Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    12/01/2019    1 recensioni
«Che vorresti fare in futuro?»
Un sospiro, poi il suo viso che si illuminava.
«Stare con lui.»
Esitò, come se avesse pronunciato parole troppo grandi per la sua bocca.
«Non come… ecco, voglio stare con lui nel senso che mi basta stargli vicino. Mi va bene essere la sua bambina. Non voglio altro. Davvero.»
La pensava sul serio così a quel tempo. Non aveva ragione di mentire. Lui era stato un re, era l’uomo che l’aveva salvata, che le aveva donato una nuova vita. Medina sapeva perfettamente che cosa lui avesse perso nella tragedia di Tartesso, sua moglie e i suoi figli oltre alla sua terra. Sapeva di essere piccola, che lui non avrebbe mai visto in lei una donna. Lo rispettava troppo, così come rispettava la memoria di Sana’a. Se non poteva smettere di amarlo, sarebbe stata sua figlia. Almeno così avrebbe avuto un motivo valido per stargli accanto. Avrebbe avuto un posto nel mondo e qualcuno da rendere felice, qualcuno a cui volere bene.
Non avrebbe cambiato idea mai più.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Elusys Ra Arwol, Medina Ra Lugensius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Tangeri, 1° gennaio 1892
 
 
 
Che lui non la amasse era impossibile.
Ne ero convinto e buttai là l’argomento un giorno che eravamo entrambi soli.
«È innamorata di voi», gli dissi.
Non le facevo un torto. Lui se n’era accorto da tempo, come avrebbe potuto non farlo? Tutti l’avevamo notato. Lei aveva sedici anni ed era una ragazzina bella quanto inesperta dell’amore e di tutti i suoi trucchetti. Così, si scopriva. Lo guardava, soprattutto, cercando di non farsi notare ma con una luce negli occhi che la rendeva più graziosa di quanto già non fosse. Poi arrossiva.
Io mi chiedevo cosa ne pensasse lui, Elusys.
Cosa vedesse davvero in quella ragazza.
In quel periodo della sua vita non pensava ad altro che al Nautilus, alla vendetta. Ascoltò le mie parole e restò in silenzio, con gli occhi rivolti alla finestra.
«Non ho tempo per l’amore».
Quello sarebbe stato il suo ritornello per molti anni, eppure ancora oggi non so quanto ne fosse davvero convinto. Aveva dubbi, certo, ed erano i dubbi che qualsiasi uomo adulto con un minimo di morale si sarebbe posto. Era il responsabile materiale della morte dei genitori di lei, Medina, e dello sterminio di tutto un popolo. L’aveva salvata, ancora bambina, l’aveva consolata nelle notti in cui aveva incubi, l’aveva tenuta stretta a sé come avrebbe fatto un padre. Era più grande di lei di più di vent’anni. Pensava che quella di Medina fosse un’infatuazione passeggera, la fantasia di un’adolescente. Non voleva rischiare di rovinare la reputazione e la vita di una fanciulla così giovane.
A quel tempo, quando vivevamo ancora a Tangeri, ben prima che il Nautilus venisse varato, pensavo anche io che tenesse a lei come a una figlia. Non mi sorprese, quindi, quando mi disse che intendeva adottarla legalmente. Non gli nascosi però le mie perplessità. Certo, era comprensibile che vedesse in lei una sostituta della piccola Nadia, ma adottarla significava di fatto legarla a lui per sempre e trascinarla, probabilmente, nell’inferno che stavamo mettendo in piedi.
No, lui rispose. Voleva solo permetterle di vivere la vita che desiderava, qualsiasi essa fosse stata. La vita che meritava, perché era stata così forte da essere la sola a sopravvivere.
E, col nome di Elusys Ra Arwol, avrebbe potuto usufruire di tutte le sue risorse.
Ora è necessario che io torni indietro, che spieghi cosa avvenne nei tragici giorni – mesi – del colpo di stato e che racconti qualcosa anche della mia, di vita.
Io, Raoul, capo macchinista del Nautilus, non sono nativo di Tartesso. Né, se è per questo, lo sono gli altri sopravvissuti alla catastrofe. Medina, a parte Elusys, è l’unica che sia appartenuta davvero a quella terra.
Al tempo lavoravo al palazzo reale di Tartesso come ingegnere capo. Mi ero stabilito in città da lunghi anni, quand’era ancora vivo il precedente sovrano, ed ero stato chiamato a corte proprio da lui. Ci eravamo incontrati durante un suo viaggio di rappresentanza e ci eravamo subito intesi, mi aveva illustrato i suoi propositi di restaurare un importante monumento della sua gente chiamato Torre di Babele. Non aveva cattive intenzioni, naturalmente, il suo voleva essere un omaggio alla civiltà di Atlantide e nulla più. Aveva un carattere pacifico e suo figlio sarebbe diventato simile a lui. Mi propose, come ho detto, di trascorrere qualche tempo in città in modo da poter studiare la tecnologia di Atlantide. Sarebbe stato utile anche a me, come ingegnere. Lui non voleva in alcun modo che la scienza di Atlantide divenisse strumento di morte, voleva semmai usarla per migliorare il mondo.
I pochi mesi di permanenza che avevo previsto divennero decenni. C’era così tanto da fare, da studiare! Tartesso era la manna per chiunque si occupasse di scienza o di meccanica. Così mi stabilii definitivamente in città, trovai una moglie ed ebbi figli e nipoti.
Nemesis Ra Argol era, al tempo, Primo Ministro del regno. Se già all’epoca nutrisse qualche proposito di conquista verso il genere umano io non ne ho sinceramente idea. Non si comportò mai in modo da destare sospetti, anzi fu sempre, apparentemente, devoto alla città di Tartesso, ai sovrani e alla popolazione. Il giovane Elusys, già promesso sposo alla bella Sana’a, era in Europa a completare i suoi studi. Il regno prosperava e nessuno avrebbe mai potuto prevedere la piega tragica che avrebbero preso gli eventi di lì a qualche anno.
Il primo cambiamento fu la morte del sovrano. Il re morì all’improvviso ed Elusys, rientrato in fretta e furia dalla Spagna, fu incoronato di lì a pochi giorni. Seguì il matrimonio con Sana’a, una fanciulla di pura e nobile stirpe atlantidea come ne restavano ormai poche a Tartesso.
I figli di Atlantide che erano sopravvissuti alla guerra fratricida, quelli scesi dal Blue Noah, avevano fondato la fiorente civiltà di Tartesso apportandovi tutte le conoscenze della loro stirpe. Avevano sentito il bisogno, però, essendo in pochi, di schiavi da poter utilizzare come manodopera. Così siamo nati noi umani, da esperimenti genetici e col solo scopo di essere la servitù di una razza superiore per tecnologia e forza vitale. Provarono coi cetacei, poi con le scimmie. Finalmente riuscirono.
Ignoravano però una delle conseguenze delle loro azioni, quella che avrebbe condotto il loro sangue puro sull’orlo dell’estinzione. Crearono degli esseri in tutto simili a loro nell’aspetto, ma più deboli e non dotati dei loro poteri o della loro intelligenza e conoscenza. Nel giro di qualche generazione, però, per ciò che sempre accade alle schiave soprattutto di sesso femminile, era venuta a crearsi una stirpe di meticci. Nel corso dei secoli, fatta eccezione per quelle poche famiglie che riuscirono a mantenere pura la linea, i geni di Atlantide si diluirono nel sangue umano e si ridussero, infine, appena a qualche goccia nella maggior parte della popolazione di Tartesso.
Tornando a quei giorni, Elusys si rivelò un sovrano illuminato come il suo predecessore. Nonostante l’evidente superiorità della tecnologia di Atlantide e il fatto che potesse a buon diritto governare il mondo degli uomini, a lui interessava una convivenza pacifica e improntata alla discrezione. Tartesso, geograficamente, era un luogo piuttosto isolato. Situata in un altopiano dell’Africa centrale, era posizionata esattamente in mezzo al lago originatosi nel cratere dello schianto del Blue Noah ed era ulteriormente protetta dalle alte pareti del cratere stesso. Infine, una cupola originata artificialmente grazie al potere delle Pietre Azzurre completava l’opera. Si trattava davvero di una città-fortezza potenzialmente inespugnabile a meno che non si avessero i mezzi per entrare all’interno.
Elusys ne aveva, tuttavia, almeno in parte aperto le porte.
Aveva permesso l’ingresso ad alcuni come me, ricercatori, ingegneri, scienziati, e aveva lasciato che studiassero a palazzo. Io e altri due, quelli che poi sarebbero sopravvissuti alla catastrofe, addirittura lavoravamo regolarmente a palazzo.
Ignoravamo, a quel tempo, la minaccia che cresceva nel ventre di Tartesso. Ignoravo, come tutti, le idee venefiche del Primo Ministro Nemesis Ra Argol. Era stato sempre fedele, attento, rispettoso dei bisogni del popolo. Era profondamente amico di Elusys, di cui era più grande di una decina d’anni, e non aveva mai fatto cenno alle idee che iniziavano a riempirgli la mente. Osservava, però, il declino della società umana. Osservava le guerre, la povertà, vedeva negli uomini un germe di malvagità che andava estinto o, almeno, indirizzato. Avrebbe voluto che Atlantide, che aveva creato gli umani, riprendesse il suo posto quale legittima forma di vita superiore. Con la forza, se necessario. Elusys, però, la pensava in modo diametralmente opposto. Consapevole che la Terra apparteneva ormai agli esseri umani, non si sentiva in diritto né vedeva la necessità di usurpargliela. Aveva sempre amato la vita e la Terra, per questo aveva deciso di diventare un biologo.
Non avevamo idea di quel che Nemesis aveva, nel silenzio, cominciato a progettare.
Non avevamo idea che stesse pian piano trascinando a sé le guardie di palazzo, numerosi scienziati, ingegneri e medici, affascinati dal suo carisma e dalla prospettiva di un potere illimitato.
Tutti si fidavano di lui.
Perciò, quando parlò di completare la ristrutturazione della Torre di Babele, sembrò che lo facesse soltanto per amore dell’architettura e per dare lustro a un passato perso nei millenni ma che nessuno degli abitanti di Tartesso aveva mai davvero dimenticato. Proprio la Torre di Babele, invece, era il fulcro del suo progetto. Conosceva perfettamente, come ogni abitante di Tartesso, la natura delle Pietre Azzurre e della loro energia. Quello che nessuno sospettava, però, era che avesse intenzione di usarle per soggiogare il mondo.
Accadde a pochi giorni dal termine del restauro della Torre, col principe Vinusis ancora bambino e la piccola Nadia in fasce. Con l’aiuto di alcune delle guardie corrotte, Nemesis organizzò un falso attentato a palazzo. L’esplosione la videro tutti, a Tartesso, la stessa Medina mi avrebbe raccontato di averla scorta perfino da lontano, nei campi. Il panico si diffuse. Nemesis, il Primo Ministro, proclamò immediatamente l’emergenza e si fece garante della sicurezza pubblica. Con la scusa di garantire la loro sicurezza rinchiuse i sovrani nell’ala più protetta del palazzo e finse, per poco, di indagare sui mandanti dell’attentato.
Poi tolse loro Vinusis e li imprigionò, stavolta davvero, impedendo loro con la forza di uscire.
Quando si resero conto di ciò che stava accadendo, che la maggioranza delle guardie di palazzo era corrotta e quelli ancora fedeli erano ormai stati uccisi, fu troppo tardi.
Nemesis, o dovrei ormai dire Gargoyle, aveva già proclamato il golpe.
Noi scienziati e ingegneri ci salvammo perché gli eravamo utili, ma dovemmo giurare fedeltà.
Scoprimmo così che quel progetto di morte era a un punto ben più avanzato di quanto potessimo immaginare. Aveva recuperato tre navi volanti da guerra di Atlantide da chissà dove, le aveva rimesse in funzione e armate con quanto di più potente la tecnologia bellica di Atlantide avesse a disposizione. Come Primo Ministro aveva avuto, inoltre, molti anni a disposizione per farsi degli alleati fra i sovrani dei governi avidi di potere. Aveva ingannato tutti.
La prigionia si prolungò per un anno circa e la prima a farne le spese fu Sana’a, la nostra sovrana, a cui nel frattempo avevano tolto anche Nadia. Venne uccisa quando capirono che non avrebbe mai consegnato la Pietra Azzurra di sua spontanea volontà e appena Vinusis fu abbastanza cresciuto da poter utilizzare le facoltà della pietra. Quando, insomma, non ebbero più bisogno di lei se non da morta.
Non lo dissero a Elusys.
Gli fecero solo la grazia, ridotto all’ombra di se stesso com’era, di lasciarlo assistere al funerale.
Le anime degli atlantidi dopo la morte percorrono la Strada degli Dei. Vengono inglobate, cioè, all’interno delle Pietre Azzurre e divengono parte fondante della loro energia. Questo loro lo sapevano bene, e avevano un solo utilizzo per l’anima di Sana’a, ormai. Dentro la Pietra Azzurra, avrebbe fornito energia per la Torre di Babele. Elusys tentò di opporsi, non ci riuscì. Gli spararono, quasi lo uccisero.
Allora capimmo che dovevamo agire.
La Torre di Babele, caricata con la Pietra Azzurra, era molto più di un’arma di distruzione di massa: era una bomba che avrebbe messo a rischio l’intero pianeta.
Fu una fortuna che Elusys fosse ferito, segregato all’interno del suo palazzo ma non in isolamento. Noi, col nostro lavoro che serviva a Gargoyle, godevamo di discreti privilegi e potevamo andare e venire per il palazzo senza essere disturbati più di tanto. Certo facevamo attenzione. Non potevamo rischiare che ci notassero mentre parlavamo con Elusys. Lui ebbe chiaro da subito ciò che andava fatto. La Pietra Azzurra andava rimossa e lui era il solo che potesse farlo. Non perché era un atlantide, no. Se la Pietra era inattiva, anche un qualunque essere umano la poteva toccare. Voleva farlo lui, disse, perché la responsabilità era sua. Di qualsiasi cosa fosse accaduta. Nemmeno lui aveva idea di come sarebbero andate le cose perché, in effetti, la Torre di Babele era disattivata da millenni. Se ne conosceva la funzione originaria, rimandare a casa le anime sperdute degli atlantidi, ma nel momento in cui la Terra era diventata casa, la funzione era andata persa. Era rimasta l’arma, ma anche lì soltanto in teoria. Elusys non era onnisciente, non poteva averne idea.
Così pianificammo la sua evasione e la conseguente fuga, preparammo dei piccoli bagagli da portare con noi. Io ho un solo rimpianto: quel giorno non ebbi il tempo di avvertire la mia famiglia. Avevo evitato di parlar loro del piano così che, se anche gli uomini di Gargoyle avessero sospettato qualcosa, non avrebbero potuto estorcer loro alcuna informazione. Neppure usando la tecnologia avanzatissima di Atlantide per studiarne il cervello e le reazioni mentre li interrogavano. Sarebbero stati più al sicuro, pensavo. E invece venne il giorno che avevamo prefissato e si accorsero della fuga di Elusys. Certo avevamo messo in conto l’ipotesi di essere scoperti e avevamo manomesso i sistemi di sicurezza facendo in modo di garantirci una via di scampo. Tuttavia, si svolse tutto così rapidamente che avemmo appena il tempo di fuggire.
Così, mentre Elusys staccava la Pietra dalla Torre, io e il capo della sezione scientifica, che pure si sarebbe imbarcato sul Nautilus, andammo a cercare la Pietra Azzurra di Elusys. Gliel’avevano tolta, naturalmente, ma sapevamo dov’era custodita ed era indispensabile che venisse via con noi. Il re, d’altra parte, ne era il solo e legittimo custode. La via era sgombra, perché quasi tutti ormai erano accorsi verso la Torre di Babele.
Ricordo il fremito dell’aria e quel singolo istante di silenzio prima della luce.
Fu un attimo di perfetta quiete.
I brividi ci corsero lungo la schiena.
Scappammo, corremmo verso i piani sotterranei con quanto fiato avevamo in gola. C’erano dei tunnel lì, che dal palazzo comunicavano direttamente con le rive del lago che circondava Tartesso e con l’esterno. Non avevamo dubbi che Elusys ci avrebbe raggiunti.
Dopo il silenzio arrivò la luce, accecante. Sentimmo rumore di vetri in frantumi, il rombo dei muri che crollavano, il calore. Non vi furono urla, perché, scoprimmo poi, la gente non aveva neppure avuto il tempo di accorgersene. Era stata una frazione di secondo, intensissima.
Chi non aveva trovato un riparo era stato mutato in sale.
Chi l’aveva trovato era morto a causa dei crolli, degli incendi, dell’inondazione.
Rimasero solo rovine.
Non potemmo portare con noi la piccola Nadia perché non sapevamo dove fosse, se fosse viva o morta o chissà che altro. Da mesi Gargoyle ne aveva fatto perdere le tracce. Sopravvisse, l’avremmo scoperto molti anni dopo, non solo per la sua natura di atlantide ma anche e soprattutto grazie a Vinusis che riuscì a teletrasportare da lei la Pietra Azzurra che il re aveva tolto dalla Torre.
Il potere della Pietra e l’amore di Sana’a avrebbero protetto la principessa per tredici lunghi anni e l’avrebbero, infine, guidata da suo padre.
Noi, quando arrivò l’inondazione, ci eravamo riuniti con Elusys ed eravamo già piuttosto lontani.
Fu Medina a raccontarmi cosa accadde, nel corso dei mesi che seguirono.
Come abbia fatto lei a sopravvivere è qualcosa che non riesco a capire, che non so se attribuire al caso, alla fortuna o al destino. La trovammo appoggiata a un costone di roccia, semisvenuta. La notai io, o meglio notai i suoi capelli biondi. Anche coperti di polvere, spiccavano contro la roccia ed erano colpiti in pieno dai raggi del sole. Già quello sarebbe bastato a far capire che proveniva da Tartesso. Non c’erano altri centri abitati nel raggio di miglia e, comunque, nessuno fra gli abitanti dell’Africa centrale avrebbe mai potuto vantare dei capelli di quel tipo. A meno che non avesse sangue di Atlantide nelle vene.
Si avvicinò lui, le chiese come si chiamava.
“Medina”, lei rispose, “Medina Ra Lugensius”.
Quel cognome era un’altra conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno. Tutti quelli che possedevano la particella Ra nel cognome discendevano da Atlantide, pur se alla lontana.
Lei stava rannicchiata, coperta di polvere e graffi.
Quando alzò gli occhi, blu, bellissimi, capimmo che era una ragazzina di poco più di dieci anni e che era scioccata e spaventata. Elusys le parlò sottovoce, non capii cosa le disse, poi le tese la mano e lei, di rimando, sorrise. Gli prese la mano, barcollò e poi si alzò in piedi.
Non si abbandonarono più.
All’epoca non capii quanto sarebbe diventata importante per lui, anche se col senno di poi avrei dovuto. Ricordo che Elusys, appena prima che lasciassimo definitivamente Tartesso, si aggirava per le rovine con lo sguardo perso nel vuoto, come se a malapena si rendesse conto di ciò che era davvero accaduto. In quel momento, invece, aveva sorriso a Medina e l’aveva guardata con gli occhi di prima. Era felice. Felice perché almeno una persona della sua terra si era salvata.
Le chiese se riusciva a camminare.
Sì, la bambina rispose. Ma non mangiava da giorni, era chiaro, così Elusys la prese in braccio e la portò per un po’, finché non ci fermammo a mangiare qualcosa. Avevamo provviste per settimane di viaggio. Nei primi tempi non parlò molto. Aveva dei lividi addosso, ferite causate dall’onda d’urto dello scoppio della Torre di Babele, che l’aveva sbalzata lontano. Non aveva più le scarpe, ma non sembrava importarle.
«Riesco a camminare anche senza», disse soltanto.
Non lo mettevamo in dubbio, ma Elusys le acquistò ugualmente un paio di scarpe nel primo villaggio in cui ci fermammo. Lei parlava poco, ancora sconvolta, ma pian piano i giorni passarono e riuscì a raccontare per sommi capi quello che le era accaduto. Scoprimmo così che aveva perso i genitori e il fratellino, che ne aveva raccolto il cadavere e l’aveva visto frantumarsi fra le sue mani. Io tacevo, cercando di ignorare il dolore che mi pungolava il cuore. A differenza della bambina, sapevo perfettamente cos’era accaduto. Non incolpavo Elusys, però. Ero consapevole che non c’era stata altra scelta. Avrei pianto mio figlio e mio nipote per tutta la vita, ma non mi sarei mai lasciato divorare dall’odio.
Medina era una ragazza intelligente, questo lo dimostrò subito. Non era morta nell’esplosione, capimmo, perché i suoi genitori le avevano fatto da scudo. Quando s’era svegliata aveva trovato suo fratello e, incapace di sopportare quell’orrore, era scappata. Per nove giorni aveva vagato e, malgrado la sofferenza, aveva continuato a vivere. Era stata senza mangiare ma aveva dormito e trovato acqua da bere. Non si sentiva in colpa per essere viva, perché non aveva idea di cosa fosse davvero accaduto. Capì, però, che le mura naturali del cratere in mezzo a cui si trovava Tartesso erano state intaccate dall’esplosione. L’istinto le suggerì così di uscire dal cratere, di muoversi verso il versante in cui il lago che circondava il cratere era più basso. Lei viveva in una zona periferica della città, conosceva i dintorni molto bene. Così fuggì, riuscì a evitare l’inondazione del lago.
Quella che uccise più di quanto fece lo scoppio della Torre.
Di Tartesso, lo apprendemmo dalla sua bocca, non era rimasto più niente.
Si diresse verso quello che sapeva essere il più alto fra i valichi rimasti percorribili e fu così che ci incontrammo, perché anche noi avevamo scelto quella via. Arrivò a quel costolone di roccia accanto a cui crollò, completamente sfinita e smagrita da dieci giorni di digiuno, terrorizzata.
Eppure guardò Elusys e trovò la forza di sorridergli.
Fu anche per questo, io credo, che lui riuscì a non lasciarsi mai davvero andare. Poco importava quanto i suoi incubi lo perseguitassero. Fu grazie al sorriso di quella bambina se non si fece mai divorare del tutto dall’odio. Aveva perso tutto ma poteva ancora prendersi cura di lei, spinto da un misto di senso di colpa e affetto. Di tanto in tanto, durante il cammino, Medina mostrava segni di stanchezza. Allora lui la prendeva in braccio, se la caricava sulla schiena, e lei s’addormentava così, con la testa poggiata sulle sue spalle.
Ricordo che, in quei primi giorni, dormì come un sasso.
Era tanta la stanchezza accumulata, ed era bella la sensazione di essere finalmente al sicuro.
Col passare dei giorni, però, iniziò davvero a capire cos’era accaduto, la portata di quanto aveva perso. Udì lo scoppio, il sibilo dell’onda d’urto, le urla, i gemiti dei sopravvissuti. Sentì sulla pelle il calore del fuoco, il sangue, il corpo di suo fratello che andava a pezzi. Rivisse quei giorni tremendi nei suoi incubi.
E mi resi conto che per lui era lo stesso.
Neanche lui riusciva a dormire di notte.
Lo capii perché una mattina li trovai addormentati, lei rannicchiata contro di lui, ed ero certo di averla lasciata in un’altra stanza la notte prima. Elusys s’accorse di me, si svegliò, mi osservò con negli occhi un misto di tenerezza e colpa. La stringeva appena, come se avesse avuto fra le braccia un uccellino. Lei era proprio così a quei tempi, ossuta e piccola per la sua età, tutta ginocchia e gomiti. Avremmo dovuto sapere, però, che dietro la sua apparenza fragile era lei la più forte di tutti. Fu la gioia della nostra vita per tutti gli anni che seguirono. Anche dopo che ebbe scoperto ciò che era davvero accaduto a Tartesso. La vedemmo soffrire e soffrimmo tutti con lei. Avremmo voluto che rimanesse ignara, per quanto possibile. Era il nostro modo di proteggerla. Purtroppo la vita non ce lo concesse e, a pensarci, la nostra speranza era futile fin dall’inizio. Era impossibile che rimanesse all’oscuro stando con noi e lei non ebbe mai intenzione di lasciarci.
Viaggiavamo verso il Marocco, la via più facile per arrivare in Europa, sempre evitando le strade principali per paura di essere trovati dagli uomini di Gargoyle. Ci fermammo in un villaggio una sera, per trascorrere la notte, e le donne del paese si offrirono di tenere Medina con loro. Lei sorrise, poi guardò Elusys e gli prese la mano.
«No», rispose.
Fu la prima volta in cui lo scelse e mai, nel corso della mia vita, avrei visto altrove una tale dedizione. Così la bambina venne con noi a Tangeri, dove restammo a vivere per anni.
Fu lì che il Nautilus nacque, nella mente di Elusys e materialmente coi progetti.
Accadde un anno dopo la tragedia di Tartesso.
Sapevamo che Gargoyle era riuscito a recuperare tre navi. Noi dovevamo fare in modo di trovarne almeno una che potesse contrastarle, o non avremmo avuto speranze. Contro la tecnologia atlantidea, usare armi umane non era pensabile. Ci occorreva per forza un’altra nave di Atlantide. C’era il Green Noah, la vecchia Atlantide sepolta, che senza dubbio conteneva ancora qualche navicella. Non disponevamo, però, di mezzi per raggiungerla. L’unica possibilità era tornare a Tartesso e indagare nei livelli sotterranei.
Andammo tutti e tre, noi adulti. Medina restò a Tangeri, con la governante che nel frattempo avevamo assunto per badare a lei e alla casa. Non avevamo idea di quanto tempo sarebbe servito, dicemmo loro perciò di non aspettarsi il nostro ritorno prima di qualche mese.
Lei provò a opporsi.
«Voglio venire con voi!»
Elusys glielo impedì. Voleva che stesse al sicuro, almeno lei, e soprattutto voleva impedirle di tornare là. Tutto per evitarle di vedere, di rivivere quei momenti. Lei non sapeva ancora niente, lui avrebbe voluto con tutto il cuore che dimenticasse, semplicemente dimenticasse. Anche se era impossibile. Medina aveva ormai quattordici anni e si stava rivelando per quello che era: una ragazza sveglia, intelligente, bellissima, col sangue di Atlantide che le leggevi sul viso, nella purezza dei lineamenti.
Quando salutò Elusys gli promise che al suo ritorno sarebbe riuscita a parlare fluentemente il latino. Lo fece davvero, va detto. È sempre stata eccezionalmente curiosa e portata per lo studio.
Non credo fosse già innamorata di Elusys, all’epoca. Vedeva in lui una figura paterna, colui che era stato il suo re, l’uomo che l’aveva salvata. Intuiva la sua sofferenza e aveva deciso che il suo compito sarebbe stato quello di renderlo, se non felice, almeno più sereno e orgoglioso di lei. Ci riuscì, questo senz’altro. Rese felici tutti quanti noi. Prima di scoprire le vere cause del disastro di Tartesso, lei fu davvero una ragazzina piena di gioia, dolcissima. Nonostante i ricordi, nonostante il dolore, era felice di essere viva.
So che può non sembrare, ma è ancora così. Una donna dolce e forte come nessun’altra. Elusys di questo se n’è accorto. Per questo era impossibile che non la amasse. Per questo, alla fine, l’ha accolta e scelta come sua compagna.
Quel giorno la lasciammo che ci salutava alla porta, ancora sorridendo.
A Tartesso trovammo una sola navicella, un modello Eritrium ancora funzionante che potevamo utilizzare. Si trattava di una nave volante da guerra di media stazza, dodicimila tonnellate in secca, realizzata in titanio spaziale e rivestita di tectite ed equipaggiata con un motore a para-annichilazione che la rendeva praticamente autosufficiente e adatta a viaggi nello spazio o, come sarebbe stato nel nostro caso, negli abissi sottomarini.
Fu piuttosto semplice metterla in volo, meno lo sarebbe stato trovare un posto in cui metterla a punto e modificarla secondo le nostre esigenze. Elusys, inutile dirlo, aveva la soluzione: l’Antartide. C’era una base operativa di Atlantide proprio sotto il polo e avremmo trovato tutto ciò che ci serviva, pezzi di ricambio, armi, tutto. Due cose restavano da capire: dove trovare un equipaggio che ci fosse fedele e quali sarebbero state le future mosse di Gargoyle.
Le risposte a entrambi i quesiti sarebbero giunte nel corso del tempo, grazie a Gargoyle stesso.
Negli anni, infatti, quel mostro provocò una lunga scia di morti fra coloro che risultavano scomodi ai suoi piani. Morti misteriose, apparentemente incomprensibili, non per noi che sapevamo. E coloro che tenevano a quei morti sarebbero diventati i nostri collaboratori più fidati. Saremmo diventati come fratelli, sull’equipaggio del Nautilus.
«Che facciamo con Medina?» chiesi a Elusys.
Era pericoloso per quella bambina continuare a stare con noi, ne eravamo consapevoli. La strada che avevamo intenzione di intraprendere portava all’Inferno e lei, invece, avrebbe solo meritato una vita normale. Così giovane, aveva patito già troppo.
Elusys non rispose subito.
Guardò lontano, come se stesse riflettendo.
«Farà quello che vuole», disse «È grande abbastanza per fare le sue scelte».
Io non ne ero convinto.
«Le dirò quello che deve sapere», continuò.
Non mi aspettavo quella reazione. Credevo che volesse preservare l’innocenza di quella ragazzina, non rivelarle tutto. Mi fidavo di lui ma non approvavo né capivo quel comportamento, quell’ostinazione. Mi ci volle del tempo, tempo per osservarli e conoscerli meglio entrambi.
La verità mi balzò agli occhi anni dopo, il giorno in cui lei annunciò che si sarebbe imbarcata sul Nautilus col nome di Electra. Elusys, Nemo, accolse quell’annuncio col silenzio, dandole le spalle. Dava le spalle a tutti noi, perso in una consapevolezza lontana. Lei aveva occhi rassegnati, un sorriso doloroso come una crepa. Era già cambiata, inesorabilmente, lo amava e l’aveva odiato ed era logorata da quei sentimenti. Lui lo sapeva e non riusciva a lasciarla. Non era mai riuscito a lasciarla.
Anche se sapeva che avrebbe meritato tutt’altra vita.
Certamente le era sempre stato affezionato in modo particolare. Io avevo sempre dato la colpa all’istinto paterno, al fatto che lui avesse perso una bambina ancora piccola e che in qualche modo la rivedesse in lei. Probabilmente era la scusa che si era sempre ripetuto dentro di sé, non l’ho mai saputo. Di sicuro era quello che credeva lei.
La verità è, però, che tra loro c’era da sempre qualcosa di più profondo e complesso.
Lei era l’unica sopravvissuta di Tartesso, lui di quella città era stato il re. Medina era un monito per le colpe di Elusys, gli ricordava a ogni istante dove stesse la sua lotta. Allo stesso tempo le voleva davvero bene. Lei era la sola gioia della sua vita, l’unica luce che la illuminasse ancora. E sottrarsi a quella gioia sarebbe stato forse, per lui, un dolore insopportabile. Era felice di averla accanto, di vederla crescere, era felice quando lei sorrideva ed era felice delle piccole attenzioni che lei gli riservava. Era felice del suo amore, anche, pur se lo considerava solo una specie di capriccio da bambini. Forse non pensava a quanto sa essere assoluto l’amore di un’adolescente. Gli faceva solo piacere che lei fosse capace di amare nonostante quello che aveva passato.
Non so se l’avesse mai vista come donna.
Il farlo, forse, implicava ammettere che esistesse la possibilità di un’altra vita oltre alla vendetta.
Non era pronto, Nemo.
In Antartide ci arrivammo in volo, di notte, nella più completa oscurità.
Fu straordinario per me scoprire un hangar e una tecnologia di tali proporzioni. Quella era una base segreta che non permetteva solo la sopravvivenza, permetteva la vita. E che si trovasse in un luogo come l’Antartide era straordinario. Le mie conoscenze, dopo tutti gli anni che avevo trascorso a Tartesso, erano superiori rispetto a quelle di un comune essere umano, ma fu ugualmente incredibile trovarmi in un luogo simile. La base, inoltre, era del tutto automatizzata e saremmo bastati perfino noi a mandarla avanti. Gargoyle non ci avrebbe mai scoperto.
Ci prendemmo del tempo per pensare al nostro piano.
Eravamo consapevoli che ci avremmo impiegato anni e il fatto che per Gargoyle valesse lo stesso fu la nostra unica consolazione.
Non avevamo idea di dove si trovasse ed era ancora presto per chiederselo. Sapevamo che avrebbe fatto la prima mossa e non ci restava che affilare le armi e attendere.
Restava il problema di Medina. Lasciarla sola troppo a lungo era impensabile, o almeno lo era per Elusys.
«Andrò io a prenderla», disse «La porterò qui, le spiegherò tutto e sarà lei a decidere».
C’erano numerose piccole navicelle da trasporto all’interno della base, troppo piccole per esserci effettivamente utili ma comodissime per spostamenti come quello. Non avrebbe avuto bisogno neppure di usare i tunnel sottomarini, la via aerea sarebbe stata più che sufficiente.
Non so davvero che cosa le disse.
So che lei arrivò pochi giorni dopo e si guardò intorno in silenzio, con un misto di meraviglia e devozione. So che Nemo la portò da Ilion e che, quando ritornò, aveva addosso gli occhi che le avrei visto da adulta.
«Vi aiuterò», disse «Non so cosa sarò in grado di fare ma farò del mio meglio. Lui deve essere fermato».
Capii immediatamente che si riferiva a Gargoyle, che sapeva nei dettagli cos’era accaduto a Tartesso, e al contempo mi resi conto che non aveva idea del fatto che fosse stato Elusys a causare l’esplosione, pur se contro la sua volontà. Lui non aveva avuto il coraggio di confessarglielo.
E questa fu una delle cose per le quali non smise mai di sentirsi in colpa.
Certo non serve un genio per capire che la sua intenzione era difenderla, preservare l’innocenza di quella ragazzina ancora per un po’. Era logico che, vivendo così a stretto contatto, prima o poi sarebbe la verità sarebbe venuta a galla. Accadde, non ci fu modo di impedirlo, e lui ne soffrì immensamente anche se non lo diede mai a vedere.
Ma è ancora presto per parlare di questo.
Medina, era vero, non poteva in quel momento esserci di molto aiuto ma si dimostrò felice anche solo di essere stata coinvolta nella nostra impresa. Iniziò a studiare perfino con più lena del solito, seguita personalmente da Elusys che le insegnava tutto quello che sapeva, della tecnologia, della storia di Atlantide ma anche di tutto quanto riguardava il mondo conosciuto. Lei era un’allieva vivace e attenta, imparava con una facilità impressionante. Non ho idea del perché lui avesse deciso di istruirla fino a quel punto, o meglio trovavo comprensibile che desiderasse darle un’educazione ma non comprendevo la necessità di insegnarle tutte quelle cose riguardo ai figli di Atlantide. Quello era ciò che veniva insegnato ai discendenti delle famiglie nobili ed era decisamente troppo per una ragazzina umana. Se un giorno lei avesse desiderato una vita normale in una qualche città dell’Europa, una famiglia, quelle conoscenze avrebbero potuto pregiudicare la sua esistenza.
Intanto lei imparava a leggere, scrivere e parlare fluentemente l’antica lingua di Atlantide e ne assorbiva sempre più i segreti, anche se, come essere umano, non era un mondo di cui avrebbe fatto parte.
Davvero non capivo perché Nemo volesse legarla a sé in quel modo, né sapevo se lo facesse volontariamente o se non se ne rendesse conto. Provai a chiederglielo, una volta, e la risposta che ottenni fu un vago: «C’è forse qualcosa di male a garantirle un’istruzione?»
No, ma un’istruzione degna di una ragazza del diciannovesimo secolo avrebbe potuto garantirgliela anche un qualsiasi buon istituto della Francia, dove sarebbe stata tra l’altro molto più al sicuro. Lui avrebbe potuto essere il suo tutore legale senza per forza coinvolgerla in una guerra che ci avrebbe condotti all’inferno.
Lei invece non sembrava porsi il problema, né sembrava infastidirla il fatto di vivere con un gruppo di soli uomini molto più grandi di lei. Era felice solo di poter stare vicino a Elusys, lo capivo. Pensavo, però, che avrebbe avuto bisogno di amiche della sua età. Ero e sono una persona semplice, tutto sommato, e mi dispiaceva vederla così isolata rispetto al resto del mondo.
Nemo invece, per quanto parlasse, aveva chiaro il fatto che lei non se ne sarebbe mai andata.
Forse non razionalmente, ma col cuore lo sapeva.
Così, semplicemente, la crebbe in modo che diventasse quello che era destinata a essere: un comandante e la compagna migliore che potesse immaginare. Che alla fine l’abbia anche amata, lo ripeto, è stato allo stesso tempo naturale e meraviglioso considerato il carattere di entrambi. Tuttavia non sarebbe potuta andare in nessun altro modo. Di questo ne sono sempre stato convinto.
Dopo aver riattivato la base in Antartide decidemmo di tornare a Tangeri, perché non c’era molto altro da fare tranne che cercare di capire quali fossero i piani di Gargoyle. Elusys ne approfittò per trovare degli alleati a cui appoggiarsi. Aveva vissuto a lungo in Europa e aveva contatti e risorse che ci sarebbero stati preziosi.
Fu così che originammo il nucleo che avrebbe materialmente dato origine al Nautilus e riconvertimmo la navicella Eritrium in un sottomarino. I primi attacchi di Gargoyle, infatti, vennero dal mare. Si trattava perlopiù di navi scomparse in circostanze misteriose, incomprensibili a coloro che non sapevano. Per chi possedeva la tecnologia di Atlantide, però, cancellare letteralmente una nave da guerra era un gioco da ragazzi. Capimmo che si stava costruendo una flotta, che reclutava uomini attraverso la seduzione di un potere illimitato. Il suo scopo era conquistare il mondo, riportare alla vita la civiltà di Atlantide e rendere schiava l’umanità. Gargoyle certo vedeva della nobiltà in quel progetto, perché l’umanità era nata dopotutto come razza schiava, tuttavia era a lei che il mondo apparteneva. Era vero che avevano creato noi esseri umani, ma una tale distinzione di razza non aveva più senso. La Terra, ormai, apparteneva agli uomini. Elusys questo l’aveva capito bene. Così come aveva capito che non esiste vita più importante di un’altra, e questo malgrado tutto ciò che era successo a Tartesso.
Gargoyle andava fermato.
Fu con questo scopo che, come ho detto, decidemmo di convertire l’Eritrium in un sottomarino che Elusys, o meglio Nemo, da bravo biologo marino battezzò Nautilus. 
A quell’epoca Medina aveva sedici anni. Continuava a essere una ragazza dolce e di grande intelligenza e con l’età era fiorita del tutto anche la sua bellezza. Soprattutto, notai che era cambiato il modo in cui guardava Elusys. Non lo guardava più con gli occhi di una bambina, con l’adorazione di una figlia, ma con gli occhi di una donna. Occhi innamorati, su questo non avevo dubbi. Era impossibile non accorgersene, per quanto lei tentasse goffamente di non darlo a vedere.
Dico la verità, avrei voluto parlarle. Capire fin dove si spingessero i suoi sentimenti, che aspettative avesse, in una parola volevo accertarmi che non ne soffrisse. Nemo non era un uomo facile, non dopo tutto quello che aveva passato. Non osai farlo, però, perché per quanta confidenza avessimo lei era un’adolescente e non mi avrebbe mai rivelato delle cose tanto private. L’avrei messa in difficoltà e non volevo.
Arrivò però il momento in cui dovetti tornare in Antartide a prendere il Nautilus per trasferirlo in un’altra base più agevole e dare inizio ai lavori. Non avevo idea di quanto tempo sarei stato lontano, decisi quindi di rischiare. Il giorno prima della partenza le chiesi di uscire per aiutarmi con una commissione. Lei accettò di buon grado. Ci dirigemmo al Gran Socco, il mercato di Tangeri.
«Vuoi molto bene a Elusys, vero?»
Glielo chiesi a bruciapelo, mentre passeggiavamo. Aveva in mano una busta con della frutta, mi guardò come se non avesse capito. Poi arrossì, senza rispondere niente, con certi buffi occhi sgranati che non dimenticherò mai.
Annuì.
«Non come a un padre», puntualizzai io, e le sorrisi.
Lei distolse lo sguardo ma non negò.
«Che vorresti fare in futuro?»
Un sospiro, poi il suo viso che si illuminava.
«Stare con lui.»
Esitò, come se avesse pronunciato parole troppo grandi per la sua bocca.
«Non come… ecco, voglio stare con lui nel senso che mi basta stargli vicino. Mi va bene essere la sua bambina. Non voglio altro. Davvero.»
La pensava sul serio così a quel tempo. Non aveva ragione di mentire. Lui era stato un re, era l’uomo che l’aveva salvata, che le aveva donato una nuova vita. Medina sapeva perfettamente che cosa lui avesse perso nella tragedia di Tartesso, sua moglie e i suoi figli oltre alla sua terra. Sapeva di essere piccola, che lui non avrebbe mai visto in lei una donna. Lo rispettava troppo, così come rispettava la memoria di Sana’a. Se non poteva smettere di amarlo, sarebbe stata sua figlia. Almeno così avrebbe avuto un motivo valido per stargli accanto. Avrebbe avuto un posto nel mondo e qualcuno da rendere felice, qualcuno a cui volere bene.
Non avrebbe cambiato idea mai più.
È stata lei a rimanergli al fianco fino alla fine, fino a pochi minuti prima dello scoppio del Red Noah. Non le è importato niente di andare contro la sua volontà, ed è stata l’unica volta in cui l’ho vista disobbedire a un ordine. Ha questo modo strano, assoluto di amare. So per certo che, per tutti i tredici anni che hanno trascorso insieme, lei non ha guardato altri uomini neppure da lontano. Non lo fa neanche adesso, se è per questo, e dubito che accadrà mai.
Certo ci sono stati dei momenti in cui l’ha odiato con tutta se stessa. C’è stata la vendetta a mandarla avanti, il desiderio di sconfiggere Gargoyle, di far trovare pace alle anime dei morti di Tartesso. Ma al di là di tutto c’era l’amore, sempre. Lei è stata sempre mossa dall’amore. Ed è stato questo a salvarla, alla fine. A salvarli entrambi. Perché a quell’amore Nemo a un certo punto non ha più potuto dire di no. Non importa quanto a lungo si sia ripetuto che non c’era tempo per certe cose nella sua vita. Ha dovuto riconoscere, alla fine, di averla amata sempre. In modi e misure diverse, magari, ma sempre. E il fatto che lei, adesso, abbia fra le braccia un bambino di due anni addormentato, è la più grande delle loro vittorie.
Per alcuni anni feci la spola fra Tangeri e il sito in cui avevamo nascosto il Nautilus.
Quando tornavo a casa finivo sempre per osservarli mio malgrado. Medina, diciott’anni compiuti, era così limpida nei suoi sentimenti che mi sembrava impossibile che Nemo non se ne accorgesse. Mi sembrava ancor più impossibile, però, che se ne accorgesse e riuscisse a far finta di niente. Lei era quasi una donna adulta ormai, già in età da marito, e lui era un uomo vigoroso, con le pulsioni di un uomo. Poco importava che cercasse di scappare, di trincerarsi dietro la razionalità. Certo, essendo un nobile di Atlantide gli riusciva semplice giocare partite di intelligenza, nascondersi dietro una natura fredda che gli apparteneva solo in parte. Tuttavia, non nego che fu anche per questo che non fui del tutto convinto della sua volontà di adottarla legalmente. Era un modo per metterle a disposizione tutte le sue risorse, certo, ma era anche un modo per relegarla in un ruolo di figlia che aveva smesso di appartenerle da tempo, anche se si sforzava di recitare una parte. Era impossibile, ripeto, che lui non se ne fosse accorto. Nemo voleva proteggerla, sì, ma voleva anche continuare ad averla vicino. E le vere ragioni le avrebbe non già capite – le conosceva benissimo, in cuor suo – ma accettate poco prima della fine. Dopo aver scoperto di avere ancora una figlia. Dopo aver visto Electra soffrire a causa sua al punto da preferire la morte. Era qualcosa che non si sarebbe mai perdonato.
«Un uomo non può vivere di solo odio», solo questo gli ricordai.
E Medina, che era stata forte abbastanza da sopravvivere ancora bambina a un inferno di tenebra e fiamme, non avrebbe mai desiderato altra vita che quella accanto a lui. Anche se avrebbe meritato, a conti fatti, tutt’altra esistenza. Una vita felice, appagata, tranquilla, lontano dal mare e lontano dalla vendetta. Avrebbe potuto farlo, volendo. In ogni momento. Dire basta e lasciare il Nautilus. E invece scelse lui, sempre, con un’abnegazione che ancora oggi talvolta mi commuove. Non perché gli fosse sottomessa, sia chiaro. Lo era come primo ufficiale, perché gli doveva obbedienza, ma quando finalmente ha potuto confrontarsi con l’uomo e non col comandante, non ha mai esitato e non è mai andata contro se stessa. Lo amava ed era tutto. In modo assoluto. Avevano perso ogni cosa a Tartesso, entrambi. Ormai erano in grado di amare solo per assoluti.
E fino a che punto lui non riuscisse a lasciarla andare lo capii solo più avanti.
In tutta la spirale dell’odio che Gargoyle aveva innescato, nella mente di Nemo lei era il solo elemento innocente. Era qualcosa che non aveva mai fatto parte della catena dell’odio, era la gioia immensa di scoprire che c’era ancora vita là dove c’era stata solo morte. Era la parte migliore di un re e di un uomo che ancora sopravviveva, e il solo guardarla gli bastava per trovare almeno un minimo di consolazione, di serenità. Lei era sempre stata la custode di qualcosa di prezioso, della sua gioia. Anche se forse non se n’è mai davvero accorta.
Quando fu il momento di salire a bordo scelse il nome di Electra. Non lo scelse a caso, naturalmente, ma prese quello della figlia di Agamennone. Amore e vendetta, i due motori della sua vita.
Sul Nautilus si stabilì, tra loro, uno strano equilibrio. Lui comandava, lei eseguiva. Divenne un vicecomandante irreprensibile, abile, e disciplinata com’era sempre stata quello si rivelò un ambiente a lei straordinariamente congeniale. Stava sempre un passo dietro di lui. Lo guardava, gli obbediva, talvolta lo aiutava nelle piccole cose. Non voleva altro, non sperava altro. E lui era abituato ad averla accanto, sapeva di poter contare su di lei, aveva imparato a darla per scontata perché aveva capito perfettamente che non se ne sarebbe mai andata. Le cose avrebbero potuto continuare così anche in eterno. Erano a un passo l’uno dall’altra senza sapere come raggiungersi.
Per smuovere le cose sarebbe bastato che uno dei due cambiasse la propria posizione. Che lei, per esempio, decidesse davvero di lasciare. Di andarsene. Nemo in quel caso avrebbe potuto far finta di niente, ma non sarebbe rimasto tranquillo in cuor suo e di questo ne ero convinto.
Ma lei, essendo la donna che è, è riuscita alla fine a fare il miracolo.
Quando ho udito il primo sparo dalla plancia non ho pensato neppure per un attimo che lei lo avesse ucciso. Avevo capito che aveva in mente qualcosa, da giorni era pensierosa e cupa, ma ero certo che non gli avrebbe mai fatto davvero del male. Temevo, però, che avrebbe finito per fare qualcosa a se stessa. Era umana e, come un uomo non vive di solo odio, non può vivere neppure sopportando un amore così intenso senza speranza di realizzarlo. Così lei decise di liberarlo dal peso della vita che aveva salvato. Lo sparò davvero, quel colpo diretto verso la sua testa. Era pronta a morire e non fingeva, inconsapevole del fatto che così facendo l’avrebbe completamente distrutto.
Il suo gesto, però, fu ciò che ruppe il cerchio.
Lui non fu più in grado di ignorarla. Non fu più in grado di nascondere il fatto che perdere lei sarebbe stato un dolore insostenibile. Non fu più in grado di nascondere a se stesso che, forse, teneva a lei più di quanto avesse mai creduto. Penso soltanto al fatto che per Electra, quella volta, lui rinunciò a una vendetta sicura nonostante noi tutti ci fossimo imbarcati con la consapevolezza che erano in gioco le nostre vite. Rinunciò allo scopo di tutta una vita. Già solo questo è straordinario. Per lui rendersene conto dev’essere stato folgorante. Niente avrebbe più potuto essere come prima, neppure volendolo.
Da quel momento cambiò tutto.
Non combatterono più per la vendetta, per il passato.
Combatterono per il futuro.
Lei divenne davvero la compagna migliore che lui potesse desiderare.
Ripenso a come si è comportata durante la lotta del Nuovo Nautilus contro il Red Noah, a come abbia dimostrato il suo valore, a come ci abbia salvati tutti e, alla fine, abbia avuto la forza di lasciarlo andare. Sarebbe stato più semplice obbedire quando Nemo diede l’ordine di distruggere la nave su cui stava Nadia. Sarebbe stato più semplice uccidere lei. Così saremmo tutti sopravvissuti e il bambino di Nemo avrebbe avuto un padre. Sarebbero stati felici insieme, non ne ho dubbi. Eppure lei si rifiutò, come madre e come essere umano. Sapeva che Nemo, quando fosse tornato in sé, non se lo sarebbe perdonato. Lei stessa non ne sarebbe stata in grado.
Così salì sul Red Noah insieme a lui e, per Nemo, dev’essere stato un dolore atroce.
Non lo fece con l’intento di seguirlo nella morte, tutt’altro.
Lo fece perché voleva fare tutto il possibile per salvarlo prima di arrendersi e lasciarlo andare.
Voleva stargli accanto fino alla fine.
Voleva che lui se ne andasse con la consapevolezza di essere stato amato in ogni istante della sua vita.
Sapevano entrambi che sarebbe finita in quel modo, da sempre, e so che non hanno avuto niente da rimproverarsi. Nemo è morto con la certezza di aver lasciato suo figlio nelle migliori mani possibili e di aver dato a lei, al tempo stesso, una ragione di vita.
La ricordo quando eravamo già approdati a Tartesso con quel poco che restava del vecchio Nautilus, seduta in plancia coi capelli ormai corti. Eravamo soli, stavamo portando via le ultime cose da quel che rimaneva del sottomarino e lei s’era seduta al suo posto, sprofondata sul sedile come a volersi nascondere.
«Mi vergogno di quello che ho fatto», disse, «e quel che è peggio non so con che faccia guardarlo.»
Quando ricordo queste parole ripenso alla foto che scattammo il giorno del varo del Nautilus e di come lei, perfino davanti alla macchina fotografica, non pensasse ad altro che a guardare lui.
Non notò la mia esitazione. Continuò a parlare, più a se stessa che a me.
«Mi ha detto che l’ha fatto per salvarmi. Non far esplodere il Nautilus, intendo. Perché?»
Le sorrisi.
«Vai a chiederglielo», risposi.
Non aggiunsi altro. Sapevo che uomo fosse Nemo, sapevo che le aveva sempre voluto bene. Tanto mi bastava. Non si poteva vivere di solo odio e valeva tanto per lui quanto per lei.
Lei mi scrutò e seppi che si fidava. Era incerta ma sapeva bene che conoscevo Nemo forse meglio di chiunque altro. Proprio per questo la consigliai in tal senso. Non so cosa si dissero, Nemo non me lo rivelò mai e non mi interessa scoprirlo. So, però, che non la vidi ritornare e già questo bastò a rassicurarmi.
Ricomparve la mattina dopo, con un’aria un po’ imbambolata che non le conoscevo e che mi fece tenerezza. Mi salutò, sorrise e seppi che era andato tutto bene.
In lui il cambiamento fu diverso, più graduale. Era un uomo maturo, abituato a nascondere i suoi sentimenti. Col tempo, però, iniziò a sembrare più felice. Tornò a sorridere, sorridere davvero, con una dolcezza che non scorgevo da anni sul suo volto. Credo che questa sia stata la più grande ricompensa che lei abbia potuto desiderare.
C’è una scena in particolare che mi è rimasta in mente. Andavo verso la biblioteca dell’Exelion, avevo bisogno di parlare con Nemo e mi avevano detto che era lì. Mi avvicinavo e li sentii parlare.
«Tornerà.»
Era la voce di Electra.
«Stai tranquillo. Ha sua madre con lei, la guiderà dove deve arrivare, cioè qui da noi.»
Nemo le rispose, talmente piano che non riuscii a capire cosa le disse. Era probabile che si riferissero a Nadia e mi parve strano, sulle prime, che proprio Electra ne parlasse. Mi affacciai sulla porta della biblioteca.
«Capitano?» dissi «Vi ho portato i documenti che mi avete chiesto.»
Vidi Electra sobbalzare e lì per lì non capii il perché. Lei mi guardò, con le guance rosse e il panico negli occhi, e per l’imbarazzo affondò il viso nella giacca del capitano e si strinse a lui come se volesse sparire. Allora mi accorsi che erano abbracciati.
Ciò che mi colpì fu l’espressione di Nemo. Mi guardò e sorrise, con occhi sereni che non gli vedevo da anni. Da prima della tragedia. Poi alzò una mano, le accarezzò la testa con delicatezza e le posò un bacio fra i capelli.
La amava. Ogni minimo gesto del suo corpo in quel momento raccontava quell’amore. Ed era così felice che quasi non riuscivo a crederci.
Fui felice anch’io.
Non fecero parola con nessuno della loro storia, perché non volevano domande né pettegolezzi. Si godettero la loro felicità senza rumore.
Un mese dopo lui le mise un anello al dito, dentro a ciò che restava del tempio di Tartesso.
Lo so perché ero con loro, mi avevano voluto come testimone.
Non era un matrimonio che avesse valore legale, ma piansi.
Per loro, e per me che li amavo come dei figli, aveva tutto il valore del mondo.
Lei venne da me, mi abbracciò stretto.
«È anche merito tuo», disse «Ti ringrazio.»
Sapevano che il futuro era incerto ma quel presente lo vissero come la cosa più preziosa che avessero.
I lavori all’Exelion intanto continuavano, era ormai quasi operativo.
Io e Nemo, durante uno degli ultimi giorni di quiete, rimanemmo a lungo in plancia per sistemare alcuni comandi. Lui era silenzioso, il che non era raro, ma sembrava che attendesse il momento giusto per parlare. Camminò a lungo per il ponte di comando, guardando i finestroni ancora scuri. Poi si voltò verso di me.
«Proteggila», mi disse. «Aiutala come hai sempre fatto.»
Non compresi il motivo di quelle frasi.
«Soprattutto, stai vicino a mio figlio.»
Mi sorpresero i suoi occhi. Erano lontani, commossi, splendidi. Erano felici ma anche consapevoli che non sarebbe durata, che la battaglia sarebbe arrivata e forse ci avrebbe portato via di nuovo tutto.
«Aspetta un bambino», rispose soltanto, «Mio figlio.»
La voce gli tremò nel pronunciare quell’ultima parola e si lasciò andare a un sorriso, anche se avrei giurato che stesse piangendo. Di gioia, sì. Una gioia che non si aspettava, che quasi lo travolgeva. Annuii. Certo che le sarei stato vicino. Non l’avrei mai abbandonata a se stessa, finché fossi vissuto.
Ce l’ho davanti, quel figlio, addormentato tra le braccia della madre.
Siamo tornati a Tangeri, io, lei e pochi altri, dopo essere rientrati sulla Terra.
Etienne è nato qui, perché Electra ha voluto che nascesse in Africa, per essere più vicino alla terra dei suoi antenati e, banalmente, perché lei non ama i climi freddi. Gli somiglia, il bambino. Ha i suoi capelli scuri e il suo stesso orgoglio. Sorride con le labbra di sua madre, però, e guarda il mondo coi suoi stessi occhi blu.
Non ho idea di quale sarà il suo futuro ma spero in un tempo di pace.
Ah, Etienne non è il suo vero nome.
Quello reale non posso svelarlo, però.
Appartiene a un altro tempo, a un altro popolo, a un’altra storia.
Spero, un giorno, di poterla raccontare.
 
 
 
Raoul, macchinista capo del Nuovo Nautilus
 




 
N.d.A. Solo due parole: 1) avrete capito che il pov è del capo-macchinista anche se non l'ho specificato; 2) mi rendo conto che questa storia non è granché, ammetto di aver tirato via alcune parti soprattutto verso la fine, ma ho un buon motivo. La longfic che riguarderà proprio il principino Etienne è ufficialmente ai nastri di partenza. Ho buttato giù tutta la trama e non vedo l’ora di iniziarla. Sarà zeppa di flashback quindi avrò modo di riparlare di un bel po’ di cose, di Nemo ma anche di Nadia eccetera eccetera, e sarà molto lunga. Ci saranno le pietre azzurre, ci sarà Atlantide, ci saranno buona parte dei vecchi personaggi (alcuni in un ruolo marginale perché la loro parte l’hanno fatta nella serie ufficiale, ma ci saranno) e un bel po’ di new entries. Ci sarà Etienne naturalmente, che sarà il protagonista (scusami Nadia ma tu hai avuto una serie intera tutta per te), ci sarà Nadia perché la storia verterà molto sul rapporto fra i due fratelli, ci sarà naturalmente Electra e non mancherà neanche Nemo, ebbene sì. Spero inoltre in una bella dose di avventura.
Vedremo.
Riprenderà esattamente dove finisce la serie originale, prima dell’epilogo, ovvero dal ritorno dei nostri sulla Terra.
A prestissimo, spero!
 
Vitani
   
 
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