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Autore: ToscaSam    20/01/2019    0 recensioni
La solita storia di una ragazza che si iscrive all'università e incontra dei ragazzi.
Più o meno.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Per scrivere questa storia mi sono ispirata a libri che ho letto,a esperienze personali, a eventi che mi sono stati raccontati da altri e a quello che mi ha dettato la fantasia.
La protagonista non sono io. È frutto della mia fantasia, quindi, può assomigliarmi un po', come anche no.
Se pensate di essere qualcuno dei personaggi, che io mi sia ispirata totalmente a voi, se pensate che io pensi certe cose di voi, se credete che vi abbia giudicato in un certo modo, vi garantisco che non è così .
Le persone qui descritte non esistono. Se vi assomigliano a qualcuno, quel qualcuno non esiste o non è interamente riconducibile al personaggio.
I fatti narrati non sono realmente accaduti.
Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale





 
'Intorno a lei tutti gli sguardi erano fissi, tutte le bocche aperte; e infatti, mentre danzava così - al suono del tamburello basco che le sue braccia rotonde e pure portavano sopra la testa - snella, fragile e vivace come una vespa, con il suo corsetto d'oro senza pieghe, con la sua veste variopinta che si gonfiava, con le spalle nude, le gambe sottili che la gonna ogni tanto scopriva, i capelli neri, gli occhi di fuoco, era una creatura soprannaturale. «In verità», pensò Gringoire, «è una salamandra, una ninfa, una dea, una baccante del monte Menalo!»
In quel momento una treccia della capigliatura della "salamandra" si staccò e un pezzo di rame giallo che vi era attaccato rotolò a terra. «Eh, no!», disse, «è una zingara» '
 
[Notre Dame de Paris, Victor Hugo]


 
PROLOGO
 
A Tullia Pasquinelli piaceva l'allitterazione della elle nel suo nome. Le piaceva che il suo nome si potesse abbreviare in più modi, come Lia, Ulli, Ul, Tul. Odiava la variante “Tully”, soprannome che le avevano affibbiato sin da quando era piccina ed evocava solo immagini di mamme e compagni delle elementari.
Le piaceva che il suo nome non fosse troppo comune, ma nemmeno troppo strano. Una volta conobbe una che si chiamava Orsola e si chiese se i suoi genitori non si fossero bevuti il cervello.
“Tullia” le ricordava al tempo stesso il toulle, stoffa divertentissima che faceva star su ogni costume di carnevale, e una vaga idea di menestrello.
Ed era proprio per quel menestrello immaginario che il suono del suo nome le aveva sempre evocato, che Tullia si era iscritta alla facoltà di Storia all'Università di Pisa.
Il menestrello si era sempre più solidificato, aveva assunto contorni più vasti, meno antropomorfi e aveva racchiuso dentro di sé una serie di passioni e desideri tutti riconducibili a lui, alla sua forma embrionale.
Tullia amava diverse cose di sé stessa, ma probabilmente era l'unica a farlo.
Si sentiva speciale, come ogni singola persona fa con sé stesso. Quando andava a dormire, la sera, rifletteva sempre su quanto fosse intelligente e quanto avrebbe voluto conoscere i grandi letterati del passato. Sapeva che sarebbe stata l'allieva preferita di Dante e la moglie perfetta di Leopardi. Si immaginava in conversazioni con Socrate, travestita da maschio, così che non avesse pregiudizi su di lei.
Ogni tanto credeva davvero di poter parlare coi loro spiriti, tramite preghiere intensissime rivolte all'energia della vita che da sempre governa l'universo.
Ogni tanto, Tullia si piaceva anche fisicamente: si guardava allo specchio e si compiaceva di una maglietta particolare che aveva comprato. Pensava che le desse questo o quel tono, che la facesse sembrare una giovane donna in carriera o un'archeologa o una dottoressa o un menestrello.
Si immedesimava negli abiti che portava e ne sentiva l'essenza, l'ispirazione. Era davvero la giovane donna in carriera o il menestrello, quando li indossava.
Eppure, al cospetto degli altri, delle sue compagne di classe o dei semplici passanti sulla strada, Tullia si sentiva immediatamente stupida e fuori luogo.
Nessuno pareva ragionare sulla sua lunghezza d'onda, anzi forse lei usava una frequenza apposita per gli strambi. Pareva che ogni sua decisione risultasse strana al resto del mondo. Possibile che non le riuscisse di azzeccare nemmeno mai una corrispondenza con le altre persone?
E poi si rendeva conto di essere brutta. Dove era finita la ragazza dallo sguardo sagace e acculturato che le aveva ammiccato allo specchio, quella mattina?
Era pallida, con le occhiaie perenni, goffa e minuta. Non aveva un briciolo di seno, era certa che la sua pancia sporgesse in contrasto con la corporatura snella del resto del corpo. Non sapeva accostare i vestiti di modo che piacessero alle altre persone. Piacevano a lei, ma solo la mattina allo specchio. La sera, spesso si chiedeva perché diavolo si fosse vestita così.
Di fidanzati neanche l'ombra.
Sapeva di essere l'unica nella sua terza liceo classico (oggi direbbero che frequentava il quinto anno) a non aver dato nemmeno un bacio vero. Si scandalizzava quando le compagne parlavano di sesso. Le trovava volgari e poco rifinite. Faceva alti pensieri sulla pochezza spirituale di chi dona il proprio corpo con lascivia, si sentiva carica di virtù. Si consolava con un discorso che le aveva fatto la sua amica Francesca, qualche anno prima: « Noi siamo diverse, siamo merce rara. Prima di comperare qualcosa di raro, la gente ci pensa. Adesso stanno provando con gli usa e getta, ma prima o poi qualcuno farà l'investimento e ci prenderà per sempre».
Le erano rimaste impresse, quelle parole. La retorica, ogni tanto, serviva a qualcosa. Era giusto. Prima o poi, un nobile giovane uomo si sarebbe accorto del suo valore e l'avrebbe presa con sé.
Bisognava aspettare.
Eppure Tullia sapeva bene che a diciannove anni era molto triste aver solo scambiato un bacio, che in realtà era una specie di morso, con uno che faceva la quinta superiore quando lei faceva la terza. Erano anche stati “fidanzati” per un mese, prima che lei decidesse di chiuderla lì. Lui non si era più fatto sentire, la salutava per i corridoi scolastici e tre volte le aveva tenuto la mano. Tullia aveva capito che lui era una pappamoscia e gli aveva chiesto di smettere di essere una coppia.
Il fatto che lui avesse accettato con un “ok!” sorridente, le fece capire di aver scambiato il morso-bacio con una specie di sardina.
Lei, Michela e Francesca erano sempre state le sfigate del loro anno. Dagli ultimi anni delle elementari, fin poi alle medie, erano state gli zimbelli della scuola del loro paesino. Dalle superiori in poi, erano state inglobate nella cerchia di ragazze che nessun maschio guarda, fuori dalle dinamiche di “a lui piace lei, chiedi all'amica se anche a lei piace lui”.
Sempre loro tre, amiche che ridevano insieme, che leggevano i fumetti, che facevano congetture sulla vita e l'esistenza, nemmeno un ragazzo, nemmeno un corteggiatore, mai.
Tullia finì il liceo sapendo che non avrebbe mai rivisto (e volentieri) le sue ex compagne. Cercò una casa con sconosciute, guai a vivere con una di loro.
Voleva tagliare ogni ponte con quelle oche, che le avevano ricordato sempre quanto lei non fosse apprezzata nel mondo reale.
Questa era Tullia Pasquinelli, quando si recò alla prima lezione dell'università di Pisa.

 
I
 
Era stato complicato, riuscire ad organizzarsi l'orario. Le materie si sovrapponevano quasi tutte. Era riuscita a incastrare solo quelle che le piacevano di meno e che avrebbe voluto frequentare più avanti.
Cartografia. Che razza di materia era, cartografia? Le evocava vaghe idee di mappe antiche. Aveva scelto il curriculum di storia medievale, come cavolo poteva non immaginarsi qualcosa del genere? E invece a quella lezione erano comparse cartine topografiche, elementi di scienze della terra, geologia, addirittura formule con i numeri.
Numeri! Tullia si era fatta prendere così tanto dallo sconforto che aveva pensato di mollare ogni cosa. Il primo giorno.
Era arrabbiata con tutto: la lezione aveva fatto schifo, il suo orario era bruttissimo, non era riuscita a comporre un abbigliamento decente con cui presentarsi al mondo, aveva i capelli sporchi, appiattiti, unticci, voleva abbandonare l'università e un brufolo gigante le era spuntato in nottata sulla fronte.
Stava indugiando sulla sedia scomoda, confusa fra i suoi stessi pensieri e malumori, quando sentì chiaramente una voce che sussurrava:
« Vediamo quante fiche assurde ci sono a questa lezione»
Tullia alzò gli occhi con circospezione: la voce proveniva da due schiene sedute poche file più avanti a lei. Erano due ragazzi. Tullia capì che quell'affermazione l'aveva sentita solo lei e che i due non si aspettavano di essere stati ascoltati.
Che cosa idiota da dire, pensò. Eppure, come un riflesso involontario, cercò di raddrizzarsi, di comporsi in una posa decente, di sistemare velocemente lo schifo dei capelli e di nascondere il brufolo. Ovviamente sapeva che non poteva risultare più orrenda di così.
Scrutò di soppiatto lo sguardo del ragazzo, che si girava con poca dissimulazione a studiare le persone nell'aula.
Vide con la coda dell'occhio di essere osservata e studiata. Ne fu certa, guardava lei.
Il ragazzo tornò a parlare col suo amico, piano:
« Niente male!»
disse.
Niente male? Pensò Tullia, improvvisamente arrossita.
Se davvero si riferiva a lei, quel ragazzo doveva avere problemi di vista.
Sai che c'è? Si disse Tullia: aveva bisogno di qualcuno che l'aiutasse a comporre un orario migliore. Aveva bisogno di delucidazioni su certe materie. Disse: perché no.
Si alzò e andò a sedersi proprio accanto ai due ragazzi.
« Ciao» disse, scoprendo una voce sicura che non era la sua.
« Ciao» risposero i due, cortesi.
Quello che l'aveva sbirciata aveva l'aria beffarda. L'altro sembrava solo cordiale.
« Per caso voi siete di storia?» chiese lei.
« Si. Curriculum medievale» rispose quello spavaldo.
Questo è un miracolo, pensò Tullia.
Il destino, come nei migliori film o romanzi, aveva giocato un bel tiro.
Tullia aveva passato gli ultimi mesi a ripetere che si, storia medievale era effettivamente un corso di laurea e che si, l'avrebbe frequentato.
Nessuno l'aveva saputa aiutare, nessuno era competente.
E d'un tratto si trovava davanti due ragazzi che l'avevano giudicata niente male, che studiavano le sue stesse materie e che avrebbero potuto diventare suoi amici.
Si mostrò estremamente felice di averli incontrati e disse di essere loro grata.
I due ragazzi si mostrarono gentili: si chiamavano Bruno e Rocco. Il primo era abituato alle attenzioni: era a suo agio con i goffi tentativi di Tullia di rimanere simpatica. Rise alle sue battute, le sfiorò più volte un braccio come per dire “tranquilla, ti aiuto” e si offrì di tenerle il posto per la lezione del giorno dopo.
Rocco era più riservato, ma Tullia gli leggeva negli occhi qualcosa che voleva uscire fuori. Sembrava che volesse dire più di quello che gli riusciva. Fece parlare sempre Bruno, annuì e acconsentì alle offerte gentili che Bruno profondeva a Tullia.
Mentre scendeva le scale del dipartimento in via Paoli, Tullia sorrideva.
I capelli non erano così sporchi e forse il brufolo non si vedeva molto.
All'uscita si imbatté in due capannelli di persone: stavano distribuendo volantini. Altri due ragazzi che la cercavano, pensò Tullia, anche se questi dovevano essere ammalianti con tutte, per accalappiare clienti.
Capì che uno distribuiva un giornale comunista. Aveva acciuffato una ragazza bionda e ricciuta e cercava di comprarla con frasi altisonanti.
L'altro consegnava volantini per la messa di inizio anno accademico. Era accerchiato decisamente da poche persone, eppure a, una prima occhiata, a Tullia sembrò molto più carino e affascinante dell'altro.
Vedendo che lo stavano osservando, il ragazzo cattolico le porse il volantino. Aveva un bel sorriso, sembrava deciso.
« Ti interessa?» le chiese, vedendo che Tullia leggeva seriamente il volantino.
« Non lo so» rispose lei.
Non aveva un gran passato da cattolica, però adorava pregare. Pregava un dio dai contorni molto fumosi: quello che la metteva in contatto con gli spiriti del passato, che le donava emozioni magiche quando si trovava immersa nella natura.
« Sembri indecisa. Sai che già riflettere sull'esistenza di Dio è il primo passo per una fede solida? Per la fede, come per tutto il resto, farsi domande è sintomo di intelligenza»
Tullia fissò il ragazzo. Le sorrideva ancora.
Notò che da vicino non era affatto carino come le era sembrato: aveva gli occhi sporgenti, le sopracciglia folte che si staccavano solo per pochi centimetri e le labbra gonfie e mollicce. Però la forma dei denti e del sorriso era piacevole.
Tullia decise di sorvolare gli aspetti sgradevoli di quel viso amichevole e ricambiò la cordialità:
« Allora per ora mi accontento del complimento» disse, esibendo un tono che voleva essere accattivante o addirittura seducente.
Si chiese cosa mai le stesse succedendo. Se si fosse comportata così al suo paesino di provenienza sarebbe sembrata stupida.
Il ragazzo cattolico cadde nella ridicola trappola tesa da una seduttrice inesperta.
« Sarebbe bello vederti alla messa. Dopo potrei avere l'occasione per offrirti un caffè»
« Non bevo caffè» azzardò Tullia.
« Allora una tisana» concluse lui, garbato.
Tullia lo salutò promettendo che ci avrebbe pensato.
Si allontanò in direzione di Piazza Dante, con il foglietto della messa cattolica in tasca e la certezza di avere un posto tenuto per la lezione del giorno dopo.
Era l'aria di Pisa che le faceva bene? Eppure sembrava una città così sporca, così brutta, così priva di poesia.
 
*
 
Il giorno seguente Tullia passò la lezione di cartografia accanto a Rocco e Bruno. Si salutarono come se si conoscessero da una vita e ogni tanto ridevano gli uni alle battute degli altri.
Quel giorno Tullia aveva deciso di vestirsi con cura. Voleva sembrare curata, ma indossando cose semplici.
Rabbrividiva nel vedere il corredo di pizzi e fronzoli che si era trascinata dietro dall'adolescenza. Il suo armadio pisano pullulava di cimeli del passato. Basta, era una persona nuova.
Aveva scelto quello che di più normale c'era, in mezzo a tante cianfrusaglie, prediligendo i colori marrone e verde, o le fantasie a fiori su sfondo crema, o il jeans semplice.
Si sarebbe decisa a un radicale rinnovamento, prima o poi, quando le sue finanze l'avessero permesso.
Quella seconda mattina, però, Tullia si accorse di aver perduto il fascino della prima volta. Bruno non l'aveva guardata, non in quel senso. Rocco non aveva dato segno di apprezzare particolarmente la sua compagnia.
Dopo la lezione si salutarono con la promessa di rivedersi il giorno dopo.
Tullia tornò a casa, mesta: il giorno prima le cose erano accadute per caso e tutto era parso magnifico; adesso lei era lì, vestita come una stupida, sotto la pioggia nauseante di Pisa, ad aspettare la navetta che non sarebbe mai arrivata.
La sua casa era lontanissima: doveva farsi tutto Corso Italia a piedi, attraversare Piazza Vittorio Emanuele, costeggiare la stazione e infilarsi in una stradina minuscola, squallida, triste di giorno e inquietante di notte.
Maledisse Pisa, le sue strade sporche, l'aria di lezzo, l'umido costante che arriva fino alle ossa, il cielo plumbeo e la calca di spendaccioni in Corso Italia.
Quando arrivò, le sue coinquiline stavano già preparando la cena.
« Mangi con noi, Tul?»
L'avevano chiamata “Tul”. Questo risollevò un po' la giornata. Adorava sentirsi chiamare così e non “Tully”.
Disse che si, cenava con loro.
Prepararono un piatto di pasta in più. Era al tonno, ovviamente. Le tre coinquiline non sapevano cucinare e non ne avevano mai voglia. Studiavano tutte e tre medicina, eppure nessuna di loro pareva interessata a una dieta sana.
Clarissa era alta, bionda e considerata da tutti bellissima. Si alzava sempre due ore prima, la mattina, per prepararsi ad uscire. Adorava le scarpe e i prodotti per i capelli.
Nonostante l'aria da diva del cinema, era la più simpatica.
Tullia non capiva come mai perdesse tanto tempo e tanti soldi in vestiti e trucchi. O meglio, lo capiva ma non lo condivideva. Lei non l'avrebbe mai fatto.
Le altre due si chiamavano Rosanna e Ilaria, ma Tullia non sviluppò mai un gran rapporto con nessuna delle due. Vivevano insieme e si scambiavano frasi amichevoli, ma rimasero entrambe nella sfera delle conoscenti.
Mentre mangiavano la pasta al tonno – che sapeva di olio di scatoletta – Clarissa disse:
« Domani sera ho invitato alcuni amici. Facciamo un gioco da tavola. Va bene?»
Ovvio che andava bene, se li aveva già invitati.
Ma Tullia non si lamentava: gli amici di Clarissa erano sempre simpatici.
Abitava in quella casa da una settimana e già aveva conosciuto quattro gruppi diversi di amici di Clarissa.
Le sue coinquiline stavano lì già da un anno. Il quarto elemento, di cui Tullia aveva preso il posto, era una ragazza sarda che aveva smesso di studiare per aiutare il padre nell'azienda agricola di famiglia.
La serata passò con qualche barlume di felicità in più, solo perché Tullia si era sentita chiamare “Tul”. Andò a letto abbastanza tranquilla, immaginando come sarebbe stata la lezione accanto a Rocco e Bruno, il giorno seguente.
  
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