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Autore: blackjessamine    26/11/2018    6 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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adagio


 
Prologo


 

Adagio:
1. Legazione di movimenti lenti e aggraziati finalizzati a rafforzare nei ballerini la forza di sostegno, il senso della linea e l'equilibrio.
2. Movimento d'apertura del classico pas de deux dove la ballerina, aiutata dal suo compagno che svolge la funzione di porteur, esegue lenti movimenti in elevazione.


 

Londra, 31 dicembre 1998

Un fuoco caldo e scoppiettante, un sacchetto di carta marrone ripieno di grosse scaglie di liquirizia, un thermos di caffè aromatizzato e il silenzio degli uffici praticamente deserti: Andrew Kourdakis non avrebbe potuto desiderare altro.
O meglio, certo che avrebbe potuto desiderare altro: tanto per cominciare, avrebbe potuto desiderare non avere un lavoro che lo obbligava a un noioso turno notturno anche a Capodanno. Del resto, i suoi piani per Capodanno includevano soltanto una lunga, lunghissima cena a casa di Eve Fletcher, quella specie di arpia nata dalla stessa madre della sua dolce fidanzata Margaret. Avrebbe anche potuto desiderare un lavoro diverso, più prestigioso e remunerativo, ma Andrew non aveva mai avuto un carattere ambizioso, e se poteva guadagnarsi da vivere indicando la strada ai visitatori, inviando messaggi urgenti da un ufficio all'altro e leggiucchiando distrattamente l'ultimo numero dell'Eco della Pluffa, non si sarebbe mai lamentato.
Fosse stato un ragazzo appena un briciolo più sensibile e dotato della capacità di riflettere con un pensiero ampio e complessivo sul mondo che lo circondava, avrebbe potuto desiderare che quel 1998 si portasse via per sempre la guerra e l'orrore che aveva devastato l'Inghilterra fino a pochi mesi prima, lasciando posto solo alla speranza e alla rinascita. Oh, certo, Andrew avrebbe ricordato gli ultimi anni come i peggiori della sua vita, mentre attorno a lui amici e conoscenti morivano e il futuro era solo un'incerta macchia nera che incombeva minaccioso sulla sua vita, ed era grato che Harry Potter avesse posto la parola fine a tutto questo, ma lui era un ragazzo semplice. Andrew non era capace di preoccuparsi davvero per una data più lontana di domani, e tutto quello che voleva era che la sua vita potesse scorrere come un placido fiumiciattolo, senza onde e senza scossoni. E al momento tutto ciò che voleva era continuare a succhiare le sue scaglie di liquirizia, sonnecchiare davanti al camino nella guardiola nell'atrio del Ministero della Magia e non preoccuparsi di niente.
Sarebbe stato un turno tranquillo, quello: la maggior parte degli uffici erano chiusi, quasi tutti i dipendenti erano a casa a godersi festeggiamenti e famiglia, e i pochi funzionari che non potevano rinunciare all'ufficio nemmeno in un giorno di festa sarebbero rimasti soli con le loro carte, a borbottare e a spaccarsi la testa cercando di trovare un modo per far ripartire la comunità magica.
Andrew, ne era certo, poteva rilassarsi: quello sarebbe stato il turno più tranquillo degli ultimi mesi.

Fu dunque con estrema sorpresa e una certa dose di disappunto che, pochi minuti prima dello scoccare della mezzanotte, un vociare scomposto accompagnato dal riecheggiante suono di passi in corsa destarono Andrew Kourdakis dal suo sonnecchiare accanto al fuoco.
Il ragazzo si riscosse appena in tempo: vuotò in un sorso quel che restava della sua tazza di tè e finse di assumere un'aria perfettamente sveglia ed efficiente, e poté rivolgere la sua migliore espressione lievemente stupita ma del tutto professionale a una coppia di maghi dall'aria stralunata. I due correvano, gli occhi spalancati, e sembravano non accorgersi di avere gli abiti completamente ricoperti di una strana sostanza biancastra, simile alla polvere di gesso, ma in qualche modo diversa, più antica, più sacrale... era una vista quasi ipnotizzante. Andrew si rese conto che quella sostanza lo attraeva e disgustava al tempo stesso: avrebbe allungato un dito per sfiorarla, se solo non si fosse trattato di un gesto estremamente maleducato, e al tempo stesso tremava al solo pensiero di fare qualcosa di così sciocco e pericoloso.
Andrew distolse l'attenzione da quella sostanza in tempo per osservare la piccola “I” ricamata sul petto della divisa dei due uomini.
Indicibili.
E certo, chi mai avrebbe potuto disturbare la quiete del Ministero nella notte di Capodanno, se non due Indicibili?
“Contatta il San Mungo, ragazzo. Dì di mandare una squadra di Guaritori esperti, e di preparare due stanze in un'ala riservata e isolata.”
Prima che Andrew avesse il tempo di ribattere, il più basso dei due tossì violentemente, mentre aggiungeva:
“E poi mandaci subito nella Sala dell'Arco il Ministro.”
Il Ministro?
“Ma io... la segretaria, non so...”
Il cerimoniale era chiaro: Andrew poteva al massimo comparire con la testa nel camino della signorina Guendoline McPhial, la segretaria del Ministro. Mai, per nessun motivo, avrebbe dovuto disturbare il Ministro in persona. Il signor Knife, il suo capo, era stato chiarissimo.
I due Indicibili stavano già invertendo la rotta della loro ansante camminata, quando il più basso, senza smettere di tossire, gridò:
“Se non vedo la faccia di Shaklebolt nella Sala dell'Arco entro cinque minuti, giocherò a Gobbiglie con quello che tieni nelle mutande, ragazzo.”
Andrew era atterrito.
Lavorava come portinaio tuttofare nell'atrio del Ministero della Magia da cinque lunghi mesi, ma mai gli era capitato di doversi dividere fra gli ordini di un Indicibile arrabbiato e l'idea, terrificante, di disturbare il Ministro in persona.
Era quasi certo che avrebbe trovato il Ministro nel suo ufficio, perché pareva che Kinsley Shaklebolt, da quando era stato insignito della carica di Ministro della Magia, avesse ufficialmente trasferito la sua residenza al Ministero: lo si vedeva abbandonare l'edificio solamente per recarsi in visite di lavoro, per presenziare a deposizioni di targhe, per dirigere importanti riunioni con i Capi di Stato dei Paesi vicini... sembrava che il pover'uomo avesse rinunciato a qualsiasi cosa potesse essere riconducibile alla vita privata.
Facendo un profondo respiro, Andrew si avvicinò al camino che scoppiettava allegro alle sue spalle. E dire che, per un po', aveva sperato che quel camino sarebbe servito solamente a tenerlo al caldo, e al massimo per arrostirci sopra qualcuno dei marshmallow che, lo sapeva, il suo collega Bradley teneva nascosti nel doppiofondo del terzo cassetto della scrivania.
E invece, per le verruche di Morgana, avrebbe dovuto usarlo per disturbare il Ministro in persona.
Andrew afferrò una manciata di scintillante polvere color smeraldo dall'ampio contenitore posato sulla mensolina del camino, e, tremando come una foglia, si sforzò di fare il suo dovere. Non era mai stato così terrorizzato, nemmeno quando i Mangiamorte avevano perquisito la sua casa, mesi prima.

Andrew Kourdakis avrebbe fatto fatica a ricordare con precisione la sequenza di eventi di quella notte: parlare con il Ministro – che prevedibilmente si trovava nel suo ufficio, e straordinariamente si mostrò sollecito e per niente rancoroso per via di quell'interruzione – lo aveva lasciato talmente senza fiato che quasi aveva scordato la seconda parte dell'ordine che gli avevano dato gli Indicibili. Solo quando si risollevò barcollando, sentendo la testa che girava per l'emozione, e pensò che un bel sorso di Pozione Corroborante gli avrebbe proprio fatto bene, si ricordò del San Mungo, della squadra di Guaritori da allertare e delle stanze da far preparare. Molto più sicuro di sé – quando osi disturbare il lavoro del Ministro della Magia la notte di Capodanno, dare ordini ad una graziosa strega situata davanti al camino per le chiamate urgenti del San Mungo era un gioco da ragazzi – Andrew completò baldanzosamente i suoi compiti, e poi decise di concedersi un grosso pezzo di liquirizia. Del resto, ora tutto ciò che doveva fare era aspettare. Doveva essere successo qualcosa di grosso, giù all'Ufficio Misteri, e lui sarebbe stato il primo a saperne qualcosa. La sua Margaret sarebbe impazzita di gioia, quando glielo avrebbe raccontato.

Andrew aspettò e aspettò, ascoltando avidamente ogni scricchiolio del grande edificio, ogni borbottio, ogni schiocco. Quando stava per preoccuparsi e rigettare la testa nel camino per strapazzare un po' la bella ragazza del San Mungo, molte cose sembrarono accadere nello stesso momento. L'ascensore dorato in fondo all'ampia sala cominciò a sferragliare rumorosamente, annunciando la risalita dell'ampia gabbia metallica e del suo carico di voci concitate. Gettando alle ortiche ogni prudenza e ogni professionalità, Andrew balzò fuori dalla sua guardiola, curioso di vedere che cosa stava succedendo.
A pochi passi da lui, le fiamme di un grosso camino usato solitamente dai dipendenti del Ministero si illuminarono di verde, e una gran quantità di maghi e streghe dai camici verde acido si riversarono nell'Atrio, parlottando in maniera sconnessa ma marciando in formazione compatta, quasi fossero dei soldatini bene addestrati.
Andrew, strizzando gli occhi, si sforzò di osservare il gruppo di Indicibili - erano almeno cinque, questa volta, che, sempre ricoperti di quella strana sostanza gessosa, erano emersi dall'ascensore dorato, e ora avanzavano verso i guaritori. Il Ministro Shaklebolt li seguiva, il mantello sporco e spiegazzato, un'espressione attonita in volto, la bacchetta levata davanti a sé con attenzione: di fronte a lui, sospeso nell'aria c'era un grosso globo di luce dorata. Andrew sapeva di che cosa di trattava: i guaritori erano soliti quel globo per trasportare i feriti gravi, riuscendo a congelare per diversi minuti le loro condizioni cliniche e proteggendo i feriti da ogni possibile urto. Andrew aveva visto suo padre avvolto da quel globo di luce, sette anni prima, quando qualcosa era andato storto nei suoi esperimenti con l'estratto di Prugiforme: Alexandros Kourdakis aveva trascorso otto settimane disteso in un letto del San Mungo, alimentato con dodici pozioni diverse, ed era sopravvissuto per miracolo. Andrew non invidiava quel povero diavolo nascosto nella bolla dorata, non lo invidiava per niente: essere avvolti da quell'incantesimo significava essere messi proprio male.
Andrew avrebbe voluto distogliere lo sguardo: il suo era uno stomaco delicato, proprio non reggeva la vista del sangue, ed era certo che, qualunque cosa fosse successo agli Indicibili, la persona avvolta da quel globo di luce doveva rappresentare uno spettacolo raccapricciante.
Del resto, però, non aveva senso aver osservato tutta la scena fino ad ora e poi perdersi proprio il dettaglio fondamentale.
Mentre due guaritori piuttosto anziani accorrevano con le bacchette levate, aggiungendo luce dorata al globo evocato dal Ministro, Andrew si decise finalmente ad alzare la testa.
Si aspettava membra divelte, ferite marcescenti, lineamenti orribilmente sfigurati da antiche e terribili maledizioni... niente lo avrebbe preparato alla sorpresa che provò quando i suoi occhi si posarono sulla figura rannicchiata in quel globo di luce.
Non era per il corpo di un Indicibile che lui era stato costretto a disturbare il Ministro della Magia.
Quello che un'intera squadra di Guaritori si affrettava a soccorrere era un animale.
Un grosso, tremante cane nero.


 
***


Budapest, 2 gennaio 1999

Margit Birò detestava ogni cosa della palazzina situata al 123 di via Pétersy.
Detestava la serratura del cancelletto, che si decideva a scattare solamente esercitando la giusta pressione con la chiava inserita ad una particolare angolatura; detestava la puzza nauseante del detergente che la signora Somogyi utilizzava almeno tre volte al giorno per pulire l'androne d'ingresso; detestava la coppia di novelli sposi del secondo piano, che ogni giorno doveva scambiarsi appassionate e rivoltanti effusioni sulle scale; detestava le tubature vecchie e mezze marce, che ogni inverno gelavano e causavano problemi. Più di ogni altra cosa, detestava il minuscolo ascensore con la porta a vetri smerigliati che percorreva con una lentezza estenuante il suo tragitto, traballando e scricchiolando minacciosamente. Soprattutto, lo detestava perché, un giorno sì e uno no, quell'aggeggio infernale era rotto. Guasto, fuori servizio, momentaneamente inutilizzabile, morto. E Margit abitava al quinto piano, e caracollare su per cinque rampe di scale quando si aveva un pancione grosso come una mongolfiera che nemmeno ti fa vedere di che colore sono le tue scarpe può essere incredibilmente stancante. Del resto, quando si hanno diciotto anni, dei genitori bigotti, una bambina in grembo e un fidanzato desaparecido ci si deve considerare fortunati ad averlo, un appartamento da detestare.

Tra un rantolo e uno sbuffo, dopo almeno sei pause per riprendere fiato e una fastidiosa fitta alle reni, Margit raggiunse finalmente il suo pianerottolo al quinto piano, trascinando svogliatamente la grossa busta della spesa. Aveva fatto scorte degne di un attacco atomico, ed era intenzionata a sigillarsi in casa per la prossima settimana: la prossima volta che avrebbe fatto quelle dannate scale, sarebbe stato per andare in ospedale a conoscere di persona la piccola Blanka, che ormai, a giudicare dal peso del suo pancione, tanto piccola non doveva essere.
Stava per infilare la chiave nella sua toppa, quando sentì un movimento alle sue spalle e il rumore di una porta che si apriva.
Sorrise soddisfatta, preparandosi a salutare la sua vicina di casa: se c'era una cosa che non detestava del numero 123 di via Pétersy, era la sua dirimpettaia. Dopo sei mesi di chiacchiere noncuranti sul pianerottolo, ancora non aveva capito che cosa ci facesse una donna inglese dai gesti da signorina di buona famiglia in una topaia come quella nella periferia di Budapest. Margit non glielo aveva mai chiesto, e lei non glielo aveva mai detto. Del resto, la signorina inglese, come amava chiamarla lei, non le aveva mai chiesto che cosa ci facesse Margit da sola con una bambina in arrivo, e Margit non glielo aveva mai detto. Il loro era un rapporto fatto di battute sarcastiche e frecciatine, ma anche di passaggi in auto, buste della spesa lasciate sullo zerbino dell'altra e lunghe chiacchierate davanti a forti tazze di tè, ma le confidenze si fermavano alle indiscrezioni sugli effetti della nuova influenza intestinale che funestava il quartiere.
Alhena Macnair era una delle persone più strane che Margit avesse conosciuto – e nei suoi diciotto anni di vita ne aveva conosciute tante, di persone strane – ma a lei piaceva per quello. Alhena Macnair insegnava danza classica in una scuola sgangherata ad un paio di fermate di tram da lì, parlava un ungherese discreto, pur non avendo la minima intenzione di perdere il suo accento inglese, viveva con un cagnolino zoppo e spelacchiato e non parlava mai, nemmeno per sbaglio, di quello che si celava nel suo passato. Aveva modi di fare da piccola nobile, ma una volta Margit l'aveva sentita litigare con un tizio ubriaco che le aveva detto chissà quale volgarità in mezzo alla strada, e aveva fatto sfoggio di un'aggressività e di un arsenale di parolacce - inglesi e ungheresi - degne del migliore camionista pieno di birra. Viveva sola, Margit non aveva mai visto una persona sotto i quarant'anni mettere piede in casa sua, ma regolarmente riceveva una coppia piuttosto anziana che con lei parlava un buon inglese, ma che fra loro comunicava in un ungherese così stretto che non c'erano dubbi sulla loro origine.
A volte, attorno ad Alhena succedevano cose strane: Margit non era mai riuscita ad assimilare del tutto queste stranezze, perché era come se tutto svanisse prima ancora di essere iniziato, appena fuori dal suo campo visivo, ma al tempo stesso, quando stava con lei, la ragazza era sicura che ci fosse qualcosa di strano nell'aria. Era più che altro una sensazione sottopelle, come un soffio d'aria fredda che le faceva rizzare i peli delle braccia, ma non era una sensazione spiacevole.
E poi, anche se Alhena l'avrebbe negato fino alla morte, guardandola con i suoi grandi occhi chiari pieni di sarcasmo, Margit era sicura che la sua vicina di casa fosse riuscita ad addomesticare un gufo.

Quando si voltò verso la porta della sua vicina, Margit era certa che avrebbe scorto la figura esile di Alhena, il suo sorriso sfuggente e il suo sguardo attento.
Non si aspettava certo di trovarsi davanti un uomo dall'aria sconvolta.
Era un uomo alto, con una folta chioma rossa raccolta in una coda di cavallo, e il suo viso un tempo doveva essere stato quello di un bel ragazzo, ma ora era solcato da brutte cicatrici nodose. Era pallido, e i suoi vivaci occhi blu vagavano da una parte all'altra, confusi. Quando la vide, l'uomo le riversò addosso un fiume di rapide parole in inglese, di cui Margit colse solo il nome di Alhena.
Sollevando un sopracciglio stanco, Margit intimò all'uomo, nel suo inglese pigro e stentato, di parlare più piano.
“Devo parlare con Alhena. Abita qui, vero?”
Margit esitò. Ora che lo guardava da vicino, quell'uomo aveva qualcosa di strano: innanzitutto, indossava un mantello. Chi è che se ne va in giro con un mantello, invece di mettersi una giacca a vento termica? E poi, quell'uomo era inglese: Alhena non parlava mai della sua vita in Inghilterra, e Margit aveva la forte sensazione che la sua vicina non volesse più avere niente a che fare con la patria della regina Elisabetta e del tè delle cinque. Ma soprattutto, se quell'uomo stava chiedendo se Alhena abitava lì, significava che Alhena non era in casa. E allora, come diamine aveva fatto Sir Sfregiato a uscire dal suo appartamento, solo un attimo prima?
Margit strinse gli occhi, fissando minacciosamente quell'uomo e stringendo più saldamente tra le mani i manici della sporta con la spesa. In caso di necessità, era abbastanza sicura di riuscire a roteare su sé stessa e colpirlo in faccia con la sua spesa: con un po' di fortuna, lo avrebbe preso con il barattolo della marmellata, 'ché tanto, sfregio più, sfregio meno...
L'uomo fece un paio di passi verso di lei, e aprì la bocca per parlare di nuovo... e vomitò. Margit, disgustata, fece un balzo indietro, reprimendo un gemito. Ne aveva avuto abbastanza di nausee nei mesi scorsi, e ne avrebbe avuto abbastanza di rigurgiti nei mesi a venire, non aveva certo intenzione di mettersi a fare l'infermiera per un tizio inglese, probabilmente ubriaco, potenzialmente pericoloso. L'uomo si accasciò a terra, scosso dai conati, e l'unica frase che Margit riuscì a capire, anche se non aveva il minimo senso, fu:
“Maledette Passaporte Internazionali”.

A quanto pareva, Sir Sfregiato non era un pazzo giunto fino a Budapest dall'Inghilterra solo per ubriacarsi e cercare di ammazzare Alhena Macnair. Proprio quando Margit stava pensando di battere in ritirata, chiudersi a chiave in camera sua e lasciare che quell'uomo finisse di svuotarsi lo stomaco in santa pace, Alhena era comparsa alle sue spalle, reggendo il guinzaglio di Marmellata, il suo brutto cane.
Quando aveva scorto la figura scomposta dell'uomo davanti alla sua porta di casa, aveva lasciato cadere il guinzaglio di Marmellata, aveva urlato qualcosa di incomprensibile e si era precipitata su di lui, aiutandolo a rialzarsi. I due si erano stretti a lungo, come avrebbero potuto fare due fratelli, mormorando parole sconnesse e ignorando completamente sia Margit che la pozza di vomito ai loro piedi.
Quando ebbe la certezza che Alhena era perfettamente padrona della situazione, e che la visita di Pel di Carota era sorpresa ma gradita, Margit decise finalmente di lasciare i due da soli.
Se ne pentì solo qualche ora dopo: era a letto, tormentata dal mal di schiena e dall'impossibilità di dormire prona, come aveva fatto per diciassette anni, quando dall'appartamento di Alhena udì provenire delle urla. Quelle di Alhena.
Margit si riscosse di colpo, cercò di sollevarsi a sedere, domandandosi che cosa fare, quando si rese conto che quelle di Alhena non erano urla che invocavano aiuto. Alhena era furiosa, parlava ad alta voce in un inglese per Margit incomprensibile, e la voce di Sir Sfregiato era solo un basso mormorio conciliante.
Quando si udì il suono di un oggetto che colpiva il pavimento, infrangendosi, Margit cominciò a preoccuparsi. A preoccuparsi per l'incolumità di Sir Sfregiato, non certo per quella di Alhena.
Le cose continuarono così per una mezz'oretta: Alhena urlava e piangeva, Sir Sfregiato cercava di tranquillizzarla, gli oggetti si infrangevano e Marmellata uggiolava, spaventato.
Quando finalmente la situazione parve calmarsi, Margit era preoccupata. Non aveva mai sentito la sua vicina di casa perdere la testa a quel modo, e non era certa di fidarsi del capellone con le cicatrici in faccia. Presa da un'improvvisa ispirazione, balzò in piedi – o meglio, arrancò fino a riuscire a mettersi in posizione eretta, maledicendo per l'ennesima volta l'ingombro della sua pancia – e attraversò la sua casa buia. Aprì la porta, e quando giunse sul pianerottolo, si accorse che Alhena e il rosso avevano lasciato la porta di casa aperta. Ecco perché era riuscita a sentire così bene la loro lite. La luce del piccolo salotto era accesa, e la scena che le si parò davanti lasciò Margit senza parole: Alhena, di solito così compassata e fredda, col viso simile ad una maschera priva di emozioni, era rannicchiata a terra. Piangeva, e si stringeva all'uomo dai capelli rossi, che intanto la cullava come se fosse stata una bambina di pochi anni.
Tra un singhiozzo esausto e l'altro, Alhena ripeteva ossessivamente due sole parole.
“È vivo.”






Note:
Credo che qualche premessa, in questo caso, sia d'obbligo: forse non sarà il modo migliore di invogliare qualcuno a leggermi, ma c'è un motivo ben preciso se ho una laurea in filosofia e non in marketing.
Questa storia non ha alcuna necessità d'essere. E va contro tutto quello che ho sempre scritto e letto.
Sono sempre stata una grande sostenitrice dell'aderenza al canon sempre e comunque, ho sempre creduto che la forza delle fanfiction stesse proprio nell'incunearsi nei momenti d'ombra di una storia, sviluppando personaggi e passaggi di trama solitamente lasciati in ombra.
Eppure, col tempo ho capito che la cosa più importante è la serenità che si prova mettendo le dita sulla tastiera. E se una storia chiede d'essere scritta, e lo fa con un'urgenza che è quasi un bisogno fisico, allora io posso solo capitolare.
Questa storia potrebbe essere considerata un lungo (ma non troppo lungo, lo prometto) epilogo alternativo alla mia long “La danza delle spade”. Un epilogo che mai avrei creduto di poter scrivere, dal momento “La danza delle spade” aveva per protagonista e voce narrante Sirius Black, e si interrompeva, ovviamente, col sopraggiungere degli eventi narrati ne “L'Ordine della Fenice”.
C'era anche un mio personaggio originale, in quella storia, un personaggio che non ha mai smesso di parlarmi, anche dopo mesi dalla conclusione della sua storia. Un personaggio a cui ho deciso di dare ascolto, gettandomi in quest'impresa un po' folle, forse distruttiva, sicuramente non necessaria.
Dal momento che “La danza delle spade” è molto lunga e molto acerba, non voglio che nessuno senta il bisogno di recuperarla, per seguire “Adagio”: cercherò di dare tutte le spiegazioni del caso attraverso la bocca e le azioni dei personaggi, giocando anche sulla libertà d'azione che l'abbandono della prima persona singolare mi dà.
Non me la sento di fare promesse di alcun tipo: questa storia è la cosa più pazza che io abbia mai iniziato a scrivere, ma sono tanto felice di avere iniziato a farlo.
Benvenuti.
   
 
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