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Autore: Vella    21/12/2018    0 recensioni
La massa si nutre dei nostri fantasmi, alberga dentro la nostra mente e ci impedisce, platonicamente, di rompere le catene.
Quando la norma si scaglia contro il diverso, sarà sempre essa, la maggioranza, a schiacciare il libero arbitrio, la libera scelta.
Greta è una giovane adolescente alle prese con quelle che sono le problematiche comuni di generazioni sempre più assopite e sole. Frequenta una ragazza, Alice. E tutti ne sono felici perché è una cosa comune. Ma cosa accadrebbe se un giorno decidesse di fare coming out e di iniziare ad amare un ragazzo?
“Capovolto” è un progetto sperimentale che ha come unico obiettivo quello di smuoverci e di abbandonare la scelta del gregge, ribaltando i nostri tradizionali punti di vista.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Bondage | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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I.
Dopo che la natura umana fu divisa in due parti, ogni metà per desiderio dell'altra tentava di entrare
in congiunzione e cingendosi con le braccia e stringendosi l'un l'altra,
se ne morivano di fame e di torpore per non volere fare nulla l'una separatamente dall'altra.”

Simposio, Platone
 
Febbraio, 14.
San Valentino
 

«Ti piace un ragazzo?»
Immobilità.
Non era solo il tempo ad essersi fermato, tutto ad un tratto, bloccando la vita mia e di chi mi era attorno. S’era immobilizzato anche il cuore, che di solito sussultava ad ogni domanda, ad ogni insinuazione. Non si dibatteva più nella gabbia toracica. Si era arreso. Mi ero arresa forse anche io?
Avrei dovuto capirlo dalle lacrime che pizzicavano gli occhi, dalle dita che torturavano le pellicine delle unghie.
Avrei dovuto capirlo anzitutto da quello sguardo nocciola, profondamente scosso, che mi guardava con la bocca semichiusa ed il collo così stranamente irrigidito.
Nella stanza era calato un silenzio che qualcuno, sciocco o meno che fosse, aveva pensato bene di descriverlo come assordante.
Non riuscii a tenere testa a mia madre.
Codarda! La mia coscienza urlava fino a far pulsare le tempie: codarda! Lo hai detto oramai, hai sputato fuori la verità vomitandola. Perché sentirsi in colpa?
La luce di un caldo ocra sembrò perdere di potenza, ed il senso di risucchio nel buio mi agitò, mi risvegliò.
Quello stato di sospensione, al di fuori dal tempo e dalla realtà, durò probabilmente a malapena un secondo. Al mio fianco, Alessio si mosse sulla sedia, si schiarì la voce, la sua mano stretta forte sulla gamba di Tommaso.
Il cuore ritornò ad accelerare, perse battiti, li riacquisì, esplose.
Non riuscivo più a riprendere coraggio, a difendermi, a difenderlo. Chinai il capo, il piatto era ancora stracolmo di cibo; sarebbe dovuta essere una serata importante, c’era stata aria di festa e di commozione. L’amore faceva quell’effetto in famiglia, in particolar modo a mamma. Lei era sempre così contenta di ascoltar noi parlare di quel sentimento tanto forte quanto stordente. Perché adesso non trovava parole per rassicurarmi? Perché il mio amore non le faceva esprimere nulla di gentile?
«Greta, rispondimi». La sua voce risuonò acuta, e poi rotta quasi subito da un singhiozzo improvviso, deleterio.
Avrei dovuto dire , è proprio così, che vuoi farci. Devi accettarlo. Tutti voi dovete accettarlo. È andata così e non potete farci niente!, alzando il tono di voce, alzando il mio corpo violentemente. Era come se avessi rotto il vaso più bello del soggiorno, lo avessi urtato in una delle mie corse a perdifiato e adesso non c’era più rimedio, perché non esisteva colla che avrebbe potuto nascondere le crepature di quella realtà così diversa. Ero già esausta.
Mi appoggiai allo schienale e socchiusi gli occhi, come se stessi contemporaneamente chiudendo a chiave i miei pensieri, e furono le sue braccia a stringermi con calore, senza mai lasciare possibilità al calvario della negazione, della regressione di schiacciarmi. La forza di quella nostra verità mi aveva stregato il cuore, e per essa avrei lottato.
Si chiamava Lorenzo. Colui che è cinto dall’alloro.
Colui che mi aveva donato vita.
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Qualche mese prima
 
Era entrato a far parte della mia vita diversi mesi fa. Non contavo più i giorni per non restringere il mio personale infinito in quella stretta e finita realtà. Mi sembrava di star vivendo una trasformazione continua, uno stadio di confusione che in fondo avevo sentito appartenermi da tempi assai più lunghi.
Quella mattina la ricordavo grigia, non c’era il sole a riscaldarmi nel maglione di lino, i corridoi dove solitamente si stava caldi, erano imbarazzanti e freddi.
La sala conferenze affacciava proprio su uno di quelli, gremita di ragazzi.
Le classi del terzo* liceo classico erano accalcate lungo le poltroncine blue e lungo le retro file. Una lavagna multimediale faticava a stare in funzione; l’uomo col microfono camminava avanti ed indietro; c’era energia nella sua voce ed il tono pareva accattivante, quasi di sfida. Vi era dunque un’aria ambigua su un argomento che molti professori trattavano troppe volte con superficialità ingiustificata, che oggi avrei definito con un evidente restio.
In effetti, parlare a degli adolescenti in preda ad un mare di emotività non era mai roba da poco. Le risatine delle ultime file, dove si riuniva chi aveva ben poca voglia di stare a sentire le conferenze, erano ovattate dallo stridio dell’audio fonico; eppure io le sentivo, seduta a metà tra la bassa marea vigile e l’alta marea dormiente.
Era dunque vero che l’eterofobia* non suscitava attenzione, anche se le radio e le televisioni non mancavano di bombardarci con costanza certosina di notizie eterofobe. Il concetto di divulgazione costante non aveva fatto altro che incrementare la nascita di un callo sulle violenze perpetrate. Insomma, la cittadina di V*** non provava più sdegno davanti a simili eventi.
Alice mi stava di fianco, con le gambe accavallate e le converse un po’ sporche. Il suo bel jeans stretto le disegnava delle curve armoniose, ben preparata, femminile. Si girò ad osservarmi, forse mi disse qualcosa, ma non la udii.
«Ehi?!» mi scosse un braccio, e mi ripresi a quel tocco.
Le sorrisi con calore ed appoggiai il mento sulla sua spalla, soffiandole appena nell’orecchio piccolo e grazioso.
«Ho sonno, scusa». Era vero, avevo anche io sonno quel giorno come gli altri. Avevo trascorso la notte a rimuginare su una versione di greco e, proprio come la città di V***, prestavo un’attenzione intermittente a quell’ascolto costretto.
Alice rise, a suo modo. Era così contagioso e divertente. La mano si poggiò sui miei pantaloni sbiaditi e le dita iniziarono a tamburellare verso l’interno della coscia.
«Riposa adesso… così dopo…» mi lanciò un occhiolino, girò il capo nella mia direzione e mi impregnò le labbra screpolate col suo gloss ai frutti di bosco un po’ appiccicoso. Lo ricordo ancora quel sapore, era così dolce che mi riempiva di brividi.
Da lontano, furtivamente, vidi il professor Carrera a mo’ di rimprovero.
Mi sistemai sulla poltroncina.
«Innaturale è il termine che molto spesso sentiamo pronunciare da chi è eterofobo», captai una frase del discorso, senza particolare gioia. Qualcuno sbuffò alle mie spalle prima del grande esordio: «Ma perché, non è una roba innaturale? A me fa schifo. Un uomo e una donna che si baciano in pubblico è una cosa che mi fa senso». Eccolo, il maschio intelligente, Marco.
Il sangue affluì alle mie guance con una rapidità impressionante, mi girai di scatto e lo inchiodai con gli occhi.
«Che idiota sei, Marco. Ma quando ti espellono?» Non ero mai stata brava nell’intraprendere un litigio con qualcuno. Avevo degli ideali, dei valori. Valori di famiglia. Per questo, probabilmente, non fui io a risponderlo. Alice aveva una lingua più sbrigativa della mia, più tagliente ed efficace. Lei ci teneva a queste cose. Io lo sapevo. Per lei l’amore non aveva etichette. Quelle le lasciava agli altri, a chi non s’era mai innamorato veramente. A chi non sapeva cosa significasse il fuoco bruciare dentro. A chi non era stato fortunato, come mi diceva, di incontrare me: il suo mondo.
Mi ritrovai a pensare a mia madre, ai tanti discorsi, a quanto fosse difficile instaurare un rapporto con l’altro, sano.
Non riesco a spiegarmi il vero motivo del perché -a distanza di tempo me lo domando ancora- gli sorrisi. Poggiai una mano sulla testa di Alice ed inclinando appena il capo, dissi: «Marco, sai che Alice è fuori dagli schemi riguardo certe questioni, non essere così esplicito».
Marco divaricò le gambe, non staccava i suoi occhi da quelli di lei; un ragazzo ancora in uno stadio tra l’infanzia e la pre-adolescenza. Era la definizione più giusta. Il suo medio alzato come prova che se l’era chiaramente legata al dito.
«Fifona» sussurrò Alice, girandosi. La scenetta incontrollata perse d’importanza e dopo qualche minuto, l’uomo smise di parlare, una donna alta e dalle guance smunte 
-probabile fosse l’assistente- iniziò a distribuire delle brochure molto colorate, vivaci. ne presi una e l’aprii: vi era un arcobaleno. Chissà perché avevano scelto proprio quel simbolo, quei colori, quella disomogeneità di rappresentazione.
La conferenza era conclusa, le lezioni riprendevano. La massa indistinta di ragazzi si sospingeva verso l’esterno, verso il freddo pungente di quei corridoi.
Il destino, altro che un’accozzaglia di coincidenze, mi impedì di fuggire da me stessa, e me lo avrebbe impedito per il resto dei miei giorni; sulla lavagna apparì di nuovo l’arcobaleno, il relatore era stato circondato da un gruppo sostanzioso di persone. Alice mi schioccò da lontano un’occhiata che non ammetteva repliche, e allora lo vidi.
Lo notai come si notano le persone in generale: distratta, un paio di occhi sfiorati appena, le sue mani cercavano rifugio nelle tasche della tuta, pareva in imbarazzo di fianco ad Alice che, piena del suo spirito guerriero, lo riempiva probabilmente di informazioni sulla giustizia, l’uguaglianza, la parità.
«Sono una branca di idioti in classe tua, davvero. Ma come resisti? Io a quel Marco lo prenderei a schiaffi sul muso tanto da fargli uscire il sangue». Le mie mani le cinsero la vita per cercare di darle un tono più pacato, lei nel frattempo continuava imperterrita sulla scia di insulti e minacce vuote.
Come si presentò? È un ricordo vago che si mischia ad un sapore amaro; il palmo era caldo, più grande del mio, risucchiava dentro la nostra conoscenza. Lo guardai in viso, soffermandomi sulla barba ispida, da liceale, poi sulla voglia rossastra che partiva dal mento e si perdeva nelle pieghe della maglietta.
«Lorenzo»
«Greta».
Mi schiarii la voce.
«Lorenzo va in classe con quel bifolco, stavamo giusto aspettando di parlare con…» s’intromise Alice ed indicò l’uomo della conferenza, «va’ pure, però. Sono discorsi che t’annoiano, lo so».
Era sincera, era energetica. Quanto adoravo quel suo modo di muovere la mascella ripetutamente e le sue mani gesticolare. Era entusiasta, era vera.
Ed io? Cosa ero nei suoi confronti? Ero mai stata sincera fino in fondo? Essermi presa gioco della sua limpidezza restava una colpa che mi portavo dentro, e non c’era farmaco che avrebbe potuto alleviare tale pesantezza dalla bocca del mio cuore.
Quella mattina, mi lasciai alle spalle Alice ed anche lo scudo protettivo che la società aveva costretto che ergessi sui miei sentimenti più profondi.
Lorenzo mi camminava di fianco, non c’era nulla di invasivo nei suoi passi e nel suo tono caldo, così carezzevole. Le nostre aule erano adiacenti, che motivo c’era di non percorrere insieme quella poca distanza, in fondo.
Se non l’avessi fatto forse non avrei dovuto accendere nessun fiammifero, non avrei dovuto dare fuoco a nessuna regola della mia vita. Sarebbe stato un sollievo, certo, ma non ne valeva la pena.
«Io sono arrivato, ci vediamo presto Greta». Seguii quel saluto ed il sorriso gradevole che mi lanciò addosso senza pretese.
Un ragazzo lo precedette nell’entrare in aula, gli scompigliò i capelli arruffati, semi corti.
«Buon giorno, eter*!» si spintonarono, risero. Era imbarazzo quello che vidi dipingersi sul volto definito di Lorenzo. Che razza di nomignolo. I ragazzi avevano questo vizio di chiamarsi eter quasi come se fosse un’offesa. Non avrei mai compreso il meccanismo perverso di quello sfottò. Non dopo una conferenza sull’eterofobia.
Non si girò a guardarmi. Io ero ferma, perdio. Ero impalata su una piastrella dai bordi rossi e lui se ne accorse, eccome… ma gli mancò il coraggio. Me lo avrebbe confessato settimane dopo. Non ebbe abbastanza forza per riguardarmi, e lui non poteva lasciare che trasparisse qualcosa più del dovuto.
E così, non sapevo bene come, iniziai a sudare quando ci incrociavamo tra una pausa ed un’altra. Avevo mai provato quel senso di febbrile eccitazione con Alice? Non è un’attrazione sensata, avrebbe detto mia madre.
Il meteorite dell’insensatezza allora aveva appena distrutto una colonia di certezze in quel pianeta chiamato omosessualità.
 
*(1) terzo anno liceo classico: quinto anno di superiore.
 
*(2) eterofobia: è un termine “coniato” esclusivamente per il racconto in sé. Eterofobia è la paura del diverso, alle volte un termine usato per trattare di omofobia. In questo caso, l’eterofobo è colui che discrimina le coppie eterosessuali. Potremmo definirlo come un gioco di parole tra omofobo ed eterofobo. Ho ritenuto necessario introdurre dei termini specifici per rendere il capovolgimento della realtà il più attinente possibile.
 
*(3) eter: è un termine che sostituisce, in maniera del tutto inventata, il “gay” (a tratti dispregiativo) della società in cui viviamo. Ritenuto necessario sempre per una questione di capovolgimento del racconto.

commento autrice:
per adesso, non ho nulla da dirvi cari lettori!
   
 
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