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Autore: SAranel    27/11/2018    1 recensioni
[...]Non volevo altro che Sirius.
Era la cosa, il bisogno più semplice di quel mondo così contorto, articolato, complicato, in cui entrambi ci eravamo ritrovati a vivere.
Un bisogno elementare, un bisogno d'amore, di annegare nella vita, che era forse più illecito che il bisogno di strapparne una in pezzi.
Erano giorni bui, in cui l'amore era un bene prezioso, e la morte moneta di scambio, eppure lui, l'uomo che mai avrebbe dovuto aggrapparsi alla vita così come aveva fatto, aveva reso uno spiraglio di speranza la sua ragione d'esistere.[...]
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: AU, Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Poem of the fall
*


"If you fall, I'll pick you up, if not,
I will lay down with you."
-J. Cortazar




Il wiskey incendiario, lungo la mia gola, bruciava come fuoco vivo.
Non mi piaceva, non ci ero abituato, non ne avevo voglia, ma assecondavo un bisogno non mio, un bisogno del solo mio corpo, di perdere il controllo di me stesso; la necessità di ridurmi al mio peggio, perché non avessi mai desiderio alcuno di ricordare quella sera.
Le mani di Sirius erano sulle mie spalle, e la testa poggiava tra le mie scapole, quasi fossi un'immagine votiva a cui egli si stesse appellando con tutta la sua forza. Strinse la presa più forte, fin dove sapeva potevo sopportare ed oltre, perché se esisteva al mondo qualcuno a conoscenza di quanto dolore avrei potuto sopportare prima di soccombere, quello era Sirius.
“Io non lo so, Remus” disse, la voce resa ovattata dal contatto con la stoffa del mio cardigan. “Io davvero, non lo so.”
Non sapevo cosa non sapesse, così come non lo sapeva lui. Non avevo saputo spiegarlo a parole, men che meno con l'ausilio dei fatti, e non v'era motivo perché lui avesse voglia di continuare, eppure era lì. Ancora con me. Contro di me. Con me, nel modo più intimo che ci eravamo concessi in quattordici anni.
“Non lo so nemmeno io, Sirius” biascicai, frenando le mie mani dal sovrapporsi alle sue, che adesso avevano allentato la presa ma che non accennavano, neanche per un vago secondo, ad interrompere il contatto con il mio corpo, “ma il non sapere, in casi come questo, è la cosa migliore. E' la cosa giusta.”
Non so se lo credessi davvero, o se qualcosa, forse l'alcool, forse la mia coscienza ormai lacera che traeva forza da qualche sporadico spasmo di vita, mi spingesse a ripetermi che quel che stavo imponendomi, fosse giusto.
Non volevo altro che Sirius.
Era la cosa, il bisogno più semplice di quel mondo così contorto, articolato, complicato, in cui entrambi ci eravamo ritrovati a vivere.
Un bisogno elementare, un bisogno d'amore, di annegare nella
vita, che era forse più illecito che il bisogno di strapparne una in pezzi.
Erano giorni bui, in cui l'amore era un bene prezioso, e la morte moneta di scambio, eppure lui, l'uomo che mai avrebbe dovuto aggrapparsi alla vita così come aveva fatto, aveva reso uno spiraglio di speranza la sua ragione d'esistere.
“Tu non lo credi, Remus” disse, e improvvisamente lasciò la presa, e mi costrinse a voltarmi, perché non volevo altro che mi lasciasse andare, ma nel momento stesso in cui l'aveva fatto, mi ero sentito mancare la terra sotto i piedi. “Ma dopotutto, non credi più in niente.”

Mi colpì, più forte di uno schiaffo in piena faccia. Posai il bicchiere, vuoto.
Mi vennero in mente così tanti momenti, di una giovinezza che sembrava non appartenermi più, in cui le stesse identiche parole erano state usate contro di me, da molteplici volti, molteplici voci, così tante che neanche più una sola manteneva una precisa identità.
Quando dentro sei un mostro, il tuo involucro umano non prova niente. Non sente niente.
Non crede in niente.
Lo guardai e rimasi impietrito, sul posto, come se le suole delle mie scarpe si fossero tramutate improvvisamente in pietra contro il pavimento di assi marce.
Sirius stava piangendo.
Lo avevo visto sull'orlo delle lacrime, in passato. Lo avevo visto sull'orlo di tante cose, in bilico sul precipizio di innumerabili burroni, ad un passo dal cadere, ma tenendosi sempre in piedi, uno nel vuoto, l'altro sulla terra scivolosa, ma sempre in equilibrio.
Ora, era totalmente sopraffatto: era caduto in ognuno di quei crepacci, urtandone le pareti, trovandone il fondo ferito, martoriato, ridotto in pezzi, ma
vivo.
“E' stato un bacio, Sirius” soffiai fuori, con un effluvio di voce simile a un soffio di brezza evanescente, impalpabile. Non sapevo più cosa aggiungere, così mi ripetei, sentendomi stupido, “un bacio.”
Lui congiunse le mani, e si strofinò il mento, chiudendo gli occhi. Si morse le labbra, prima di parlare, e non potei reprimere un sorriso, perché era solito farlo spesso, quando eravamo ragazzi.
Era sempre pronto a dire qualcosa di inopportuno nelle situazioni più delicate, da giovane, e pur di risparmiarsi le mie gomitate nelle costole, si era imposto quel piccolo rituale. Una fitta di nostalgico dolore mi attraverso il corpo, da capo a piedi.
“Quindi tu vuoi dirmi, Remus John Lupin” la sua voce era colma di rabbia, di frustrazione a stento contenuta, “che se ci fosse stato chiunque altro, seduto su quella poltrona, a rivolgerti le mie stesse, identiche parole, tu lo avresti baciato indistintamente?”
Pensai a Dora, nel momento meno opportuno, ovvero il secondo che seguì le sue parole.
Era innamorata di me, lo avevo capito e me lo aveva detto. Era una ragazza bella, e mi faceva ridere, e tanti di quegli aggettivi che vent'anni fa avrei usato per descrivere il ragazzo che ora è l'uomo di fronte a me. Quella cosa mi spaventò, non mi confortò.
Dora non l'avrei baciata. Forse mi sarei imposto di farlo, per qualche malcelato senso di riconoscenza, ma non sarebbe mai stato qualcosa di spontaneo, di talmente libero da sembrare qualcosa che non si è smesso di fare da quindici anni, ma da qualche ora appena.
Come era successo con lui.
“Dimmi che non sono io, Remus” mi implorò, ancora una volta. “Ma non dirmi nemmeno che sei tu. Perché un altro te, a quel bacio si sarebbe sottratto.”
L'ineluttabilità di quel fatto era su un piatto d'argento, sotto i miei occhi e sotto il mio naso, come una pietanza prelibata a cui vorresti resistere ma di cui non puoi fare a meno. La tentazione a cui non vorresti cedere, ma che ti ritrovi a soddisfare, malgrado i tuoi sforzi più impetuosi.
“Non sono io, Sirius. E sì, sì che sei tu” dissi così, parlando al muro, senza guardarlo negli occhi. “Ma non posso permettermi di essere me, come non posso permettere a te di essere
te per me.”
Una cosa inaspettata accadde. Sirius rise.
Ma non era una risata forzata, intrisa di pianto o rabbiosa impotenza. Era in qualche modo la risata cristallina e liberatoria di qualcuno che non ti ha appena sputato addosso tutte le verità su te stesso che avresti voluto mantenere celate, ma quella di chi è abituato a ridere, e a farlo sempre, tutti i giorni, ogni momento.
“Ora si che sei tu, Remus” disse, in un bisbiglio, fra le risate. “Solo tu potresti esprimere una cosa così semplice con una frase così ingarbugliata.”
Non riuscii a frenarmi.
Risi anch'io, nonostante una parte di me volesse, ancora ancora e ancora, e l'altra cercasse di soffocarsi con tutta la forza che aveva. Gli permisi, abbassando così la guardia, di avvicinarsi, senza la forza di spingerlo via, questa volta. Lui posò la fronte contro la mia, così vicino che il suo respiro solleticava le mie labbra, e sentii il riverbero salato delle sue lacrime sulla lingua.
Volevo baciarlo. Baciare ogni singola lacrima e cibarmene dalla fonte cristallina dei suoi occhi, per costringerlo a smetterla, a fermarsi, a non versarne più, non per me. Volevo perdere attimi di respiro che non avrei mai riavuto indietro, fino a farmi girare la testa, fino a vedere il contorno di ogni cosa sfumare alla vista.
Volevo.
“E' la paura, Sirius” la verità, quella reale, non quella impostami da altri che dal mio cuore, scivolò dalle mie labbra senza più impedimenti. “La paura è più forte di qualsiasi cosa io provi.”
Sirius mi prese il viso tra le mani, accarezzando la pelle logora del mio collo con una, e sfiorando le mia labbra con l'altra. Lo imitai, senza più riuscire a tenere le mani lontane dalla sua pelle fredda, quasi fosse il mio tocco a riscaldarlo, e non avesse calore alcuno, nel suo corpo.
“Di cosa hai paura, Remus?” chiese, con la semplicità di chi non sta vivendo una guerra, ma il più lungo periodo di pace da che mente ricordi. “Cosa ti spaventa a tal punto?”
Trovai il coraggio di guardarlo negli occhi, nell'esatto momento in cui vidi, chiaramente, palesarsi la risposta nei suoi.
“Perderti” le mie labbra scandirono, ma non udii la mia voce proferire alcunché. Non ce ne fu bisogno. “Di perderti, e non riuscire a seguirti.”
Sirius non mi baciò, quando mi aspettai che lo avrebbe fatto. Non mi strinse a sé, e non approfittò della mia debolezza per spingermi in qualcosa che dopo mi avrebbe costretto a non poter sopportare ulteriormente la sua presenza.
Da giovani sarebbe stato diverso.
Da giovani eravamo così consci della reciproca voglia di noi, che non esisteva altro modo, per ritrovare la pace, che unire le nostre labbra in un abbraccio di amore che sapeva di scuse, di
mi dispiace, di non lo farò mai più mai pronunciati, per orgoglio o per rabbia.
Ci bastavano le mani intrecciate, le nostre bocche sui nostri corpi, essere lui dentro di me e io dentro di lui. Ci bastava saperci pronti ad esserci sempre, l'uno per l'altro, nonostante tutto.
Ora però non era con cupidigia che mi accarezzava, né secondi fini aveva il suo sguardo, dove leggevo amore, amore dei più puri, dei più limpidi, di quelli che sin da piccolo credevo non avrei mai meritato davvero.
“Sei uno stronzo, Remus Lupin” rise appena, ancora, e le unghie premettero appena nelle mie labbra, e una goccia cremisi sgorgò da esse, “sei uno stronzo,
se pensi che andrò mai da qualche parte senza portarti con me.”
Stavolta non misi freni alla mia voglia di ridere con lui, e per lui. Improvvisamente sembrò che il crescendo di emozioni che ci aveva portati a ridere così, i volti dell'uno così devotamente tra le mani dell'altro, non avesse mai avuto luogo.
Avevamo una voglia tale di baciarci ma nessuno di noi due, dopo non aver bramato altro per minuti lunghi ore, aveva il coraggio di fare la prima mossa.
C'era qualcos'altro, in bilico, tra noi. Qualcosa di fragile, come piume di cristallo: delicato come le rastremature di un fiocco di neve che tocca terra.
Sapevo che quel che aveva detto era vero. E sapevo quale fosse il lato oscuro di quella medaglia postasi, nostro malgrado, tra noi.
Vi era egoismo, nei nostri reciproci desideri. L'egoismo di volerci strappare l'un l'altro a una lunga, possibile esistenza, ma l'uno senza la presenza dell'altro accanto a sé. L'egoismo del non reputare una causa giusta come quella del nostro mondo al di sopra del nostro amore; l'egoismo, infine, del non reputarci capaci, abbastanza coraggiosi, di tollerare la mancanza dell'altro su questa terra.
Non la distanza, non il silenzio, ma la
morte
.
“Nonostante tutto, Sirius” dissi così, finalmente, e furono le mie di lacrime, a suggellare quel patto. “Ogni cosa.”
Sirius smise di piangere nell'esatto momento in cui io mi lasciai andare ad un pianto liberatorio, felice, colmo di una felicità che non avrei saputo quantificare secondo stime conosciute dalla mente dell'uomo. Non temevo dolore, non temevo rimpianti, non temevo un ritorno al passato che mi avrebbe tormentato ancora e ancora, fino ad uccidermi e a lasciarmi solo, senza vita, a chiedermi cosa sarebbe successo se avessi dato voce al mio cuore senza rinchiudermi in un gelido e più giusto, più giusto per me, per Sirius, per chiunque, silenzio.
Le sue lacrime divennero le mie e, finalmente, fui io a trovare la forza, l'ossigeno, per tornare a respirare; a riappropriarmi della sua bocca con le mie labbra.

Fu il nostro penultimo bacio.
Forse il più bello.

Aspettiamo di sfiorare il fondo di questo abisso scuro, senza fine, ora. La sua mano è stretta nella mia, mentre cadiamo, e c'è luce abbastanza perché io possa scorgere il suo viso e lui il mio.
Siamo caduti.
Cadiamo.
Continuiamo a cadere all'infinito.
Cadiamo, ma posso vederlo e lui vede me. Stringendoci più forte, avremmo la forza per un altro bacio. Forse l'ultimo. Ed è una consapevolezza talmente bella che potremmo continuare a cadere per sempre, nella coscienza di essa.
C'è misericordia, al di là del velo.
Ci siamo noi, insieme.




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