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Autore: honeysuckle    13/01/2019    0 recensioni
«Allora, te lo spiego in breve. La Cava è come un'arena da combattimento. In questo posto, come puoi vedere, ci vengono davvero tante persone. Ogni giorno. Alcuni sono interessati solamente a fumare, bere, ascoltare qualche stronzo che legge le sue poesie e a procurarsi qualche copia gratuita di un lavoro decente. Ma il vero pericolo della Cava sono gli altri scrittori [...] Nella Cava non ci sono regole. Non è una libreria abusiva né un teatro. La Cava è un trampolino di lancio, un ambiente letterario che può essere sia molto piacevole che molto spiacevole. Qua nessuno ti da soldi per niente, se vuoi qualcosa devi mettere tutto di tasca tua. La cosa bella della Cava è proprio questa: coloro che sono più motivati a spendere soldi per mettere in circolazione copie dei loro lavori sono i più bravi e vengono sempre apprezzati. Gli sfigati che non sono capaci di scrivere due parole di fila non durano niente qui [...]»
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ore 19.45

 

 

«Sto perdendo la pazienza»

Sbuffò nella maniera meno rumorosa che gli riuscì, e si portò senza pensare le dita alle palpebre, strofinandole con forza eccessiva. Sentì i bulbi oculari pulsare in risposta.

«Almeno mi stai ascoltando?»

Alzò gli occhi. Jay lo stava fissando. Il suo viso era contratto, le labbra quasi bianche, strette nello sforzo di trattenere l’esasperazione. Era sicuro di non poter ballare sugli argini della sua collera ancora per molto.

«Scusa» borbottò frettolosamente, cercando di apparire almeno lievemente contrito.

L’amico si esibì in uno sbuffo molto meno silenzioso del suo e si portò due dita alla base del naso, come per cercare di trattenere l’impulso di tirargli uno schiaffo.

Se uno sguardo potesse uccidere sarei già morto.

«Okay, ricominciamo. Hai capito cosa è una mole?»

«No» mugugnò Lane, affondando mestamente il viso nei palmi aperti, rinunciando improvvisamente al proposito di non mostrare apertamente la sua divampante disperazione.

«Dio santo» sbottò Jay, cominciando a frugare distrattamente nella tasca posteriore dei jeans «te l’ho ripetuto almeno tre volte, te l’ho scritto davanti agli occhi»

«Senti» ribatté bruscamente Lane, scostando le mani da viso e fissandolo con il cipiglio più risoluto che riuscì tirare fuori «questa roba è impossibile»

«No che non lo è» sentenziò Jay, piccato «semplicemente non hai voglia di starmi a sentire»

Fece per alzarsi, ma Lane fu più veloce. Intercettò il suo braccio e lo costrinse a tornare giù, tirandolo brevemente per il lembo della manica.

«Ti pago» disse solamente. L’unica cosa che gli venne in mente. Vide passare un lampo di irritazione passare negli occhi dell’amico, ma non mollò la presa.

«Per favore» aggiunse, in tono pateticamente supplichevole, mentre Jay si divincolava per liberarsi «sono nella merda. Non ci capisco niente e se non imparo tutte queste formule entro lunedì sono fottuto»

«Forse dovevi pensarci prima di metterti a fissare il vuoto» replicò Jay acido, sfilando rabbiosamente una sigaretta dal pacchetto ammaccato «e di lasciarti circa tre anni di programma arretrato. Come fai a non sapere cos’è una mole? Sei all’ultimo anno»

«Credo di averlo saputo, tanto tempo fa» borbottò Lane, abbassando lo sguardo sulla vasta distesa di quaderni aperti intorno alle sue gambe, ricoperti dalla scrittura fitta e disordinata di Jay. Si portò le ginocchia al petto e le circondò con le braccia.

«Beh non puoi nemmeno pensare di calcolare la concentrazione di una soluzione se non sai cosa cazzo è una mole» disse Jay, soffiando via nell’aria fredda la prima boccata di fumo «e oltretutto, io avevo dei programmi per stasera»

Lane cercò di coprirsi quanto più possibile le mani con le maniche del maglione, sfondate dall’assidua usura degli ultimi anni, e lanciò all’amico un’occhiata remissiva.

«So che sono un coglione» disse stupidamente, rendendosi conto un secondo dopo di quanto suonasse ridicola quella frase. Il suo naso stava cominciando a diventare gelido. Se lo sfregò con il dorso della mano, consapevole che non avrebbe sortito nessun effetto.

Jay non rispose. Gli fece cenno di spostare alcuni dei quaderni, poi si sedette a un metro da lui, con le gambe incrociate.

«Non capisco perché ti ostini a voler finire tutto oggi» mormorò.

«Domenica è Halloween» rispose Lane, scrollando brevemente le spalle quando Jay alzò gli occhi al cielo.

«Sei l’unica persona sulla faccia della terra a cui non piace Halloween, lo sai vero?» aggiunse, sollevando le sopracciglia. Vide un ghigno canzonatorio allargarsi sul viso dell’amico e subito ritrarsi, come se non fosse mai esistito.

«Ne abbiamo già parlato» replicò, lanciandogli un’occhiata di sbieco. Sapeva che stava cercando di non dargliela vinta.

«Io continuo a non capire» lo punzecchiò Lane, strisciando sulle piastrelle ghiacciate della terrazza fino a trovarsi talmente vicino che i loro gomiti si sfioravano. Incrociò le gambe e appoggiò il palmi sul pavimento. Riusciva a vedere il tramonto e non gli importava più nulla del compito.

«È una festa cretina» decretò Jay, spegnendo distrattamente la sigaretta nel bel mezzo di una mattonella. Un po’ di cenere volò sulle pagine ancora aperte, quasi brillanti nella penombra del crepuscolo.

Un cerchietto nero di fuliggine spiccava contro il rosa del pavimento.

Rimasero in silenzio per qualche secondo, godendosi lo spettacolo dolcemente ordinario del sole che muore nello spasimo dei suoi ultimi colori, succhiando via la vita dal mondo e trascinandola oltre il bordo.

Il freddo stava aumentando, si insinuava dentro i jeans e pungeva gli occhi come un insetto crudele.

«Comunque grazie» disse infine Lane, quando il crepuscolo aveva ormai preso possesso del cielo e non c’era più luce per leggere. Distese le gambe e lasciò il tempo a Jay per assimilare le sue parole.

Ma non ottenne nessuna confusa risposta. L’altro si limitò a fissarlo con un’espressione interrogativa, la schiena curva e le spalle tese come unico segno di attesa. Si rigirava il mozzicone triste e arancione tra le dita livide, rese ancora più pallide dal contrasto con i polsini neri della vecchia giacca.

«Per non essere andato a morire in un fosso con i tuoi amici drogati» aggiunse, alzando le sopracciglia. Il suo tono era carico di sarcasmo, ma sapeva che Jay aveva capito che non stava scherzando.

Infatti sorrise.

Brutta testa di cazzo.

«Di niente» sogghignò nella sua solita maniera irritante, senza smettere di guardarlo come se non volesse perdersi nessun dettaglio della sua espressione «altrimenti chi ti salverebbe il culo in Chimica ogni volta?»

«Jeff è bravo quanto te» borbottò Lane, tirando ancora più giù le maniche del maglione senza una reale necessità. Non era vero, non era neanche lontanamente vicino alla realtà.

Vide un lampo maligno passargli negli occhi.

Le sue labbra erano secche, spaccate dal freddo.

«Non credere che ci caschi, stronzetto» il suo tono era immensamente divertito; se la disapprovazione di Lane gli aveva restituito un po’ di buonumore, adesso era schizzato alle stelle «non conosci nessuno più bravo di me»

Lane appoggiò il mento sul palmo della mano, lanciandogli un’occhiata carica di sconforto.

«Rimani comunque un pessimo insegnante» sospirò «insulti soltanto me oppure sei così con tutti i tuoi alunni?»

«Considerando il fatto che loro mi pagano, non posso permettermi certe libertà»

Sogghignava. Era visibilmente compiaciuto, oltre che ostentatamente sarcastico.

«E poi se dessi dell’idiota a Marylou McHale probabilmente si metterebbe a piangere»

Si alzò in piedi, sfregandosi le mani per riscaldarle.

Si muoveva in continuazione.

Fece un mezzo giro su se stesso, voltandosi per lanciare un’occhiata al punto in cui solo due minuti prima l’arancione si espandeva, incorporeo e ardente, come una macchia maldestramente diluita. Poi si infilò le mani nelle tasche e cominciò a passeggiare avanti e indietro, strisciando i piedi contro le piastrelle di terracotta, come assorto nella contemplazione di qualcosa di ignoto, schiacciato tra la sua scatola cranica e il pavimento.

Riluceva nel crepuscolo violetto come uno spettro.

Si concesse di respirare, per un istante, la notte nascente. Era ancora troppo chiara, troppo debole, ma ormai presente, inesorabile, in discesa verso la smaniosa frenesia che prende le anime e le ribalta e distrugge il loro stesso proposito di esistenza. La stessa che spinge gli animali a prendere ciò che gli appartiene di diritto, la stessa che pare dire, in un modo inspiegabilmente intenso, giusto, quasi violento: ecco, prendetela, esiste per voi.

La stessa che vedeva scuotere il corpo di Jay, incastrato fra l’orlo del mondo e l’ebbrezza della follia delle infinite possibilità che porta il buio. Poteva quasi sentire concretamente la cupa malinconia della quotidianità scivolargli tra le dita, diluirsi in maniera sorprendente nell’eccitazione morbosa di essere vivi ed essere al mondo.

Così come poteva sentire l’urgenza e la cadenza ritmica del tempo, della sabbia della clessidra che pendeva sulla sua testa, della corsa furiosa degli attimi di attesa misurati in sfumature del cielo, carichi, ma allo stesso tempo volgarmente vuoti.

Poi Jay alzò lo sguardo. Si accorse in quel momento che non aveva fretta di andarsene: nei suoi occhi si distingueva ancora chiaramente quella scintilla di morbida ironia che Lane aveva imparato ad associare al momento in cui la sua docilità arrivava all’apice e la serratura scattava.

Una sola notte non basta per un solo giorno.

Gravitava intorno al punto in cui era seduto come un satellite, infagottato nella sua giacca troppo pesante, e Lane sapeva che voleva che si alzasse.

Non voleva smettere di guardarlo.

Ma non voleva nemmeno lasciarlo completamente solo nella neonata gioia selvaggia del venerdì sera, così disse la prima cosa che gli venne in mente.

«A breve comincerà a fare troppo freddo per venire quassù a studiare»

Lo vide abbozzare un sorriso. Ma morì subito, nemmeno il tempo di prendere forma come si deve.

La tristezza pulsò , sorda e assopita, sotto la sua pelle intirizzita.

Il lutto per l’eccitazione perduta gli bloccò il respiro per un attimo.

«Non mi hai ancora risposto» lo sentì mormorare.

Sospirò, mentre Jay sosteneva il suo sguardo con crescente aspettativa. La punta acuta della sua tensione interrogativa gli bucava le pupille, lo spingeva nella direzione che voleva, lo faceva ballare con la minaccia di graffiarlo.

Era un momento troppo prezioso per andare perduto così.

Sapeva che non avrebbe mai lasciato perdere. Non aveva vie di fuga.

«Ti devo chiedere un favore» azzardò, concentrando improvvisamente tutta la sua attenzione su un filo sporgente del maglione.

Poté quasi percepire il corpo di Jay irrigidirsi impercettibilmente, il suo sguardo farsi più acuto.

«È importante» continuò. Non aveva bisogno di guardarlo per sapere di aver fatto brutalmente a pezzi ciò che rimaneva della gioia leggera di poco prima.

«Ti ascolto» fu tutto ciò che si sentì dire in risposta.

Parla, stupido ragazzo.

Inspirò piano.

«L’ho incontrata, stamattina» cominciò, deglutendo nervosamente. Gli occhi di Jay gli stavano praticamente bucando il cranio.

«A scuola» si affrettò ad aggiungere.

«E quindi?»

La sua voce suonò pericolosamente interrogativa, con una sfumatura indistinta di irritazione e impazienza.

Dirà di no, lo sai che dirà di no.

«Mi ha chiesto di tornare stasera»

Non aveva il coraggio di guardarlo. Non aveva neanche il coraggio di incassare il rifiuto, ma rimase in ascolto, svuotato e nervoso, vibrante di attesa e morbosa speranza.

Lo scudo di gomma si stava tendendo rapidamente, correndo a coprire i quattro angoli della sua figura, morbido e accondiscendente ma pronto a rigettare la delusione che si stava accumulando sassi e mattoni dall’altra parte. La parte del giudice, la parte di chi aveva l’ultima parola.

Diametralmente opposta alla sua.

Sentì a malapena un indistinto borbottio scivolare attraverso la sua parete di  trepidante rassegnazione, bucare l’incertezza, far esplodere la bolla.

«Cosa?» mormorò spaesato; il rumore del suo stesso sangue gli ronzava nelle orecchie, sordo e ringhiante.

«Ho detto che va bene»

Lo sentiva, poteva sentirlo chiaramente, le parole avevano percorso tutto il filo invisibile che collegava i loro occhi, luccicanti e languidi sotto la nitida luna di fine mese, e l’avevano raggiunto, avvolgendo il suo cranio come dolci spire mortali.

Aveva visto le sue labbra muoversi, debolmente illuminate dalla luce grossolana dei lampioni, due tocchi, sulla v e sulla b, poi di nuovo immobili. Silenzioso, statuario, bianco come un lenzuolo contro il cielo nero.

Come se non avesse mai parlato.

E’ fatta.

«Sei sicuro? Anche stasera?»

Dimmi di si. Fammi questo regalo.

«Si»

Il sollievo si stava espandendo nel suo petto con una rapidità sorprendente. Sapeva che il suo canale di comunicazione con l’esterno era irrimediabilmente ostruito dalla gioia tiepida e pulsante che lo investiva, tutta insieme, come oro fuso, morbida e fluida. Sapeva di non poter dire niente, assolutamente niente, che non fossero parole stillate direttamente dal suo cuore, niente che non fosse costruito con i pezzi del maestoso torpore che andava crescendogli sotto la pelle. Gli pareva di essere ubriaco e lucido insieme. Volgare, volgarissimo giubilo, la cosa più preziosa che gli avesse mai potuto offrire.

E sicuramente Jay se n’era accorto.

Perché sorrise, guardando quella che immaginò fosse la luce della follia nei suoi occhi opachi, e sbuffò dal naso, subdolamente, riconoscendo il suo contrappasso, la fetta di torta che poteva prendersi prima che il soffitto gli cadesse in testa.

«Però promettimi una cosa»

Lane poté fisicamente sentire la sua coscienza staccarglisi dall’anima e mettersi a ballare sulla sua testa.

Tutto quello che vuoi.

«Cosa?»

Inutile, completamente inutile. Sapevano entrambi che era già un si.

Sorrideva, non poteva essere mai un no quando sorrideva.

Jay lo conosceva come la strada di casa.

Inghiottì a vuoto, cercando di dare sollievo alla sua gola secca. Il naso bruciava per il freddo e lui continuava a sorridere.

«Possiamo stare qui la notte di Halloween? Da soli, senza teste di cazzo in mezzo»

Fece una pausa, evidentemente indeciso se aggiungere qualcosa o no. Poi scrollò le spalle e parve giungere ad un compromesso con se stesso.

«Posso pensare io all’erba, se vuoi»

«Va bene, certo»

Rotolarono fuori, spontanee e calde. Jay non poteva non aver visto la luce che lui sentiva bruciare così insistentemente nelle pupille, selvaggia e cocente.

Doveva per forza averla vista.

L’aveva accesa lui.

Lo sai che puoi chiedermi quello che vuoi.

 

*

 

«Hai letto il fascicolo?»

Strisciò piano la punta di plastica della scarpa in mezzo alle foglie morte, gingillandosi con il terriccio umido del bosco come per cercare qualcosa.

Il buio era denso, quasi liquido. Le sagome degli alberi vi si scioglievano come sale nell’acqua, corpi reali e solidi persi nell’oscurità dell’esistenza notturna, spettatori e partecipanti.

Dentro e fuori.

Dentro o fuori.

Inspirò profondamente.

«Con quale faccia sarei venuto se non avessi letto il fascicolo?»

Jay alzò le spalle. Vide uno dei suoi soliti mezzi ghigni farsi largo sulla sua faccia.

«Così è questo che fai, al posto di prepararti per il test di Chimica?»

Alla debole luce della torcia i suoi occhi parevano inesistenti, mangiati dalle spesse ombre scure che il ponte del naso disegnava sulla pelle quasi luccicante della faccia.

La sua dura faccia bianca, tirata e rigida come quella della gente che non dorme, che non ride e che non mangia.

Toccò a lui scrollare le spalle.

«Ci ho messo solamente due ore»

«Bugiardo»

Non gli offrì il suo aiuto quando si accinse ad avvolgere faticosamente la catena intorno ai raggi della ruota anteriore. Rimase a guardarlo trafficare e sbuffare, mentre la maglietta bianca s’increspava sul suo busto stretto e le vene si gonfiavano, spettrali e diafane, sulle sue mani.

Non gli rispose.

Jay non cercava scuse da lui e l’inutilità di ribadire un concetto fasullo e artificioso pulsava nitida nel suo cervello.

«Sei sicuro di volerlo lasciare qui?»

Il suo piede incontrò qualcosa che non aveva la stessa consistenza della terra morbida di fine ottobre e dei sassi scivolosi coperti di muschio. Delicata plastica dura. Fece una leggera pressione del ginocchio, affondando con tutto il peso della gamba sulla suola spessa.

L’oggettino scricchiolò appena e sprofondò ancora di più nella mistura di morte autunnale che si estendeva tutta intorno a loro.

«Perché? A chi verrebbe mai in mente di rubare un catorcio del genere?» ribatté Jay, pulendosi rapidamente le mani sui jeans scuri.

«Proprio perché è un catorcio dovresti preoccuparti»

La punta scavava. Il nervoso cresceva.

Aveva definitivamente perso la siringa.

Ingoiata dalla fanghiglia.

Si lasciò andare ad un sospiro frustrato.

«E invece non mi preoccupo»

Lo vide abbassare lo sguardo.

Una contrazione improvvisa del viso. Un velo, l’ennesimo, sugli occhi troppo lucidi, troppo inquieti, due maledetti buchi nel cranio.

«La smetti di giocare con le siringhe?» sbottò.

«Non sei tu quello che non si preoccupa?» ribatté bruscamente, cominciando a frugare di nuovo tra le foglie con la punta. Scalciò con forza un sasso dal terreno, che rotolò via con un lieve tonfo.

Ma non lo guardò, perché sapeva che lui aveva già inchiodato lo sguardo su di lui.

E poteva sentire la palla di sputo velenoso lievitare e crescere nel petto di Jay, avvicinarsi pericolosamente al confine del suo autocontrollo fino a sfiorarlo, quasi sfidandolo a lasciarlo andare, a scagliarlo contro di lui.

Udì il suono del suo respiro, lento e pesante, la sua figura solida, divisa fra bianco e nero, monolitica, davanti a sé, insieme minaccia e compagna.

Bella cazzata, bravo.

«Sei proprio un coglione»

Tutto ciò che gli dedicò. Una punta di denso rancore diluita dentro una frase che gli aveva sentito pronunciare così tante volte, con così tanti toni diversi.

«Lasciami in pace, non riesco a pensare a niente in questo momento» borbottò. Riusciva a malapena a distinguere i deboli bagliori argentati dei raggi delle ruote dallo spesso muro del buio.

Inspirò piano l’aria fredda e umida della notte.

«Ho l’ansia»

Avvertiva il pericolo nel silenzio di Jay più che nelle sue grida, nella sua imperiosa staticità più che nei suoi gesti smaniosi.

La sua condanna si avvicinava.

C’era sempre un prezzo da pagare.

Eccola, sta arrivando. Non ha capito nemmeno stavolta.

E così un «fanculo» riecheggiò nella cassa armonica che era diventato lo spazio di cui loro erano gli estremi, la porzione di bosco e siringhe e natura morta che delimitavano con le loro ingombranti, eppure insignificanti esistenze.

Si udì appena, nella vastità del silenzio notturno.

Ma ruppe gli argini della diga che conteneva tutta la sua frustrazione.

«Cedevo che volessi venire, se mi avessi detto subito che  avevi cambiato idea mi sarei risparmiato la rottura di coglioni di arrivare fino a qui»

Questa volta le parole erano alte, nasali.

Stonavano con la quiete granitica del bosco, la minavano così come stavano facendo con lui.

Sentì l’umiliazione pizzicare ed espandersi nella gabbia toracica come acido.

«Infatti è così»

Lo strazio di quelle tre parole pesava come una pastiglia troppo grossa sulla lingua. La sentiva ingessata, lenta, compressa contro la gola. Voleva controbattere, ma continuava a tenerla ferma.

Più in fondo possibile, si disse, così non puoi vomitare.

«Ah si? E allora perché ti lagni ogni volta che ti porto nei posti in cui tu decidi di andare?»

«Lo sai che non funziona così»

Stava mormorando. Non doveva mormorare, era consapevole di non doverlo fare, perciò si schiarì rapidamente la gola.

«Lo sai che non funziona così» ripeté più forte, prendendosi un attimo – solo uno - per lanciare un’occhiata al suo volto.

Era ancora immobile, fisso nella fredda rigidità del disprezzo che si dilatava attorno a lui come una pozza di catrame.

L’aveva raggiunto, lo stava avvolgendo.

Se mi fermo è finita.

«No che non lo so»

Poteva quasi vederlo stringere gli occhi, immaginarlo mentre si preparava la facciata da impermeabile stronzo che tirava fuori ogni volta che doveva demolire qualche povero idiota.

«Non lo so perché non è possibile che tutte le volte che usciamo tu faccia questa scenetta»

Gli pareva che il suo intero corpo fosse diventato un ammasso di angoscia convulsa e umiliazione.

Stava cuocendo nei suoi stessi vestiti.

Desiderò potersi liberare di quel fardello di carne e sangue e ossa che gli pesava, dio santo, gli pesava così tanto sostenere e rianimare quando tutto ciò che voleva fare cazzo tutto ciò a cui riusciva a pensare era andare via.

Desiderò essere un’altra persona.

Desiderò essere un’altra persona per smettere di sentire la vergogna scavargli l’esofago, mangiandogli ogni cellula, ogni residuo di pace come la corda strappa via all’impiccato, secondo dopo secondo, tutti gli appigli alla vita che gli restano.

L’accusa di Jay gli penzolava sulla testa come un foglio di condanna.

Si sentiva strangolato.

«Non è colpa mia»

Non piangere.

«Lo sai che ci sono dei momenti in cui succede e altri in cui invece sto bene»

No, non lo sa. Lo sai solo tu.

«No cazzo, non lo so»

Si stava frugando freneticamente nelle tasche, alla spasmodica ricerca del pacchetto di sigarette.

Il suo stomaco si contrasse in un moto di irrazionale disgusto.

Non vomitare.

«Non lo so perché non ha senso»

Le parole strascicate, la sigaretta stretta fra le labbra.

Un sibilo, una fiamma.

Se sento l’odore vomito.

«Credi che io riesca a spiegarmelo?»

No dio santo non piangere smettila devi controllarti controllati cazzo.

«Io so solo che voglio uscire, voglio fare ciò che è meglio per me» provò a respirare profondamente; sentì i polmoni dilatarsi e il cuore tremargli dolorosamente nel petto «ma poi quando esco davvero mi sembra che sia tutto sbagliato e voglio solo tornare a casa. Mi blocco completamente»

Inghiottì un groppo di saliva. Lo sentì raschiare senza pietà le pareti della sua gola, tentare di aggrapparsi al tessuto secco, tentare di strozzarlo.

Se muoio almeno non devo decidere.

«Lo sapevo che non dovevo darti retta»

Ammazzami. Prendimi a calci.

«No, io voglio andarci»

«Smetti di dirmi cazzate»

Sentiva il rumore del suo respiro sopra ogni altro. Sentiva il ritmo singhiozzante e affannato  dell’aria che entrava e usciva dal suo petto, prima fresca e poi tiepida.

Entrava e usciva.

Entrava e usciva.

Non sto morendo.

«Voglio andarci» ripeté, quasi bisbigliando. Jay fece per dire qualcosa, ma lo precedette.

«Se oggi vado, le prossime volte andrà sempre meglio»

«Sarebbe già dovuta andare meglio allora»

La brace della sigaretta brillava come una lucciola a un metro dal suo naso.

Scosse la testa nel buio.

«Non funziona così»

«Non funziona mai così» poteva quasi vederlo alzare gli occhi al cielo «prendi una decisione e basta, che mi sono stufato di farti da autista per poi sentirmi dire queste cazzate»

«Nessuno ti ha costretto»

Bella stronzata.

«Si, lo so»

Tutta la frustrazione era stata risucchiata via dalla sua voce. Il tono lapidario con cui pronunciò quelle poche sillabe, dure e crudeli, fu come una spinta sull’orlo del burrone.

Sto cadendo.

Erano entrambi immobili.

Ora muoio.

La sigaretta si struggeva nella mano di Jay, dimenticata, abbandonata al suo suicidio involontario.

Se se ne va muoio.

Si strinse le braccia intorno al corpo, in un patetico tentativo di impedirsi di tremare.

Morirò. Me lo sento. Vomiterò e morirò.

«Accompagnami solo oggi»

Il dolore prese una forma. L’imbarazzo gli punse gli occhi. Un miserabile principio di lacrime gli offuscò la vista, il pallore del viso di Jay divenne solo una chiazza bianca in mezzo ai tronchi neri.

«Per favore. Non te lo chiederò più»

Una sola volta. Una sola volta ancora mi basterà. Ce la farò, posso vivere senza.

Il doloroso calore della stanchezza che assale gli sconfitti gli avvolse lo stomaco.

I sensi di colpa gli tiravano gli angoli degli occhi, gli martellavano nelle tempie, gli stringevano il cranio in una morsa che non sapeva sciogliere.

«Per favore, aiutami»

Forse lo vide. Il sussulto, la corsa frenetica dei suoi neuroni, il fiume di empatia in cui nemmeno sperava più. Qualcosa attraversò il corpo immobile davanti a lui.

Forse.

Lo vide passarsi una mano sul viso, visibilmente combattuto.

«Va bene»

La diga tornò su. Un po’ di acqua calda e appiccicosa gli si staccò dalle ciglia.

La sentì cadere e perdersi tra le foglie.

«Ma è l’ultima volta che ti faccio un favore»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note autrice

Mi scuso per l’attesa, so di essere pessima. Ultimamente sono stata risucchiata da un vortice di avvenimenti che mi hanno portato via molto tempo ed energie (soprattutto l’università) quindi purtroppo  ho avuto poche occasioni di dedicarmi alla storia. Questo capitolo non è andato esattamente come avevo previsto, ma credo di essere abbastanza soddisfatta di come è venuto fuori, soprattutto perché l’evoluzione del personaggio di Lane mi sta particolarmente a cuore quindi ci tengo a fornire una rappresentazione chiara e – per quanto possibile – emozionante dei suoi sentimenti e del suo disturbo.

Per qualsiasi cosa (insulti o dubbi o manifestazioni di gioia) mi trovate su twitter sotto il nick @ loveleesnake

F.

   
 
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