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Autore: Urban BlackWolf    19/12/2018    4 recensioni
Può un falco forzare se stesso e rallentare per mettere in discussione le scelte fatte nonostante la sua natura lo costringa alla velocità, alla determinazione nel raggiungimento dell’obbiettivo di una vendetta?
E può una gru riuscire a proteggere con l’amore e la cieca fedeltà tutto ciò nel quale crede fermamente?
Possono due esseri tanto diversi fondersi in uno per tentare di abbattere le barriere che li separano pur solcando lo stesso cielo?
Ungheria 1950: Michiru, figlia della ricca e storica Buda, dove tutto è cultura e tradizione, lacerata tra il dovere ed il volere, dalla parte opposta di un Danubio che scorre lento e svogliato, Haruka figlia di Pest, che guarda al futuro correndo tra i vicoli dei distretti operai delle fabbriche che l’hanno vista crescere forte ed orgogliosa.
Una serie di eventi le porteranno ad incontrarsi, a piacersi, ad amarsi per poi perdersi e ritrovarsi nuovamente, a fronteggiarsi e forse anche a cambiare se stesse.
Genere: Romantico, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Usagi/Bunny | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXVI-Epilogo

 

 

Vincoli

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce – 20 Marzo

 

Makoto si appoggiò al bancone della guardiania fissando la scatola di legno dove campeggiava un’etichetta bianca con sopra scritto il suo nome. I suoi oggetti personali. Tutto quello che le avevano trovato nelle tasche e nel vecchio zaino militare del nonno al momento dell’arresto e che in pratica rappresentava tutta la sua vita. Un paio di foto, qualche spicciolo, il suo diario, la spilla lasciatale dalla madre. Storcendo la bocca osservò il secondino terminare la compilazione della sua scheda di uscita per poi vedersi offerta una stilografica per la firma d’accettazione.

“Coraggio Kino.” La spronò non rispondendo alla domanda "ci sono ancora le mie sigarette o ve le siete fumate tutte alla mia salute?"

Una volta finita la prassi di rutine, Makoto venne accompagnata al portone principale rivedendo finalmente la luce della libertà. Setsuna Meioh era stata di parola ed anche se la sua scarcerazione aveva subito una brusca battuta d'arresto a causa dei guai giudiziari che avevano coinvolto la direttrice, alla fine la ragazza aveva ottenuto il premio promessole per aver collaborato in maniera attiva durante la vicenda dell’assassinio della detenuta 0056.

La primavera l’accolse mentre un senso d’euforia andava a solleticarle il viso inarcandole i lati della bocca all'insù. “Che meraviglia!” Si disse stiracchiandosi al sole.

Giovane, irrequieta, Makoto Kino era tutto tranne che ponderatezza e nonostante avesse avuto tempo per pensare a cosa avrebbe fatto una volta uscita dalla casa della luce, a come si sarebbe guadagnata da vivere o dove avrebbe trovato asilo, in cuor suo non aveva mai creduto fino in fondo alla promessa della Meioh. Ed invece ora che quel giorno era arrivato, si ritrovava ad osservare spaesata il cielo terso di quella città non sua senza sapere bene cosa fare. Non aveva legami veri a Budapest e se realmente aveva intenzione di sfruttare al meglio quella nuova occasione per dare un senso diverso alla sua vita, le amicizie che si era costruita dopo aver abbandonato la campagna, avrebbero solo potuto riportarla sulla cattiva strada. Era sola, anche il suo ragazzo era sparito, ma dalla sua parte aveva un invidiabile spirito d'adattamento. Forse sarebbe andata in cerca dell’unico collegamento che ancora aveva con il suo passato, ovvero Rei Hino, o forse avrebbe ripreso la via del viaggio, salendo sul primo treno in partenza per il futuro.

Notando sugli alberi l’alone verde creato dalle giovani foglie, si rese conto di quanto tempo aveva sprecato stando rinchiusa in quel carcere e non volendo più attendere oltre, si mise lo zaino in spalla pronta a discendere i gradini che l’avrebbero portata in strada. E li lo vide.

Un uomo sulla cinquantina, alto, robusto, con il viso rotondo incorniciato da una leggera peluria castana. Stava fermo accanto ad un lampione con le mani nelle tasche della giacca e lo sguardo di qualcuno in attesa. Aggrottando la fronte Makoto scese, ma non si avvicinò, stizzendosi della sfrontatezza con la quale l’uomo la stava fissando.

“Che c’è?! Mai vista un’ex detenuta uscire da un carcere?” Tagliò corto arpionando entrambe le mani alla cinghia dello zaino.

Lui non rispose, almeno non subito, anzi quella provocazione gratuita velatamente coatta lo portò a sorriderle. Sempre più sulle sue, la ragazza lo vide avvicinarsi un poco.

“Perdonatemi signorina, non volevo essere sfacciato, ma conoscevo vostra madre e lasciatemi dire che le somigliate molto.” Se ne uscì incuriosendola.

“Mia madre?”

“Si, Belami Kino. Voi siete sua figlia… vero?”

Anche non volendolo, al sentire il nome della madre Makoto cedette un poco abbassando l’indifferenza. “Si, lo sono. E voi sareste...?”

Un altro passo di lui e si trovarono praticamente faccia a faccia. La ragazza era alta, non certo come l’uomo, ma comunque a sufficienza per non sentirsi in nessun modo intimorita.

“Allora?” Incalzò vedendolo titubante.

Aveva un non so che di familiare, di conosciuto, che Makoto attribuì ad un possibile ricordo. “Vi ho forse già incontrato da ragazzina?”

“No. Conoscevo vostra madre, ma non ho mai avuto il piacere di vedere voi signorina.”

“A… capisco. - Disse non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso. - Eravate aspettando me?”

“Si.”

“Perché?”

Sospirando pesantemente l’uomo ammise di avere nei confronti della madre come una specie di debito. “Io non vorrei che mi fraintendeste, ma… potrei chiedervi le vostre intenzioni adesso che siete uscita dal carcere?”

Contro ogni cautela, Makoto sbottò a ridere alzando le spalle. “Bè signor mio, le mie intenzioni sarebbero quelle di mangiare, lavarmi e trovare un posto dove passare la notte. Tutto qui.”

“Avete appoggi?”

“Appoggi?! No, no, per carità. Credo proprio che ora come ora i miei appoggi porterebbero solo guai.”

“Mmmm…. - Mugugnò lui spostando finalmente lo sguardo. - Se non vi offendete avrei da farvi una proposta. Se è per un lavoro ed un posto dove stare… credo di potervi aiutare io. Il panettiere dove si serve mia moglie cerca un aiuto e so che ha un posto letto nel retrobottega. Potrebbe essere un’occasione per un nuovo inizio.”

A tali proposte Makoto Kino non era abituata, soprattutto negli ultimi anni e dovette fare una faccia tra lo stranito, lo stupito ed il diffidente, perché indietreggiando di un passo mettendo le mani avanti, l’uomo cercò di spiegarsi meglio.

“Per carità signorina, non pensiate che sia un viscido marpione con il vizietto di adescare le giovani ex detenute con la scusa di un aiuto!”

Ed in effetti poteva anche sembrare, ma invece che dargli ragione, la ragazza non se la prese, anzi, esplodendo un’enorme sorriso scosse la testa tanto energicamente che la sua ricca coda di cavallo le ondeggiò sulle spalle come una frusta castana.

Emettendo un sonoro fischio l’altro se la rise iniziando a grattarsi il collo. “Meno male. Sapete, in verità ho spesso a che fare con i ragazzi piuttosto che con le ragazze. Mia moglie mi rimprovera sempre di essere troppo spicciolo e di non avere un briciolo di tatto.”

“Mi piace!” Se ne uscì lei con convinzione, sempre più stupita di quanto quello sconosciuto, a parte la proposta generosa appena fattale, le stesse dando un qualcosa.

“Bene. Sono sollevato. Il panettiere si trova all’inizio del sesto distretto. Andiamo? - Incoraggiante fece per farle strada quando ricordandosi di non essersi presentato le porse la destra sorridendo. – A proposito, il mio nome è Scada Erőskar.”

“Piacere signor Erőskar. In quale occasione avete incontrato mia madre?”

Già incamminati sul marciapiede lui guardò il cielo stringendo le labbra. “E’ una lunga storia signorina Kino. Non appena vi sarete sistemata ed avremo il tempo, vi racconterò tutto; di quando la incontrai la prima volta e di quanto fosse una donna straordinaria.”

 

 

Cecoslovacchia, Roblin, periferia di Praga – 25 marzo 1951

 

Usagi chiuse sbuffando il libro di storia che il padre le aveva imposto di leggere. Poche figure, una marea di didascalie condite da valanghe di date e nomi di gente morta della quale, con tutto il rispetto possibile, non le poteva fregare assolutamente niente. Eppure aveva promesso; almeno un paio di pagine al giorno le sarebbero entrate nella testa. In fin dei conti pur non essendo una cima, a scuola se l’era sempre cavata galleggiando sulla sufficienza spicciola in tutte o quasi le materie che contano. Ma si sa, lo studio è come l’esercizio fisico, lo si deve coltivare giorno per giorno e lei, povero piccolo cucciolo, era completamente fuori allenamento. Si distraeva con una facilità disarmante. Ogni rumore, voce, folata di quel vento tiepido foriero delle prime avvisaglie della primavera, le facevano alzare lo sguardo dalle pagine alla finestra poco lontano dalla sua scrivania, da dove si vedevano i campi. Ed ogni volta che accadeva qualche anima misericordiosa, fosse sua sorella Minako, il padre o la donna che la famiglia Aino aveva preso a servizio per le faccende domestiche e la cucina, arrivava per riportarla all’ordine e Usagi non ce la faceva più.

All’entusiasmo del ricongiungimento con il padre, giunto dopo la rocambolesca fuga dal carcere e l’interminabile marcialonga che aveva spinto Mina e trascinarla fino al punto indicato loro dal capo squadra Shiry al margine nord del XIII distretto, era seguito un periodo abbastanza lungo di quiete, soprattutto interiore. Varcata la frontiera con la Cecoslovacchia grazie a due visti scolastici artatamente falsi, avevano raggiunto Ferenc ed i suoi fedelissimi in un piccolo paese della campagna rurale, per poi puntare verso Praga, dove il Generale aveva dei solidi agganci politici.

Forse a causa della sua giovane età, di una sconsideratezza insita nel suo carattere, Usagi non aveva capito a pieno che con molta probabilità non avrebbe più visto il suolo ungherese per molto, moltissimo tempo e quando la consapevolezza di quella che poi era la più ovvia delle realtà le era stata gettata in faccia da una Minako stufa di sentirla sospirare persa in chissà quali fantasie amorose, un senso d’impotenza si era impadronito del suo piccolo cuore adolescente.

“Smettila di palpitare per quel ragazzo e vedi di crescere!” Le aveva urlato contro proprio sul finire di quella mattina, quando per l’ennesima volta l’aveva pizzicata a scarabocchiare il nome del bel moro di Buda su uno dei quaderni di matematica.

“E tu smettila di dirmi sempre quello che posso o non posso fare!”

“Io lo faccio per te Usa. Dammi retta; prima te lo togli dalla testa e meglio sarà.” Scendendo più a miti consigli, la maggiore le aveva ripetuto la pappardella che lei sapeva già, ovvero che fino a quando il regine comunista avesse continuato a tenere in scacco il Governo della loro nazione, la famiglia Aino non sarebbe potuta tornare.

“Non appena avrò la tua età, mi procurerò una nuova identità e rientrerò a Budapest!”

A quelle parole determinatamente stupide e prive di logica, Minako aveva sbuffato alzando le braccia come a voler dire che la vita era la sua ed era perciò liberissima di gettarla alle ortiche.

“Ricorda solo che nostro padre ne morirebbe e che prima di rischiare tutto per un uomo del quale non conosci i sentimenti, dovresti quanto meno rifletterci su più e più volte, mia cara sorellina!”

Già, i sentimenti. Quel caleidoscopio di sensazioni tattili, olfattive, visive e d’anima che Usagi aveva iniziato a provare per Mamoru Kiba molto prima della fuga dal carcere e dei quali però, non ne aveva ascoltato la voce. Che fossero compresi o meno dalla sorella ad Usagi poco importava, perché sapeva perfettamente cosa provava e lo strazio che sentiva al solo pensiero di non poter rivedere più quel ragazzo. Non si era neanche chiesta se le palpitazioni che provava fossero tutte frutto della fine delle loro lunghe chiacchierate, del sentirsi capita, dell’aprirsi, oppure di un suo auto convincimento, della voglia di appartenere finalmente al mondo degli adulti. Non se l’era chiesto perché in definitiva il saperlo non avrebbe cambiato la durezza delle cose.

“La fai facile Mina, ma solo io so cosa sentivo quando i suoi occhi mi accarezzavano.” Si disse allontanando il libro.

“Forse hai ragione tu e sto crogiolandomi nel dolore come una ragazzina, oppure ce l’ho io ed allora tornerò per capire, ma in entrambi i casi non hai il diritto di trattarmi come una sciocca!” Alzandosi dalla sedia Usagi andò alla finestra aprendo entrambe le ante tornando con i ricordi del cuore alla stanza che li aveva visti tante volte seduti l’uno di fronte all’altra, come in una confessione, alle sua mani serrate a pugno sulle ginocchia, al suo sguardo basso, alla pazienza di lui che con parole gentili l’esortava ad aprirsi.

Usagi non poteva sapere e forse non l’avrebbe saputo mai, che proprio in quel momento appoggiato ad una delle tante finestre di un carcere femminile, dove il cielo era intervallato dal ferro di una sbarra, il giovane dottor Kiba sorrideva ad occhi chiusi ripensando a due odango dorati e alla testolina buffa che li portava.

 

 

Giappone, prefettura di Hokkaidō – baia di Hakodate, 28 marzo 1951

 

Il rollio del battello, le onde tagliate dalla sua prua, lo strido dei gabbiani spinti allargo dalla giornaliera battuta di pesca. Il sole caldo a scaldarle la pelle del viso e delle braccia nude finalmente liberate dalle solite maniche per lei troppo opprimenti, l’odore nuovo dello iodio e la sensazione strana del sale sul dorso delle mani bagnate dagli schizzi. Davanti a lei l’isola più grande del Giappone; Hokkaidō e tutto intorno l’oceano, sconfinata distesa dalle molteplici sfumature di blu, alle volte intensissime, profonde e fredde, altre stemperate con il bianco delle increspature di leggera spuma.

Inalando aria cristallina, mosse leggermente la testa per permettere ai ciuffi della frangia bionda di spostarsi tutti da un lato e consentirle così di apprezzare la vista del porto dove da li a breve sarebbe sbarcata. Che viaggio epocale aveva compiuto in poco meno di due settimane. Prima lungo il Danubio, verso sud, su un barchino di un amico di Scada, partito da Pest nel cuore della notte, poi raggiunta la Jugoslavia, in treno fino a Zagabria e da li, in volo per Tokio. Non c’erano tratte transoceaniche che permettessero di mettere in comunicazione Budapest con Sapporo e comunque anche se ci fossero state, lei ed i suoi compagni di viaggio non avrebbero potuto usarla. Era libera, è vero, ma in realtà Michiru non poteva dirsi altrettanto fortunata. Un paio di giorni dopo il suo sapere di Nâgiry, davanti la casa della famiglia Kaioh aveva preso a stare in pianta stabile una berlina nera. Sempre li, parcheggiata davanti al cancello d’entrata, che ci fosse bel tempo o nevicasse. Di giorno come la notte.

“Ricordati Ruka che sono una dissidente. - Le aveva confessato l’altra alzando le spalle quasi divertita. - Staranno aspettando che compia un passo falso per riprendermi. Giocano sporco... Lo sai.”

E con molta probabilità Michiru aveva ragione. In più, lo stesso giorno nel quale la berlina era apparsa, la famiglia che ancora ostinatamente continuava a curarla aveva ricevuto un avviso di confisca immobiliare. In pratica un gentilissimo invito dello Stato a lasciare la proprietà.

Inarcando la schiena nel tentativo infruttuoso di sgranchirsi la colonna, la ragazza chiuse gli occhi ai raggi caldi cercando di trarne il massimo beneficio. Era abbastanza provata, ma le lacerazioni sulla pelle si erano quasi del tutto rimarginate, le ossa dello sterno stavano guarendo bene, ed Haruka lo capiva dalla sempre maggior nitidezza con la quale riscontrava forme e colori, che presto anche il suo povero occhio sinistro sarebbe tornato a posto. Solo la pupilla sarebbe rimasta quasi del tutto dilatata, atrofizzata e fastidiosamente pungolata dalla luce e chissà, magari Michiru aveva ragione, questo avrebbe contribuito ad accrescere ulteriormente il magnetismo del suo sguardo.

Michiru; la sua splendida gru, delicata e fragile, ma al contempo forte come il più resistente dei diamanti. Era pienamente cosciente che il suo carattere testardo ed orgoglioso aveva portato a quella ragazza tanti guai, ma era grata al cielo che nonostante tutto, potesse ancora considerarla l’amore della sua vita.

Sospirando la bionda si portò istintivamente la mano sinistra all’interno del braccio opposto. Una leggera torsione muscolare ed il suo tatuaggio risaltò alla luce brillante di quella tarda mattina di primavera. La lama bicolore non c’era più, coperta da un fodero nero che Haruka aveva voluto fosse Scada a farle. La sua vendetta si era compiuta o forse sarebbe stato più corretto dire che lei aveva avuto il coraggio di fare una scelta. La più difficile che avesse mai fatto.

Non appena si era sentita meglio ed era riuscita a scendere dal letto e a camminare abbastanza speditamente sulle gambe, si era lavata e vestita con cura, come prima di una partenza. Infilate le scarpe ed indossata la giacca, aveva afferrato il suo Kés uscendo dalla stanza per percorrere il corridoio che portava alla grande rampa di rappresentanza ed una volta discesala, si era ritrovata davanti alla porta dello studio di Alexander Kaioh.

Nei giorni in cui non aveva potuto muoversi, lo aveva intravisto si e no un paio di volte mentre con discrezione chiamava la figlia per qualche comunicazione. Un rapido colpo di sguardi e nulla più. Tra loro non c’era stato altro. Così Haruka era stata lasciata sola a decidere sul da farsi, sul come comportarsi di fronte alle rivelazioni che l’uomo le aveva fatto. Fraterno compagno di suo padre che fosse, lei doveva comunque capire se le attenuanti che Alexander aveva verso la sua famiglia fossero sufficienti o meno per scagionarlo. Ed in tutto questo non poteva contare su Johanna, ancora lontana da lei, ne su Scada o su ogni altro componente della C.A.P. che si era visto privato del lavoro e di un uomo come Jànos Tenoh. Non poteva contare neanche su Michiru, drasticamente di parte. L’unica a dover decidere era lei e lo avrebbe fatto seguendo l’istinto e la coscienza.

Con le nocche a pochi centimetri dal legno dell’anta dello studio aveva ricordato le parole di suo nonno, non dimenticarti piccolo Turul che la lama di un Kés non ha ragione di sopravvivere al compimento di una vendetta, ed aveva bussato stringendone forte l’impugnatura nascosta nella tasca dei suoi pantaloni.

Era stata invitata ad entrare e lo aveva trovato li, dietro la sua scrivania di noce lavorato, intento a scartabellare qualche documento alla luce potente di una lampada. Si erano guardati non fiatando. Haruka non l’aveva ringraziato per le cure ricevute o del più generoso atto di cedere allo Stato le quote della Kaioh Bank in cambio della sua scarcerazione. Non lo aveva fatto e forse non lo avrebbe fatto mai e nessuno l’avrebbe mai giudicata per questo.

“Ditemi Haruka.”

Aveva esordito lui alzandosi per attendere al lato della scrivania ed in quel momento, aggrottando la fronte ancora parzialmente fasciata, la bioda aveva ripensato a quel picnic sull’isola Margherita, alle risate cavernose di suo padre, agli sguardi d’intesa con la sorella, alla cena di Mirka e alla birra artigianale di Scada. Momenti indimenticabili, incisi a fuoco dentro di lei, così come lo era la C.A.P. e i suoi mattoni rossi, le grandi finestre ad arco, i soffitti voltati delle sue officine, il caldo asfissiante della fonderia ed il rumore sordo della battitura dell’acciaio.

“E’ finita.”

Aveva detto pianissimo estraendo il coltello snudandolo con rapida freddezza prima di piantarne la lama nello stipite con tutta la forza che aveva nel braccio. Con altrettanta determinazione l’aveva inflessa fino a spezzarne la punta che poi aveva estratto dal legno.

“Devo andare avanti.”

Una considerazione che l’aveva spinta al primo passo e non solo fisico, verso un nuovo capitolo della sua vita. Non staccando gli occhi dall’uomo, gli si era infine fermata davanti porgendogli il frammento di metallo.

“Ora la mia vendetta è compiuta; per me Alexander Kaioh è morto.”

A questo l’uomo non aveva detto nulla, ma serrando la mascella aveva preso il frammento stringendolo nel pugno della destra.

Era quello il rituale con il quale si compiva una vendetta magiara; spezzare la lama del proprio Kés una volta che questa aveva adempiuto al suo compito, per poi lasciarla sul corpo della vittima così che si potesse tornare alla vita. Anche il coltello di Haruka Tenoh aveva ricevuto la stessa conclusione, anche se questa volta la sua lama non era stata macchiata dal sangue del suo debitore.

“Ne siete sicura?” Aveva chiesto Alexander mentre le labbra della ragazza si piegavano il un sorriso sghembo.

Non aveva risposto, non lo sapeva. Di una cosa sola era certa; dell’amore che provava per Michiru e fosse cascato il cielo con tutte le sue stelle, non le avrebbe mai arrecato un dolore come quello che aveva provato lei per perdita del padre. Voltandosi per uscire dallo studio l’aveva vista inchiodata sulla porta. Lo sguardo lucido e grato, un labbro serrato tra gli incisivi.

Due giorni dopo la famiglia Kaioh aveva dovuto allontanarsi da quella che non avrebbe più potuto considerare la propria casa. Sempre pedinati, con pochi indumenti in una valigia e gli ultimi fiorini nelle tasche, una volta affrancata la servitù avevano lasciato il porto sicuro di Buda per sparire nei meandri dei vicoli di Pest, dove amici di vecchia data avevano accolto e nascosto Haruka, Michiru, Alexander ed il fidato Takaoka.

Piegandosi sugli avambracci la bionda si sporse dal parapetto quanto basta per osservare degli strani animali far capolino quasi vicino alla chiglia. Delfini, cetacei che come tante cose, lei non aveva visto che in foto o disegnati su qualche libro di scuola. Un gruppetto bene affiatato, un branco che le ricordava il suo ormai perso.

“C’è vento amore. Copriti.” La voce di Michiru le arrivò alle orecchie come una carezza.

Amore. Aveva preso a chiamarla così quando erano sole. Amore ed ogni volta, ogni santissima volta, ad Haruka sobbalzava il cuore.

Avvertendo le sue mani stringerle la vita si voltò sorridendole. Dio la voglia che aveva di baciarla, di toccarla, di averla.

“Cosa stai guardando?”

“Quelli. - Indicando con il mento le sfiorò la guancia con un dito. - Sono delfini, vero?”

Sporgendosi un poco le diede ragione non appena un grosso esemplare cacciò fuori dall’acqua muso e tronco per poi saltare agilmente e ripiombare giù in un nuvolo di schizzi.

“L’oceano è talmente ricco di vita.”

“C’è quasi d’aver paura di un’immensità come questa.” Ammise la bionda perdendo lo sguardo all’orizzonte.

“Non devi. All’inizio forse, se non lo si conosce, ma poi… credimi Ruka, è capace di darti tanto. Libertà, passione, forza.”

L’altra tornò a fissarla inarcando le sopracciglia. “Ne parli come di un amante. Devo forse essere gelosa?” E questa volta fu lei a stringerla per i fianchi.

“Chissà…”

“Ma sentitela.” Sfotté provando un leggero bruciore all’occhio sinistro.

“Ti da fastidio la luce?”

“Un po’, ma non importa. Si sta bene qui. Sono giorni che viaggiamo e non mi va di stare sotto coperta. E poi mi ci dovrò abituare.” Mettendo le mani avanti, Haruka cercò d'arginare lo spirito della mamma chioccia che da quando era stata scarcerata sembrava essersi impossessata dell’altra.

“Lo capisco, ma non devi strapazzarti, lo sai.”

“Si… lo so.” E montando su un viso da bambina, la bionda tornò a guardare i delfini seguire la chiglia.

Michiru non se la prese, tanto aveva capito che parlare con Haruka alle volte era come farlo ad un muro di cemento armato. Aveva rischiato di perdere l’occhio, di rimanere menomata a vita. Era riuscita a guarire con costante lentezza e adesso non voleva rischiare di vederla cedere proprio ad un passo dalla meta; Hokkaidō ed un nuova vita.

Quando la bionda tornò a poggiare gli avambracci al corrimano metallico, l’altra iniziò ad accarezzarle la pelle del polso perdendosi in se. Sia lei che il padre sapevano che trascinare Tenoh dall’altra parte del mondo era stato un azzardo, una specie di cattiveria, ma per non dividerle non avevano avuto scelta. Michiru non poteva rimanere in patria ed anche se fosse riuscita a raggiungere la milizia di Ferenc Aino, la sua vita sarebbe stata tanto difficile quanto pericolosa ed Haruka, che l’avrebbe di certo seguita, meritava un po’ di serenità.

Dopo la confisca dell’ultimo bene, la casa, Alexander aveva immediatamente cercato di prendere contatti per espatriare e l’unico paese dove avrebbe potuto ricominciare avendo già basi solide era il Giappone. Li Michiru sarebbe stata al sicuro e libera di riprendere la sua vita; finire gli studi, magari tornando alla pittura, suonare il suo violino, riallacciare il rapporto con i nonni materni che la lontananza per forza di cose aveva un po’ logorato.

“Dimmi Michi, vedremo anche le famose gru delle quali mi parli sempre?”

“Certamente. Un gruppo nidificò anni fa proprio accanto alla spiaggia sotto la casa dei miei nonni."

“Mmmm. Io che ero un falco dovevo proprio innamorarmi di una gru.” Se la rise sentendola spalla a spalla.

“Tu sei ancora un Turul amore mio. Non credo che riuscirò mai a trasformarti in una gru e a dirla tutta, mi piace che tu non lo sia.”

“Anche se sono uccelli veloci, agguerriti, spericolati ed… indomabili?”

“Si! Anche se sono veloci, agguerriti, spericolati ed indomabili. - Quella ragazzona era questo e cento altre cose ancora. - Ma sappi una cosa; sia i falchi che le gru quando scelgono un compagno o una compagna lo fanno per sempre. Perciò… se mi vorrai, io sarò qui, con te, al tuo fianco, per tutto il resto della vita.”

Improvvisamente la voce di Michiru si fece triste. “Mi sento un’egoista.” Se ne uscì subito dopo aver sospirando piano.

Quante volte negli ultimi giorni lo aveva detto, ritrovandosi a fissare gli occhi verdi della compagna, incapace di pensare che in tal modo aveva salvato anche lei. Quelli stessi occhi che si erano riempiti di tristezza la sera che, prima di dirigersi al molo di Pest, avevano accarezzato per l’ultima volta casa Tenoh. Gli stessi occhi che avevano salutato Mirka e Scada. Gli stessi occhi che avevano ceduto al pizzicore di una lacrima quando l’uomo era riuscito a consegnarle una lettera di Johanna, ancora bloccata dalla burocrazia in un ospedale militare.

Seduta sulla chiglia del barchino che la stava strappando alla sua terra, alla sua storia, Haruka aveva letto quelle poche righe serrando i denti fino quasi a farsi male, abbassando poi la testa poggiando la fronte alle ginocchia. Michiru era stata sul punto di abbracciarla, ma il padre glielo aveva impedito. La bionda era un tipo troppo orgoglioso per non vergognarsi di un simile comportamento.

“Lasciala stare un po’ da sola. Ne avrete di tempo per stare insieme.”

Ad Alexander risultava facile seguire i percorsi neurali di Haruka, forse perché rivedeva in lei Jànos o forse perché la bionda aveva tanti atteggiamenti maschili, come per esempio il vergognarsi di esprimere troppo apertamente i propri sentimenti. Così Michiru aveva ceduto e l'era costato parecchio. Solo in aereo, ormai lontane dal cielo dell’Ungheria, la bionda le aveva fatto leggere la missiva della sorella e si era commossa, capendo ancor di più quanto amore unisse quelle due ragazze.

Tornando a fissare gli occhi blu del suo amore, Haruka divenne seria e come prima di un solenne giuramento raddrizzò la postura portandole dietro ad un orecchio i capelli sconquassati dal vento. “Ne abbiamo già parlato Michi. Ti ho seguita perché ti amo e questo non deve assolutamente farti sentire in colpa. Un giorno tornerò. Non so quando, ma non ho detto addio alla mia patria, agli amici di una vita, o a mia sorella.”

 

 

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh, 10 aprile 1951

 

Afferrando l’ennesima molletta dal cestino dimenticato accanto ai suoi piedi, Johanna sistemò sul filo del bucato l’ennesimo lenzuolo. Il giardinetto sul retro della sua casa era diventato decisamente troppo piccolo per tutti quei panni e se non fosse stato per la meticolosità casalinga di Setsuna, non sarebbe mai riuscita a star dietro a tutto. Un nuovo ed impegnativo lavoro come disegnatrice, la casa nuovamente piena di gente e quest’ultima che dopo il superamento di un lungo inverno in abbandono, necessitava d’interventi urgenti al tetto ed agli infissi.

Gonfiando le guance iniziò a stirare con i palmi delle mani l’ultimo panno. “In che razza di casino sono andata a cacciarmi! Dico io… potevo farmi gli affari miei invece di trasformarmi nella buona samaritana accogliendo tre randagi?!”

Prendendo al volo il manico del cestino entrò in casa sperando che vista l’ora, qualche anima pia si fosse ricordata di fare la spesa. Se qualcuna delle tre non è passata al mercato, questa volta do di matto, pensò proprio mentre un vociare femminile abbastanza concitato si avvicinava alla porta d’ingresso. Una manciata di secondi e l’anta si aprì.

“Ti ho detto che toccava a te e vedi di non fare la solita faccia, perché questa volta hai torto marcio Set!”

Ecco, lo sapevo. Johanna si fermò sullo stipite della sala da pranzo avendo un dejavu.

“Che si rimane senza pranzo anche oggi? No, perché la signora Erőskar non può continuare a sfamarci.”

“Lo so Johanna, ma vallo a dire alla signorina qui presente. Oggi spettava a lei andare al mercato!” Sbraitò Setsuna togliendosi il soprabito mentre l’altra mora le passava davanti con gli occhi iniettati di sangue.

“Non è vero!” Stilò Rei.

“Si che lo è!” Rilanciò la più grande.

“Guarda la tabella in cucina sottospecie di ameba decerebrata!”

“Non fare la cafona con me ragazzina…”

“Perché… se no?!” E Hino si piazzò davanti alla scale mani sui fianchi.

Oddio santa pace che supplizio. Jo sparì prima di cacciare un urlo.

“Pregate iddio che ci abbia pensato Anna. Ma è mai possibile che quattro donne, dico QUATTRO, non riescano a far funzionare una casa. E’ matematicamente impossibile!” Arrivata in cucina ed aperta la porticina che dava sulla dispensa, Johanna ne controllò la desolazione scuotendo la testa.

“Ma che cacchio!” Masticò sbattendo l’anta.

Neanche con Haruka aveva mai avuto tanti problemi. Tralasciando l’emisfero dell’ordine, se alla sorella le si diceva di fare una cosa, la faceva e basta. Ogni commissione, ogni lavoretto. Magari ci voleva un po’, la si doveva pungolare, ma una volta partita la si vedeva andare e venire come una formica operaia.

“Questa casa ha bisogno di un’infinità d’accortezze ed invece non si riesce a star dietro a nulla!” Urlò per farsi sentire dalle altre.

Abbandonando il cestino sulla credenza, la ragazza avvertì nuovamente la porta dell’ingresso aprirsi e sperò con tutto il cuore in un miracolo. Miracolo che le apparve sotto forma di un sacchetto di stoffa mezzo pieno.

“Dio te ne renda merito Annamariah!”

“Avrei potuto scommetterci che nessuna di quelle due iene sarebbe passata per il mercato.” Ammise l’altra cercando di sorriderle.

Le labbra all’insù, ma gli occhi tristi di una madre alla quale avevano strappato la gioia di un figlio.

Jo contraccambiò stirando le sue. Con molta probabilità l’incontro che l’ex capo squadra Shiry aveva avuto quella mattina con il marito era stato infruttuoso come i precedenti.

“Non te lo ha fatto vedere neanche oggi?”

“No.” Rispose laconica iniziando a tirar fuori dal sacchetto la spesa.

Da quando era stata indagata per favoreggiamento, il marito, fervente estimatore del Regime sovietico, aveva impedito alla donna di parlare con il figlio ed anche se una volta concluse le indagini Annamariah era risultata estranea all’evasione, era stata comunque privata di gradi e lavoro, cosa che aveva ingigantito a dismisura l’acredine ed il sospetto dell’uomo. Così un litigio dietro l’altro ed era stato inevitabile finire per separarsi e dato che l’abitazione risultava a nome dell’uomo, Anna era stata addirittura cacciarla di casa. Allontanata dagli affetti famigliari e della sua posizione all’interno della casa della luce, sola, senza neanche un posto dove andare, la donna aveva girato Budapest in lungo e in largo trovando porte chiuse e scuse puerili di ogni genere. Se gli amici si vedono nel momento del bisogno, lei aveva presto capito di non essere stata in grado di seminare affetto a sufficenza e sull’orlo dell’abbattimento aveva trovato in Tenoh un isolotto tranquillo, un porto sicuro, un’amica.

Si erano incontrate per caso, qualche giorno dopo la partenza di Haruka e Michiru per il Giappone. Nel sentire la sua storia, Johanna non aveva avuto remore ad invitarla a stare da lei e complice la tristezza per la perdita della sorella, aveva provato ad istaurare un buon rapporto di convivenza con una donna che poi tanto diversa da lei non era. Ma tutta l’idea che Jo si era fatta era saltata in aria all’apparizione sulla porta di casa Tenou della Direttrice Setsuna Meioh.

“Sono stata licenziata! - Aveva esordito imbufalita valige alla mano. - Adesso che cazzo faccio!”

E cosa avrebbe dovuto fare già con un piede sulla soglia? Entrarci in pianta stabile.

Johanna aveva accettato sapendo già cosa aspettarsi da un tipino come lei. In fin dei conti anni addietro avevano già vissuto insieme, andavano d’accordo ed il rapporto che la ormai ex direttrice aveva con l’altrettanto ex capo squadra era sempre stato buono. Si preannunciava così un bel trittico femminile.

Ed anche questa volta la bomba era esplosa tra le mani di una Johanna ormai rassegnata al fato più bastardo ed arzigogolato che si potesse immaginare. Qualche giorno dopo, i giornali erano stati latori di pessime notizie ed il resto era venuto da se.

“Ragazze avete letto?!” Una sera, con il fuoco nel camino ancora acceso davanti al tavolo apparecchiato della sala da pranzo, Shiry aveva mostrato alle altre due un trafiletto in seconda pagina dal titolo il crollo di una carriera, dove il talento socratico dell’agente scelto Rei Hino veniva messo in ridicolo da un giornalista anche troppo puntiglioso.

“Devo ammettere che mi fa pena.” Terminando la lettura Jo aveva scaraventato il quotidiano sul tavolo guardando le altre.

“Cosa vorresti fare? Aiutare anche lei?" Aveva sogghignato Setsuna sfidandola.

“Non mi è mai stata simpatica, è vero, ma accanirsi con tanta acidità su di lei non mi sembra corretto. Questi giornalisti dovrebbero stare attenti a ciò che scrivono. Ci vuol niente per distruggere la reputazione di una persona e non è giusto.”

“E' il Regime a parlare per loro.”

Caracollando sul divano Johanna si era allora portata le mani dietro la nuca sbuffando. “Non è giusto lo stesso! Come giovane donna, Hino ha faticato più dei suoi colleghi per arrivare dov'era arrivata."

E se per Johanna una cosa non era giusta la si vedeva fare di tutto per cambiare le cose, anche andare in giro per cercare la terza recluta d'affiliare al suo nuovo clan. Così ora erano in quattro e le cose si erano incredibilmente complicate e per questo maleceva la sorella, perché da quando Haruka se n’era andata lei sentiva di essere diventata più disposta verso i guai degli altri, più epatica e vogliosa di compagnia.

“Ti chiamo ameba decerebrata, perché SEI un’ameba decerebrata Setsuna! Ieri a cena ho detto che avrei avuto un colloquio di lavoro. Possibile che non mi ascolti mai!?”

“Rei sei TU che non ti sai spiegare!”

“Non dire idiozie!” Urlò Rei a brutto muso.

“O Dio, ma perché quelle due non si mettono insieme così si scaricano e ci lasciano vivere in pace? - Disse AnnaMariah aprendo la porta della dispensa. - Sono stramaledettamente convinta che farebbero proprio una bella coppia.”

Jo, che sul fronte sentimentale spesso e volentieri mancava completamente d’intuito, le fissò le spalle aggrottando la fronte. “Tu dici?”

“Ma si! Quanto meno eviterebbero di dar fastidio a noi.”

“Mmmm… Per me si ammazzerebbero dopo una settimana.” Poco convinta spostò lo sguardo in direzione delle scale dove intanto l’alterco stava proseguendo.

“Fidati Johanna e comunque ricordati che sei tu che vai in giro per Pest a raccogliere le randagie della casa della luce, perciò non sei nella posizione di lagnarti più di tanto - Scherzò mettendosi una mano nella tasca della gonna tirando fuori una busta bianca con una serie di strani ideogrammi sopra. - A proposito, dimenticavo; tornando ho incontrato il signor Scada.”

Porgendole la lettera la vide trattenere il fiato. “Coraggio, prendila. Mi ha detto che viene dal Giappone.”

Era stata un’idea dell’uomo quella di usare l’indirizzo di un amico, così anche se la Polizia Segreta o la Tributaria avessero voluto ancora tenere d’occhio casa Tenoh, Johanna ed Haruka sarebbero state comunque libere di mantene un contatto.

Afferrandola la più giovane osservò il francobollo con un monte innevato in sommità e poi la girò. E là, una calligrafia dagli scarsi fronzoli, tutta inclinata verso destra, le rivelò chi fosse il mittente.

Volendo lasciarla sola, Anna si defilò con la scusa di andare a sedare l’ennesima rissa casalinga. Poggiandosi al bordo del tavolo a Jo ci volle un poco prima di aprire la busta ed iniziare a leggere quel breve scritto.

 

 

Salve sorella,

siamo per salire sul traghetto che ci porterà al porto della città di Hakodate, dov’è nata Michiru e dove la sua famiglia ci aspetta. Il viaggio è stato lungo. Non sto ad elencarti le sterminate terre che abbiamo dovuto attraversare per arrivare fino a qui, ma tutto sommato è andata bene. Sono quasi guarita.

Mi dispiace di non averti potuto mettere a conoscenza di questo viaggio, ne tanto meno di averti potuta salutare. Ma siamo sorelle, mi conosci e sai cosa provo. Tra noi non c’è bisogno di parole.

Credo che Scada ti abbia già detto quello che è successo in casa Kaioh. Di ciò che hanno fatto per me. Cercare di perdonare è stata una scelta difficile, ma credo sia giusto, come so che dentro di me combatterò ancora allungo per cercare di andare oltre. E’ per questo che ho iniziato a chiamare il padre di Michiru, Alex e non signor Kaioh. Perché per me quell’uomo è morto e sepolto.

Non so cosa diavolo troverò in questo paese. Sono tutti così strani; piccoli, discreti e mi guardano come se fossi un oggetto misterioso e devo ammetterlo, un po’ me la rido, soprattutto quando non capiscono se sono un uomo o una donna. Michiru invece sembra perfettamente a suo agio. Ora capisco dove abbia preso la sua compostezza.

Bando alle ciance, perché stiamo per imbarcarci. Ti saluto, così potrò imbucare la lettera. Ti lascio l’indirizzo della famiglia Kōtei presso la quale andremo a stare. Ti scriverò non appena mi sarò sistemata. Stai tranquilla e cerca di non fare casini.

Ruka

 

Jo deglutì alzando la testa alla credenza inanimata fissa davanti a lei. Il classico stile Tenoh; noncurante, pragmatico, strafottente, ma in realtà quella firma voleva dire tutto e valeva tutto, perché sua sorella non si firmava mai con il diminutivo. Mai.

In quel Ruka c’erano i sentimenti che quella gran zucca vuota non riusciva ad esternare, per pudore o per vergogna. C’era un ti voglio bene, un mi mancherai, un vorrei averti qui, c’era il dolore del distacco e la voglia del ricongiungimento, c’era l’orgoglio di un legame di sangue, il vincolo profondo del loro amore.

 

 

 

NOTE: Ciau.

E così è finita! E’ stata dura concludere questa ff ed ammetto che questo capitolo non è curato come avrei voluto, ma sono un po’ sotto pressione e ho la testa altrove, scusatemi. Vorrei solo dirvi che l'occhio di Haruka e' un tributo al grande duca bianco David Bowie.

Non credo scriverò più storie tanto lunghe… 26 capitoli sono un’infinità :) , sia per chi legge che per chi scrive, ma se arriverà l'ispirazione... Chi sa.

Per un po’ mi concentrerò sulle one-shot legate alle prime due ff che ho composto. Per Natale ho già in mente un siparietto divertente con il nuovo inquilino di casa Tenou-Kaiou.

Vi ringrazio tanto per la vostra dedizione, soprattutto di coloro che mi hanno recensita spingendomi a proseguire. GRAZIE veramente a tutti per il vostro supporto.

A prestissimo!!!

   
 
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