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Autore: Lady1990    13/01/2019    5 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Ciao a tutti!
Dunque, prima di cominciare, è bene spiegare alcune cose, perciò ATTENZIONE pliiiiiz!
 
- Spero abbiate notato gli avvertimenti “Tematiche delicate” e “Violenza”. Significa che nella storia verranno fuori argomenti come abusi, bullismo, autolesionismo, sociopatia e in generale cose macabre.
Per quanto riguarda l’avvertimento sulla presenza di scene di violenza, beh, è appunto perché ci sono scene di violenza. NON sessuale, altrimenti avrei messo l’avvertimento Non-con.
- Questa storia è slash, MA ci saranno anche coppie e scene het. Spero non vi disturbi. Non ho messo la nota “Het” perché principalmente è una storia slash. Se ritenete che debba metterlo comunque, ditemelo e provvederò.
- La città in cui è ambientata la storia me la sono inventata, non esiste sulle mappe.
- Se siete curiosi, fate un salto sulla mia pagina facebook (Lady 1990). Infatti, pubblicherò lì le foto/immagini dei personaggi, oltre alle copertine-antemprima di ciascun capitolo (fatte alla bell'e meglio con power point, non giudicatemi) pochi giorni prima di ogni pubblicazione.
 
Detto ciò, vi lascio alla lettura e spero di ricevere i vostri pareri ^^

 
 
 
 
 
 


Una sottile falce di luna rischiarava i cieli sopra Ashwood Port. Nonostante fosse agosto, la nebbia ricopriva le strade e si arrampicava sui muri, assediando gli edifici simile a un soffice muro bianco che assorbiva tutti i suoni. Non un soffio di vento accarezzava le fronde degli alberi, eppure, se ti concentravi, nel silenzio immobile potevi udire fruscii e sussurri incomprensibili. Le finestre di case, negozi e ristoranti erano buie. I lampioni, assediati da nugoli di falene, proiettavano una luce fredda sull’asfalto.
 
A est, in direzione dell’oceano, le barche ormeggiate al molo rollavano sopra le correnti, saturando l’aria umida del gentile sciabordio dell’acqua. A ovest, in mezzo ai campi e sulle colline, il terreno brulicava di insetti, mentre solitari spaventapasseri vestiti di stracci vegliavano su di loro come silenziosi guardiani. Nel bosco, che si estendeva per chilometri a sud, riecheggiò il cacofonico gracchiare di uno stormo di corvi. Nelle ombre create dai cespugli e dalle frasche, gli occhi degli animali notturni sembravano rifulgere di un bagliore sinistro.
 
Tre camion scivolarono attraverso la città addormentata, senza essere visti o sentiti. A bordo c’erano sei uomini, due per camion. Il più giovane era Harry, di appena diciotto anni, nipote del capo della ditta di trasporti “Pithers&co.”, Will Pithers. Era il suo primo incarico, ottenuto dopo mille suppliche e promesse di comportarsi con professionalità. Se non avesse combinato casini, avrebbe avuto finalmente qualcosa da inserire nel curriculum. Trovare un impiego era un’impresa eroica negli ultimi tempi.

“Wow, guarda che nebbia.” sussurrò Harry allo zio, il quale era aggrappato al volante come se fosse un salvagente, “Non ti mette i brividi?”

“È solo nebbia.” borbottò caustico zio Will, premendo il freno per diminuire ancora la velocità, dato che non riusciva a vedere niente oltre i due metri di distanza.

“Ad agosto? Sulla costa?”

“Harry, stai zitto, così mi distrai. Se ci schianteremo contro un lampione, dirò che è stata colpa tua.”

Harry si imbronciò e si accasciò sul sedile a braccia conserte. I suoi occhi non si staccarono dal paesaggio sinistro che scorreva fuori dal finestrino.

Pochi minuti dopo, con un lieve stridio di ruote i camion imboccarono un vicolo stretto e parcheggiarono nell’area di sosta sul retro dell’edificio che ospitava la Fondazione Sthenos. Era una grossa villa che si ergeva su due piani, con ampie finestre, intonaco beige e porte in legno massiccio. Aggettava direttamente sulla strada ed era affiancata da un lato da una tavola calda, dall’altro da una libreria.

Le dimensioni imponenti della villa c’entravano poco con l’architettura del quartiere, costituito da casette anguste con persiane dipinte di blu, tetto alto e spiovente e un minuscolo vialetto a separarle dal marciapiede. Un esperto l’avrebbe definita “un pugno in un occhio”, ma per gli abitanti di Ashwood Port era da anni un punto di riferimento e ne andavano fieri.

La Fondazione, infatti, era l’unico ente culturale che si occupava della conservazione dei beni storici e artistici della città. Di norma, si potevano ammirare oggetti risalenti alla Guerra Civile, come incisioni, armi, uniformi e pagine di diario di confederati defunti. Adesso lo spazio era stato sgombrato per far posto a una mostra assai inusuale.

Mezza dozzina di uomini scesero dai camion e iniziarono subito a scaricare casse di legno di diverse dimensioni. Oltre ai lampioni e ai fari delle vetture, la sola fonte di luce disponibile era data da una lanterna appesa sopra l’entrata del magazzino sotterraneo.

La silhouette di Miss Sthenos, proprietaria della Fondazione, si stagliava sulla porta. La luce che accerchiava la sua sagoma la faceva sembrare sia un’ombra nera che una santa. Se ne stava lì, rigida come una statua, a osservare gli operai tirare giù dai camion il prezioso carico. Tra le mani stringeva una cartellina e una penna stilografica.

Sotto il suo sguardo rapace, affilato come un ago, gli uomini si affrettarono a compiere il loro lavoro, astenendosi dall’abbandonarsi alle solite chiacchiere per alleggerire l’atmosfera. Incapaci di gestire o individuare la fonte del disagio che faceva accapponare loro la pelle, sapevano soltanto che prima si fossero sbrigati a finire, prima se ne sarebbero andati.

Nonostante le raccomandazioni di tenere la testa bassa e non perdersi in fantasie, Harry non poté esimersi dal gettare un’occhiata sognante all’indirizzo donna. Sembrava una dea.

“Harry.” lo ammonì con un sibilo lo zio e, per far arrivare meglio il messaggio, gli schiaffeggiò la nuca mentre gli passava accanto.

Il ragazzo borbottò delle scuse e riprese a scaricare ostentando indifferenza, anche se i brividi non sembravano intenzionati a dargli tregua. Un tenue rossore gli colorava le guance e i pantaloni si erano appena ristretti sul cavallo. Attento a non farsi scoprire, tornò a fissare la donna di sottecchi, incantato dall’aura sofisticata che emanava.

I capelli corvini erano lisci, raccolti in una crocchia ordinata sulla nuca, così da esibire la curva elegante del collo. Gli occhi di una tonalità verdognola erano incorniciati da ciglia lunghe e arcuate, mentre la bocca dipinta di rosso aveva un taglio severo, che spiccava come una ferita sanguinante sull’incarnato pallido. La giacca del tailleur nero le fasciava i fianchi a pennello, la gonna stretta le arrivava al ginocchio e i tacchi a spillo facevano risaltare ancora di più le caviglie sottili. Le dita affusolate terminavano in unghie laccate di verde. Il suo portamento richiamava quello di una nobildonna, regale e austero, e la sua voce impartiva ordini con una naturalezza che parlava di anni di esperienza.
 
Ad Ashwood Port, Miss Sthenos era nota per essere una professionista: meticolosa, intransigente, ambiziosa, acculturata. Il suo aspetto giovanile non era quello che ci si sarebbe aspettati da una donna sulla soglia dei cinquanta, come asseriva la sua patente.
 
Aveva dato vita da sola alla sua Fondazione, un anno dopo essere arrivata ad Ashwood Port. Il fatturato cospicuo che aveva tirato su le aveva permesso di instaurare contatti con parecchi colleghi e filantropi nel mondo. Costoro avevano presto imparato che Miss Sthenos valutava l’arte al di sopra di qualsiasi cosa.
 
La sua ultima ossessione riguardava dei manufatti risalenti alle prime civiltà dell’Asia Minore. Erano rimasti per almeno una decade sotto la custodia di Duke Fennelson, una mummia di quasi un secolo, talmente tirchio da far vergognare persino il più avido dei collezionisti. Dopo lunghe trattative e conversazioni tediose, nelle quali Miss Sthenos aveva dovuto dar fondo a tutto il suo fascino, Fennelson le aveva concesso l’immenso onore di esporre i suoi reperti. La maggior parte dei quali non erano stati acquisiti attraverso vie legali, ma a nessuno serviva saperlo.
 
In verità, si sarebbe accontentata di studiarli per conto proprio nelle sale del castello scozzese di Fennelson, soltanto per provare il brivido di maneggiare un oggetto creato dai primi popoli civilizzati della terra. Ma non aveva potuto dire di no quando lui le aveva proposto di organizzare una mostra ad Ashwood Port, approfittando degli spazi dell’edificio della Fondazione. Che lo avesse fatto soltanto per convincerla a passare la notte con lui non aveva alcuna rilevanza.
 
Sotto la maschera granitica, Miss Sthenos vibrava di eccitazione. Non perse di vista neanche una cassa. Se uno di quei bifolchi ignoranti fosse stato sbadato, lo avrebbe trasformato in pietra e privato della testa, per poi aggiungere quest’ultima alla sua collezione privata. Non era estesa come quelle delle sue due sorelle minori, ma ne andava fiera.
 
“Ehm, mi scusi, questa dove la metto?” le chiese Harry dopo aver raccolto il coraggio a quattro mani, accennando alla piccola cassa che reggeva fra le braccia.
 
La sua voce non tremò come aveva temuto, e di questo ringraziò Dio. Trovarsi al cospetto di quella bellissima donna stava scatenando in lui istinti strani, come il desiderio di inginocchiarsi e giurarle eterna devozione. Scosse il capo e deglutì, abbassando lo sguardo come fa un agnello davanti a un lupo, conscio di non avere scampo.
 
“Sul tavolo in fondo al magazzino.” rispose in tono tagliente.
 
Quando tutte le casse furono scaricate, gli operai batterono in ritirata. Miss Sthenos diede loro le spalle, non ritenendoli degni nemmeno di un saluto. Per questo non si accorse del ragazzo, fermo a pochi passi da lei, che la guardava con aria persa.
 
“Harry!” bisbigliò concitato zio Will, già salito sul camion.
 
Harry si voltò con un sospiro laconico e montò sul camion, che venne inghiottito di nuovo dalla nebbia non appena si rituffò in strada.
 
I tre camion e i sei uomini a bordo sarebbero stati dati per dispersi due giorni dopo. Le vetture sarebbero state ritrovate la settimana successiva, ribaltate in fondo a un crepaccio poco fuori Ashwood Port, ben lontane dalla strada. Degli operai, invece, nessuna traccia.
 
Miss Sthenos scese le scale del seminterrato ed entrò nel magazzino, dove cominciò ad aprire le casse con impazienza. Innanzitutto, confermò la presenza dei manufatti sulla lista che si era fatta spedire da Fennelson. Una volta verificato che niente mancasse all’appello, posò cartellina e penna per terra e si inginocchiò con grazia di fronte agli idoli sacri. Non si curò di indossare guanti in lattice per maneggiare i reperti, infilò direttamente le braccia nella cassa.
 
Una dopo l’altra, accarezzò le statuette, ammirandone rapita la fattura. A giudicare dall’attenzione con cui erano state conservate, era palese quanto Fennelson ci tenesse. Non era che pietra scolpita da mani umane, destinata alla morte come tutte le creazioni dell’uomo. Eppure, Miss Sthenos non poteva che trovare il richiamo che trasudava da essa ipnotico. Riusciva quasi a udire la sua voce, pregna di ricordi, parole e sentimenti.
 
La pietra poteva apparire priva calore o energia, priva di anima, a chi non ne conosceva il vero valore. Per Miss Sthenos essa era sempre viva, vibrante, rumorosa. Chi meglio di lei poteva comprendere l’intrinseco fascino di una vita imprigionata in un pezzo di pietra? Era movimento cristallizzato nel tempo per durare in eterno. A suo modesto avviso, non esisteva nulla di più bello.
 
Posò gli idoli e scandagliò le armi, gli utensili, un paio di tavolette, le ciotole e i fossili. La meraviglia minacciò di sopraffarla quando, tre ore più tardi, si accovacciò davanti all’ultima cassa, che conteneva gioielli d’oro e ninnoli vari. Li esaminò tutti col fiato sospeso e un sorriso deliziato, soppesandoli tra le mani.
 
Le lampade sul soffitto del magazzino sfarfallarono, come se fossero state vittime di un calo di tensione. Miss Sthenos fece saettare lo sguardo confuso verso l’alto e le fissò accigliata per un momento, poi scrollò le spalle.
 
Stava per richiudere la cassa, quando un oggetto attirò la sua attenzione come una calamita. Adagiata sulla paglia plastificata in mezzo ai gioielli, c’era una specie di moneta. Era un disco perfetto, intarsiato, spesso un dito e largo quanto il palmo della sua mano. Il materiale sembrava oro. I simboli incisi sopra erano qualcosa che non aveva mai visto prima. Un profano li avrebbe etichettati come simboli cuneiformi, ma Miss Sthenos aveva studiato a fondo quella scrittura e questi erano decisamente diversi. I simboli erano predisposti in sette cerchi concentrici e al centro c’era una mano stilizzata.
 
Con il pollice tastò i bordi della moneta, valutandone la durezza e consistenza, e sfiorò i fregi con i polpastrelli. Era sicura che prima non ci fosse, poiché un pezzo dall’aspetto così singolare non le sarebbe mai sfuggito.
 
Recuperò la cartellina. Sfogliando la lista, appurò che quella strana moneta non faceva parte della collezione. Quindi come ci era finita lì? Che Fennelson l’avesse inserita all’ultimo minuto per farle una sorpresa? Anche se fosse, non poteva esporla se non conosceva la sua storia. Le sarebbe piaciuto appropriarsene, ma se Fennelson gliel’avesse davvero fatta recapitare per sbaglio, l’avrebbe accusata di furto. Non poteva permettere che la sua reputazione venisse macchiata da un malinteso. La cosa più intelligente da fare sarebbe stata telefonargli e chiedergli delucidazioni, ma l’orologio segnava ormai le quattro del mattino.
 
Sbuffò e fece per riporre la moneta nella cassa, quando all’improvviso le scivolò di mano, descrivendo una piccola parabola verso l’alto. Squittì stupita e si protese per afferrarla prima che toccasse terra. La moneta planò sul suo palmo aperto per un soffio. Miss Sthenos la strinse ed esalò un sospiro di sollievo.
 
Non si accorse del taglio sul pollice, né del sangue che macchiava la moneta.
 
Le luci del magazzino si spensero di colpo, così come i lampioni in strada. Il buio la circondò e i suoni vennero divorati dal silenzio. All’esterno, la nebbia si infittì, i corvi nel bosco ammutolirono e gli insetti si rifugiarono nelle loro tane sottoterra.
 
Una mano scheletrica emerse dalla moneta, seguita da un braccio più lungo del normale, poi una spalla, una testa, l’altra spalla, l’altro braccio. Quando fu il turno del busto, Miss Sthenos strillò e mollò la presa sulla moneta. Invece di precipitare al suolo, l’oggetto rimase a fluttuare a mezz’aria. La creatura terminò di uscire e si erse sulle gambe rinsecchite. Era priva di faccia, alta almeno tre metri e tutta nera, tanto che si mimetizzava con le ombre del magazzino.
 
Miss Sthenos boccheggiò, paralizzata dalla paura. Per un breve istante le parve strano trovarsi dall’altra parte: pietrificata, benché la sua pelle fosse ancora morbida, il sangue fluisse rapido nelle vene e il cuore le battesse frenetico nel petto. Non aveva mai sperimentato un terrore così intenso e schiacciante da strapparle via il fiato.
 
Si chiese se fosse quella la sensazione che le sue vittime provavano al suo cospetto, poco prima di congedarsi dalla vita. Nella sua mente rivide le loro facce, contorte in smorfie grottesche, un grido incastrato in gola e gli occhi sbarrati di fronte all’ineluttabile fato che li attendeva. Ma, pur nella paura, possedevano una bellezza che raramente scorgeva nei viventi.
 
Un attimo dopo, le venne da domandarsi se anche lei, in quel momento, fosse bella come loro; se anche lei sarebbe rimasta cristallizzata in eterno come un idolo sacro; se anche lei, un giorno, sarebbe entrata a far parte della rinomata collezione di qualcuno che sapeva apprezzare l’arte in tutte le sue forme, e in quanto tale le avrebbe conferito l’adorazione che si riserva soltanto a una divinità.
 
La mano della creatura scattò, si avvinghiò attorno al suo collo e la sollevò senza apparente sforzo, facendola ciondolare a un metro da terra. Un tacco le si sfilò dal piede. Il tenue rumore che fece quando cadde riecheggiò per la stanza con il fragore di un tuono.
 
Miss Sthenos annaspò e artigliò il braccio a cui era attaccata la mano che la teneva sospesa. Per qualche ragione, le sue dita non riuscivano a trovare un appiglio, scivolavano continuamente come se stesse cercando di acciuffare una saponetta bagnata. Veri artigli, marroni e ricurvi, presero allora il posto delle unghie, rivelandosi però appendici inutili non appena fu chiaro che non si sarebbero mai ancorati a brandelli di carne inesistente.
 
In risposta al crescente senso di pericolo, la sua maschera umana si sgretolò. I suoi occhi brillarono nel buio, due biglie del colore dell’acqua marcia di una palude, e le labbra si stirarono su sottilissime zanne affilate dai riflessi argentei. I capelli si sciolsero dalla crocchia e divennero serpenti neri, vivi, che non esitarono a scagliarsi con sibili feroci contro il nemico per avvelenarlo attraverso i loro morsi letali. Quando si accorse che nemmeno il veleno funzionava, Miss Sthenos mostrò le zanne alla creatura, scalciò con impeto e si dimenò, invano.
 
Nell’oscurità non riusciva a vedere il suo aggressore, ma sapeva di trovarsi alla mercé di qualcosa più grande di lei. Talmente grande da ridurla a fare la figura della donna fragile e indifesa, in preda a un terrore atavico che le impediva perfino di pensare.
 
Dapprima, credette che la causa dei bisbigli che udiva risuonare nel cranio fosse la mancanza di ossigeno, ma poi registrò una voce. Era impossibile capire se fosse maschile o femminile, forse un misto delle due. L’unica certezza era che non apparteneva a questo mondo.
 
La creatura, qualunque cosa fosse, era molto più forte di lei, più cattiva, più affamata. Voleva mangiare. E Miss Sthenos, volente o nolente, le avrebbe fornito il suo aiuto.
 
Un grido le morì in gola e, nell’arco di un respiro, venne inghiottita dal buio.
 
Quando le luci si riaccesero, illuminarono le casse dei reperti e la scarpa di Miss Sthenos, abbandonata sul pavimento del magazzino deserto.










 
  
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