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Autore: Sylphs    16/01/2019    3 recensioni
Arianna lo prese con forza per le corna, e lo obbligò a guardarla negli occhi: "Ascolta. Ascolta! Voglio che tu faccia qualcosa per me..."
Il mito del Labirinto in una personale rivisitazione da parte di un'amante dei mostri, in qualsiasi forma si presentino.
Genere: Avventura, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Arianna e il Minotauro




Il Labirinto di Cnosso. Non v’era né in cielo né in terra un luogo più terribile di quello. Le sue dimensioni erano immense, tanto che faceva a gara col palazzo reale per grandezza, ma era meno alto e non aveva tetto. Visto dall’alto appariva come un inestricabile dedalo di stretti corridoi di marmo l’uno uguale all’altro, che s’intrecciavano come serpenti in mille direzioni diverse. Alcuni di essi portavano semplicemente a vicoli ciechi, altri continuavano per un bel pezzo, pieni di curve e di passaggi da scegliere. Per cui chi si sperdeva lì rischiava di impazzire a furia d’aggirarsi senza meta, cercando un’uscita impossibile.
Al centro di quella sequenza interminabile di corridoi v’era la Piazza del Labirinto, un minuscolo spiazzo leggermente diverso dal resto della costruzione. I quattordici giovani ateniesi scelti in passato, una volta fatti entrare bendati e condotti lì, avevano girovagato per ore, immergendosi sempre più nell’oscurità senza uscita, e l’arrivo del Minotauro era quasi stato un sollievo per loro. I nove anni trascorsi da allora avevano lasciato di quegli innocenti solo mucchietti d’ossa sparpagliati agli angoli dei corridoi, qua e là, e brandelli impolverati di vesti.
Il Minotauro, figlio di Pasifae e del toro di Poseidone, principe di Creta, s’aggirava senza meta nei cunicoli del Labirinto, una lugubre ombra tormentata che si trascinava avanti pesantemente, prendendo strade a caso e fermandosi di tanto in tanto a riposare o a succhiare convulsamente qualche osso ormai privo del minimo rimasuglio di carne. Accorgendosene, il mostro emetteva un verso pieno di disperazione e, rabbioso, gettava gli ossi a terra con violenza, frantumandoli. Cercava perfino tracce di cibo nelle vesti, ma anche quelle ne erano prive. La sua fame cresceva sempre più.
Era stato rinchiuso nel Labirinto quand’era ancora un bambino. Legato da catene e corregge, strettamente bendato, era stato condotto nel sollievo generale nella Piazza e lasciato lì. Quand’era riuscito a liberarsi dai legami, era corso mugghiando ferocemente da tutte le parti, incapace di capire di non avere speranza di uscire, s’era aggirato per ore nei corridoi, era tornato indietro di fronte a un vicolo cieco, non s’era arreso. Per giorni aveva continuato a correre, disperato, torvo e ringhiante, ma alla fine i suoi passi si erano fatti meno rapidi, la sua rabbia s’era acquietata, e s’era messo a camminare con lentezza rassegnata, pensando all’unica cosa che per lui contava davvero, il cibo, e a quando avrebbe potuto averne.
Amava la carne umana come una droga, tanto che, se avvertiva quel particolare odore, cadeva preda d’una frenesia spasmodica e divorava convulso tutto quello che gli capitava di fronte. Solo dopo aver mangiato carne umana veniva colto da un senso di serenità e di soddisfazione assoluta. Allora s’accoccolava a terra e dormiva profondamente, anche per giorni. Finché non si svegliava, e la caccia ricominciava.
Tuttavia, nel Labirinto non c’era traccia di carne umana, e il Minotauro era caduto sempre più preda della disperazione e della fame. Gli insulsi pasti che gli lasciavano lo mantenevano in vita, ma non lo soddisfacevano. Erano insapori per lui. Aveva ululato di dolore per giorni, senza avvertire nemmeno una traccia di odore umano, nella solitudine e nell’oscurità del Labirinto.
Ma poi, il miracolo. Un bel giorno, mentre strisciava stancamente per i corridoi, le sue narici erano state pizzicate da quattordici diversi aromi stuzzicanti, e la gioia l’aveva sopraffatto. S’era gettato freneticamente laddove provenivano, aveva trovato i giovani ateniesi, era saltato loro addosso e per la prima volta in tanto tempo s’era sentito appagato e felice. Aveva dormito per una settimana intera dopo la scorpacciata.
Ma poi si era destato, e la tortura era ricominciata, poiché il miracolo non s’era ripetuto. A sostituire la deliziosa carne di quei quattordici ragazzini erano tornati gli insipidi piatti di prima, i morsi della fame avevano ripreso a tormentarlo, e il Minotauro s’era nuovamente disperato. Col tempo era cresciuto e quasi nemmeno ricordava quel giorno glorioso.
La sua mente non era sufficientemente sviluppata da dargli una coscienza, e si faceva guidare spesso dall’istinto. Una volta captato un odore umano o animale, lo seguiva per nutrirsi. Se doveva dormire trovava un posto più comodo per farlo, e di tanto in tanto liberava il corpo dei suoi rifiuti.
Aveva avuto un’infanzia gloriosa, benché non la ricordasse molto bene. Sapeva soltanto ch’era stato libero e che aveva mangiato fino a scoppiare, e che tutti i patetici sistemi inventati dagli uomini per tenerlo a bada non erano serviti a nulla. Rammentava meglio in particolare la volta che, con le sue possenti corna, aveva abbattuto la porta della misera cella in cui avevano provato a rinchiuderlo – la progenitrice del Labirinto –  ed era uscito mugghiando di gioia, travolto da centinaia di profumi diversi, uno più desiderabile dell’altro.
Ma quel Labirinto l’aveva battuto. Le sue corna, la sua forza, i suoi muscoli, i suoi denti non potevano nulla contro la freddezza dei muri che lo imprigionavano. Non poteva far altro che aggrapparsi alle deboli percezioni del passato che il suo cervello poco sviluppato gli consentiva di trattenere, al momento in cui balzava addosso alla vittima, vedeva i suoi occhi spalancati, la sua bocca aperta in un urlo, l’orrore che le animava il viso, e poi il sangue e il piacere e l’appagamento che seguivano. Una volta finito, subito cominciava con un’altra. Uccidere non lo turbava minimamente. E lì, rinchiuso nell’inestricabile Labirinto, rammentava la caccia con rabbia e rimpianto, poiché adesso era ridotto all’impotenza. In tutta la sua vita non aveva mai incontrato qualcuno in grado di resistergli.
Due soli erano gli aromi umani cui era in grado di resistere, due sole le fragranze che lo facevano fremere ma non dalla fame, e che avrebbe seguito senza cattive intenzioni. Quelle di Minosse e di Arianna.
Aveva imparato a riconoscerne gli odori da bambino, poiché erano stati gli unici a stargli a lungo intorno senza rifuggire. Gli altri suoi fratellastri e sorellastre li avrebbe divorati senza pensarci due volte e senza riconoscerli.
Allora, quand’era bambino, aveva avuto, a suo modo, bisogno di cure. Una nutrice aveva provato a dargliele, costretta dal Re di Creta malgrado la sua repulsione e il suo terrore, ma appena se l’era avvicinato al morbido seno bianco e il suo profumo irresistibilmente dolce lo aveva avvolto, inebriandolo, anziché prenderle il latte l’aveva derubata di tutto il suo sangue, lappandolo ingordamente dalle mammelle martoriate. Probabilmente avrebbe fatto lo stesso con Minosse e Arianna, ma loro i primi tempi erano stati abbastanza furbi da restare a debita distanza.
Il Minotauro, che allora non sapeva camminare, aveva respirato i loro odori senza potersi avvicinare, aveva imparato a conviverci senza incappare nella frenesia, ne aveva riconosciuto i volti e la voce. Soltanto in loro aveva trovato una parvenza d’affetto, e soltanto loro in tutto il mondo erano immuni alla sua fame.
Per Minosse tuttavia nutriva un sentimento d’odio e amore, poiché si rendeva vagamente conto che non l’aveva mai voluto, e che l’aveva lasciato in vita solo per costrizione. Inoltre, non s’era più fatto vedere da quando era stato rinchiuso nel Labirinto. C’erano state volte in cui gli si era smosso qualcosa nello stomaco ed era stato lì lì per balzargli addosso. Era insopportabile la repulsione che emanava dal re.
Per Arianna non aveva il minimo impulso omicida, e trovava orribile il pensiero di cibarsi di lei come avrebbe fatto con chiunque altro. La sua presenza era appagante come il cibo e rischiarava, con esso, la reclusione nel Labirinto. Ogni volta che avvertiva la lieve scia del suo profumo, il Minotauro gioiva e s’affrettava dove sapeva di trovarla. Da bambino aveva visto in lei una guida che gli insegnava cos’era giusto e cosa sbagliato: ricordava di sentirsi preda d’una desolante mortificazione ogni volta che quella bimbetta bionda e seria andava a mettersi sulla soglia della sua cella a braccia incrociate. Ora più che altro era l’unico ponte che lo collegava al resto del mondo, l’unica presenza che si degnava di fargli visita di tanto in tanto, guidata da un gomitolo che le impediva di perdersi. Il suo odore era cambiato, negli anni di passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, in un modo sottile che il Minotauro era troppo rozzo per comprendere e che tuttavia percepiva, e mentre la sua forza, la sua deformità, divenivano via via più temibili ed evidenti, nella sorellastra crescevano grazia e fascino.
Perciò, mentre camminava tormentato nei corridoi, l’invincibile divoratore di uomini sopravviveva per due cose, il cibo e Arianna, le uniche gioie della sua vita. E levava i vuoti occhi neri al cielo puntellato di stelle che brillava sopra la sua testa. Ma poiché la carne umana mancava da nove anni e Arianna non s’era presentata come avrebbe dovuto, gettò indietro la testa e cacciò un orribile verso pieno di disperazione rabbiosa. Se fosse stato in grado di piangere, l’avrebbe fatto. Provò il cieco desiderio di uccidere qualcosa, qualunque cosa, anche senza mangiarla, per il semplice gusto di farlo.
Nella reggia di Cnosso, troppo distante per udirlo, la Principessa Arianna studiava incuriosita l’affascinante giovane che era giunto da Atene insieme ad altri tredici vittime sacrificali, l’unico il cui sguardo ancora brillava di speranza e vigore, come se in cuor suo sentisse di poter evitare la morte. Quella sua silenziosa determinazione, l’innegabile prestanza della sua figura, turbavano fastidiosamente la fanciulla, e quando Teseo incontrò i suoi occhi, benché fosse arrossita, lo guardò a lungo, ignara dei lamenti traditi del fratellastro.

Quella sera stessa, seduta al tavolinetto di mogano accanto al suo grande giaciglio, ripensava sospirando agli sguardi che lei e il giovane si erano scambiati, alla delicata rosa bianca che lui le aveva offerto sfuggendo alla truce sorveglianza delle guardie. Aveva accompagnato il dono con un sorriso sicuro e luminoso che le aveva fatto tremare il cuore in petto. Quella palese fascinazione la spaventava, poiché aveva il terrore di stare per innamorarsi di una persona condannata a morire atrocemente.
Irrequieta, s’alzò in piedi e prese a passeggiare avanti e indietro per la stanza come una belva in gabbia, la lunga tunica bianca che delineava le forme in boccio del suo corpo e i capelli sciolti sulle spalle, cui l’oscurità strappava riflessi dorati. Il viso era distorto dalla preoccupazione, gli occhi verdi ardevano.
“Cosa mi sta accadendo?” si chiese angosciata. Spalancò le imposte sulla notte puntellata di stelle, sull’aria salmastra che spirava dal mare. Uscì sul balcone, tormentata da un qualcosa che non aveva nome, vi si appoggiò con un lungo sospiro tremulo. Abbassò lo sguardo sull’immenso Labirinto che s’estendeva sotto di lei, si perse nella trama di quella miriade di stretti corridoi. Da qualche parte, lì, s’aggirava tormentato il Minotauro, suo fratello, la stessa persona che aveva visto crescere e a cui per compassione s’era accostata. La persona – ma era poi una persona? – che, nel giro di pochi giorni, avrebbe divorato l’unico giovane che era stato capace di attrarla.
Se Zeus aveva decretato che lui morisse in quel Labirinto, come poteva lei, Arianna, opporsi al suo volere? Convincere Minosse a lasciarlo libero era inutile, il re non avrebbe ascoltato nessuno in proposito. La possibilità che il giovane si salvasse era lontana come l’Olimpo: senza nessun’arma, senza il gomitolo, era perduto. E anche se avesse avuto un’arma, anche se avesse avuto un gomitolo, che speranze poteva avere contro la furia del Minotauro?
Trasalì e si ritrasse di scatto dal balcone: “Ma cosa penso?” si chiese inorridita. “Mi metto a congetturare su un possibile modo d’uccidere il Minotauro, quel povero diavolo che al mondo ama solo me? Cosa me ne importa d’un giovane che quasi non conosco? Che vada pure a morire, non è affar mio la sua sorte!”
E tuttavia l’angoscia continuò a rosicchiarle il fegato anche quando si costrinse a mettersi a letto, anche quando si rintanò sotto le coperte e si sforzò di pensare ad altro e di ritrovare la sua solita freddezza. Era tutto tremendamente ingiusto, che un giovane capace di farla sospirare con quella mestizia dovesse finire divorato dalla creatura che si fidava ciecamente di lei. Nulla la legava al giovane: eppure era come se un filo, sottile come quello del suo gomitolo, la tenesse avvinta a lui. Cosa avrebbe provato quando le tre norme avessero reciso quel filo e condotto il giovane nell’Ade?
“Che devo fare?” sussurrò nel buio e nel silenzio della stanza. “Che devo fare?”
Dall’Olimpo non giunse alcuna risposta, alcun conforto.

Insonne quanto lei, Teseo Principe d’Atene contemplava il firmamento dal lucernaio sul soffitto del misero locale in cui era stato gettato insieme agli altri prigionieri, premuto contro i loro corpi sudati e dimenanti, nelle orecchie i lamenti e i gemiti che emettevano sognando il mostro che a breve avrebbe fatto banchetto delle loro carni.
“Devi avere un punto debole” pensava ferocemente, le labbra distorte in una smorfia di belva cacciatrice che non riusciva a guastare la perfetta armonia del suo volto. “Devi avere una debolezza, abominio, e io la scoverò!”

Nel buio e nella solitudine del Labirinto, sotto al medesimo cielo trapunto di milioni di luminose stelle, il Minotauro, accovacciato in posizione fetale sul suolo polveroso, si destò di colpo da un sonno inquieto ed emise un mugolio distorto, messo in all’erta da un incubo angosciante che non ricordava. Per qualche attimo restò teso e coi sensi ben vigili, ansimante e spaventato, poi qualcosa gli suggerì che non c’era niente da temere, che si era trattato di una delle strane paure che stavano nella sua testa, e si rilassò un poco. Ma il senso d’inquietudine che s’era ritrovato addosso dal suo risveglio non lo abbandonò.
Pian piano si distese e s’abbandonò contro la parete in una posizione che poteva quasi essere definita seduta, non fosse stato per le angolature contorte di braccia e gambe. I suoi vuoti occhi neri vagarono agli stretti corridoi del Labirinto, resi indistinti dall’oscurità, li scrutarono nervosamente, come se temesse che ci fosse qualcosa in agguato nell’ombra. Lui, che non temeva nulla se non i morsi della fame che non l’abbandonavano mai e la cattività che sopportava da ormai tanti anni.
Annusò l’aria con lo stesso nervosismo di prima, pronto a scattare se avesse avvertito un odore estraneo, ma niente. L’aria sapeva di mare, d’erba appena tagliata e del puzzo malsano del Labirinto. Il Minotauro tuttavia persisteva ad essere irrequieto. In ogni caso, pensava nella misura in cui riusciva a formulare un pensiero, qualsiasi cosa fosse l’avrebbe frantumata, smembrata e divorata prima che potesse anche solo avvicinarsi, come era sempre stato. Nessuno al mondo era in grado di batterlo all’infuori del Labirinto inanimato. Se il nemico si fosse presentato, con piacere si sarebbe cibato di lui, con piacere gli avrebbe frantumato il cranio e dilaniato le carni. Si mise in piedi grevemente, in una posa minacciosa, e lanciò il suo grido di guerra, un orrido mugghio che non aveva nulla di umano e che rimbombò con sfida per tutto il Labirinto. Che venissero ad affrontarlo! Non aspettava altro!
Dopo diversi minuti che restava così, si rese conto che non c’era davvero nulla, che il Labirinto era sempre gelido, silenzioso e vuoto, che era solo, come al solito. Altrimenti avrebbe captato l’odore. In quel momento rammentò vagamente quello che doveva aver sognato: sognava di non potersi muovere e mentre se ne stava così impotente arrivava una sagoma buia che impugnava una di quelle strane armi luccicanti dalla punta affilata, e per la prima volta, accorgendosi che appunto non era in grado di difendersi, provava paura e angoscia.
Ma quello era stato soltanto un sogno. Un sogno dettato probabilmente dalla fame.
Il Minotauro scrollò sgraziatamente le ampie spalle ed emise uno strano verso, di nervosismo e stanchezza. Non era tempo di sogni. Alzò appena lo sguardo al cielo buio della notte. L’occhio della luna, fisso su di lui, sembrava deriderlo. Il mostro digrignò le zanne giallastre e acuminate, le punte delle sue lunghe corna splendettero come due bianche saette. Che anche lei, la luna, avesse il coraggio d’affrontarlo apertamente. Perché tutti si nascondevano e rifuggivano?
Ebbe di colpo uno dei suoi soliti quanto inspiegabili balzi d’umore. La sua debole mente si distolse indifferente dalle irrequietezze, dai sogni e dalla rabbia di poco prima e si mise a vagare in cerca di qualcos’altro su cui concentrarsi. Era il Labirinto che lo costringeva a pensare, a sviluppare il suo lato umano: altrimenti si sarebbe curato solo di mangiare e mangiare e mangiare.
Con fatica tirò fuori dal magma confuso della sua memoria il viso di Arianna. Quand’era piccolo si ricordava di lei solo quando se la trovava davanti, solo quando il suo particolare profumo gli pizzicava le narici, ma ora, nelle lunghe ore di solitudine e di vagabondaggio nel Labirinto, ne aveva fatto un vero e proprio ricordo, che riportava alla luce per rinfrancarsi nei momenti peggiori, insieme a quello del cibo. Pensò che gli sarebbe piaciuto vederla adesso, immediatamente. Aveva bisogno di lei. Forse, pensò, se la chiamava molto forte l’avrebbe sentito e sarebbe accorsa. Non doveva essere molto lontana, se veniva tutte quelle volte (egli non aveva una sua concezione dei luoghi e non immaginava la collocazione della reggia di Cnosso).
Tutto preso dal suo proposito, il Minotauro fece qualche greve passo avanti, poi gettò indietro la testa, gonfiò i polmoni e si sforzò disperatamente di pronunciare la parola “Arianna” con coerenza e a voce molto alta, ma gli uscì solamente un urlo disarticolato che metteva i brividi solo a sentirlo e che fece crescere la sua angustia. Ci riprovò, ostinato. Stavolta si premurò di muovere quella sua enorme bocca di toro in modo da sillabare bene il suono che tante volte aveva udito, ma dalla sua gola provenivano solo muggiti ripugnanti e osceni.
Pestò i piedi dallo stupore e dal dolore. Aveva ucciso, smembrato e mangiato valorosi soldati cretesi, faceva tremare gli esseri umani al solo vederlo, era nato fracassando il corpo della madre a calci…e non riusciva a pronunciare quella sola, vitale parola. Era arrabbiato. Arianna non veniva perché non riusciva a parlare.
Una serie di grida, una più disperata e disumana dell’altra, scossero il Labirinto in rapida successione, e molti che stavano nella reggia rabbrividirono e chiusero meglio le imposte.
Il Minotauro s’era infuriato, ed ora gli occhi gli ardevano come fiamma, gonfiava i muscoli del torace umano, una vena gli pulsava sul collo e puntava le corna dinnanzi a sé come se volesse caricare qualcosa, ma dato che quella collera sanguinosa era diretta contro se stesso era ancora più terribile. Si chiese furiosamente cosa non gli facesse dire Arianna, cosa in lui dovesse essere distrutta o quantomeno punita. Senza darsi risposta, provò per l’ultima volta, inseguendo una speranza ormai inconsistente per pura ostinazione.
Il ruggito venne fuori più indistinto, vi si poteva captare una serie di suoni confusi, ma non poteva essere definito una parola. Il Minotauro scosse scoraggiato l’enorme testa, ma anziché infuriarsi s’accasciò sfinito contro una delle pareti spoglie del Labirinto e si lasciò cadere in ginocchio, svuotato. Arianna non sarebbe mai venuta. Non sarebbe mai riuscito a chiamarla quando aveva bisogno di lei. L’unico sentimento puro che provava era soffocato dalla collera e dall’amarezza.
Così, nello scoraggiamento e nel dolore, egli rammentò a fatica di un pomeriggio d’estate che aveva circa sei o sette anni, che era rinchiuso nella sua sontuosa camera da letto, intento a distruggere tutti i giocattoli che Minosse s’ostinava a regalargli per vedere cosa c’era dentro, corrucciato che non ci fossero le ossa e le budella e il sangue che aveva scorto la prima volta che si era nutrito.
Ricordava che gli era stato appena donato un cavalluccio a dondolo scolpito dalle sapienti e prodigiose mani dell’artigiano reale, Dedalo, lavorato con tanta minuzia che ogni singolo ricciolo della criniera era intagliato alla perfezione. Lui, però, non aveva fatto caso alla bellezza dell’oggetto, progettato per stupire e deliziare menti più fini della sua, preso unicamente a crucciarsi per la sua fame sempre insoddisfatta e per il soldatino di piombo che aveva ridotto in pezzi. Avrebbe apprezzato di più quel cavallino se fosse stato vero e commestibile, di legno gli sembrava inutile, addirittura frustrante, qualcosa che aveva l’aspetto del cibo ma non il suo profumo e la sua consistenza.
Mentre se ne stava a rosicchiare i resti del soldatino, disdegnando il dono appena ricevuto, Arianna, che allora doveva avere sugli otto anni, era entrata nella cella, la solita espressione seria e corrucciata dipinta sui tratti più infantili. Il Minotauro bambino di quel giorno d’estate che credeva di aver dimenticato per sempre era sobbalzato e l’aveva guardata con aria colpevole, sicuro che l’avrebbe rimproverato di aver distrutto il suo giocattolo.
Ma lei era interessata al cavalluccio: “Oh! Che bello!” aveva detto con una nota di invidia e di ammirazione nella voce, protendendo una mano come se volesse carezzargli la criniera. Il Minotauro aveva capito che le piaceva il cavallino e aveva perso interesse per il bambolotto fatto a pezzi, girandosi verso di lei.
“Come sei fortunato” aveva sospirato l’Arianna di dieci anni prima, facendo scorrere le dita sul legno lucido e levigato. Osservata dal perplesso bambino mezzosangue, aveva esitato un attimo, poi s’era sollevata l’orlo frusciante della tunica e s’era sistemata con grazia sulla groppa del cavalluccio. Sorridendo soddisfatta s’era chinata sul pomo della sella, le mani affondate nei sontuosi riccioli della criniera, e, gettando indietro i capelli, aveva esclamato guardando battagliera fuori dalla finestra: “Con questo mio fedele destriero potrò uscire al galoppo da quella finestra, attraversare il mare e andarmene via, per sempre!”
Aveva premuto le ginocchia sui fianchi del cavallino proprio come una vera cavallerizza e il Minotauro aveva davvero creduto che avrebbe preso il volo fuori dalla reggia, volandosene via sul suo Pegaso. Ricordò di aver desiderato ardentemente di poter salire in groppa con lei per andarsene a sua volta da quella prigione, in qualche posto bellissimo in cui la sua fame avrebbe trovato pace e in cui Arianna non se ne sarebbe mai andata. Ricordò di aver pensato che l’avrebbero fatto davvero, che se ne sarebbero andati tutti e due. Alla fine non aveva fatto nulla, non era salito sul cavallino, né allora né mai, non aveva preso il volo né era fuggito da Creta e dai suoi demoni, ma era stato bello poter credere che ci fosse una via d’uscita, un’alternativa. Ed era stato bello il sorriso che Arianna gli aveva rivolto saltando giù di sella: “Io lo farò davvero, prima o poi, lo sai?”
Il Minotauro pensò che era strano che un ricordo del genere gli fosse tornato in mente proprio adesso, in quella notte scura, solo in mezzo al Labirinto, in attesa di una visita di Arianna che non arrivava. Ma almeno, pensando e pensando e pensando s’era un attimo distratto dalla fame carnivora del suo sangue taurino, che reclamò ben presto la sua parte d’attenzione, riempiendogli la testa di immagini di morte, di sangue e di appagamento e soffocando i ricordi e le sensazioni di poco prima.
Affamato e tormentato, dimentico delle sue precedenti riflessioni, il mostro metà uomo e metà toro si rimise in piedi a stento e riprese a vagare per il Labirinto come un’anima in pena, cercando carne che non c’era, cacciando dove non v’era nulla da cacciare.
Non scordando Arianna.

Gonfio d’ira e di umiliazione, Icaro, unico figlio di Dedalo, se ne stava immobile a pugni stretti nel giardino della reggia, il volto scialbo distorto in una smorfia sgradevole.
“Come se non esistessi nemmeno” pensava digrignando i denti. “Come se valessi meno di niente, come se quel bastardo fosse un dio, ed io nulla”.
Erano anni che desiderava la Principessa Arianna, il suo orgoglio e la sua intelligenza, il suo seno e i suoi lombi, e che la corteggiava senza successo. Nulla di quello che aveva tentato aveva cambiato l’opinione della ragazza nei suoi confronti. Arianna continuava a trovarlo insignificante e noioso, e questo lo mandava in bestia. Prenderla in giro non era servito. Confessarle i suoi sentimenti neppure. Perfino provare a prenderla con la forza si era rivelato un terribile fiasco. Ed ora era spuntato quel bellimbusto e lei di colpo era tutta sorrisi e sospiri. Aveva visto, roso dalla gelosia, i loro sguardi languidi, la rosa che quello spudorato le aveva donato credendo di passare inosservato, il modo in cui Arianna sembrava pendere dalle sue labbra, solo perché era bello e aveva dalla sua un destino tragico e strappalacrime. Le donne, si sa, andavano matte per i drammi.
“Dovrei andare lì e distruggergli la faccia. Dovrei gridare ad Arianna di ascoltarmi e di amarmi”.
Non riusciva ad arrendersi alla prospettiva che lei non ricambiasse il suo desiderio. Non riusciva a guardare le altre donne. Aveva bisogno di avere Arianna, a tutti i costi, altrimenti non avrebbe trovato pace.
La vide uscire in quel momento, e sobbalzò, stupito e arrabbiato insieme. Era fastidiosamente bella, con la lunga tunica azzurra che le fluiva addosso come acqua e i capelli che brillavano d’oro alla luce del sole. La sola vista di lei lo eccitò, e probabilmente fu questo, assieme alla gelosia, a spingerlo ad andarle incontro per l'ennesima volta. Lei aveva un’aria strana: il viso era contratto da qualcosa che somigliava molto ad angoscia e gli occhi smeraldini erano profondamente spenti. Probabilmente era a causa della tresca che aveva col plebeo.
La intercettò che erano vicini all’entrata del Labirinto, piantandosi di fronte a lei a gambe larghe: “Cosa c’è tra te e quell’ateniese?”
Si sarebbe aspettato di vederla infuriata, ma l’occhiata che gli rivolse era profondamente stanca, e lo stupì: “Icaro” disse con voce spenta. “Ti prego, lasciami in pace”.
“No!” gridò lui. Lei provò ad oltrepassarlo, ma le bloccò la strada: “No, ora mi ascolti! Ho il diritto di sapere! Hai una tresca con lui, vero?” ghignò. “Cosa direbbe tuo padre? Scommetto che non prenderà bene l’idea che tu abbia una relazione con una vittima sacrificale”.
Arianna si fermò e lo fissò: “Intendi dirglielo?”
“E chi me lo impedisce? Tu, forse? O quell’imbecille? Dovrebbe solo provarci!”
Arianna serrò le labbra. Stavolta i suoi occhi verdi mandavano lampi, ed era bella, così bella e infuriata che Icaro si sentiva insieme eccitato e compiaciuto: “Cosa vuoi da me?” la disperazione nella sua voce era appagante. “Perché non la smetti di tormentarmi?”
“Lo sai perché” gongolò. “Sappi che non ti lascerò vedere quel bastardo. Andrò da tuo padre e ci penserà lui a rimetterlo al suo posto…nell’Ade!” scoppiò in una risata sguaiata.
A quel punto, lei diede una risposta che lo lasciò a bocca aperta: “Diglielo pure. Per quello che m’importi”.
Rimase così sconvolto che la lasciò passare. Si voltò lentamente, fissando la sua schiena. Pensava che si sarebbe gettata ai suoi piedi implorandolo di non dir nulla a Minosse, che avrebbe acconsentito ad ogni sua richiesta in cambio del suo silenzio e che per una volta almeno l’avrebbe temuto e ammirato. Ma aveva fatto fiasco. Per l’ennesima volta, aveva fatto fiasco.
Nelle vene gli ribollivano rabbia, impotenza e dispetto. La guardò entrare nel Labirinto, un luogo che era stato suo padre a costruire e che gli aveva categoricamente vietato di visitare, rifiutandogli delle legittime spiegazioni in merito. “Ti basti sapere” si era limitato a comunicargli, asciutto. “Che sono segreti che il re ha condiviso con me e me solo, e che mi ha fatto giurare di mantenere il silenzio. Per il tuo bene, non cercare mai di scoprire cosa nasconde il Labirinto”.
Icaro se le era fatte, delle idee su cosa nascondesse il Labirinto, non era un totale mentecatto. Aveva udito abbastanza chiacchiere e scorto sufficienti dettagli da partorire ipotesi piuttosto specifiche. Nove anni prima, quattordici giovani ateniesi vi erano entrati e non avevano più fatto ritorno, ed ora stava accadendo la stessa cosa con un nuovo gruppo. Era evidente che nel Labirinto dovevano esserci trappole e tranelli che uccidevano quelle vittime sacrificali, infliggendo il giusto castigo ad Atene, ma che Arianna era in grado di muoversi nei corridoi senza correre pericoli. Perché lo facesse, invece, era un mistero, ma supponeva si trattasse di curiosità femminile.
Se lei poteva attraversare il Labirinto incolume, si disse in quel momento sull’onda della collera, l’avrebbe seguita. Non si sarebbe fatto mettere da parte, stavolta.
 
Arianna si introdusse nel Labirinto abbandonando Icaro, pensava, a cuocere nella sua ira, troppo stanca e tormentata per attribuire importanza alle sue sciocche ripicche da ragazzo immaturo. Lasciò che il filo del gomitolo tracciasse il suo sottile percorso lungo i corridoi e si immise nelle fitte diramazioni, camminando velocemente, con una strana frenesia. Non sapeva bene cosa cercasse lì, cosa sperasse di trovare. Forse qualcosa che l’aiutasse a resistere al fascino di Teseo. Qualcosa che le facesse capire una volta per tutte da che parte stare. I sensi di colpa e il tormento sarebbero rimasti in ogni caso: ma almeno quella lotta interiore sarebbe cessata.
La ragazza raggiunse la Piazza con molta fretta e si lasciò cadere sulla piccola sedia con un lungo gemito, accasciandovisi a peso morto. Forse era stato uno sbaglio recarsi lì, tentennò all’improvviso: vedere il Minotauro l’avrebbe ulteriormente confusa.
Ne sentì i passi che accorrevano festanti, e il cuore le si strinse in una morsa. Da quanto l’aspettava? Nella sua sciagurata ossessione per Teseo l’ateniese, si era completamente dimenticata del suo fratello reietto.
Il Minotauro si presentò con una posa piuttosto rigida, come se temesse che qualcosa potesse aggredirlo da un momento all’altro, piegato su se stesso e con i pugni serrati con violenza. E tuttavia gli occhi vuoti gli s’illuminarono quando si puntarono su di lei. Arianna si alzò e rimase ferma al suo posto, fissandolo, studiandolo, anche se non c’era nulla da vedere, era sempre il solito. Il Minotauro emise uno strano verso indistinto e si fece avanti con goffa sollecitudine, allungando le rozze mani. Arianna aprì la bocca per dirgli non sapeva neppure lei cosa, ma non le uscì nulla, la lingua era appiccicata al palato. Arretrò un poco, impallidendo.
Il Minotauro si fermò a sua volta e piegò da un lato la grossa testa in una posa interrogativa. Forse persino lui si stava chiedendo cosa fosse cambiato. Dondolò da una gamba all’altra, fissandola con affetto animalesco. Quell’affetto le diede fastidio come se l’avesse fatta sentire indegna e sporca: “Smettila” sussurrò. “Non guardarmi così!”
Quello però continuava a fissarla come se fosse un dono caduto dal cielo. Allungò una mano per toccarle il viso, ma allorché quelle dita ruvide si furono posate sulla sua guancia, Arianna scattò indietro con un sussulto, come se l’avesse morsa. Il Minotauro ritirò la mano in fretta, stupito e ferito da quell’atteggiamento.
Arianna lo squadrò da capo a piedi col cuore che le batteva. Era nudo, la goffa parodia di un uomo, con quella testa grottesca da toro piantata sul collo come una maschera e le corna ricurve. Dai denti giallastri colavano moccoli di bava. Lo immaginò intento a strappare brani di carne a dei fanciulli ancora vivi che strillavano dibattendosi, e rabbrividì in tutto il corpo. Era davvero un abominio che andava eliminato? Una minaccia da sventare?
Eppure in quel momento il suo sguardo era colmo di affetto, se ne stava fermo senza mostrarsi aggressivo, resisteva alla fame pur di non aggredirla. Non era forse questo sufficiente a risparmiarlo, a dargli una possibilità? In lui si alternavano tanta cattiveria e tanta bontà che non riusciva a decidersi sul suo conto. Bastavano gli occhi luminosi di Teseo, il calore della sua virilità, a tradirlo per sempre, a tradire la fiducia che riponeva in lei? 
Avrebbe voluto chiedergli cosa si aspettasse da lei e se davvero si fidasse. Ma il Minotauro non sapeva parlare. Sarebbe rimasto sempre un mistero. Erano a qualche metro di distanza l’uno dall’altra, immobili. Arianna fece per parlare.
“Mi sono stancato della tua indifferenza!” esplose una voce petulante alle sue spalle.
Icaro svoltava nella Piazza in quel momento, furioso e umiliato, col volto rosso di rabbia e gli occhi stretti in un’espressione minacciosa. Subito dietro di lui apparvero due guardie trafelate che probabilmente gli erano corse dietro quando era stato così folle da entrare nel Labirinto. La gelosia e l’ira l’avevano reso incoerente, ed ora la fissava furibondo senza vacillare nemmeno un poco: “Sono stanco di essere meno di niente, per te!” urlò.
Arianna lo fissò a bocca aperta, paralizzata dalla paura e dallo stupore. Le parve che il sangue le si bloccasse nelle vene. Non avrebbe mai immaginato, nemmeno per un milione di anni, che un uomo pavido e vigliacco come Icaro arrivasse a compiere un simile gesto. Aveva seguito il filo del gomitolo per raggiungerla. E l’aveva fatto senza esitare.
La ragazza vide il Minotauro irrigidirsi immediatamente. Drizzò la schiena di colpo, le mani si chiusero a pugno con tanta forza che le unghie mai tagliate vi aprirono ferite sanguinanti e una vena incominciò a pulsargli sul collo. Gli enormi occhi si strinsero, le narici si dilatarono e vibrarono, le zanne si digrignarono pericolosamente. Incominciò a respirare forte, sempre più forte.
Icaro si accorse di lui e le frasi crudeli che stava per pronunciare si spensero in un rantolo scioccato. Perse completamente colore, la bocca mollemente aperta, gli occhi tondi come piattini, e il suo corpo compì una sorta di sgraziato e involontario balzo all’indietro, i suoi lineamenti si distorsero in una smorfia di puro raccapriccio.
“No!” ansò con voce strozzata. “No, che cosa… che cos’è…”
Arianna mosse un passo avanti: “Icaro”. A dispetto dell’orrendo presentimento che le scalciava nello stomaco, riuscì ad assumere un tono fermo. “Icaro, per gli dèi, resta immobile”.
Ma Icaro non dava segno di ascoltarla, era ipnotizzato dalla visione raccapricciante del Minotauro, boccheggiava e scuoteva la testa come se cercasse di riprendersi da uno stato allucinatorio. Il Minotauro, dal canto suo, lo fronteggiava furente, gonfio di energia a stento repressa.
Le due guardie che avevano inseguito il ragazzo erano immobili, raggelate, le lance indecise tra il rimanere puntate verso l’alto e il rivolgersi contro l’abominio.
Arianna, che si trovava tra il Minotauro e i tre uomini, si voltò lentamente verso di quest’ultimo. Aveva puntato le corna di fronte a sé e dalla gola gli saliva un verso roco che cresceva sempre più. Comprese quello che stava per accadere prima di chiunque altro.
“No!” supplicò. “No, per favore… non farlo!”
Ancora pietrificato, Icaro guardò a turno lei e il Minotauro: “È al mostro che stai parlando?” intuì, incredulo. “Vieni qui per lui?”
“Icaro, ti prego…”
“Sarebbe questa… cosa il segreto di tuo padre?” la sua voce si era alzata, contraffatta dal disgusto e dallo sgomento, e aveva strappato all’ibrido un brontolio minaccioso. “Vi tenete in seno uno scarto del Tartaro come questo?”
“Icaro, ascolta…”
Arianna, muovendosi con estrema cautela, come se passeggiassero tutti su un filo di gomitolo sospeso nell’abisso, gli si avvicinò e fece per blandirlo, ma il ragazzo si rianimò bruscamente e le afferrò il braccio esile, strattonandoglielo con tale violenza da farla gemere.
“Che significa?!” latrò, sconvolto. “Perché mio padre è coinvolto in questa storia? Cos’è questa cosa?”
Il Minotauro sentì il gemito di Arianna, vide la sua smorfia di dolore e abbandonò ogni freno, lanciò il suo terribile muggito di sfida e si gettò a testa bassa su Icaro, le corna scintillanti diritte davanti a sé, gli occhi stravolti di furore.
La principessa, mossa solo dall’istinto e dal terrore, cercò di coprire il figlio di Dedalo col proprio corpo, ma il Minotauro l’afferrò rudemente per una spalla e la buttò a terra poco lontano senza alcuna difficoltà. Arianna cadde rovinosamente sul pavimento impolverato, batté le palme delle mani e le ginocchia sul duro. Un dolore lancinante e improvviso la costrinse a guaire. Aveva le mani scorticate e le ginocchia sbucciate sotto alla tunica. La stoffa si stava già macchiando di rosso. Scivolò a terra e finì distesa poco più in là, ancora senza fiato per la caduta. Le salirono le lacrime agli occhi: “No…” ansimò. Sollevò la testa.
Il Minotauro s’era gettato su Icaro con la bocca spalancata a mostrare i grandi denti, ma lui, resosi conto del pericolo, era immediatamente sgusciato dietro alle guardie e alle loro lance. Il Minotauro non si fece scoraggiare dal metallo affilato: quando aveva fame niente lo fermava, niente poteva resistergli.
Arianna non era abituata a vederlo in azione. L’aveva sempre incontrato quand’era in sé. Sarebbe stato facile premere il viso a terra e non guardare, aspettare che finisse, ma non era mai rifuggita dinnanzi agli orrori, così assistette alla scena dall’inizio alla fine.
Uno dei due uomini, il più alto, si fece avanti tremando e vibrò un affondo. Era un colpo chiaramente intenzionato a ferire l’avversario e non a ucciderlo: Minosse l’aveva vietato ormai da tempo. Il Minotauro schivò facilmente, ruotò su se stesso ringhiando, poi colpì l’elmo della guardia con una terribile manata. L'elmo vibrò come uno strumento a percussione. La guardia gettò un grido orrendo, di dolore atroce, barcollò e cadde in ginocchio, soffocata dall’elmo che s’era appiattito e le impediva di respirare. Cominciò ad agitare la lancia a caso nel tentativo di colpire un avversario che non poteva vedere. Il Minotauro, però, evitava i colpi facilmente. Allungò la mano e gli strappò di dosso la corazza senza sforzo.
La seconda guardia si fece avanti urlando nel tentativo di difendere il compagno morente. Provò a ferire il mostro alle spalle, ma lui si girò di scatto, lo caricò e lo prese in pieno petto con le possenti corna. La guardia venne scaraventata all’indietro dall’impatto e atterrò contro la parete con un grido. Scivolò mollemente a terra. La corazza era macchiata di rosso scuro.
Icaro si ritirò silenziosamente da dove era venuto.
Il Minotauro, ansimando, si girò nuovamente verso la prima guardia. Dall’elmo appiattito non provenivano che flebili rantoli. Il petto era scoperto. Con le unghie il mostro lacerò la cotta di maglia e apparve un largo pezzo di pelle rosea. Gli occhi del Minotauro brillarono, euforici.
“No!” ripeté Arianna rauca, senza riuscire ad alzarsi in piedi. L’orrore aveva invaso ogni centimetro del suo corpo ed ora era immobilizzata a terra, incapace di muoversi.
Il Minotauro strappò un grosso brano di carne dal torace della guardia. L’uomo cacciò un grido lancinante, che parve rimbombare per tutto il Labirinto. Il sangue scorreva copiosamente e bagnava la bocca del mostro, che masticava beato, chino avidamente sul corpo straziato della vittima ancora viva. Morse e strappò altra carne. Pezzetti umidi gli pendevano dalle zanne scoperte. Le grida dell’uomo riempivano l’aria.
Le lacrime cominciarono a rigare le guance pallide della ragazza prona a terra poco lontano dal punto in cui il mostro compiva il suo orrido pasto. I capelli arruffati le coprivano il viso stravolto dall’orrore.
Il Minotauro sembrava posseduto da un’euforia folle. Si cibava avidamente, strappando carne alla vittima sia con le mani che con i denti, inghiottiva senza quasi masticare, felice come chi finalmente si sente in pace. Il corpo della guardia, così orrendamente profanato, era ormai irriconoscibile. Non gridava più, doveva essere morto. Allorché il mostro tentò di togliere l’elmo rovinato per attingere carne dal viso del malcapitato, il sortilegio che aveva immobilizzato Arianna si dissolse e poté alzarsi, ma tremava così tanto che a malapena si reggeva in piedi. Per un attimo barcollò, ma alla fine riuscì a reggersi. Le lacrime le rotolavano sul viso senza freno, solcandole le guance. Quello cui aveva assistito era stato orribile, disumano.
Protese le mani e si gettò sul Minotauro intento nel pasto, la bocca zannuta impiastricciata di sangue e di carne. Lo afferrò per le spalle madide di sudore, con tutta la sua esigua forza lo respinse dal cadavere martoriato. Con un verso di sorpresa il mostro si voltò, la fissò sorpreso. Anche le corna erano sporche di sangue.
Tuttavia si allontanò dal cadavere e la guardò mortificato, come se avesse solo compiuto un qualche scherzo che avrebbe potuto contrariarla. Ma stavolta non era contrariata, no. Stavolta aveva visto cosa fosse capace di fare quell’essere. Teseo faceva bene a volerlo uccidere: era un abominio che troncava vite umane in modo orrendo.
“Sei cattivo!” urlò tra i singhiozzi, indietreggiando da lui, rischiando d’inciampare sul lago di sangue a terra. “Sei cattivo!” ripeté. Il Minotauro intese la sua rabbia, il suo orrore dai gesti e dalle urla. Gli occhi gli si fecero tristi e disperati. Mosse la bocca, come per dire qualcosa, per chiedere perdono, ma non gli uscì che un mugolio indistinto. Un rivolo di sangue non suo gli colò giù per il mento peloso.
Arianna gli puntò contro un dito accusatore: “Sei cattivo e maledetto, e sei un assassino!”
Il Minotauro sembrava sforzarsi disperatamente di comunicarle qualcosa. Faceva gesti concitati, biascicava mugghi incomprensibili, le si avvicinava con gran foga, ma come poteva farsi capire, lui? Le prese il viso fra le mani, e stavolta il tocco di quelle dita era assai meno brusco del solito, ma bastò il contatto di quelle mani umide che avevano squartato e profanato a terrorizzarla oltre ogni dire. Si dibatté freneticamente, si liberò, arretrò incespicando: “Sei cattivo!” ripeté. “Non meriti di vivere, maledetto!”
Il Minotauro, disperato, provò nuovamente a toccarla, ma lei si sottrasse, si voltò e corse via a gran velocità, cercando di dimenticare i due corpi straziati delle guardie e la gioia mostruosa che aveva letto negli occhi del mostro.
Il Minotauro provò a correrle dietro urlando suoni indistinti, affidandosi alla scia del suo odore e al rumore dei suoi passi, per fermarla, farle capire che non poteva farci niente e che era nella sua natura, ma ben presto ogni traccia di lei s’affievolì fino a scomparire, ed egli era troppo ottuso per comprendere di dover seguire il filo del gomitolo. Si fermò, consapevole di aver distrutto qualcosa, e nella follia e nel dolore e nella disperazione più nera allorché gettò indietro la testa per gridare tutta la sua angoscia quella voce terribile simile al mugghiare d’un toro pronunciò distintamente: “Arianna!”

La principessa di Creta giunse nel dormitorio dei sacrificati che era notte fonda. Era tutto buio, e della stanza oscura non si distinguevano che le sagome addormentate dei giovani acciambellati sul pavimento. Molti di loro gemevano nel sonno e mormoravano parole indistinte.
Arianna avanzò silenziosamente, avvolta in un mantello che la mimetizzava alle tenebre circostanti, gli occhi scintillanti nell’oscurità. Aveva fatto la sua scelta, e adesso niente l’avrebbe fermata.
Si chinò sui corpi riversi al suolo, li scrutò per individuare Teseo. Tra gli sguardi, le rose, i complimenti sussurrati, lui le aveva rivelato la propria identità e la propria missione, dichiarando che l’amava al punto da mettersi nelle sue mani e rischiare che raccontasse tutto a Minosse. Era stata una prova di fiducia che l’aveva profondamente colpita, e proprio per questo aveva deciso di tornare nel Labirinto. Una visita che le aveva chiarito ogni dubbio.
Vide visi acerbi di ragazzini non ancora del tutto uomini, contorti in smorfie di terrore e di ansia, provò pietà. Alla fine trovò Teseo che dormiva raggomitolato come un gatto, russando leggermente. A differenza degli altri il suo volto era rilassato. Arianna provò l’impulso di accarezzargli le guance appena ricoperte da una peluria bruna. Le dita di lui si muovevano appena, scosse da un moto inconscio di nervosismo.
La principessa di Creta lo scosse per una spalla, e allorché lui spalancò gli occhi terrorizzato e fece per difendersi da chi, credeva, l’aveva scoperto, gli premette una mano sulla bocca, bloccandogli l’urlo in gola. Gli occhi terrorizzati di lui la fissarono. Arianna sorrise appena: “Sono io, non temere” bisbigliò.
Teseo la riconobbe e si rilassò, così gli tolse la mano dalla bocca. Si portò un dito alle labbra per comunicargli di far silenzio. Lui si mise a sedere, stupito: “Arianna!” sussurrò. “Cosa ci fai qui?”
“Non aver paura” mormorò lei accarezzandogli il viso e fremendo al contatto. “Sono tua amica. Voglio aiutarti. Io so come fare ad uccidere il Minotauro”.
Il viso di lui si riempì di stupore: “Lo sai? Davvero?”
“Sì. Ti aiuterò a portare a termine l’impresa”.
Teseo sorrise, del suo sorriso luminoso e trionfante che le piaceva tanto. Di colpo audace, le prese il viso fra le mani e l’attirò a sé: “Sapevo che non eri come tutti gli altri, amore mio” esclamò raggiante. Anche Arianna sorrise, eppure dentro di sé lottava contro le lacrime: “Domani verrò da te, e metteremo a posto tutto…” un piccolo rantolo le impedì di continuare.
Teseo le accarezzò la testa come se lei fosse stata una bambina, e questo la fece sentire rinfrancata, consolata: “Capisco quanto questo ti costi” sussurrò lui. “Spero di esser degno del tuo sacrificio, mio unico e bellissimo amore”.
Allorché si chinò su di lei e posò le labbra sulle sue Arianna non si scostò, ma ricambiò il bacio con disperazione, abbandonandosi tra le braccia forti di lui. Non avrebbe mai pensato che potesse essere così magico, eccitante e autentico. Le mani di Teseo che la accarezzavano, i suoi muscoli tonici, le loro lingue che giocavano a rincorrersi…per un attimo questo la sopraffece e non pensò a niente, lasciò che il suo corpo reagisse con naturalezza. Aveva bisogno dei baci di Teseo, aveva bisogno di sentirsi sua ora che stava per tradire chi in un certo senso le si era affezionato.
Ma poi, quando le carezze si fecero più audaci e le mani le si posarono sui piccoli seni, trasalì come se fosse stata scossa con forza. Stava diventando tutto troppo autentico e troppo eccitante, e non era così che lei se lo immaginava, anche se amava Teseo con tutta se stessa. Lo respinse, benché avesse il volto in fiamme e i capezzoli turgidi e volesse essere tutt’altro che ragionevole: “No” ansimò. “No, ti prego”.
“Perché?” chiese lui con una voce che era un sussurro languido sulla sua pelle. La baciò delicatamente sulla gola delicata. Arianna fremette, s’inarcò, ma tuttavia cercò ancora di allontanarlo: “Non adesso. Non così”.
“E quando?”
Lei lo fissò negli occhi intensamente, impaurita e esitante: “Non posso più tornare indietro, non dopo essere stata tua complice. Non c’è più posto per me qui. Dopo aver ucciso il Minotauro, giura che mi porterai con te”.
Teseo le sorrise sicuro e le accarezzò insistentemente i seni: “Te lo giuro, amore mio. Non appena sarò vincitore, ti aspetterò al porto. Tu tagliati i capelli, indossa abiti maschili e corri da me. Ti imbarcherai con noi come mozzo, torneremo ad Atene e lì ci sposeremo e saremo felici”.
Arianna continuò a fissarlo. Aveva visto troppi orrori per credere davvero a quel bel sogno: “Lo saremo davvero, Teseo? I fantasmi del passato non ci tormenteranno?”
“No, se saremo insieme. Vivremo contenti ad Atene, avremo molti figli e scorderemo tutta questa morte. Io ti porterò via da essa”.
Arianna voleva crederci. Era così bello quel futuro che riusciva a vederlo, a sentirlo quasi. Fece un sorriso tremulo: “Ti amo…così tanto, Teseo”.
Lui ricambiò il sorriso: “Ora và, amore, corri nelle tue stanze. Non voglio mettere a repentaglio la tua sicurezza rischiando che ci vedano insieme”.
Arianna annuì. Si strinsero l’una all’altro con foga, si scambiarono un bacio lungo e colmo di passione. Alla fine lui si staccò: “Presto, va’”.
La principessa sgattaiolò fuori, con la sensazione di aver definitivamente spezzato il legame la univa alla sua famiglia e alla sua vecchia vita.

Il mattino dopo corse da lui senza quasi fare colazione, con il gomitolo argentato stretto in una mano e una spada affilata infilata nell’altra, celata da un panno bianco e col filo che sfiorava il pavimento intarsiato. Aveva trafugato l’arma in gran segreto dall’armeria, senza che nessuno sospettasse nulla. Come potevano sapere gli abitanti del palazzo che avevano una traditrice tra loro, e che quella traditrice era la principessa in persona? Ma tanto quel titolo non le apparteneva più: forse non era neanche una cretese, adesso.
Teseo era nella stanza in cui venivano tenuti i sacrificati, seduto in mezzo a loro in atteggiamento di grande concentrazione, come un vero eroe che sa che l’indomani il suo destino sta per compiersi. Bastò la sua vista a farla fremere, ma allorché gli andò incontro si limitarono ad uno scambio intenso di sguardi, in quanto era giorno e gli altri giovani erano tutt’intorno. Arianna poi portava un lungo mantello disadorno e aveva il cappuccio tirato sul volto in modo che non la riconoscessero. Doveva fingere solo quel giorno, per fortuna: poi sarebbe partita alla volta di Atene, verso una nuova vita e una nuova identità come promessa sposa di Teseo.
Lui le sorrise, guardandosi intorno: “Avevo il timore che non saresti mai venuta, che mi fossi sognato tutto”.
Lei desiderava ardentemente stringerlo e baciarlo, ma si costrinse a prendergli una mano e a serrarla significativamente: “Come…come stai?” sussurrò. Le dita di Teseo strinsero le sue in risposta. Erano sudate: “Non posso negare d’avere paura” rispose lui a bassa voce. “Ma non è un male. Sarò prudente, non correrò rischi inutili”.
Arianna deglutì. Avrebbe voluto fermarlo, impedirgli di andare incontro al Minotauro. L’idea che potesse morire era orribile. Sentiva che avrebbe potuto uccidersi, se ciò fosse accaduto. Per questo doveva fare tutto con la massima cura, anche se sapeva che avrebbe passato l’indomani nell’angoscia più nera, in attesa di sapere chi dei due fosse morto, l’uomo che amava o il mostro che le si era affezionato. In ogni caso avrebbe perso qualcosa.
Ricacciò indietro le lacrime, controllò che non li stessero guardando, poi gli mise il gomitolo in mano: “Questo è un oggetto molto importante” spiegò, dato che lui se l’era rigirato tra le mani perplesso. “Ascoltami bene: c’è un modo per entrare nel Labirinto e tornare senza perdersi. Lega l’estremità del filo all’architrave dell’entrata, svolgilo lungo il percorso che seguirai, poi ti basterà seguirlo per tornare da dove sei venuto”.
Teseo restò per un attimo in silenzio, quindi s’illuminò di un sorriso raggiante e sollevò la mano che reggeva il gomitolo come se si trattasse di un trofeo: “Geniale! Amore, la tua astuzia non ha davvero confini!” sembrava già meno impaurito, più sicuro di sé. Arianna però era molto meno euforica di lui: “Questo non ti basterà a riuscire” soggiunse. Allora gli mostrò il lungo involto che aveva tenuto celato dietro la schiena: “Questa è Tanatos, la Morte, come viene chiamata. Fu forgiata molto tempo fa dalla mia stirpe e fu portata da mio zio Sarpedonte”.
Lasciò cadere a terra il panno che la copriva e Teseo trattenne a stento un’esclamazione di sorpresa ammirata: Arianna reggeva tra le mani una spada a dir poco splendida, forgiata da chissà quale abilissimo armaiolo. Lunga ed affusolata, elegante nelle forme, aveva l’elsa d’argento tempestata di gemme, di cui una imitava un grande occhio rosso, la guardia a croce, e una lunga lama affilata come un rasoio che scintillava di mille colori, catturando tutte le sfumature della stanza. Allungò una mano, ammutolito, ma poi la ritrasse, come temendo di toccare la spada: “È…bellissima. Degna di grandi imprese”.
“Ho fatto affilare la lama alla perfezione” replicò lei. “Non fallirà i suoi colpi. Prendila, Teseo, come pegno del mio amore, e usala per vivere”.
Il giovane, baldanzoso e ammirato, strinse la mano sull’elsa tempestata di pietre preziose e riuscì ad impugnare Tanatos alla perfezione, come se fosse stata forgiata apposta per lui. La sollevò alla luce del sole che filtrava dalle imposte e la lama brillò di uno scintillio intensissimo: “Bene” dichiarò, sicuro di sé. “Con questa spada e questo gomitolo porterò a termine la mia impresa e libererò Atene dal flagello!”
“Nascondila fino a domani” gli raccomandò lei preoccupata. “Ma non temere: nessuno te la toglierà”.
Teseo, sempre più galvanizzato, provò alcuni colpi. La lama tagliava l’aria in modo letale, con sibili sottili, maneggiata con grande destrezza. Ma Arianna, che l’osservava in silenzio, sapeva che anche con tutta quella determinazione, anche con il gomitolo, anche con la letale Tanatos, il suo amato avrebbe potuto fallire, e non poteva permetterselo. Doveva ancora adempiere al compito più doloroso di tutti per assicurargli la salvezza, ma non intendeva dirglielo. Teseo era troppo orgoglioso per approvare e le avrebbe detto di lasciar perdere, cosa che non poteva assolutamente fare.
“Tagliati una ciocca di capelli” sbottò infine. Teseo, perplesso, abbassò la spada e le rivolse uno sguardo interrogativo, ma il volto di lei era nascosto dal cappuccio del mantello: “Fa come ti dico” lo incitò. Lui non intendeva disobbedirle, specialmente adesso che gli aveva fatto dono di oggetti così preziosi, così con l’aiuto di Tanatos recise una ciocca e gliela porse.
Arianna la infilò nel mantello con un leggero brivido. Teseo le sorrise, come se fosse lei quella da rassicurare, come se fosse lei quella che a breve avrebbe messo a rischio la vita, e le sfiorò il viso con le lunghe dita: “Non temere, amor mio: ce la farò. Sento che gli dèi sono dalla mia parte, e grazie ai tuoi doni mi sento forte ed invincibile. Fatti trovare travestita sul porto, domani. Salperemo immantinente, prima che Minosse possa accorgersene”.
Arianna provò l’impulso fortissimo di piangere. Aveva tanta paura di quello che sarebbe successo. Paura che Teseo potesse morire. Paura che il Minotauro potesse morire sapendo che l’aveva tradito. Paura di abbandonare Creta per lande sconosciute. Era cambiato tutto fin troppo in fretta.
“Che Zeus ti conservi, amor mio” sussurrò. “Pregherò per te, domani”.
“Ed io mi batterò non solo per il mio popolo, ma anche per i tuoi begli occhi” replicò lui infervorato. Approfittò del fatto che nessuno prestasse attenzione a loro e le sfiorò le labbra in un rapido bacio.
Arianna si allontanò, pregando con tutta se stessa che quella non fosse l’ultima volta che lo vedeva. Sentì la seta dei capelli di lui dentro al mantello. Era giunta l’ora di adempiere allo straziante compito che avrebbe definitivamente decretato la vittoria di Teseo. E anche di dire addio a quello che era sì un abominio, ma che comunque a suo modo le aveva voluto bene.

Entrò nel Labirinto per l’ultima volta, ne percorse i corridoi tutti uguali, i vicoli ciechi, i finti ingressi e le finte porte, si immerse in quella penombra inquietante, percepì il puzzo di morte che l’impregnava. La morte lei l’aveva nel cuore. Era una traditrice, anche se aveva tradito in nome dell’amore.
Il Minotauro arrivò prima ancora che potesse raggiungere la Piazza. Egli doveva aver pensato che non l’avrebbe mai più rivista, che lo scempio di cui era stato l’artefice avesse distrutto il loro legame, e allorché aveva sentito il suo odore doveva essere stato preso da una tal gioia che non aveva saputo aspettare.
Proprio mentre Arianna stava per svoltare nell’ennesimo corridoio, lui comparve correndo e ansimando, gli occhi torbidi stravolti dalla gioia, sudato, bestiale e bavoso, il frutto dell’unione di una donna umana e di un toro, eppure non le fece orrore, ma la riempì di dolore vedere quanto fosse contento. Lei l’aveva tradito, aveva aiutato il suo assassino, gli aveva fornito la spada con cui forse l’avrebbe trafitto a morte. Per un attimo gli occhi le si riempirono di lacrime…poi ricordò cos’era venuta a fare.
Il Minotauro la guardò felice, ma non osò avvicinarsi per timore che potesse fuggire via. Arianna controllava a stento le lacrime: “Tu mi vuoi bene, non è vero?” singhiozzò. “Faresti qualsiasi cosa per me, giusto? Giusto?”
Il Minotauro, docile e mansueto, se ne restò in silenzio come suo solito, perciò le sarebbe sempre rimasto il dubbio che non potesse capirla. Fece un passo verso di lui, che s’illuminò ancora di più vedendola avvicinarsi. Avrebbe preferito che la buttasse a terra e la dilaniasse, almeno quel senso di colpa avrebbe smesso di straziarle il cuore. Cercò di ricordarlo mentre divorava quei due uomini, mentre ruggiva e banchettava orribilmente.
Tirò fuori dal mantello la ciocca di capelli di Teseo, s’accostò al Minotauro, gliela porse: “Annusa, avanti” sbottò. Quello, perplesso, si limitò a rivolgerle uno sguardo stupito. Lei, sull’orlo del pianto, gli mise la ciocca proprio sotto alle enormi narici vibranti: “Ti ho detto di annusare! Fallo!”
Il Minotauro, ferito dalla sua bruschezza, incurvò le ampie spalle e aspirò profondamente l’odore che proveniva dai neri capelli stretti nel palmo delicato di Arianna. Lei attese che avesse annusato ben bene, che avesse ricordato quell’odore, dopodiché lo afferrò per le corna e avvicinò il muso taurino alla propria faccia. Il Minotauro sussultò sentendosi toccato da lei, nelle pupille gli balenarono gioia e insieme stupore.
“Ora ascoltami bene” disse Arianna con voce tremante, piantando gli occhi lucidi in quelli vuoti e inconsapevoli del mezzosangue. “Qualunque cosa accada, e dico qualunque, per nessun motivo dovrai fare del male al proprietario di quest’odore. Non lo toccherai con un dito. Sono stata chiara?”
Non colse alcun segno di comprensione sul volto dell’altro. Come poteva essere sicura che avesse capito? Chi poteva dire cosa frullasse in quella testa? Il Minotauro cercò di sottrarsi, come se quel discorso non lo convincesse, ma Arianna rafforzò la presa sulle sue corna e lo costrinse a guardarla: “Ti prego, ascoltami! È una cosa della massima importanza, io…tu…tu me lo devi…” la voce le si spense in gola, e di colpo scoppiò in pianto.
Il Minotauro emise un verso dispiaciuto. Allungò le rozze dita, le asciugò le lacrime con una dolcezza che la fece piangere ancora di più, specie se pensava a quali orrori avevano compiuto quelle stesse dita sulla carne di altri. Arianna gli appoggiò la testa sul petto d’istinto e lo sentì sussultare dalla sorpresa. Il busto di lui era identico a quello di un uomo, aveva muscoli sodi e un cuore che batteva forse un po’ troppo velocemente sotto quella pelle rosea da adolescente. Chiuse gli occhi e si concentrò sul battito poderoso di quel cuore, sul calore di quella pelle, sul moto del respiro che sollevava il torace. Forse l’indomani tutte queste cose non ci sarebbero state più, per colpa sua…
Le braccia del Minotauro la circondarono come se non avessero aspettato altro per tutti quegli anni e la strinsero senza farle male, anche se avevano stritolato uomini ben più forti di lei. Gli era così vicina che gli ci sarebbe voluto pochissimo per divorarla, per cedere alla sua insaziabile fame, eppure quel pensiero non lo sfiorò neppure per un istante.
Arianna smise pian piano di piangere, anche se il dolore restava, e si separò da lui. Il Minotauro la guardò con una nuova dolcezza. Arianna lo contemplò come chi sa che è l’ultima volta, poi chiese con voce spezzata: “Ti fidi di me?”
Lui la toccò sul viso con un’aria tanto fiduciosa che non lasciava dubbi sulla risposta. Arianna ricacciò giù il bolo di rimorso e di dolore che le aveva ostruito la gola e disse: “Allora fa’ come ti dico. Lascia stare il portatore di quell’odore. Fallo…per me. Fidati di me. È per il bene di tutti” gli sorrise, constatando di essere davvero brava a mentire, sussurrò dolcemente. “Vedrai che dopo sarà finito tutto. Troverai la pace. Questa prigionia, questa fame che ti tortura ogni giorno, finiranno per sempre, sarai libero. Smetterai di soffrire. Te ne andrai via da questa prigione inestricabile, in un posto splendido chiamato Ade in cui un buon dio si prenderà cura di te”.
Arianna non aveva mai pensato che gli dèi fossero buoni, anzi, per quanto ne sapeva erano crudeli, vendicativi e impietosi. Poseidone aveva maledetto la sua famiglia, non solo Minosse che l’aveva sfidato, Afrodite l’aveva colpita con la sua magica freccia al momento sbagliato, e Zeus in tutto questo non aveva mosso un dito. Ma era bello illudersi che quelle stesse gelide divinità sarebbero diventate gentili e ospitali dopo la morte.
Il Minotauro sembrava ascoltarla, fidarsi di lei, anche se chiaramente come poteva capire a cosa davvero si riferiva? Costringendosi a mantenere vivo il sorriso, Arianna gli carezzò il muso di toro, poi si sporse in avanti come se temesse che qualcun altro potesse udirli: “Non sei mio fratello” bisbigliò. “Non del tutto. Eppure lo sei stato più di tutti gli altri sette che ho”.
Tremando sotto la tunica, fece per tornare da dove era venuta, quando una voce distorta, simile al mugghio d’un toro, biascicò triste: “Arianna…”
Sobbalzò, le scappò un mezzo grido, si girò di scatto verso il Minotauro. Lui se ne stava accovacciato tristemente dove l’aveva lasciato e la guardava con quei suoi grandi occhi torbidi: “Arianna” ripeté, stavolta in modo più chiaro. Lei lo fissò ad occhi spalancati, incredula: “Tu…tu parli?!” stridette. “Tu parli!”
Gli corse nuovamente incontro, si inginocchiò accanto a lui precipitosamente, gli afferrò la testa fra le mani: “Dillo di nuovo!” esclamò. “Ripeti il mio nome…”
Galvanizzato dal suo interesse, il Minotauro raddrizzò la schiena e declamò soddisfatto: “Arianna”.
Le si mozzò il fiato. In diciassette anni di vita lui non aveva mai parlato, dalla sua gola erano scaturiti solo versi orribili. Eppure ora aveva imparato a pronunciare il suo nome. Un’ulteriore prova che il lato umano era forte quanto quello taurino. E lei l’aveva condannato a morte.
Sorrise: “Sei davvero bravo. Sono molto fiera di te”.
“Arianna” ripeté il Minotauro con la sua voce gutturale, felice di quella conquista. Lei annuì, di nuovo sull’orlo delle lacrime: “Sì, sì, sei bravissimo. Chiamami quando vuoi: io ci sarò sempre per te. Io ti voglio bene” lo prese per le spalle. “Credimi. Ti voglio bene. Non dubitarne anche quando sembrerà che ti abbia detto solo bugie”.
“Arianna” era diventata la sua risposta per tutto. Arianna sorrise: “Non dicevo sul serio quando ti ho gridato che eri cattivo e maledetto. Ero sconvolta. So che tu non puoi farci niente. Ti perdono per tutta la morte che hai arrecato…ti prego, tu perdona me, domani. L’ho fatto per una buona ragione”.
Gli lesse negli occhi che l’avrebbe perdonata. Allora si sporse, lo baciò rapidamente sulla fronte ricoperta di ispidi peli marroni e si scostò sussurrando: “Addio”.
Mentre stava per andarsene davvero, si girò un attimo a guardarlo un’ultima volta, e lui era là che la guardava amorosamente e muoveva la bocca per sillabare il suo nome, l’unica parola che conosceva. Le parve già morto, era avvolto dall’aura oscura di chi è condannato. Soffocò un singhiozzo, si costrinse a svoltare l’angolo e non si guardò più indietro.

Teseo, principe di Atene, non aveva più paura. Per cui, sebbene gli altri tredici ateniesi piangessero, gridassero e implorassero pietà, lui avanzava a testa alta, ostentando un gran disprezzo, con il gomitolo stretto nella sinistra e la spada Tanatos nella destra, sicuro di sé e delle proprie capacità. Ora che l’ingenua Arianna gli aveva fatto dono di quelle splendide risorse nulla l’avrebbe fermato. Egeo sarebbe stato orgoglioso di lui. Avrebbe stanato il mostro e avrebbe messo fine alla sua esistenza che non portava altro che morte.
Non appena furono rinchiusi nel Labirinto, Teseo si mise subito alla testa di quel corteo di miserabili, con gli occhi brillanti e il bel viso animato dalla determinazione.
“Ora ascoltatemi!” esclamò con ardore, sollevando la lama di Tanatos sopra la testa. I tredici giovinetti gli appuntarono addosso i loro occhi terrorizzati e rossi di pianto. Lui sorrise e parlò con tono rassicurante: “Non dovete temere! Con questa spada e la mia forza, ucciderò il mostro carnivoro e sarete salvi, tutti voi!”
Lesse lo scetticismo su molti volti. Era risaputo che la forza del Minotauro fosse assai maggiore della letale Tanatos e del vigore del giovane principe. Ma altri si accesero di speranza, e si affidò a quelli, gonfiando il petto: “Seguitemi, e non abbiate paura!”
Detto questo legò l’estremità del gomitolo alla grossa architrave che gli aveva indicato Arianna, svolse a terra il sottile filo argentato e marciò fiero nel primo corridoio, seguito a ruota dai tredici sventurati condannati.
Apparentemente nulla avrebbe potuto incrinare la sua corazza da eroe valoroso, ma dentro di sé era leggermente inquieto. Sarebbero bastati il gomitolo e la spada? E se fosse morto? A cosa sarebbe servita quell’impresa, se fosse morto? Rafforzò la presa sull’elsa di Tanatos come a cercare conforto nella spada.
Fece un paio di variazioni, sempre in testa al gruppo. Ad un certo punto si imbatté in una fredda parete di marmo. Strada chiusa. Girò sui tacchi e tornò sulla sua strada senza turbare minimamente la sua espressione agguerrita. Sapeva, dai racconti sussurrati ad Atene, che era il Minotauro a trovare i sacrificati grazie al suo infallibile fiuto: il mostro sapeva orientarsi assai meglio di lui, anche se continuava a svolgere il gomitolo. Gli venne il terrore che il filo potesse finire prima del dovuto.
“Fermiamoci” esclamò imperioso. I ragazzini gli ubbidirono e lo guardarono interrogativi. Si appoggiavano completamente a lui, era la loro unica speranza. Teseo impugnò Tanatos con entrambe le mani: “Resteremo qui finché il vigliacco non si farà vedere! Lo aspetteremo a testa alta! Nessuno più piegarci. Chi è con me?”
Alcuni risposero alla sua acclamazione, altri si ritirarono contro il muro, atterriti. A Teseo non importava: era completamente concentrato in quello che stava per fare. Abbassò a terra il filo di Tanatos, sedette contro la parete, lasciò ricadere il capo sul petto e chiuse gli occhi. Dalla sua immobilità si sarebbe detto che dormisse.
I minuti si susseguirono l’uno all’altro carichi di tensione. I ragazzini guardavano stupiti la figura immobile di Teseo e bisbigliavano tra loro:
“Dormirà?”
“Come puoi crederlo? Chi dormirebbe sapendo quello che gli aspetta?”
“Ma allora cosa pensa di fare?”
“Forse si sta preparando”.
“Non ci salverà mai. Nessuno può uccidere il mostro, neanche lui e la sua bella spada”.
“Ma non hai visto il gomitolo? E se ci riuscisse? Se fosse l’eroe che stavamo aspettando? Se fossero stati gli dèi a mandarlo?”
Teseo li ascoltava appena, attraverso le palpebre chiuse. Presto tutti loro si sarebbero accorti di che pasta era fatto. Presto lui, Teseo, sarebbe diventato il Liberatore, colui che aveva salvato Atene da una minaccia. Strinse forte Tanatos.
“Vieni, avanti” pensò. “Che aspetti? Fatti vedere!”
Il grido terrorizzato di un ragazzino lo riscosse dal suo raccoglimento. Senza sussultare neanche per un istante riaprì gli occhi, balzò in piedi con un agile movimento e si girò alzando Tanatos, l’espressione carica di determinazione.
Uno dei sacrificati, un biondo dal viso innocente sui dodici anni, il volto bianco distorto dal terrore, la bocca spalancata in un urlo, era stato afferrato per un piede dal famigerato Minotauro, mentre gli altri si erano dispersi strillando. Il mostro era sbucato loro alle spalle e ora stava trascinando verso di sé il ragazzino urlante che si dibatteva.
Teseo restò un istante impietrito di fronte all’aspetto mostruoso del suo avversario. Era orribile la testa di toro attaccata al corpo umano, le corna ricurve e scintillanti, le fauci sbavanti, le narici vibranti, la furia che gli stravolgeva gli occhi piccini, famelici. Ma superò ben presto quel momento di paura, sgombrò la mente da qualsiasi pensiero, depose a terra il gomitolo e si gettò verso l’avversario con un grido di guerra, pronto a vincere o a morire.
Il Minotauro non badava affatto a lui o agli altri sacrificati, era tutto preso dalla sua vittima scalciante. Incombeva sul ragazzino, lo copriva con la sua immensa ombra, i tratti stravolti dal furore e dall’euforia. Il ragazzino da parte sua tentava di liberarsi, di colpirlo, ma era tutto inutile, la mano del Minotauro lo teneva inchiodato al suolo.
Allorché il mostro fece per dare il primo morso, vi fu un ostacolo: la lama affilata di Tanatos splendette nell’aria, venne calata con forza e disegnò sul braccio proteso dell’essere un taglio rosso. Il Minotauro emise un verso di sorpresa, sgranò gli occhi famelici e lasciò andare il ragazzino, che sgusciò via terrorizzato, aggiungendosi agli altri dodici che s’erano nascosti dietro ad una parete di marmo, ad assistere alla scena.
Il Minotauro si fissò incredulo il taglio sul braccio, quindi alzò lo sguardo pieno di furia su colui che aveva osato ferirlo, con un’aria così minacciosa che Teseo d’istinto arretrò. Gli occhi completamente neri del mostro si appuntarono su di lui, con una tale rabbia e una tale voracità che, se avessero potuto, l’avrebbero ridotto in polvere all’istante. Mentre gli saliva dalla gola un ringhio minaccioso, il Minotauro si raddrizzò, senza staccare gli occhi da Teseo, e fece qualche passo pesante verso di lui, in visibile posa d’attacco. Il coraggioso giovane, pallido in volto, indietreggiò ancora, stringendo Tanatos convulsamente: “Non mi fai paura!” gracchiò.
Per tutta risposta l’enorme bocca del Minotauro si incurvò in quello che poteva quasi essere definito un sorriso di scherno ed emise una serie di versi grotteschi che assomigliavano ad una risata maligna. Doveva credere ridicolo quell’insulso omuncolo che osava sfidarlo. Nel fare quel sorriso contorto aveva scoperto denti grossi come pietre, storti e giallastri, e filamenti di bava che gli arrivavano dal palato alla lingua viola. Teseo immaginò di essere dilaniato da quei denti e inghiottito da quella bocca e deglutì. Il coraggio gli era venuto meno.
“È spacciato” bisbigliò uno dei ragazzini pallidi e tremanti. Ora che si confrontavano, l’inferiorità di Teseo appariva chiara agli occhi di tutti. Almeno il vento soffiava in modo che il suo odore non arrivasse alle narici del Minotauro.
“Non ti temo, mostro!” urlò Teseo disperatamente. “Vieni pure, ad attenderti non troverai le mie carni ma la lama di questa spada!”
Il Minotauro si produsse di nuovo nella sua tremenda risata, per nulla impressionato. Con quelle mani callose avrebbe potuto stritolare il principe ateniese come un pezzo di pane, con quei denti affilati ridurre in polvere Tanatos. Era sicuro della sua forza, e si gustava appieno il terrore di Teseo, pronto a balzargli addosso. Il principe da parte sua restava fermo al suo posto, con Tanatos stretta tra le mani, come un vero eroe, ma dal suo viso incominciava a trasparire una certa angoscia. A cos’era servito sedurre Arianna, se adesso il mostro l’avrebbe divorato? Forse era meglio uccidersi e lasciare al mostro solo il suo cadavere per soddisfare la sua voglia.
Ma poi, improvvisamente, il vento soffiò nella direzione contraria, scompigliando i capelli di Teseo e trasportando il suo odore contro al Minotauro.
Lo vide bloccarsi di colpo, spalancare gli occhi torbidi in una stranissima espressione e venire percorso da un tremito. Lo squadrò in modo differente, con una sorta di muta rassegnazione. Poi si voltò verso i ragazzini nascosti e marciò verso di loro, abbandonando la caricata su Teseo.
Il giovane restò un attimo stupefatto, senza poter credere che l’avversario gli avesse voltato le spalle a quel modo, e per di più essendo in vantaggio. Avanzò deciso verso il Minotauro e lo schernì: “E ora cosa fai? Te la prendi con dei ragazzini innocenti? Battiti con me!”
Ma poiché quello non ascoltava e continuava a voltargli le spalle, gli puntò contro Tanatos e ripeté a voce alta: “Battiti con me, vigliacco!”
Ad un comando del genere non si può dir di no. Ma il Minotauro si limitò a girarsi un attimo e a digrignare i denti nella sua direzione. Teseo gli arrivò tanto vicino che lo punzecchiò con la spada. Innervosito, il mostro ruggì e fece un movimento come per scagliarsi su di lui, ma riuscì a dominarsi appena in tempo, strinse forte i pugni e arretrò. Teseo non capiva: cos’era quell’arrendevolezza? Perché il flagello che aveva ucciso soldati abili e rinomati guerrieri esitava di fronte a lui? Erano gli dèi a dargli quella debolezza, o qualcos’altro?
Piegò le ginocchia in una posizione d’attacco, la punta di Tanatos sempre diretta contro il Minotauro, sollevò fieramente il capo: “Hai paura di me, forse?” scoppiò in una risata cattiva. “Una bestia immonda come te non ha il coraggio di battersi con un uomo fatto di carne e d’ossa? Ma che razza di mostro sei? Combatti!”
Il Minotauro lo fissò con un misto di rabbia e di mansuetudine nello sguardo, come chi vorrebbe gettarsi su una cosa e distruggerla, ma sa che è proibito. Fece uno strano gesto con la mano, una sventolata che sembrava significare: “Va’, salvati, hai il mio permesso”.
Teseo non aspettava certo il suo permesso. Insuperbito dall’improvvisa docilità del mostro gli si avvicinò ancora. I ragazzini vociarono spaventati nel guardare il giovane che arrivava accanto al temibile Minotauro. Teseo sorrise in modo strafottente: “Se non vuoi combattere contro di me, cadrai nel più patetico dei modi, trucidato senza opporre la minima resistenza. Vediamo se qualche graffio ti aiuterà a reagire!”
Vibrò il primo colpo, un fendente laterale che Tanatos eseguì alla perfezione e che era intenzionato a calare sulla spalla del Minotauro. Lui emise un verso di sorpresa – come osava? – e balzò all’indietro, mandando a vuoto la sciabolata, che tagliò l’aria ad un soffio dalla sua carne. Tuttavia non controbatté con alcun attacco, anzi, cercò di indietreggiare, fuggendo alla lotta. Teseo, insieme rassicurato e contrariato dalla perdurante mansuetudine, lo incalzò ancora con un insieme di colpi di taglio, affondi e fendenti. Il Minotauro schivò con agilità, abbassandosi, saltando e contorcendosi, senza mai attaccare, limitandosi a difendersi, gli occhi pieni di tormento e di sorpresa. Teseo sembrava conquistarsi senza alcun merito una posizione di vantaggio.
Il colore rifluì un poco sui volti dei ragazzini, alcuni sorrisi spuntarono, incerti, vi furono alcune incitazioni all’eroe.
Ormai pienamente sicuro di sé, il principe stava lentamente spingendo l’avversario inerte contro una delle pareti del Labirinto, in trappola. Il Minotauro indietreggiava, tutto preso ad evitare i colpi di Teseo. S’accorse delle intenzioni dell’altro gettando una fugace occhiata dietro di sé e accorgendosi della parete. Lanciò un terribile muggito, come se sperasse che con quel verso demoniaco avrebbe fatto indietreggiare l’eroe senza dovergli fare del male.
I ragazzini gemettero terrorizzati, ma Teseo non retrocedette di un passo: “Che ruggisca pure!” esclamò ridendo. “La sua lingua non è certo una spada!”
Caricò un tondo impeccabile. Il Minotauro tentò goffamente di abbassarsi, ma la lama gli incise la carne sul fianco, disegnandovi una ferita superficiale da cui fuoriuscì subito sangue di un rosso vivo. Il suo gemito di dolore rimbombò per tutto il corridoio. Premendosi una mano sulla ferita, arretrò incespicando, gli occhi pieni di angoscia fissi su Teseo. L’invincibile divoratore di uomini, il flagello di Atene, non sapeva cosa fare.
“Mi sono immaginato questo duello in molti modi” lo schernì Teseo. “Ma mai così! Mi stai lasciando condurre il gioco, patetico animale! Cosa racconterò ad Atene? Su, fammi la grazia di un’unghiata, ti prego”.
Il Minotauro chiamò a raccolta le forze, si gettò sul pavimento e rotolò, girando intorno a Teseo e fuggendo al vicolo cieco in cui lo stava spingendo. Si fermò ansimante poco lontano. Il sangue continuava a colargli dal fianco lungo le gambe muscolose. Il principe scoppiò a ridere e alzò Tanatos: “Fuggire non ti salverà!”
Il Minotauro si guardò freneticamente intorno come per cercare una via di fuga. Assolutamente non doveva fare del male a Teseo, o almeno, così sembrava. Allorché il giovane gli venne incontro con la spada alta nell’aria, nelle pupille gli balenò uno scintillio di terrore. Dopo aver emesso un verso straziante, il mostro si rimise in piedi e cercò di scappare in un corridoio laterale.
Teseo non poteva permettergli di dileguarsi nel dedalo. Sì, avrebbe salvato se stesso e i tredici giovani, ma non Atene: il tributo avrebbe continuato ad esistere. Doveva ucciderlo una volta per tutte. Tirò fuori dalla tunica un piccolo coltello che portava sempre con sé e che quasi non si notava, prese la mira e lo scagliò sulla figura fuggente del Minotauro.
La piccola lama gli si piantò tra le scapole. Con un muggito di dolore il mostro cadde rovinosamente a terra, la schiena invasa da piccoli rivoletti vermigli, senza fiato. Allorché provò a riprendere la fuga, barcollò e cadde di nuovo. Rendendosi conto di essere troppo debole per scappare, si voltò verso Teseo con disperazione straziante. Tuttavia non lo mosse affatto a compassione. Il principe avanzò verso di lui con un sorriso da vincitore che gli illuminava il volto: “Ricorda questo nome, mostro, mentre muori: Teseo di Atene, colui che squarcia, trafigge e uccide, trucidatore di mostri, servo devoto degli dèi!”
Ora i giovanetti ateniesi sorridevano, inneggiavano Teseo, ridevano di sollievo.
Il Minotauro emise un verso fievole e colmo di disperazione. Avrebbe ancora potuto uccidere Teseo: le due ferite gli impedivano di muoversi velocemente, ma non avevano alterato la sua forza. Eppure qualcosa in lui resisteva, qualcosa di più forte del dolore delle ferite, dell’umiliazione per la patetica sconfitta che stava subendo, delle parole di scherno del piccolo uomo accorso a ucciderlo. Cominciò a trascinarsi pateticamente nella direzione in cui prima stava scappando, come se sperasse di potercela ancora fare, di potersi dileguare nel Labirinto.
I ragazzini, galvanizzati dal vantaggio di Teseo, presero a loro volta a schernire il mostro, tirandogli contro fermagli, bracciali e tutto quello che possedevano ed esclamando:
“Prenditi questo, demone! Te lo dovevo dare!”
“Sei stato tu a divorare mia sorella, nove anni fa! Và all’inferno, Ade non ti vorrà mai nel suo regno, immondo come sei. Ti auguro di precipitare nel fiume dei Morti e di rimanervi intrappolato, con tutti quelli che hai ucciso!”
“Tò, eccoti questo bracciale! Che tu possa soffrire come un cane!”
“Brutto assassino!”
Il Minotauro continuava a trascinarsi in avanti, ignorando le grida di scherno dei sacrificati, prendendosi oggetti contro senza fare una piega, gli occhi fissi sui corridoi in cui sperava disperatamente di rifugiarsi. Teseo, che l’aveva lasciato fare, compiaciuto dalla sua impotenza, raccolse da terra il gomitolo di Arianna, gli andò incontro e gli rifilò un calcio poderoso sulla ferita alla schiena. Il Minotauro cacciò un grido straziante e cadde bocconi, il fiato mozzo. Sollevò su Teseo due occhi colmi di una collera disperata, ma si bloccò improvvisamente.
Aveva visto il piccolo gomitolo argentato che riposava nella mano del giovane eroe, il filo che partiva da esso e che si svolgeva a terra. L’aveva ricordato, poiché Arianna ne aveva sempre tenuto uno uguale ogni volta che era venuta a fargli visita.
Le pupille gli si dilatarono dalla sorpresa e dal dolore allorché comprese che lei l’aveva tradito. Restò per un attimo immobile a terra, gli occhi fissi sul gomitolo, paralizzato da quella sofferenza ben più forte di quella provocata dalle ferite pulsanti. Mosse la bocca per sussurrare, così piano che nessuno l’udì: “Arianna…”
Due grosse gocce d’acqua gli velarono gli occhi bestiali, poi caddero, scivolandogli sul muso taurino. Un brusio concitato percorse le file di sacrificati.
“Il mostro piange!”
“Non c’è da stupirsi” commentò disgustato Teseo. “Questo non è un mostro. È una donnicciola!” rise sguaiatamente della sua stessa battuta. Poi s’accigliò: “Facciamola finita con questa faccenda”.
Colpì il Minotauro che piangeva con un pugno in piena faccia. Il mostro crollò bocconi con un piccolo gemito, ma stavolta restò inerte. Era come se quella straziante scoperta l’avesse privato anche della volontà di scappare. Implacabile, Teseo lo afferrò per un corno e lo costrinse ad inginocchiarsi di fronte a lui. Il Minotauro lo lasciò fare, completamente inerte. Quando fu messo in ginocchio lo guardò con uno sguardo colmo di una tristezza inesprimibile, sembrava dire: “Uccidimi, avanti”.
“Sarà proprio quello che farò!” esclamò Teseo. Sollevò Tanatos in alto…

Arianna scivolò furtivamente fuori dalla reggia gettandosi in spalla la sacca da viaggio, pallida e tremante, piena di dubbi e di angosce. Camminò a testa bassa in direzione dei cancelli, chiedendosi col cuore in gola se le guardie l’avrebbero fermata e riconosciuta. Ma d’altronde l’avevano vista solo da lontano, come potevano identificarla col goffo ragazzetto dai capelli corti che si stava avvicinando nervosamente?
Il cuore le batteva forte dentro l’esile cassa toracica. Chi dei due era morto nel Labirinto, Teseo o il Minotauro? L’uomo che amava e con cui si apprestava a fuggire, o il mostro che le aveva dato tutto? Non era sicura di volerlo sapere.
Giunse accanto alle guardie. Prese un brusco respiro, cacciò la testa nel colletto della casacca, s’ingobbì e tirò avanti con decisione, tenendo gli occhi fissi a terra. I soldati le gettarono solo un rapido sguardo annoiato e non le dissero nulla. Allorché fu fuori dal giardino del palazzo restò un attimo ferma, incredula: era fuori! Finalmente fuori dal palazzo di Cnosso, dopo diciotto anni!
Ma poi tornò presente a se stessa. Avvistò le vele bianche della nave inviata da Atene che sventolavano al sole del mezzogiorno, un punto chiaro in mezzo al mare cristallino. E lei sarebbe salita su quella nave. Si incamminò verso di esse in fretta.
L’aria salmastra la colpì in pieno, pizzicandole le narici e scompigliandole i capelli corti sotto al berretto. La respirò a fondo, avvertendoci un profumo di libertà.
“Arianna?”
La voce rude, che pronunciò il suo nome con tono esitante, la fece sobbalzare. Terrorizzata che qualcuno potesse averla scoperta si girò di scatto e portò veloce una mano all’elsa del pugnale che teneva nascosto nelle vesti, ma l’imponente marinaio barbuto che le aveva parlato sollevò in fretta le braccia: “Non temete, non voglio farvi del male! Il Principe Teseo mi ha detto che sareste venuta”.
Arianna si calmò leggermente, anche se continuò a sbirciarlo sospettosamente coi suoi acuti occhi verdi. Il marinaio si rigirò goffamente un lembo di tunica tra le mani: “Presto, seguitemi: se tutto è andato secondo i piani, il principe sarà qui a momenti e salperemo all’istante”.
La prese per un braccio e la guidò verso l’imponente nave ateniese. A bordo alcuni marinai trafficavano con gomene, corde e carichi, come se fossero appunto sul punto di partire. Arianna si sentì straordinariamente piccola e indifesa di fronte a quel titano di legno.
Fu quando si trovò davanti alla nave, travestita da ragazzo, che fu colta dall’esitazione.
“Sto facendo davvero la cosa giusta?”
Non era troppo tardi. Poteva ancora tornare a palazzo, chiedere perdono a suo padre. Glielo avrebbe concesso. Le voleva bene, in fondo. Sarebbe tornata ad essere la Principessa Arianna, avrebbe sposato un condottiero cretese, avrebbe ottenuto l’espiazione. Anche il Minotauro, forse, l’avrebbe perdonata, nel posto dove sarebbe andato.
Ma no. Ormai era una traditrice, quella parola le sarebbe rimasta sempre addosso finché restava lì, l’avrebbero sussurrata quando passava, pensata senza dirla ad alta voce. Minosse si sarebbe sempre ricordato che, per un attimo, era stata alleata del nemico. Doveva andare con Teseo, che amava, o il suo tradimento non sarebbe servito a niente.
“Oh, dèi, fate che sia vivo” mormorò.
E stavolta gli dèi parvero ascoltare la sua preghiera, perché un corteo che si muoveva baldanzoso verso la nave apparve all’orizzonte luminoso, capitanato da una figura imponente con una chioma di folti capelli neri, il viso illuminato di trionfo. Arianna lo riconobbe all’istante, e con un balzo al cuore gettò un grido di gioia: “Teseo!”
Il giovane principe ampliò il sorriso allorché la vide, riconoscendola anche se era camuffata. Era circondato dalla folla giubilante di sacrificati, sorridenti e piangenti di gioia, che l’inneggiavano, gridavano il suo nome, gli battevano pacche sulle spalle e carezze adoranti. Aveva la tunica imbrattata di sangue, e al principio Arianna impallidì e temette che fosse ferito, ma a giudicare da come si muoveva, non doveva essere sangue suo. Era un po’ affaticato poiché si trascinava dietro un pesante sacco di canapa, ma a giudicare dalla luce di soddisfazione che aveva negli occhi azzurri doveva trattarsi di un dolce peso. Il sacco era impregnato di un liquido scuro e vermiglio che era filtrato anche all’esterno. Arianna lo fissò ad occhi spalancati.
Il marinaio che l’aveva portata alla nave corse incontro al suo principe con occhi pieni di speranza: “Allora…è finita?”
Teseo fece un sorriso stanco e gli appoggiò una mano sulla spalla: “Sì, mio buon Neottolemo. È finita”.
L’equipaggio e i sacrificati gridarono di giubilo. 
“Evviva! Evviva!”
“Sia gloria a Teseo l’eroe!”
“Il Liberatore!”
“Il trucidatore di mostri!”
Teseo sorrise, visibilmente compiaciuto. Arianna, tuttavia, a differenza di tutti gli altri, se ne restava in disparte, non sapendo come sentirsi. Era felice che Teseo fosse vivo…ma non le veniva da partecipare a quell’allegria, a quelle feste.
Incoraggiato dalla folla, il principe infilò una mano nel sacco e con decisione ne tirò fuori l’orrido contenuto, la disgraziata testa del Minotauro. Arianna provò un’improvvisa ondata di dolore e di nausea allorché il giovane sollevò la testa tenendola per le corna. Dal collo reciso, lordo di sangue secco, pendevano alcuni filamenti di carne, la bocca era spalancata, la lingua nera penzoloni dai denti spezzati. Ma la cosa più spaventosa erano gli occhi, spenti e privi di vita, abbattuti, che sembravano fissarla con indicibile tristezza, ancora velati dalle uniche lacrime che il disgraziato avesse mai versato.
Fu colta dalle vertigini. Si premette una mano sulla bocca, distolse lo sguardo, incapace di reggere ancora quella vista, il porto le turbinò intorno e barcollò, presa dal rimorso di ciò che aveva fatto. Prima che potesse stramazzare, però, Teseo le fu accanto, affidando il sacco con la testa a Neottolemo, e la sorresse afferrandola per le spalle. Era divenuta pallidissima, e dalla bocca le uscivano solo mugolii strozzati. Non riusciva a parlare.
“Sta tranquilla, amor mio” disse Teseo con voce dolce come il miele, scostandole dal viso qualche ciocca di capelli. “Ora è tutto finito. Sei libera dalla maledizione. Noi tutti siamo liberi!” la afferrò per la vita e la fece volteggiare. La folla lo inneggiò più forte.
Allorché la baciò Arianna non si scostò, ma mentre egli la teneva stretta le lacrime, lente ed inesorabili, le rotolavano sulle guance pallide.

  
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