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Autore: miseenabime    10/01/2019    1 recensioni
"La sensazione è solo una sensazione ma il tuo cervello decide, con una mossa del tutto involontaria e anche un po’ vile, di elaborare una risposta a quella sensazione, e così innesca una serie di meccanismi prettamente chimici che ti vorrebbero indurre ad ascoltare il tuo istinto."
Sono qui, sono qui accanto a te. Ora mi senti. Ora mi vedi. Allora perché mi guardi così?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Carne da macello
 
 
Questa notte
ho più paura di morire,
così, immagino
le tue mani e i tuoi occhi
che si posano
sul mio corpo,
in questa notte scura,
come tutte le altre e
così infinitamente irrilevante.
Le tue mani e i tuoi occhi
che, per un breve istante,
mi salvano
dal niente


Flaminia Colella



Ancora prima di aprire gli occhi sento i piedi piantati a terra e questa staticità mi dà già sicurezza. Guardo davanti a me e capisco perché: la strada, la larghissima via pedonale, è sovraffollata da una calca di persone che non mi permette di distinguere chiaramente nemmeno un volto. Ecco perché il mio metro quadro di spazio vitale mi rassicura, perché respiro, nessuno mi tocca, nessuno mi spinge. Non voglio entrare là dentro.
Poi succede, a volte, di avere una sensazione che è come un piccolo pugno nello stomaco. La ignori e lei cresce. Ai gemelli capita spesso, ai familiari quando c’è una sorta di pericolo, io l’ho sentita la sera che è morta mia zia. La sensazione è solo una sensazione, un piccolo vuoto che si crea nelle viscere e più lo ignori più inizia a risucchiare tutto come una sorta di personale buco nero in miniatura proprio lì, nel tuo stomaco. La sensazione è solo una sensazione ma il tuo cervello decide, con una mossa del tutto involontaria e anche un po’ vile, di elaborare una risposta a quella sensazione, e così innesca una serie di meccanismi prettamente chimici che ti vorrebbero indurre ad ascoltare il tuo istinto. Una persona per nulla razionale non aspetterebbe un secondo ad agire, una persona mediamente razionale valuterebbe l’intensità della sensazione e poi agirebbe, una persona completamente (o, almeno, in maggior parte) razionale valuterebbe le opzioni e poi deciderebbe se agire o meno. Mi piace considerarmi una persona mediamente razionale (l’emotività è un mio limite, o qualità, punti di vista) perciò quando l’improvvisa quanto prepotente sensazione di dover attraversare la strada – l’immensa, enorme strada – gremita di persone mi assale, mi fermo prima a ponderare i fattori.
Sono nel mio quadrato, nella mia comfort zone, qui sto bene, posso muovermi, c’è aria. Due passi in avanti e la prima cosa che succederà è che smetterò di respirare, sentirò le braccia e le gambe solo in funzione degli spintoni che riceverò, non vedrò niente, non riuscirò a muovermi, non respirerò, non respirerò.
Ma il campo gravitazionale del mio buco nero è così intenso e violento che restare ferma potrebbe essere un’agonia peggiore della calca. L’istinto vince sulla sua forma più primordiale – la paura – e conto uno, due, tre passi in avanti.
Al secondo sento già gli spintoni, al terzo sono completamente sommersa da un mare di persone. Da piccola sono quasi annegata, in una piscina pubblica, mentre una bambina mi spingeva sott’acqua per restare a galla e io cercavo di risalire ogni volta, sotto le sue spinte. Tanta apnea, poca aria. La sensazione è la stessa. Cerco di farmi strada – permesso, mi scusi, scusatemi, permesso – ma non mi muovo nemmeno di un metro. Sento il panico che inizia a crescere, perché non respiro. Cazzo, non respiro. Non respiro. Mi serve aria. Non respiro. No così non va bene, così inizia l’iperventilazione, stai calma. Ma non respiro. Oddio, non respiro. Dov’è l’asfalto, dov’è il cielo, come esco da qui. Ho bisogno di respirare. Devo uscire.
Nemmeno ho il tempo di pensare di fare uno, due, tre passi indietro che vorrei piegarmi e urlare dal vuoto che sento, che preme contro il mio torace dall’interno, che mi schiaccia gli organi e mi ordina vai avanti. E in quel momento so che devo attraversare questa cazzo di strada, a qualunque costo. Non so cosa ci sia dall’altra parte, non so se ci sia qualcosa dall’altra parte, ma devo farlo. Schiena dritta, sguardo in avanti e basta con i permesso, mi scusi, ora spingo anch’io, più forte degli altri, per quanto mi concedano le mie spalle che, probabilmente, non sono mai state così forti. Sono io che urto le persone ora, sono quasi caduta un paio di volte per qualche scontro con qualcuno più imponente di me – sono sempre e comunque una ragazza discretamente minuta – ma non mi sono mai fermata. Poi li conto di nuovo: uno, due, tre passi. E sono fuori.
C’è un ponte. Per un attimo mi ricorda Verona. Ma questo ponte è decisamente più grande, la strada all’interno decisamente più trafficata, i marciapiedi ai lati decisamente più deserti e, improvvisamente, è notte. Ci sono tantissime luci, tantissimi cavi che scendono dalle alte torri di pietra che sorreggono e accompagnano il ponte in tutta la sua lunghezza, sembrano svilupparsi direttamente con e da lui. Il pavimento dei marciapiedi è di marmo (è qui che ricorda Verona) il muretto che li affianca è di chiara pietra levigata, ma con i pesanti mattoni che non coincidono mai perfettamente. Ho messo a fuoco dove mi trovo, ma perché lo spasmodico istinto di arrivare qui?
E poi la vedo, l’unica cosa con un’attrazione gravitazionale talmente forte da farmi passare per uno dei miei peggior incubi pur di avvicinarmici. Sei appoggiato al muretto e guardi distratto il fiume.
Mi avvicino. Mi accorgo che non sei distratto. Non sei nemmeno concentrato, forse un po’ perso. Non sono più nemmeno sicura tu stia guardando il fiume sottostante o, semplicemente, il vuoto. Hai i capelli un po’ più lunghi e un po’ più spettinati rispetto all’ultima volta che ti ho visto. Il tuo profilo è chiaro contro l’oscurità del cielo notturno che sembra inghiottire tutte quelle tante – tantissime – luci che ci circondano. Gli occhiali non mi impediscono di vedere i tuoi occhi – quanto mi sono mancati. Non riesco a vedere se porti il mio braccialetto.
Dieci passi e sono accanto a te.
 
«Lorenzo». Non mi rispondi. Non ti volti nemmeno. Mi ignori, penso.
«Lorenzo stai bene?» e mi è chiaro, non è che mi ignori, non mi senti proprio.
Ti chiamo ancora. Niente. È come se tra noi ci fosse una barriera, come se fossimo nello stesso posto ma su linee temporali differenti e io fossi in grado di vederti solo grazie a qualche squarcio nel tessuto spazio temporale. Persino l’aria, intorno a te, sembra diversa. È come se tutto quello che ti circonda avesse assunto un aspetto statico, sfocato, fuori dalla dimensione sensoriale. Ho la sensazione che avvicinandomi troppo le mie molecole possano iniziare a sfaldarsi e ridursi in tanti piccoli atomi che vadano ad unirsi all’aura irreale e inconsistente che ti circonda.
Non capisco, sono proprio qui, accanto a te, come puoi non sentirmi. Non mi piace la tua espressione, ancora non riesco a capirla. Quello non è un sorriso, quello non ha niente a che vedere con i sorrisi che ti ho visto fare. Nei pochi momenti in cui ho creduto di vederti felice non avevi quello sguardo. Allora cosa stai guardando, a cosa stai pensando, perché non mi senti. Non riesco nemmeno a toccarti. Eppure sono qui, guardami, ascoltami, sono qui, sono sempre io, con gli stessi capelli rossi e – forse non te lo ricordi – gli stessi occhi verdi. Com’è possibile che tu non mi senta. Mi hai sempre – quasi – ascoltata. Mi hai sempre – quasi – parlato. Urlo. Niente. Ora il tuo viso perso nel vuoto mi fa davvero paura. Non riuscire a parlarti mi fa davvero paura. Le tue mani, le tue falangi bianche e le tue nocche rosse per la pressione sulla pietra mi terrorizzano.
Poi succede. Il tempo sembra subire un arresto improvviso, il traffico rallenta all’inverosimile, non sento più nemmeno il vento sulla pelle mentre tu, con una calma spettrale, ti volti verso di me. Per un attimo non sono ancora sicura tu mi veda, poi mi guardi dritto negli occhi e sono impietrita. Sono sicura che stai osservando me, mentre inizi a farmi uno dei discorsi più agghiaccianti, orrendi e mesti che abbia sentito. Non lo scorderò mai.
«Il mondo è solo l’ombra di sé stesso. Le case sono solo forme geometriche, i contorni sono solo linee indefinite, le luci sono solo pallide sfumature incolori, nebbia sul lerciume. La realtà non ha più significato. Gli oggetti sono solo oggetti, il pieno diventa improvvisamente vuoto, chi ti circonda è aberrante e ignobile. Guardi tutto da un punto lontano e non riconosci niente, non ti riconosci in niente, non percepisci assolutamente niente. È tutto straordinariamente insignificante. E tu, tu sei la più straordinaria tra le cose insignificanti, assolutamente ridicola e patetica.
E se il giorno è senza scopo, la notte è il tormento. Arrivano la notte. Hanno lame come artigli, informi esseri dal nero più profondo che si possa immaginare, ti cacciano, continuamente e, prima o poi, ti trovano. Ti trovano sempre. Anche quando pensi di essere al sicuro, anche quando pensi di essere lontana anni luce, dall’ombra più vicina e inaspettata ti braccheranno. E ti faranno urlare. L’urlo è sempre più forte e ti squarcia la gola, stride sui muri e ti fa esplodere il cranio. Mi piacerebbe sentire i tagli, mi piacerebbe sentire la pelle ridotta a brandelli, mi piacerebbe sentire le ossa che si spezzano. Mi piacerebbe sentire il dolore. Tutto è assolutamente inconsistente nel torpore dell’apatia. Mi piacerebbe sentire almeno la paura. Tu, è la paura che ti tiene in vita, per il resto sei solo carne da macello».
Come hai iniziato, finisci. Continui a fissarmi e io non riesco a distogliere lo sguardo dai tuoi occhi, mentre mi sembra di essere squarciata in due. È il momento in cui tutto il peso del mondo mi crolla addosso, posso sentire ogni specifico osso del mio corpo fracassarsi, ogni fibra di muscolo dilatarsi fino a spezzarsi e il sangue gelarsi nelle vene. Sento tutto questo eppure, improvvisamente, il peso del mondo, il peso che prima mi stava schiacciando diventa quello di una piuma. Il mondo è leggero come l’aria ma le mie ossa continuano a spezzarsi, sotto il peso di un fardello invisibile e sotto il peso di quello che irradiano i tuoi occhi. Raggi di un miscuglio di emozioni indefinite che ancora non riesco a identificare, non so se ci fosse disperazione, angoscia, noia, dolore, ira, dispiacere, forse anche un po’ di affetto. Forse no. Di qualsiasi cosa fossero composti, quei raggi bruciavano la mia pelle come se fossi sulla superficie del sole – mi piacerebbe sentire la pelle ridotta a brandelli.
Sono totalmente e irrimediabilmente terrorizzata – per il resto sei solo carne da macello.
Poi smetti di guardarmi e ti volti, lentamente, di nuovo verso il fiume.
Mi colpisce al centro del petto, in un punti preciso come se fosse stata scagliata da una freccia, la consapevolezza di quello che hai detto. Tu non hai mai sprecato parole. Se mi hai detto quello che mi hai detto, l’hai fatto per un motivo. E io non lo capisco. E tu ora non mi guardi più. Dura solo qualche secondo il momento di dubbio, in cui non sono sicura di voler davvero capire, di voler davvero sapere, perché ancora non mi sento le gambe e l’aria nei miei polmoni brucia da morire. Dura solo qualche secondo perché poi ti guardo e, nonostante il bordo degli occhiali, vedo i tuoi occhi marroni, le tue ciglia nere, e poi il tuo naso, il profilo delle tue labbra, i tuoi zigomi e le tue guance – no, non pizzicarmi! – e poi di nuovo i tuoi occhi. E penso che sei lo stesso per cui ho attraversato, da parte a parte, una delle mie più grandi paure, e chissà cos’altro farei per te. Non credo ci sia qualcosa che non farei per te.
Voglio capire, non importa il dolore, quindi «Lorenzo» ti chiamo.
E tu, stavolta, ti giri subito.
Mi guardi.
Non stai piangendo, ma sono sicura vorresti farlo.
Non stai piangendo, ma io sto piangendo.
Sto piangendo perché tu mi stai guardando e io conosco troppo bene quello sguardo, l’ho visto riflesso tante volte.
Sento la pressione sulla superficie fredda della pietra aumentare, mentre appoggi la tua mano sulla mia.
Mi vedi.
Mi senti.
Posso toccarti.
Allora perché mi guardi così.
«Mi dispiace» dici.
Perdo la tua mano.
Urlo.
Mi sveglio.
  
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