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Autore: Enchalott    03/12/2018    5 recensioni
"Per tutta la vita ho cercato senza sapere che cosa stessi inseguendo. La supremazia, la vittoria, la tranquillità… o forse qualcosa che neppure io sono riuscito mai a identificare con precisione. Forse, ho cercato solo me stesso.
Quello che conta è che ora l’ho raggiunto... risiede nello spazio rovente del nostro abbraccio".
Il principe dei Saiyan. Fiero, orgoglioso, illeggibile. Eppure il suo cuore muta, il suo animo si placa, prova un amore pulito. Qui, si racconta in prima persona.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! Ricompaio con una storia molto breve, scritta in prima persona. E' la prima volta che scelgo un taglio così personale e introspettivo. Un narratore interno e interiore, potrei azzardare. Ho mantenuto la mia abitudine al rating verde. Se ritenete che sia poco adatto, anche se ritengo di essere stata molto leggera e romantica, fatemi sapere e lo muterò in giallo. Grazie in anticipo! ^^

Vegeta

 
Continuo a sognare ogni volta che mi addormento. Anche questa notte non ho avuto tregua. Da quando sono qui, sulla Terra, gli incubi si sono intensificati e contengono sempre lo stesso soggetto.
Il mio passato.
Penso di aver compreso il motivo di un tale accanimento da parte del mio subconscio: mio malgrado, ho iniziato a riflettere su me stesso. Inevitabilmente a paragonare il mio presente con il mio trascorso, le mie azioni con le mie intenzioni.
La quiete che mi circonda da qualche mese, in realtà, ha funzionato come una cassa di risonanza e, nel silenzio privo di battaglia esteriore, ho potuto ascoltare la voce di chi mi ha accolto. E la mia. Così la guerra è scoppiata nel mio profondo.
Non avrei voluto prestare orecchio a quelle parole, non l’ho mai fatto in vita mia con nessuno: tenere in considerazione le osservazioni di un altro essere umano. Assurdo. Fino a qualche tempo fa, mi sarei messo a ridere oppure mi sarei imbestialito, con tutte le conseguenze del caso. Eppure, è accaduto: esse sono scese dentro di me e hanno scalfito la mia corteccia, incrinato la mia sicurezza, stravolto le mie convinzioni. Spalancato le mie porte segrete.
Sono stato colpito senza scendere in combattimento. Pesantemente trafitto senza subire alcun flusso di ki. Stento a crederlo, ma non mi manca il coraggio di ammetterlo.
Dal mio punto di vista, non guarisco: non sono in grado di recuperare quella condotta priva di emozioni e totalmente indifferente di cui sono sempre stato fiero. Evidentemente, non sono così refrattario come ho pensato finora. Esiste un me che non riconosco, che mi fa sentire a disagio, ma che si afferma con incommensurabile forza e desidera ardentemente mettersi alla prova. Almeno questo aspetto della mia personalità è rimasto intatto, insieme con l’orgoglio che è l’essenza stessa della mia vita.
Ripensandoci, non ho udito delle mere parole. Ciò che mi è stato detto, promesso e posto difronte corrisponde a verità. L’ho potuto saggiare ogni giorno, sin dal mio arrivo. Forse è il motivo per cui una parte di me ha scelto di farci caso: per la prima volta, non mi sono state propinate delle menzogne o delle minacce. Sono stato trattato con rispetto. Mi è stato dato senza che io lo pretendessi ed è una circostanza che non avrei mai ritenuto possibile.
In realtà, mi è stata offerta quella che quaggiù chiamano amicizia e, sinceramente, sto ancora tentando di cogliere le ragioni di un tale atto. Già, mi risulta inspiegabile. Non sono venuto in pace. Non ho porto la mano tesa. Ho posato i piedi su questo pianeta per conquistarlo e, per tutte le stelle, ho fallito… ma non per questo mi sono rassegnato, né ho accettato di condividere l’esistenza con i miseri individui che mi circondano.
Mi sono tenuto a distanza, tuttavia nessuno qui mi considera ancora un nemico. Un rivale più probabilmente e anche questa valutazione rientra nei canoni di una stima che non penso di meritare e che non restituisco, perché sono arrogante e ostinato. Sono un Saiyan, è parte della mia natura. Anzi, sono il principe della stirpe guerriera e non permetto a nessuno di surclassarmi o di giudicarmi, perciò mantengo intatto il mio disprezzo e il mio desiderio di rivalsa. Rifiuto di lasciarmi andare.
Ma i miei sentimenti si rivoltano contro di me e, poiché li tengo a distanza nel reale, nel mondo onirico prendono forma e mi avvelenano il riposo.
Anche poco fa ho sognato il mio pianeta natale, che è stato ridotto in polvere cosmica e non esiste più, se non nelle memorie di quando ero solo un ragazzino.
Nel buio mi è comparso lo spettro di mio padre, l’ultimo sovrano, che mi ha consegnato come ostaggio a Frieza, pontificando sulle mie origini aristocratiche e sulla mia forza straordinaria, invero condannandomi ad un futuro intessuto di umiliazioni e disonore. Ho assaggiato l’odiosa vergogna della sconfitta, la degradante necessità dell’obbedienza, l’essere costretto a servire e ad inginocchiarmi, quando avrei dovuto regnare. Quelle mortificazioni non le ho mai metabolizzate e si ripresentano come visioni, quando allento il controllo su me stesso. A vedermi non si direbbe, lo so e lo detesto.
L’incubo non si accontenta mai e mi mostra chiaramente che l’unico altro superstite della mia razza, Kakarott, è più potente di me e può raggiungere la forma del guerriero leggendario, mentre io…
 
Mentre io grido di dolore e di rabbia, dibattendomi sotto le lenzuola, nel torpore del dormiveglia e mi desto totalmente dal supplizio solo quando mi sento scuotere con apprensione e delicatezza.
Mi passo una mano sul viso, sollevandomi con fatica, facendo leva sulle braccia ustionate e fasciate, che mi spediscono una fitta lancinante al cervello.
Fatico a regolarizzare il respiro.
Lei è accanto a me nella penombra della mia camera e i suoi occhi luccicano nei miei, mentre mi stringe i polsi e solleva una mano per saggiare il mio stato di salute, senza osare toccarmi ulteriormente, sapendo che non lo gradisco.
“Vegeta…”
“Vattene!”
Devo avere urlato più forte del consueto: anche se il giorno è ancora lontano, la terrestre è accorsa al mio fianco e mostra sul volto i segni del sonno bruscamente interrotto. Nello sguardo una preoccupazione sincera. Nei gesti un affetto profondo.
Non voglio che abbia compassione di me, non voglio che mi vegli per un’altra notte, crollando sul tavolo per la stanchezza, non voglio che mi tratti così, come se… come se ci tenesse a me. Perciò provo ad allontanarla scortesemente, pur sapendo che non funzionerà, che otterrò l’effetto contrario, che il mio inutile tentativo non sortirà altro esito se non quello di far affiorare la sua tenacia, la sua sfacciataggine, la sua caparbietà.
La fisso con rabbia e avverto un fremito, che mi percorre le membra indebolite dalle ferite, quando riconosco le lacrime brillare nei suoi occhi, prima che vengano ricacciate indietro da quell’orgoglio che riesce quasi ad eguagliare il mio.
“Vegeta!”
Ancora il mio nome, articolato con la seconda vocale più aperta, come una “e”, mentre dovrebbe essere pronunciata “i”. Incredibilmente, non l’ho mai corretta e non mi dà fastidio sentirmi chiamare così da lei. Credo che la ragione sia perché, in sua presenza, Vejita non esiste più. Esserne consapevole mi rende furibondo: non lo accetto e mi oppongo all’evidenza con stolta cecità. E’ la mia fierezza che agisce in mia vece. Tuttavia, continuo a non rettificare la giusta cadenza del mio nome.
“Lasciami in pace!”
“Voglio controllare che il sonno agitato non ti abbia riaperto le ferite!”
“Risparmiami la tua pietà, non mi occorre!”
Lei mi osserva, stupita e accigliata, ma non indietreggia, non si rassegna, non teme le mie reazioni. Resta seduta sul mio letto a poca distanza e non rinuncia a prendersi cura di me. Non rinuncia a me.
E’ la prima volta che una persona mi si avvicina così tanto, priva dell’intenzione di sfidarmi o di uccidermi. Ma forse un po’ di sfida tra di noi c’è. Lei cerca di convincermi a non allenarmi a scapito della vita e a piantarla con il progetto di ammazzare Kakarott. Io cerco di spaventarla e di chiarirle che non ho mai preso ordini da nessuno, figuriamoci da una femmina petulante e priva di poteri.
“Nessuna pietà, zuccone!” brontola lei “Si chiama buonsenso, quello che a te manca!”
Chi!
E’ anche la prima volta che qualcuno si permette di rispondermi a tono. Lei lo fa in continuazione e non si pone nessun freno: soprattutto, non pare propensa a considerare il fatto che potrei spezzarle il collo con una mano.
La verità è che non ci ho neppure pensato. Il suo temperamento mi ha colpito e, anche se le ringhio contro, non le farei mai del male. Credo che se ne sia accorta, è una donna intelligente e, anche se mi domando che cosa ci veda nel sottoscritto, sono curioso di comprendere le sue motivazioni. Mi ha ospitato in casa, come se fossi un amico di vecchia data, mi ha costruito una gravity room per permettere che mi allenassi, pur sapendo che avrei potuto portare solo la morte, se lo avessi desiderato; ha condiviso con me il cibo ogni giorno e mi ha soccorso quando mi sono quasi ucciso, pochi giorni fa. Non desidera nulla in cambio e mi dice in faccia quello che pensa. Ha un coraggio innegabile, che forse dovrei più definire incoscienza.
Me ne rendo conto, l’interesse che ho per lei è qualcosa che mi spiazza, un’emozione a cui cerco di non dare importanza, ma so che la mia resistenza è vana.
Non mi è mai importato nulla di nessuno, persino dei miei compagni di battaglia. Invece, lei mi ha catturato e io odio che sia accaduto indipendentemente dalle mie intenzioni, che sia una deroga ai miei piani, che non ci possa fare nulla… per tutte le stelle, che in fondo… in fondo mi vada bene così!
Ha acceso una luce fioca e mi guarda, cercando eventuali segnali di peggioramento sulle mie lesioni.
Le ho spiegato che noi Saiyan, quando rischiamo seriamente la pelle, diventiamo più forti di prima, ma mi ha semplicemente ignorato. Anzi, per essere precisi, mi ha sgridato come se fossi un moccioso e io non sono riuscito a oppormi, ho perso i sensi come un debole e mi sono lasciato curare. Una parte di me si è lasciata avvolgere da lei, un’altra si è innalzata a mia difesa.
Le mie ferite si stanno chiudendo velocemente, ma quelle dell’anima, quelle di cui non parlo neppure con me stesso, sono squarciate e si trasformano negli incubi notturni che mi attanagliano con crudele puntualità.
“Che cosa ti è successo? Non è la prima volta che ti sento gridare mentre dormi…”
Distolgo lo sguardo e fisso ostinatamente la finestra, come se fossi intenzionato a volarmene fuori per non sentire più le sue domande. Se anche potessi, credo che non lo farei. Dannazione, perché mi lascio confondere e percepisco il cuore che si placa e insieme pulsa ad un ritmo che non ho mai sperimentato?
“Non sono affari tuoi!”
“A me puoi dirlo” continua la terrestre, decisa “Fidati di me…”
L’affermazione mi assesta una stoccata imprevista. Non mi sono mai fidato di nessuno, neppure dei miei uomini più fedeli; per quale assurdo motivo dovrei iniziare con lei? La risposta mi giunge immediata e tagliente: perché questa donna non ha paura di te e ciò avviene perché lei, principe dei Saiyan, ha fiducia in te. Ha riposto le sue speranze per il futuro in te e tu non sei rimasto indifferente come avresti desiderato. Ti alleni per vincere e per essere il numero uno, sì… ma lo fai anche perché non vuoi che lei muoia, che il suo mondo si esaurisca in un istante, come è stato per il tuo.
Realizzare la presenza di queste intenzioni è come ammettere di avere un fine umano. Di essere umano. Non so come reagire a fronte di questa novità.
Mi giro e la osservo con un’espressione feroce, sperando di non emanare anche la pesante tristezza che mi assale quando faccio i conti con il mio vissuto. Sospiro e, straordinariamente, rispondo.
Le racconto che, quando il mio pianeta è stato distrutto da Frieza, io ero sulla sua astronave ammiraglia, in catene, e non ho potuto fare nulla per evitarne la fine. Lo affermo con un tono freddo e piatto, ma nelle mie vene il sangue inizia a ribollire e mi romba implacabile nelle orecchie. In questa occasione, la sensazione è decisamente più intensa. Forse perché non sto rimuginando tra me e me: sto condividendo la mia storia e, mentre le parole fuoriescono dalla mia bocca, stento a riconoscermi.
La scorgo spalancare gli occhi e trattenere il fiato, scossa dalla notizia.
Sono stato educato ad essere il primo, a non arrendermi, a ripagare l’onta con la vendetta o con la morte. A non mostrare debolezze, a non lasciarmi superare, a dominare. Affermo che per me sarebbe stato più onorevole seguire il destino del mio popolo, ma che la sorte ha deciso diversamente.
“Non dire così…” sussurra lei, commossa.
Io la scruto in profondità e leggo nel suo animo un’empatia profonda. Stento a crederlo, ma è palese, è vera. Mi comprende, senza compatirmi.
Continuo a narrare gli eventi successivi, con una fatica incommensurabile, perché mi sento dilaniare l’anima e non voglio mostrare ciò che provo. Le parlo del bambino che ero, costretto nel fango con la fronte a terra da un nemico troppo forte: un tiranno senza misericordia, cui ho finto di obbedire, covando un risentimento che mi ha quasi soffocato, sfruttando ogni occasione per incrementare le mie facoltà. Grido che sono stato trattato come il più infimo dei servi! Io, che sono il principe della stirpe guerriera!
“Mi dispiace…” mormora la terrestre, angosciata.
“Risparmiami la tua commiserazione” sbotto stringendo i pugni “Almeno quella! Non ho potuto realizzare la mia occasione perché è stato Kakarott a fare quanto era nei miei piani! Lui non ne aveva il diritto! Non era lui il predestinato, il super Saiyan della leggenda! Quel ruolo sarebbe spettato a me! Invece… invece quello stupido mi ha lasciato vivere e io non lo tollero! Finché non riuscirò ad ottenere ciò che desidero, a pareggiare i conti con lui, la mia dignità di guerriero resterà lesa e i sogni me lo ricorderanno ogni notte!”
Lei socchiude le palpebre e le sue iridi turchesi luccicano come stelle. Sposta lentamente la mano e stringe la mia. Nessuno ha mai avuto l’ardire di toccarmi in quel modo… o il desiderio di farlo.
La scossa che ricevo è talmente forte, che non riesco a reagire. Quel contatto leggero mi porta via dai ricordi infamanti e inizia a scolorire la mia ira. La guardo con stupore, come se non fosse fatta di carne e sangue e mi lascio sfiorare senza respingerla. Dovrei, invece. Dovrei staccare le sue dita dalle mie. Le mie dalle sue. Ma resto fermo.
“Sei sicuro che sia questa la ragione?” domanda lieve.
Aggrotto la fronte, piccato, e rispondo con una smorfia furibonda.
“Qui sei a casa tua, Vegeta. Ora è la Terra il tuo pianeta. Hai l’opportunità di difenderla dai cyborg, di lottare per la sua salvezza. Di compiere ciò che prima non ti è stato possibile. Ci hai mai pensato?”.
Maledizione. Sono conscio del fatto che lei non possieda attitudini sovraumane, ma pare che mi legga nel pensiero. Non solo ci ho riflettuto, ma sto anche sottoponendomi ad un allenamento pesantissimo a quello scopo. Sicuramente non è il solo, anzi, il fine principale resta quello di sconfiggere il mio odiato rivale e di misurarmi con quei misteriosi, futuri avversari. Tuttavia, la sua domanda mi lascia senza risposte.
Non ho mai chiamato casa nessun luogo nell’universo, eppure qui, alla Capsule Corporation non sono un semplice ospite. Mi è stato ribadito. Lo avverto nelle azioni e negli atteggiamenti della terrestre, che continua a tenere la mano nella mia. Il calore della sua pelle sorpassa le fasciature che porto e mi entra dentro.
Riesco a interrompere la contiguità con un gesto tenace del braccio e la fulmino con un’occhiataccia.
“Non dire sciocchezze!” esclamo con l’ironia nella voce “Sono rimasto qui perché devo compiere la mia rivalsa su Kakarott!”.
Lei inarca un sopracciglio, seccata, come tutte le volte in cui ripeto la solita, logora frase. Ma può giurarci, lo farò, non intendo lasciar perdere la sfida.
“Siete gli unici due rimasti” sospira “Questo significa che non sei solo. Dovresti fartene una ragione, anche se lui non ti piace e se siete diversi. Potresti trasformare il tuo desiderio sanguinario in un’occasione di miglioramento per entrambi. Sono certa che Goku accetterebbe di battersi con te, in tal caso…”
“Tu sei pazza!” esplodo, mentre le ferite iniziano a dolere dannatamente per lo sforzo esagerato che sto compiendo “La pagherà cara per ciò che ha osato fare! Non sarai certo tu, con le tue idee strampalate, a dissuadermi! Lui morirà! O sarò io a giocarmi la vita! Preferisco andare all’altro mondo con onore!”.
La ragazza mi guarda con quegli occhi blu mare, che per me sono così particolari, così magnetici. Certamente, la mia rabbia non le impedisce di persistere. E’ già successo in altre occasioni. Quello che ribatte, però, mi lascia sbigottito.
“Io non voglio che tu muoia, Vegeta…”
Lo pronuncia con una vibrazione di emozioni viscerali, che le scorrono sul volto come riflessi di sole sull’acqua e socchiude le palpebre, abbassando lo sguardo per un istante. Come se fosse impegnata a celare qualcosa di sé.
Io resto sconcertato, immobile, perché l’augurio che solitamente mi viene rivolto è quello diametralmente opposto. Che qualcuno abbia lottato per la mia vita e che la tenga in considerazione addirittura più di me, che sono il diretto interessato, mi sconvolge.
“Perché?” mi sento replicare.
Mi chiedo che cosa mi stia succedendo. Non è da me porre una questione così idiota. Sono palesi i motivi per cui una persona non vuole che un’altra perisca. Infinite ragioni. Dunque, qual è la sua? Forse è questa la principale risposta che cerco. Quella che spero di ricevere mi si affaccia alla mente con prepotenza, anche se tento di forzarmi in un’altra direzione. E mi sento ancora più stupido.
Lei mi guarda e, per la prima volta da quando la conosco, mi sembra indecisa. Sta esitando, in lotta con se stessa, in un silenzio che stranamente mi pesa. Sospira e prende una decisione che si incarna nella sua espressione, contemporaneamente determinata e incerta. Mi domando come sia possibile. Stelle, fatemi capire… poi tutto diventa chiaro.
E’ un istante.
Si avvicina, colmando la breve distanza tra di noi, e mi sfiora le labbra con le sue. Un bacio in cui coesistono tutti i responsi.
Il primo per me.
Le mie difese vanno in pezzi, ma rimango inerte. Sperimento la devastante potenza di quella minima unione fisica e colgo appieno il significato del verbo bruciare. Prendo fuoco. Scopro che non ho mai affrontato una battaglia, un’impresa, una conquista o una vittoria che mi abbia scaldato così tanto. Trattengo il respiro e non riesco a reagire né a respingerla né ad attirarla a me. Rimango saldo, ma solo esteriormente, perché mi sento deflagrare: tutto il mio io si concentra sulla sua bocca, ancora posata sulla mia. Ho paura che finisca… che invece non finisca. Il cuore batte, privo di ritegno. Stringo i pugni per non cedere, per non ammettere che era quanto desideravo strenuamente, per non confessare neppure a me stesso che lei… che io, per lei…
Il legame si interrompe, lasciandomi disorientato. Sento un rivolo di sudore ruscellarmi lungo la schiena e intuisco di aver compiuto uno sforzo oltre misura, tentando di mantenermi algido e distaccato. Per tutti i pianeti, avrei dovuto…
Lei si porta una mano al viso, arrossendo, e appare quasi rammaricata del gesto che ha avuto il fegato di compiere. Non le sto trasmettendo nessun indizio con la mia staticità. Teme di avere passato il segno. Percepisco che non riesce a decodificare i miei pensieri… e forse è meglio così.
I miei occhi la mettono nuovamente a fuoco e le emozioni si scatenano ancora più violente in me. Non credevo di essere in grado di provarle, che potessero diventare così intense. Che potessero essere queste.
“Mi… mi disp…” mormora turbata.
Le impedisco di continuare. Sollevo il braccio e appoggio le dita sulle sue labbra. Non voglio che si scusi, perché non ha torti. Ha solo più coraggio di me. Non voglio che aggiunga altro, perché non ce n’è bisogno. Voglio solo… voglio ancora… lei.
La mia mano si insinua tra i suoi capelli sciolti e sono io ad annullare lo spazio tra noi. Lo faccio con foga, perché ho atteso già troppo e mi sono lasciato impartire una lezione che ho appreso in fretta. Perché sono fondamentalmente un guerriero.
La raggiungo e la incontro, il bacio diventa vero e presente. Non ci sfioriamo come prima, ci fondiamo, ci confondiamo, il nostro respiro si mescola. Avverto che siamo in due in questo gesto che comunica in un linguaggio privo di suoni, ma comprensibile in tutto l’universo. Anch’io lo intendo e mi esprimo in esso, incredulo, perché non avrei mai ritenuto di esserne capace.
Avvampo ulteriormente, quando sento il suo cuore contro il mio, quando le sue braccia mi si allacciano al collo, quando le mie iniziano a stringerla. Non avverto più alcuna stranezza improvvisamente, come se avessi attraversato l’infinito spazio appositamente per vivere questo momento. Come se non ci fosse nulla di sorprendente in un Saiyan che cinge una terrestre in un abbraccio che esplode di una passione puramente umana. Come se non fosse straordinario, per me, essermi innamorato di lei… e per lei, amare me.
Piombo all’indietro, sui cuscini. Le mie forze languiscono a causa delle ferite e maledico la mia debolezza fisica. Eppure, non mi sono mai sentito così forte. L’anima riconquista il baricentro e tutto ciò che sono, che ero, che non credevo di essere prende il posto che gli spetta.
Lei scivola sul mio petto, cerca di non pesarmi addosso per non farmi male e accenna a scostarsi. Non lo imparerà mai, che io appartengo alla stirpe guerriera, che per me questo dolore non è che un’inezia, che sarei in grado comunque di far esplodere la luna da quaggiù, con un solo colpo.
La guardo e mi perdo, la guardo e mi ritrovo. Lei mi ricambia, mi accarezza il viso ed emana una dolcezza infinita, che è solo per me.
Non le consento di spostarsi dal mio corpo disteso, mantengo le mani sulle sue spalle, il contatto fisico tra noi. Riesco a sorreggerla, anche così. Le sorrido come non ho mai fatto e i suoi occhi brillano, mentre le sue dita si inoltrano tra i miei capelli neri e le sue labbra mi cercano ancora.
Mi ha detto che non sono solo, non più. Ora assaggio la concretezza di questa realtà, ne prendo piena coscienza mentre il suo odore mi inonda e la sua vicinanza mi stravolge i sensi. Sono fatto di carne e sangue, anche se sono avvezzo a celare me stesso; temo di varcare un limite non consentito, di cui non ho esperienza e che non ho mai considerato.
I miei pensieri volano e la percepisco in me, identifico il suo ki pulito e inconfondibile, la sua pelle tiepida e profumata, il ritmo del suo battito.
Continuo a tenerla tra le braccia, a baciarla con trasporto.
Prima ancora di rendermene conto, mi proietto oltre, la mia forza istintiva prevale e la lunga maglietta che indossa mi resta tra le mani in due metà sfilacciate. Lei trasalisce e io mi blocco, esitante, con il respiro accelerato, realizzando la sua nudità… per tutti i sistemi stellari, com’è bella… la guardo e basta, occhi negli occhi, sguardi fatti di malinconia e passione, in attesa della sua reazione, soffocando il desiderio che sento crescere.
Ma è solo un attimo, la sorpresa che le ha attraversato i lineamenti evapora come nebbia al sole. Non si vergogna davanti a me, non fugge: anzi, si libera dei brandelli di stoffa rosa e mi prende la mano, se l’appoggia sul cuore, come se non volesse altro, per farmi capire che prova le mie stesse sensazioni, che non mi considera un animale privo di raziocinio. Che vuole me.
Divento lava incandescente e quel pulsare frenetico che avverto nelle sue vene riverbera nelle mie. Ignoro il fatto di essere ferito e la rovescio sul letto in una mossa, la stessa che mi hanno insegnato per capovolgere una situazione di svantaggio in uno scontro. Non avrei mai creduto di ripeterla per rendere mia una donna.
La sua chioma si sparpaglia sul cuscino, le mie bende si allentano e si sciolgono, messe a dura prova dai miei movimenti, mentre lei ci libera dalle coperte in cui siamo intrappolati. Non indosso quasi nulla, mi spoglio con ancora le sue dita intrecciate alle mie e non provo imbarazzo alcuno quando sul mio corpo restano solo poche fasce di medicazione. Non le straccio perché non voglio che le mie lesioni si riaprano, non permetterò che mi fermino, che mi siano d’ostacolo in ciò che sta accadendo.
Ora siamo soltanto noi, nella nostra essenza, senza più barriere.
Lei, Bulma, che mi inonda d’amore e scende con le dita lungo la mia schiena, procurandomi i brividi, alimentando il mio accendermi.
Io, Vegeta, che faccio mie le sue labbra, ancora e non mi basta, sfioro il suo collo sottile e la accarezzo, accompagnato dai suoi sospiri leggeri. Il suo sapore mi invade.
Voglio lei e nient’altro. Amo lei in ogni atto.
Accade e mi sento sciogliere, lo faccio per davvero e non ho incertezze. E’ totalmente mia, sono completamente suo.
Non ha più senso il tempo, mentre mi unisco a lei in anima e corpo, mentre mi lego a lei per sempre, per libera scelta, senza aver pianificato nulla di quanto sta succedendo in questa stanza.
Eppure sono io, non ho lasciato mai nulla al caso, sono riflessivo e prudente… no, invece, non posso conoscermi in questo aspetto intimo, perché è la prima volta. E non è pulsione, non è istinto, non è disperazione.
Sto facendo l’amore con lei. E’ solo questo e basta.
La sento fremere, si avvinghia alla mia pelle e pronuncia il mio nome, si tende e rabbrividisce, si abbandona a me e la sua fiducia mi rasserena. Mi sento affrancato dal male che ormai è solo un invadente ricordo, dalla tristezza che era la mia unica compagna. Il peso che non mi ha mai dato tregua evapora, svanisce senza traccia.
Il mio respiro si spezza e mi lascio finalmente andare, mi aggrappo a lei e impedisco alla mia voce di uscire, ma un sussurro mi sfugge: contiene il suo nome ed è tutto quello che provo in una sola parola.
Lei lo sa, lo comprende e accoglie le mie membra affaticate, la mia fronte appoggiata alla sua guancia arrossata, le sue braccia mi circondano ancora una volta, il mio petto sale e scende veloce contro il suo.
 
Spalanco gli occhi perché scorgo con angoscia delle macchie di sangue sulle lenzuola candide. Non mi sono mai preoccupato nel causare dolore a un’altra creatura, ma ora capisco che cosa significa temere per chi si ama.
Mi sollevo sulle braccia, inquieto.
“Io… io ti ho fatto male?” domando di getto “Io non…”
Lei mi fissa da sotto in su, sorridendo, ignara.
“Ma no…” sussurra scuotendo la testa, senza distogliere lo sguardo dalle mie iridi brucianti.
Poi nota le tracce rosse e, a sua volta, entra in ansia e mi esamina. Le sue mani sul mio corpo sono un’onda di calore che mi assale, con la stessa straripante passione di poco fa. Non ho mai desiderato così intensamente di essere toccato da qualcuno.
“La tua ferita al fianco si è riaperta…” afferma, allarmata.
“Non è importante, ora” rispondo, inchiodando gli occhi nei suoi.
Fa per replicare, ma io le rubo il fiato e la mia bocca si posa nuovamente sulla sua, mentre siamo ancora uniti nella stretta che ci rende un solo essere, che ci dona l’uno all’altra e ci lega, ci libera nel contempo.
Voglio rifarlo adesso, domani, per sempre. Con lei.
 
Avverto che mi sto assopendo sulla sua spalla sottile e che anche il suo respiro si sta regolarizzando. Cedo all’appagamento e alla stanchezza, ma sento che non mi manca nulla. Che per tutta la vita ho cercato senza sapere che cosa stessi inseguendo. La supremazia, la vittoria, la tranquillità… o forse qualcosa che neppure io sono riuscito mai a identificare con precisione. Forse, ho cercato solo me stesso.
Quello che conta è che ora l’ho raggiunto… risiede nello spazio rovente del nostro abbraccio. E, se così non è, non mi importa più di inseguirlo.
   
 
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