi lei mi crederebbe? Qualcuno mi darebbe ascolto?”

“Beh, è il mio lavoro cercare la verità, anche se può sembrare improbabile o impossibile. Non ti porterò di fronte al giudice senza uno straccio di storia con cui difenderti. Sono un avvocato, non un santo che fa miracoli, capisci? So che sei innocente,” scuoto la testa, “e non hai ucciso il tuo amico, Alan... Alan Jackson, vero? Ma se non mi racconti tutto, se non mi fornisci la storia, la verità, io ho le mani legate, capisci? Credimi, faccio questo lavoro da anni, so di cosa parlo.”

Non sembra convinto. Si legge nei tratti nervosi del suo viso che è restio a parlare, a dire qualunque cosa, per cui non mi resta che tirare la sedia in avanti e, poggiati i gomiti sul tavolo gelido, sporgermi un po' in avanti.

“Sai cos'è il segreto professionale?”

Annuisce.

“Allora sai che tutto ciò che dirai, se non servirà la tua causa, la nostra causa, non uscirà da questa stanza. Nessuno ci guarda. La telecamera è spenta. Siamo solo io e te. Vuoi uscirne tutto intero, pulito? Parla, racconta. Io segnerò qualche appunto. Ti sta bene?” gli mostro il blocchetto degli appunti stropicciato e macchiato d'inchiostro che ho poggiato di fronte a me. La penna rotea tra l'indice ed il pollice, con movimenti secchi, automatici, e le sue pupille piene di terrore seguono il movimento ipnotico.

“Va bene. Va bene. Ha ragione, io...” sembra quasi andare in pezzi, insieme alla sua voce che si incrina, al suo corpo che si raggomitola su se stesso, nel darmi quello sguardo disperato e perso, pieno di un terrore cieco che non ho mai visto in nessun altro, “...è difficile. Il ricordo mi inorridisce e disturba ancora.”

“Beh, è normale. Alan è stato trovato morto solo ieri. Eri il suo migliore amico. Ma tu sei l'unico che conosce i fatti, abbiamo trovato le tue chiavi di casa, il tuo portafogli. La tua macchina impantanata nel fango. Eri lì, quando è morto, o poco prima, in ogni caso. L'ispettore Reeds crede che tu sia il colpevole e, sinceramente, non gli interessa la verità,” picchietto le dita contro il taccuino, sugli appunti disordinati che ho preso fino ad ora, quel poco che sono riuscito a strappare alle persone informate, “Nessuno sa come reagire. È la prima volta che in un paesino come questo qualcuno viene massacrato. No, non solo massacrato. Sventrato, rivoltato, le interiora sparse in giro. Il cranio scavato, come se qualcuno avesse sfondato le ossa per cercare qualcosa al suo interno, il cervello ridotto a poltiglia colante. Gli occhi, cavati, solo due buchi neri grumosi, con ancora nervi sfilacciati e sangue coagulato. Uno schifo. Una violenza malata, fuori di testa. Qualcuno ha detto disumana.”

Si irrigidisce. Disumano. Gli faccio un cenno del capo, per invitarlo a parlare, a iniziare a raccontare cosa sia successo.

Trema tanto violentemente che posso vedere la sedia muoversi appena insieme a lui, insieme alle sue gambe incapaci di stare ferme, le mani biancastre che si torcono, si azzannano l'una con l'altra. La bocca impastata, secca, si apre.

“Era giovedì. Due giorni fa, il cinque agosto. Eravamo andati in birreria, quella su Waterloo Street, all'Irish. Ci andavamo ogni giovedì, quando staccavamo dal lavoro; io finivo di studiare alle venti e alle ventuno eravamo seduti al tavolo, in mezzo al fumo, alla gente. Bevevamo fino a stare male, perché volevamo ignorare lo schifo di ogni giorno, i problemi al lavoro, a casa.

Alan litigava spesso con i suoi. Gli davano del fallito, perché aveva lasciato l'università e andava a bighellonare in giro. Ogni tanto faceva qualche lavoretto, quello che trovava per qualche settimana, un paio di mesi; negli ultimi tempi, aveva lavorato al market in fondo alla strada, faceva il cassiere. Orario notturno. Per questo, appena aveva potuto, si era licenziato; era un mese che tornava a casa solo per dormire, a notte fonda, così da non dover parlare con suo padre. Non se la passava bene.

Quella sera, però, era arrivato in ritardo. Non arrivava mai in ritardo, neppure di qualche minuto, perché di solito era già lì, già seduto. Mi ero quasi preoccupato, ma vedendolo entrare di gran carriera, tutto gonfio d'orgoglio, mi sono tranquillizzato.

Si è seduto di fronte a me, ordinando due birre e qualcosa da mangiare, non ricordo cosa, forse le alette di pollo, quelle piccanti. Le adorava. Diceva che la birra aveva un sapore migliore, quando si mescolava alla salsa.”

“Perché era così baldanzoso? Un nuovo lavoro?”

Malcom abbassa gli occhi. Si porta le mani alle tempie, massaggiandole per qualche istante, prima di passarsi le dita tra i capelli crollando contro lo schienale della sedia scricchiolante. “Sì, aveva trovato un lavoro. O meglio, qualcuno che voleva vederlo per un lavoro.”

“E chi era, quest'uomo?”

Una domanda inutile. Chiaramente, si tratta di qualcuno di importante, qualcuno che potrebbe facilmente togliere di mezzo chi conosce un segreto scomodo. Dev'essere per questa ragione che Malcom ha paura di parlare, e per questo Alan è stato ucciso. Sanno qualcosa che non deve fare il giro delle bocche, che non deve diffondersi. Forse si tratta di Horne, di Martell, qualcuno con le mani in pasta nell'edilizia o nella politica, invischiato fino al collo...

“Il vecchio Hiriam Lockwood.”

“Lockwood?” il tono di sorpresa nella mia voce deve pungerlo sul vivo, perché lui ripete con convinzione il nome, annuendo vigorosamente, “Lockwood, il vecchiardo che vive da solo in quel cottage fatiscente?”

“Proprio lui. Non capivo nemmeno io cosa potesse volere Lockwood da uno come Alan. Lui, beh, lui sapeva armeggiare con gli strumenti da laboratorio. Prima di lasciare l'università, la chimica era la sua passione, conosceva a menadito le formule, le soluzioni, i legami. Per me, sono sempre state arabo.”

“Formazione classica, eh? Siamo in due. Posso recitarti a memoria tutti i versi di Seneca che vuoi, ma ancora non so come funzionino i legami covalenti.”

Stringe i denti, come a cercare di trattenere il filo del discorso, di non lasciarlo sfilacciare, non perdere la concentrazione, la determinazione di continuare a trascinarsi avanti, nonostante tutto.

Perché è così spaventato da Lockwood? È solo un anziano un po' strambo, con il chiodo fisso dei complotti, con la convinzione che esistano gli alieni e che gli Illuminati lascino scie chimiche nel cielo. Eppure...

“Lockwood aveva bisogno di qualcuno che conoscesse la chimica, mi aveva detto Alan, forse perché si era messo in testa di esaminare qualche campione d'acqua per provare la sua teoria del governo avvelenatore. Non lo so. È sempre stato un pazzo, quell'uomo; ma pagava bene e Alan aveva bisogno di soldi, i suoi lo avevano buttato fuori di casa. Un ultimatum, gli avevano detto di trovarsi un lavoro normale, di portare a casa dei soldi, di fare qualcosa della sua vita.

Mi mostrò l'anticipo di Lockwood. Duemila, tremila sterline in contanti. Tutti soldi veri, nessuna banconota falsa. Non so da dove li abbia tirati fuori. Non ci vedevo nulla di male, alla fine sembrava trattarsi solo di analizzare provette del Severn. Un lavoro facile e sopratutto ben retribuito. Quella sera offrì lui e bevemmo fino a tarda notte; alle quattro di mattina, io andai per la mia strada, lui per la sua.

Alle nove, ero ad aspettarlo sotto casa sua, la macchina già accesa ed il freddo che entrava nelle ossa. Stava per piovere, il cielo era tanto scuro ed umido da sembrare un'unica distesa opaca e soffocante, nonostante le previsioni avessero dato cielo sereno e poco nuvoloso. Non sono mai stato un tipo superstizioso, ma ora che torno a pensarci avrei dovuto interpretarlo come un cattivo segno.

Fatto sta che Alan salì in macchina e lo portai fino al cottage di Lockwood, quella catapecchia fatiscente con la rimessa in giardino, sa esattamente di cosa parlo. Una mezz'ora di macchina dal centro, una di autobus, ma ne passano solo due al giorno, alle sei di mattina e alle ventidue, insomma un luogo isolato dal resto della comunità.

La strada per raggiungerla è tortuosa e piena di buche, le ruote che affondano nel fango di un sentiero che non ha mai visto l'asfalto. Si passa per il bosco vicino, che in questo periodo è poco più che una massa di rami e tronchi anneriti, spogli, che formavano una cupola su di noi, sotto al cielo scuro. Il meteo ora annunciava un temporale, un tifone veramente rabbioso in arrivo.

Lockwood era sull'uscio, seduto su una vecchia sedia a dondolo scricchiolante e tenuta insieme da nastro adesivo. Da quando lo conosco, non l'ho mai visto cambiare, perennemente raggomitolato su se stesso, raggrinzito, gli occhi infossati e circondati da una ragnatela di rughe. Ha sempre avuto un'espressione corrucciata, per cui non so dire se sembrasse piuttosto infastidito dalla mia presenza, se nei suoi occhi ci fosse un chiaro disappunto, oppure se quella irritazione che rimbalzò da me ad Alan fosse dovuta al leggero ritardo, ma il mio amico sembrò non farci caso; dopo avermi salutato, li ho visti allontanarsi verso la rimessa, con lo scheletrico proprietario che zoppicava sulla gamba distrutta dai reumatismi.

Quando Lockwood ha alzato la serranda, ho visto, all'interno, un vero e proprio laboratorio chimico, pieno di alambicchi, ampolle e tutti quei becker di vetro che si trovano a bizzeffe nelle officine scientifiche.

Non ebbi notizie di Alan fino a quando, all'una di notte, ricevetti una chiamata sul telefono di casa; ruppe il silenzio chiedendomi un altro passaggio, visto che l'ultima corsa del bus di linea era passata da un pezzo, allettandomi con qualcosa da bere, offerto da lui, per festeggiare il primo giorno di lavoro. Dalla sua voce, dal suo tono soddisfatto, non ci misi molto a capire che il vecchio strambo aveva pagato profumatamente.

Porta da bere, disse, per fare un brindisi.

Ma non era la birra che mi chiamava. Era la curiosità divorante. Volevo davvero sapere quale complotto si fosse inventato Lockwood per richiedere l'assistenza di un chimico. E così, mentre fuori iniziava a piovere tanto rabbiosamente da far tremare le finestre, mentre il vento ululava così violento da spingermi di lato, afferrai due bottiglie dal frigo, saltai in macchina e mi misi in viaggio.

I tergicristalli riuscivano a malapena a scacciare le pesanti gocce di pioggia, le gomme minacciavano di slittare sull'asfalto e, fuori non c'era anima viva, tutti si erano rifugiati al chiuso per sfuggire al tifone.”

“Ricordo. Era un livello di allerta rosso. Una tromba d'aria comparsa dal nulla, di colpo,nonostante le previsioni meteo. Nonostante tutto, sei andato a prendere Alan. Un gesto di vera amicizia.”

Il mio commento gli manda un brivido lungo la schiena e la sua mascella si irrigidisce, i denti che strusciano nervosamente, tanto da produrre un basso, secco rumore di sfregamento. Lo vedo, completamente assorto, come se la sua storia fosse di colpo inciampata, come se faticasse a trovare le parole per proseguire.

Malcom prende un profondo respiro, “D'ora in avanti, le voglio dire che non so cosa sia accaduto. Non so come spiegarlo. Potrebbe sembrarle folle, potrebbe sembrarle che io mi stia inventando tutto o che sia, non lo so, schizofrenico. Ma le giuro che è tutto vero.”

Inarco un sopracciglio, piegandomi in avanti, la sedia emette un secco rumore quando la tiro in avanti per poggiare i gomiti sul tavolo ed avvicinarmi al suo viso divenuto di un pallore mortale, come se stesse per rimettere, vomitare fuori tutta la bile del corpo.

Di nuovo un terrore assoluto, tanto profondo da darmi un brivido gelido.

“Cosa è successo, su quella strada?”

“Svoltai nella stradina fangosa che passa per la foresta. La macchina faticava ad avanzare, continuava a bloccarsi nei pantani, finché il motore non si spense. Rimasi immobile, cercando di non farmi prendere dal panico, mentre i rami scuri sopra di me scricchiolavano, si contorcevano, ed il vento ululava, il temporale si scatenava tanto forte da far vibrare il cofano e le portiere.

Forse era solo la paura, forse un'allucinazione. È quello che mi sono ripetuto per tutto il tempo, per ore ed ore, nel tentativo di non uscire di testa.

Io... Io non so come descriverlo. Non ci sono parole per farlo. Ma era lì. Era spuntato fuori dalla strada oscura, barcollando, strisciando per metà nel fango, per questo era sporco, ricoperto di qualcosa che non era solo fanghiglia. Aveva addosso un liquame, di colore bluastro, e si muoveva con movimenti incerti.

La pelle, quella che almeno credo fosse la pelle, era così sottile, quasi trasparente, che potevo vedere i muscoli, le ossa al di sotto che palpitavano, si agitavano, cambiando continuamente forma e posizione.

Vedevo le viscere contorcersi, allungarsi, risalire fino alla faccia e scendere, gli occhi, i due, quattro, venti occhi roteare lungo le braccia, la pancia, gli avambracci, e muoversi all'impazzata, strizzarsi per la luce.

La bocca, la bocca era senza denti, ma la lingua, divisa in due, si muoveva e si contorceva per emettere dei suoni. Dei rumori orrendi, gutturali. Era come un bambino, dei vagiti di un bambino, ma più grotteschi, animaleschi.

Le braccia cercavano appigli nel fango, nel tentativo di trascinarsi in avanti, perché le gambe erano malformate, nere e gonfie, come se stessero andando in cancrena e la pelle sottile si lacerava continuamente, lasciando schizzi di un liquido rossastro che sembrava sangue, ma più chiaro, quasi fosforescente, insieme a pezzi di osso, frammenti di intestino, di tendini e muscoli.

L'essere, quell'abominio, mi ha guardato, con tutti i suoi occhi asimmetrici e mobili, prima di tirarsi su a fatica aiutandosi con ripugnanti tentacoli che fuoriuscivano dallo stomaco. No, non credo fossero tentacoli. Sembravano più pezzi di carne e muscoli attorno ad ossa scricchiolanti, che spinsero verso l'alto quel corpo che si sfaldava.

Non credo di aver urlato, nemmeno quando quell'incubo si è schiantato contro la mia macchina, ammaccando il cofano e lanciandosi contro il vetro. La mascella gli si spezzò nell'impatto, si dislocò e rimase a penzolare da un lato, rivelando una profusione di lingue, tre o quattro, che oscillavano inerti, prive di muscoli, mentre si trascinava urlando e vagendo contro il mio sedile.

In quel momento, sì, ho urlato. Ho urlato talmente forte da perdere la voce. Ho urlato, ho afferrato le bottiglie di birra che avevo preso, e le ho spaccate contro quella cosa. Ho affondato i cocci ripetutamente, senza smettere di urlare, mentre quella bestia non faceva altro che dimenarsi, tentando di strisciare fuori dal parabrezza.

Quando ho smesso di colpire, le due bottiglie erano rimaste conficcate nel cranio spappolato dell'essere, dal quale colava solo un liquido nerastro, una specie di catrame ributtante. Ho guardato meglio solo dopo aver vomitato sul volante, sui tappetini, sui jeans.

L'odore disgustoso che il corpo emetteva ricordava quello dei composti chimici, lo stesso che si può sentire in un laboratorio, come quello del dipartimento di chimica di Alan, a Londra. La sostanza nera, il cervello gelatinoso e malformato dell'essere si appiccicava ai miei vestiti e alle mie dita, emettendo un rumore vischioso quando tentavo di staccarlo, una specie di risucchio orrendo. Ho preso la portiera a spallate finché non si è aperta, sono rotolato nel fango, cercando aria, annaspando per riuscire a respirare.

La pioggia gelida mi bagnava e inzuppava i vestiti lerci, i conati di vomito continuavano ad afferrarmi la gola, ma non avevo più nulla da buttare fuori. Il puzzo di ammoniaca e di carne in decomposizione mi stava facendo girare la testa con tanta violenza da costringermi a chiudere gli occhi.

Non so quanto ho impiegato per riprendermi, non so quanto tempo sono rimasto sdraiato nel fango a riempirmi di pioggia e dell'odore del sottobosco. Fatto sta che, rimessomi in piedi, ho avuto solo la forza di continuare a camminare, senza pensare ad altro sa raggiungere la catapecchia di Lockwood. Che nella catapecchia di Lockwood c'era Alan.

Le luci erano accese, nel cottage fatiscente; vedevo il riverbero giallastro di qualche lampada ad olio, visto che quel fanatico non voleva finanziare lo stato. L'elettricità che gli serviva, diceva, se la produceva da sé; ed infatti, quando mi avvicinai alla porta sul retro dopo aver bussato inutilmente a quella principale, trovai dei pannelli solari disposti in ordinate file sul retro.

Il cottage era scalcinato, le pareti piene di crepe e le tegole del tetto spaccate, con i frammenti sparsi tra le ispide erbacce del giardino, alte fino a sopra le ginocchia. Eppure, i pannelli solari erano in perfetta efficienza.

Spinsi la porta sul retro, poco più che una sottile tavola di legno poggiata su cardini arrugginiti. Se le luci erano accese, mi dissi nel mio delirio, dovevano essere qui dentro. Forse sapevano qualcosa del mostro, forse lo avevano intravisto nella notte. L'interno della casa di Lockwood era squallido tanto e più dell'esterno, a partire dal mobilio ammuffito, ricoperto da uno spesso strato di polvere e macchie di umidità, fino ai cumuli di spazzatura sparsi per ogni angolo, montagne di libri strappati e gettati negli angoli, sacchi neri ricolmi di resti maleodoranti accumulati da settimane, forse mesi.

Ovunque voltassi la testa, nella semioscurità rischiarata solo dalla lampada ad olio poggiata sul tavolino da caffè al centro del soggiorno, non vedevo che abbandono e sporcizia. Il soggiorno stesso era poco più che una stanzetta rettangolare, con il camino spento e ricolmo di braci e cenere che si spargevano sul parquet consunto, dalle assi sconnesse; anche qui spazzatura, cocci di lampade rotte, tomi sparsi, si accalcavano in quello spazietto abominevole.

E al centro della stanza, proprio accanto ad una testa di cinghiale imbalsamata, proprio al limitare della pozza di luce giallognola, una sedia a dondolo, con la schiena rivolta verso di me, si muoveva, scricchiolando, sulle sue giunture tenute insieme da nastro adesivo. Qualcuno emetteva un basso, faticoso respiro, come se stesse raschiando qualcosa dai polmoni.

'Lockwood?' provai a sussurrare. La persona seduta non rispose, continuava a respirare, a dondolare di fronte al camino spento. Afferrai la lampada ad olio, la alzai leggermente, avanzai per illuminarne il profilo raggrinzito. La sagoma, senza dubbio, era quella del vecchio Lockwood.

Il mio piede sfiorò una tazzina da caffè rotta, abbandonata, provocando uno scricchiolio. Il dondolare si fermò.

'Signor Lockwood?' bisbigliai ancora, allungando una mano verso di lui. Esitai, qualcosa dentro di me urlava solo di andarmene. Di correre via e di dimenticare tutto. Di fare finta che fosse un incubo.

Cristo. Vorrei averlo fatto. Invece, ho vinto il terrore, il disgusto, ed ho toccato la spalla di Lockwood.

La sedia a dondolo si è fermata, si è piegata leggermente all'indietro. La luce della lampada ha illuminato il corpo.

Era nero, gonfio, ed emetteva strani, ributtanti icori da ogni orifizio. Ogni parte di lui stava come vomitando fuori una sostanza nerastra, che spruzzava dalla bocca, dagli occhi, dal naso, dalla bocca. Quando strinsi la sua spalla, la sentì molliccia, come se fosse ricolma di qualcosa, prima che si smembrasse sotto al mio tocco e schizzasse quel liquame ovunque. La bocca si spalancò, vuota, così come le sue orbite svuotate. Quel corpo orrendo si sfaldò sotto le mie mani, andando in pezzi e caracollando a terra, sputando via le viscere, le interiora, ogni cosa, insieme a quella sostanza nera ed appiccicosa.

Quella sacca che un tempo era stata Lockwood respirava ancora, quando mi sbattei la porta alle spalle. Lo sentii strisciare e gemere, in modo orrendo, mentre mi precipitavo nella stanza accanto, lo studio che dava sul giardino. Lasciai cadere la lampada a terra e, afferrato il vecchio orologio a pendolo che stava sul lato sinistro dell'uscio, lo schiantai a terra trattenendo un urlo.

Crollai sulle assi polverose e lo sguardo mi cadde su un grande quadro, tra libri impilati, provette rotte, disegni incomprensibili, abbandonato sulla imponente scrivania. Non potevo fare a meno di guardarlo, osservarlo in tutto il suo orrendo, ributtante realismo. Era di un certo Richard Upton, un pittore americano. C'era il nome inciso sulla cornice, la firma in un angolo. E rappresentava qualcosa di orrendamente simile alla bestia che avevo incontrato nella strada; simile a quella sacca mostruosa che era stata Hiriam Lockwood.

Non mi fermai a leggere gli appunti sparsi sulla scrivania. Non mi fermai a pensare. Alan non era in casa. I miei occhi arrivarono fino alla rimessa in lamiera, la sagoma della vettura quasi irriconoscibile nella pioggia. Doveva essere lì, era l'unica cosa che mi ripetevo a bassa voce, doveva essere rimasto lì dentro ad aspettarmi. Doveva stare bene ed io potevo portarlo via.

Aprii la finestra e saltai fuori dalla casa, mentre alle mie spalle i gemiti di Lockwood si facevano più fievoli, attutiti dalla pioggia scrosciante. Corsi tra le erbacce, il fango, incespicai e caracollai, fino ad arrivare alla porta della rimessa, lasciata accostata come se qualcuno si fosse dimenticato di chiuderla.

Per me, era una conferma che Alan mi stava aspettando. La puzza di materiale chimico, sopratutto di azoto e ammoniaca, mi diede un giramento di testa e dovetti poggiarmi contro il grosso tavolo da vivisezione per non cadere sul pavimento umido. Al centro della stanza, infatti, dove quella mattina c'erano solo alambicchi e strumenti da laboratorio, era sdraiato un corpo. O meglio, la sagoma di un corpo, coperta da un telo bianco. Sapevo che era un cadavere. Se ne stava immobile, senza respirare, senza muoversi.

Perché ho alzato quel telo? Non lo so. Non riesco nemmeno a dire cosa fosse. I miei ricordi si rifiutano di tornare a me e credo sia meglio così perché, quando l'ho visto, credo di aver perso coscienza per un secondo. Era qualcosa di tanto abominevole da uccidere i miei sensi, qualcosa che la mia... la mia coscienza non riesce a razionalizzare. So solo che, per me, rimarrà sempre la cosa più orrenda che possa esistere, che possa sognare o immaginare. Solo una cosa rimane, nella mia mente, di quella cosa. Un solo dettaglio.

Una mano mi sfiorò la spalla. Fortunatamente, Alan mi impedì di crollare a terra ancora una volta, mi trattenne e, con un'espressione stravolta, la stessa che probabilmente lui vedeva sulla mia faccia, mi disse che dovevamo andarcene. Che Lockwood era un folle, che aveva ucciso delle persone, che aveva fatto delle cose, con i composti chimici, seguendo dei manuali, dei libri sconosciuti. Blaterava e farfugliava in preda al delirio, continuava a darsi dell'idiota, a dire che era colpa sua.

Di fronte a me, Alan era ridotto ad un'ombra di un uomo, il volto accartocciato, segnato, pieno di rughe, i capelli brizzolati dal terrore, gli occhi sbarrati. Un trauma orrendo che lo aveva divorato e stravolto in una notte.

Non ricordo come arrivammo alla macchina. Ricordo solo che, quando la sagoma emerse dall'ombra, mi resi subito conto che l'essere orrendo era scomparso e il mio cuore sembrò quasi doversi fermare in quel momento. La tromba d'aria continuava ad imperversare con furia, per cui caracollammo fino ai posti anteriori; tuttavia, quando provai a girare la chiave, il motore non volle muoversi. Rimase immobile, senza emettere nemmeno un gorgoglio, uno scoppio. Silenzio assoluto.

Scossi la testa, 'No, no, non va bene. Dobbiamo andarcene, prima che quel mostro torni e ci prenda. Forse ha distrutto il motore durante l'impatto. Dovremmo farcela a piedi.'

Afferrai i cocci della bottiglia, aggrappandomi ad essi come fossero la mia ultima speranza. Alan mi si appoggiò contro, quando lo aiutai ad uscire dalla macchina, e mentre tossiva tanto forte da sputare sangue, ci avventurammo nei boschi, tra gli alberi anneriti, cercando di andarcene via, di fuggire da quel luogo maledetto.

'Meno male che mi hai chiamato,” gli sussurrai, 'Meno male che ti ho trovato tutto intero.'

Poi, è successo qualcosa. Forse è stato il modo in cui l'ho visto mentre mi osservava. Forse è stata la sua risposta che mi ha mandato un brivido lungo la schiena. Forse è che l'immagine del corpo sotto al telo è tornata di colpo nella mia testa.

'Se non ti avessi chiesto aiuto, sarei davvero morto.'

Lo lasciai cadere a terra di scatto. Non urlai, anzi, sussurrai che non mi aveva chiesto aiuto. Che mi aveva solo detto di venirlo a prendere, di portare delle birre per festeggiare.

Gli chiesi, perché quel... quella cosa sotto il telo, aveva la tua faccia? Non ricordo la sua risposta. Forse mi disse che stavo impazzendo.

E così, gli sono saltato addosso. Gli ho strappato le viscere con i cocci della bottiglia. Ho scavato nella sua testa per cercare la poltiglia nera. Dovevo essere sicuro, capisci? Dovevo essere sicuro che non fosse un mostro, che fosse il vero Alan. Cristo, quanto ha urlato. Ha urlato fino a che non gli ho scavato nel cervello.

Non ho potuto controllare, perché ho sentito un fruscio. Sono fuggito, ho corso, ho corso tutta la notte. Quando sono arrivato a casa, era l'alba. Aveva appena smesso di piovere.”

Mi poggio contro lo schienale. Per tutto il tempo, Malcom Pickman ha continuato a tremare, a balbettare, quasi a piangere.

Mi alzo in piedi, prendo la giacca, la indosso con calma. La guardia, all'esterno, apre la porta quando do un colpo secco per farle sapere che ho finito. Gli occhi sbarrati del ragazzo seguono ogni mio movimento, prima di sussurrare, “Perché se ne va?”

“Abbiamo finito, Malcom.”

“Non mi crede? È perché non mi crede, vero?”

“No, al contrario. Ti credo; è stata condotta un autopsia. Quello era il cadavere di Alan.”

“Ma la casa... la casa di Lockwood! Perquisitela, vi giuro che lì dentro c'è tutto, troverete le prove, e le creature, il dipinto!”

“Malcom,” sussurro, guardandolo negli occhi vibranti e opachi, “Lockwood è morto dieci anni fa. Nessuno vive in quella casa da allora.”

Mi chiudo la porta alle spalle.

L'ultima cosa che sento, è un urlo disperato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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