Ore 19.45
«Sto perdendo la
pazienza»
Sbuffò nella maniera meno
rumorosa che gli riuscì, e si
portò senza pensare le dita alle palpebre, strofinandole con
forza eccessiva.
Sentì i bulbi oculari pulsare in risposta.
«Almeno mi stai
ascoltando?»
Alzò gli occhi. Jay lo
stava fissando. Il suo viso era
contratto, le labbra quasi bianche, strette nello sforzo di trattenere
l’esasperazione. Era sicuro di non poter ballare sugli argini
della sua collera
ancora per molto.
«Scusa»
borbottò frettolosamente, cercando di apparire
almeno lievemente contrito.
L’amico si esibì
in uno sbuffo molto meno silenzioso del suo
e si portò due dita alla base del naso, come per cercare di
trattenere
l’impulso di tirargli uno schiaffo.
Se uno
sguardo potesse
uccidere sarei già morto.
«Okay, ricominciamo. Hai
capito cosa è una mole?»
«No»
mugugnò Lane, affondando mestamente il viso nei palmi
aperti, rinunciando improvvisamente al proposito di non mostrare
apertamente la
sua divampante disperazione.
«Dio santo»
sbottò Jay, cominciando a frugare distrattamente
nella tasca posteriore dei jeans «te l’ho ripetuto
almeno tre volte, te l’ho
scritto davanti agli occhi»
«Senti»
ribatté bruscamente Lane, scostando le mani da viso
e fissandolo con il cipiglio più risoluto che
riuscì tirare fuori «questa roba
è impossibile»
«No che non lo
è» sentenziò Jay, piccato
«semplicemente non
hai voglia di starmi a sentire»
Fece per alzarsi, ma Lane fu
più veloce. Intercettò il suo
braccio e lo costrinse a tornare giù, tirandolo brevemente
per il lembo della
manica.
«Ti pago» disse
solamente. L’unica cosa che gli venne in
mente. Vide passare un lampo di irritazione passare negli occhi
dell’amico, ma
non mollò la presa.
«Per favore»
aggiunse, in tono pateticamente supplichevole,
mentre Jay si divincolava per liberarsi «sono nella merda.
Non ci capisco
niente e se non imparo tutte queste formule entro lunedì
sono fottuto»
«Forse dovevi pensarci
prima di metterti a fissare il vuoto»
replicò Jay acido, sfilando rabbiosamente una sigaretta dal
pacchetto ammaccato
«e di lasciarti circa tre anni di programma arretrato. Come
fai a non sapere
cos’è una mole? Sei all’ultimo
anno»
«Credo di averlo saputo,
tanto tempo fa» borbottò Lane,
abbassando lo sguardo sulla vasta distesa di quaderni aperti intorno
alle sue
gambe, ricoperti dalla scrittura fitta e disordinata di Jay. Si
portò le
ginocchia al petto e le circondò con le braccia.
«Beh non puoi nemmeno
pensare di calcolare la concentrazione
di una soluzione se non sai cosa cazzo è una mole»
disse Jay, soffiando via
nell’aria fredda la prima boccata di fumo «e
oltretutto, io avevo dei programmi
per stasera»
Lane cercò di coprirsi
quanto più possibile le mani con le
maniche del maglione, sfondate dall’assidua usura degli
ultimi anni, e lanciò
all’amico un’occhiata remissiva.
«So che sono un
coglione» disse stupidamente, rendendosi
conto un secondo dopo di quanto suonasse ridicola quella frase. Il suo
naso
stava cominciando a diventare gelido. Se lo sfregò con il
dorso della mano,
consapevole che non avrebbe sortito nessun effetto.
Jay non rispose. Gli fece cenno di
spostare alcuni dei
quaderni, poi si sedette a un metro da lui, con le gambe incrociate.
«Non capisco
perché ti ostini a voler finire tutto oggi»
mormorò.
«Domenica è
Halloween» rispose Lane, scrollando brevemente
le spalle quando Jay alzò gli occhi al cielo.
«Sei l’unica
persona sulla faccia della terra a cui non
piace Halloween, lo sai vero?» aggiunse, sollevando le
sopracciglia. Vide un
ghigno canzonatorio allargarsi sul viso dell’amico e subito
ritrarsi, come se
non fosse mai esistito.
«Ne abbiamo già
parlato» replicò, lanciandogli
un’occhiata
di sbieco. Sapeva che stava cercando di non dargliela vinta.
«Io continuo a non
capire» lo punzecchiò Lane, strisciando
sulle piastrelle ghiacciate della terrazza fino a trovarsi talmente
vicino che
i loro gomiti si sfioravano. Incrociò le gambe e
appoggiò il palmi sul
pavimento. Riusciva a vedere il tramonto e non gli importava
più nulla del
compito.
«È una festa
cretina» decretò Jay, spegnendo distrattamente
la sigaretta nel bel mezzo di una mattonella. Un po’ di
cenere volò sulle
pagine ancora aperte, quasi brillanti nella penombra del crepuscolo.
Un cerchietto nero di fuliggine
spiccava contro il rosa del
pavimento.
Rimasero in silenzio per qualche
secondo, godendosi lo
spettacolo dolcemente ordinario del sole che muore nello spasimo dei
suoi
ultimi colori, succhiando via la vita dal mondo e trascinandola oltre
il bordo.
Il freddo stava aumentando, si
insinuava dentro i jeans e
pungeva gli occhi come un insetto crudele.
«Comunque grazie»
disse infine Lane, quando il crepuscolo
aveva ormai preso possesso del cielo e non c’era
più luce per leggere. Distese
le gambe e lasciò il tempo a Jay per assimilare le sue
parole.
Ma non ottenne nessuna confusa
risposta. L’altro si limitò a
fissarlo con un’espressione interrogativa, la schiena curva e
le spalle tese
come unico segno di attesa. Si rigirava il mozzicone triste e arancione
tra le
dita livide, rese ancora più pallide dal contrasto con i
polsini neri della
vecchia giacca.
«Per non essere andato a
morire in un fosso con i tuoi amici
drogati» aggiunse, alzando le sopracciglia. Il suo tono era
carico di sarcasmo,
ma sapeva che Jay aveva capito che non stava scherzando.
Infatti sorrise.
Brutta testa
di cazzo.
«Di niente»
sogghignò nella sua solita maniera irritante,
senza smettere di guardarlo come se non volesse perdersi nessun
dettaglio della
sua espressione «altrimenti chi ti salverebbe il culo in
Chimica ogni volta?»
«Jeff è bravo
quanto te» borbottò Lane, tirando ancora
più
giù le maniche del maglione senza una reale
necessità. Non era vero, non era
neanche lontanamente vicino alla realtà.
Vide un lampo maligno passargli negli
occhi.
Le sue labbra erano secche, spaccate
dal freddo.
«Non credere che ci caschi,
stronzetto» il suo tono era
immensamente divertito; se la disapprovazione di Lane gli aveva
restituito un
po’ di buonumore, adesso era schizzato alle stelle
«non conosci nessuno più
bravo di me»
Lane appoggiò il mento sul
palmo della mano, lanciandogli
un’occhiata carica di sconforto.
«Rimani comunque un pessimo
insegnante» sospirò «insulti
soltanto me oppure sei così con tutti i tuoi
alunni?»
«Considerando il fatto che
loro mi pagano, non posso
permettermi certe libertà»
Sogghignava. Era visibilmente
compiaciuto, oltre che
ostentatamente sarcastico.
«E poi se dessi
dell’idiota a Marylou McHale probabilmente
si metterebbe a piangere»
Si alzò in piedi,
sfregandosi le mani per riscaldarle.
Si muoveva in continuazione.
Fece un mezzo giro su se stesso,
voltandosi per lanciare
un’occhiata al punto in cui solo due minuti prima
l’arancione si espandeva,
incorporeo e ardente, come una macchia maldestramente diluita. Poi si
infilò le
mani nelle tasche e cominciò a passeggiare avanti e
indietro, strisciando i
piedi contro le piastrelle di terracotta, come assorto nella
contemplazione di
qualcosa di ignoto, schiacciato tra la sua scatola cranica e il
pavimento.
Riluceva nel crepuscolo violetto come
uno spettro.
Si concesse di respirare, per un
istante, la notte nascente.
Era ancora troppo chiara, troppo debole, ma ormai presente,
inesorabile, in
discesa verso la smaniosa frenesia che prende le anime e le ribalta e
distrugge
il loro stesso proposito di esistenza. La stessa che spinge gli animali
a
prendere ciò che gli appartiene di diritto, la stessa che
pare dire, in un modo
inspiegabilmente intenso, giusto, quasi violento: ecco, prendetela,
esiste per
voi.
La stessa che vedeva scuotere il
corpo di Jay, incastrato
fra l’orlo del mondo e l’ebbrezza della follia
delle infinite possibilità che
porta il buio. Poteva quasi sentire concretamente la cupa malinconia
della
quotidianità scivolargli tra le dita, diluirsi in maniera
sorprendente
nell’eccitazione morbosa di essere vivi ed essere al mondo.
Così come poteva sentire
l’urgenza e la cadenza ritmica del
tempo, della sabbia della clessidra che pendeva sulla sua testa, della
corsa
furiosa degli attimi di attesa misurati in sfumature del cielo,
carichi, ma
allo stesso tempo volgarmente vuoti.
Poi Jay alzò lo sguardo.
Si accorse in quel momento che non
aveva fretta di andarsene: nei suoi occhi si distingueva ancora
chiaramente
quella scintilla di morbida ironia che Lane aveva imparato ad associare
al
momento in cui la sua docilità arrivava all’apice
e la serratura scattava.
Una sola
notte non
basta per un solo giorno.
Gravitava intorno al punto in cui era
seduto come un
satellite, infagottato nella sua giacca troppo pesante, e Lane sapeva
che
voleva che si alzasse.
Non voleva smettere di guardarlo.
Ma non voleva nemmeno lasciarlo
completamente solo nella
neonata gioia selvaggia del venerdì sera, così
disse la prima cosa che gli
venne in mente.
«A breve
comincerà a fare troppo freddo per venire quassù
a
studiare»
Lo vide abbozzare un sorriso. Ma
morì subito, nemmeno il
tempo di prendere forma come si deve.
La tristezza pulsò , sorda
e assopita, sotto la sua pelle
intirizzita.
Il lutto per l’eccitazione
perduta gli bloccò il respiro per
un attimo.
«Non mi hai ancora
risposto» lo sentì mormorare.
Sospirò, mentre Jay
sosteneva il suo sguardo con crescente
aspettativa. La punta acuta della sua tensione interrogativa gli bucava
le
pupille, lo spingeva nella direzione che voleva, lo faceva ballare con
la
minaccia di graffiarlo.
Era un momento troppo prezioso per
andare perduto così.
Sapeva che non avrebbe mai lasciato
perdere. Non aveva vie
di fuga.
«Ti devo chiedere un
favore» azzardò, concentrando
improvvisamente tutta la sua attenzione su un filo sporgente del
maglione.
Poté quasi percepire il
corpo di Jay irrigidirsi
impercettibilmente, il suo sguardo farsi più acuto.
«È
importante» continuò. Non aveva bisogno di
guardarlo per
sapere di aver fatto brutalmente a pezzi ciò che rimaneva
della gioia leggera
di poco prima.
«Ti ascolto» fu
tutto ciò che si sentì dire in risposta.
Parla,
stupido
ragazzo.
Inspirò piano.
«L’ho incontrata,
stamattina» cominciò, deglutendo
nervosamente. Gli occhi di Jay gli stavano praticamente bucando il
cranio.
«A scuola» si
affrettò ad aggiungere.
«E quindi?»
La sua voce suonò
pericolosamente interrogativa, con una
sfumatura indistinta di irritazione e impazienza.
Dirà
di no, lo sai che
dirà di no.
«Mi ha chiesto di tornare
stasera»
Non aveva il coraggio di guardarlo.
Non aveva neanche il
coraggio di incassare il rifiuto, ma rimase in ascolto, svuotato e
nervoso,
vibrante di attesa e morbosa speranza.
Lo scudo di gomma si stava tendendo
rapidamente, correndo a
coprire i quattro angoli della sua figura, morbido e accondiscendente
ma pronto
a rigettare la delusione che si stava accumulando sassi e mattoni
dall’altra
parte. La parte del giudice, la parte di chi aveva l’ultima
parola.
Diametralmente opposta alla sua.
Sentì a malapena un
indistinto borbottio scivolare
attraverso la sua parete di trepidante
rassegnazione, bucare l’incertezza, far esplodere la bolla.
«Cosa?»
mormorò spaesato; il rumore del suo stesso sangue
gli ronzava nelle orecchie, sordo e ringhiante.
«Ho detto che va
bene»
Lo sentiva, poteva sentirlo
chiaramente, le parole avevano
percorso tutto il filo invisibile che collegava i loro occhi,
luccicanti e
languidi sotto la nitida luna di fine mese, e l’avevano
raggiunto, avvolgendo
il suo cranio come dolci spire mortali.
Aveva visto le sue labbra muoversi,
debolmente illuminate
dalla luce grossolana dei lampioni, due tocchi, sulla v e sulla b, poi
di nuovo
immobili. Silenzioso, statuario, bianco come un lenzuolo contro il
cielo nero.
Come se non avesse mai parlato.
E’
fatta.
«Sei sicuro? Anche
stasera?»
Dimmi di si.
Fammi
questo regalo.
«Si»
Il sollievo si stava espandendo nel
suo petto con una
rapidità sorprendente. Sapeva che il suo canale di
comunicazione con l’esterno
era irrimediabilmente ostruito dalla gioia tiepida e pulsante che lo
investiva,
tutta insieme, come oro fuso, morbida e fluida. Sapeva di non poter
dire
niente, assolutamente niente, che non fossero parole stillate
direttamente dal
suo cuore, niente che non fosse costruito con i pezzi del maestoso
torpore che
andava crescendogli sotto la pelle. Gli pareva di essere ubriaco e
lucido
insieme. Volgare, volgarissimo giubilo, la cosa più preziosa
che gli avesse mai
potuto offrire.
E sicuramente Jay se n’era
accorto.
Perché sorrise, guardando
quella che immaginò fosse la luce
della follia nei suoi occhi opachi, e sbuffò dal naso,
subdolamente,
riconoscendo il suo contrappasso, la fetta di torta che poteva
prendersi prima
che il soffitto gli cadesse in testa.
«Però promettimi
una cosa»
Lane poté fisicamente
sentire la sua coscienza staccarglisi
dall’anima e mettersi a ballare sulla sua testa.
Tutto quello
che vuoi.
«Cosa?»
Inutile, completamente inutile.
Sapevano entrambi che era
già un si.
Sorrideva, non poteva essere mai un
no quando sorrideva.
Jay lo conosceva come la strada di
casa.
Inghiottì a vuoto,
cercando di dare sollievo alla sua gola
secca. Il naso bruciava per il freddo e lui continuava a sorridere.
«Possiamo stare qui la
notte di Halloween? Da soli, senza
teste di cazzo in mezzo»
Fece una pausa, evidentemente
indeciso se aggiungere qualcosa
o no. Poi scrollò le spalle e parve giungere ad un
compromesso con se stesso.
«Posso pensare io
all’erba, se vuoi»
«Va bene, certo»
Rotolarono fuori, spontanee e calde.
Jay non poteva non aver
visto la luce che lui sentiva bruciare così insistentemente
nelle pupille,
selvaggia e cocente.
Doveva per forza averla vista.
L’aveva accesa lui.
Lo sai che
puoi
chiedermi quello che vuoi.
*
«Hai letto il
fascicolo?»
Strisciò piano la punta di
plastica della scarpa in mezzo
alle foglie morte, gingillandosi con il terriccio umido del bosco come
per
cercare qualcosa.
Il buio era denso, quasi liquido. Le
sagome degli alberi vi
si scioglievano come sale nell’acqua, corpi reali e solidi
persi nell’oscurità
dell’esistenza notturna, spettatori e partecipanti.
Dentro e fuori.
Dentro o
fuori.
Inspirò profondamente.
«Con quale faccia sarei
venuto se non avessi letto il
fascicolo?»
Jay alzò le spalle. Vide
uno dei suoi soliti mezzi ghigni
farsi largo sulla sua faccia.
«Così
è questo che fai, al posto di prepararti per il test
di Chimica?»
Alla debole luce della torcia i suoi
occhi parevano
inesistenti, mangiati dalle spesse ombre scure che il ponte del naso
disegnava
sulla pelle quasi luccicante della faccia.
La sua dura faccia bianca, tirata e
rigida come quella della
gente che non dorme, che non ride e che non mangia.
Toccò a lui scrollare le
spalle.
«Ci ho messo solamente due
ore»
«Bugiardo»
Non gli offrì il suo aiuto
quando si accinse ad avvolgere
faticosamente la catena intorno ai raggi della ruota anteriore. Rimase
a
guardarlo trafficare e sbuffare, mentre la maglietta bianca
s’increspava sul
suo busto stretto e le vene si gonfiavano, spettrali e diafane, sulle
sue mani.
Non gli rispose.
Jay non cercava scuse da lui e
l’inutilità di ribadire un
concetto fasullo e artificioso pulsava nitida nel suo cervello.
«Sei sicuro di volerlo
lasciare qui?»
Il suo piede incontrò
qualcosa che non aveva la stessa
consistenza della terra morbida di fine ottobre e dei sassi scivolosi
coperti
di muschio. Delicata plastica dura. Fece una leggera pressione del
ginocchio,
affondando con tutto il peso della gamba sulla suola spessa.
L’oggettino
scricchiolò appena e sprofondò ancora di
più
nella mistura di morte autunnale che si estendeva tutta intorno a loro.
«Perché? A chi
verrebbe mai in mente di rubare un catorcio
del genere?» ribatté Jay, pulendosi rapidamente le
mani sui jeans scuri.
«Proprio perché
è un catorcio dovresti preoccuparti»
La punta scavava. Il nervoso cresceva.
Aveva definitivamente perso la
siringa.
Ingoiata dalla fanghiglia.
Si lasciò andare ad un
sospiro frustrato.
«E invece non mi
preoccupo»
Lo vide abbassare lo sguardo.
Una contrazione improvvisa del viso.
Un velo, l’ennesimo,
sugli occhi troppo lucidi, troppo inquieti, due maledetti buchi nel
cranio.
«La smetti di giocare con
le siringhe?» sbottò.
«Non sei tu quello che non
si preoccupa?» ribatté
bruscamente, cominciando a frugare di nuovo tra le foglie con la punta.
Scalciò
con forza un sasso dal terreno, che rotolò via con un lieve
tonfo.
Ma non lo guardò,
perché sapeva che lui aveva già inchiodato
lo sguardo su di lui.
E poteva sentire la palla di sputo
velenoso lievitare e
crescere nel petto di Jay, avvicinarsi pericolosamente al confine del
suo
autocontrollo fino a sfiorarlo, quasi sfidandolo a lasciarlo andare, a
scagliarlo contro di lui.
Udì il suono del suo
respiro, lento e pesante, la sua figura
solida, divisa fra bianco e nero, monolitica, davanti a sé,
insieme minaccia e
compagna.
Bella
cazzata, bravo.
«Sei proprio un
coglione»
Tutto ciò che gli
dedicò. Una punta di denso rancore diluita
dentro una frase che gli aveva sentito pronunciare così
tante volte, con così
tanti toni diversi.
«Lasciami in pace, non
riesco a pensare a niente in questo
momento» borbottò. Riusciva a malapena a
distinguere i deboli bagliori
argentati dei raggi delle ruote dallo spesso muro del buio.
Inspirò piano
l’aria fredda e umida della notte.
«Ho
l’ansia»
Avvertiva il pericolo nel silenzio di
Jay più che nelle sue
grida, nella sua imperiosa staticità più che nei
suoi gesti smaniosi.
La sua condanna si avvicinava.
C’era sempre un prezzo da
pagare.
Eccola, sta
arrivando.
Non ha capito nemmeno stavolta.
E così un
«fanculo» riecheggiò nella cassa
armonica che era
diventato lo spazio di cui loro erano gli estremi, la porzione di bosco
e
siringhe e natura morta che delimitavano con le loro ingombranti,
eppure
insignificanti esistenze.
Si udì appena, nella
vastità del silenzio notturno.
Ma ruppe gli argini della diga che
conteneva tutta la sua
frustrazione.
«Cedevo che volessi venire,
se mi avessi detto subito
che avevi cambiato
idea mi sarei
risparmiato la rottura di coglioni di arrivare fino a qui»
Questa volta le parole erano alte,
nasali.
Stonavano con la quiete granitica del
bosco, la minavano
così come stavano facendo con lui.
Sentì
l’umiliazione pizzicare ed espandersi nella gabbia
toracica come acido.
«Infatti è
così»
Lo strazio di quelle tre parole
pesava come una pastiglia
troppo grossa sulla lingua. La sentiva ingessata, lenta, compressa
contro la
gola. Voleva controbattere, ma continuava a tenerla ferma.
Più
in fondo possibile,
si disse, così non puoi vomitare.
«Ah si? E allora
perché ti lagni ogni volta che ti porto nei
posti in cui tu decidi di andare?»
«Lo sai che non funziona
così»
Stava mormorando. Non doveva
mormorare, era consapevole di
non doverlo fare, perciò si schiarì rapidamente
la gola.
«Lo sai che non funziona
così» ripeté più forte,
prendendosi
un attimo – solo uno - per lanciare un’occhiata al
suo volto.
Era ancora immobile, fisso nella
fredda rigidità del
disprezzo che si dilatava attorno a lui come una pozza di catrame.
L’aveva raggiunto, lo stava
avvolgendo.
Se mi fermo
è finita.
«No che non lo
so»
Poteva quasi vederlo stringere gli
occhi, immaginarlo mentre
si preparava la facciata da impermeabile stronzo che tirava fuori ogni
volta
che doveva demolire qualche povero idiota.
«Non lo so
perché non è possibile che tutte le volte che
usciamo tu faccia questa scenetta»
Gli pareva che il suo intero corpo
fosse diventato un
ammasso di angoscia convulsa e umiliazione.
Stava cuocendo nei suoi stessi
vestiti.
Desiderò potersi liberare
di quel fardello di carne e sangue
e ossa che gli pesava, dio santo, gli pesava così tanto
sostenere e rianimare
quando tutto ciò che voleva fare cazzo tutto ciò
a cui riusciva a pensare era
andare via.
Desiderò essere
un’altra persona.
Desiderò essere
un’altra persona per smettere di sentire la
vergogna scavargli l’esofago, mangiandogli ogni cellula, ogni
residuo di pace
come la corda strappa via all’impiccato, secondo dopo
secondo, tutti gli
appigli alla vita che gli restano.
L’accusa di Jay gli
penzolava sulla testa come un foglio di
condanna.
Si sentiva strangolato.
«Non è colpa
mia»
Non piangere.
«Lo sai che ci sono dei
momenti in cui succede e altri in
cui invece sto bene»
No, non lo
sa. Lo sai
solo tu.
«No cazzo, non lo
so»
Si stava frugando freneticamente
nelle tasche, alla
spasmodica ricerca del pacchetto di sigarette.
Il suo stomaco si contrasse in un
moto di irrazionale
disgusto.
Non vomitare.
«Non lo so
perché non ha senso»
Le parole strascicate, la sigaretta
stretta fra le labbra.
Un sibilo, una fiamma.
Se sento
l’odore
vomito.
«Credi che io riesca a
spiegarmelo?»
No dio santo
non
piangere smettila devi controllarti controllati cazzo.
«Io so solo che voglio
uscire, voglio fare ciò che è meglio
per me» provò a respirare profondamente;
sentì i polmoni dilatarsi e il cuore
tremargli dolorosamente nel petto «ma poi quando esco davvero
mi sembra che sia
tutto sbagliato e voglio solo tornare a casa. Mi blocco
completamente»
Inghiottì un groppo di
saliva. Lo sentì raschiare senza
pietà le pareti della sua gola, tentare di aggrapparsi al
tessuto secco,
tentare di strozzarlo.
Se muoio
almeno non
devo decidere.
«Lo sapevo che non dovevo
darti retta»
Ammazzami.
Prendimi a
calci.
«No, io voglio
andarci»
«Smetti di dirmi
cazzate»
Sentiva il rumore del suo respiro
sopra ogni altro. Sentiva
il ritmo singhiozzante e affannato
dell’aria che entrava e usciva dal suo petto,
prima fresca e poi
tiepida.
Entrava e usciva.
Entrava e usciva.
Non sto
morendo.
«Voglio andarci»
ripeté, quasi bisbigliando. Jay fece per
dire qualcosa, ma lo precedette.
«Se oggi vado, le prossime
volte andrà sempre meglio»
«Sarebbe già
dovuta andare meglio allora»
La brace della sigaretta brillava
come una lucciola a un
metro dal suo naso.
Scosse la testa nel buio.
«Non funziona
così»
«Non funziona mai
così» poteva quasi vederlo alzare gli
occhi al cielo «prendi una decisione e basta, che mi sono
stufato di farti da
autista per poi sentirmi dire queste cazzate»
«Nessuno ti ha
costretto»
Bella
stronzata.
«Si, lo so»
Tutta la frustrazione era stata
risucchiata via dalla sua
voce. Il tono lapidario con cui pronunciò quelle poche
sillabe, dure e crudeli,
fu come una spinta sull’orlo del burrone.
Sto cadendo.
Erano entrambi immobili.
Ora muoio.
La sigaretta si struggeva nella mano
di Jay, dimenticata,
abbandonata al suo suicidio involontario.
Se se ne va
muoio.
Si strinse le braccia intorno al
corpo, in un patetico
tentativo di impedirsi di tremare.
Morirò.
Me lo sento.
Vomiterò e morirò.
«Accompagnami solo
oggi»
Il dolore prese una forma.
L’imbarazzo gli punse gli occhi.
Un miserabile principio di lacrime gli offuscò la vista, il
pallore del viso di
Jay divenne solo una chiazza bianca in mezzo ai tronchi neri.
«Per favore. Non te lo
chiederò più»
Una sola
volta. Una
sola volta ancora mi basterà. Ce la farò, posso
vivere senza.
Il doloroso calore della stanchezza
che assale gli sconfitti
gli avvolse lo stomaco.
I sensi di colpa gli tiravano gli
angoli degli occhi, gli
martellavano nelle tempie, gli stringevano il cranio in una morsa che
non
sapeva sciogliere.
«Per favore,
aiutami»
Forse lo vide. Il sussulto, la corsa
frenetica dei suoi
neuroni, il fiume di empatia in cui nemmeno sperava più.
Qualcosa attraversò il
corpo immobile davanti a lui.
Forse.
Lo vide passarsi una mano sul viso,
visibilmente combattuto.
«Va bene»
La diga tornò su. Un
po’ di acqua calda e appiccicosa gli si
staccò dalle ciglia.
La sentì cadere e perdersi
tra le foglie.
«Ma è
l’ultima volta che ti faccio un favore»
Note autrice
Mi scuso per l’attesa, so
di essere pessima. Ultimamente
sono stata risucchiata da un vortice di avvenimenti che mi hanno
portato via
molto tempo ed energie (soprattutto l’università)
quindi purtroppo ho
avuto poche occasioni di dedicarmi alla
storia. Questo capitolo non è andato esattamente come avevo
previsto, ma credo
di essere abbastanza soddisfatta di come è venuto fuori,
soprattutto perché
l’evoluzione del personaggio di Lane mi sta particolarmente a
cuore quindi ci
tengo a fornire una rappresentazione chiara e – per quanto
possibile –
emozionante dei suoi sentimenti e del suo disturbo.
Per qualsiasi cosa (insulti o dubbi o
manifestazioni di
gioia) mi trovate su twitter sotto il nick @ loveleesnake
F.