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Autore: yonoi    27/01/2019    11 recensioni
La mattina del 19 maggio 1845, due velieri della Marina Britannica, la Her Majesty’s Terror e la Her Majesty’s Erebus, salparono in direzione del Mar Glaciale Artico: scopo della spedizione, tracciare la rotta del passaggio a nord ovest, e aprire una nuova via di comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico.
Inviate sotto il comando del capitano John Franklin, la Erebus e la Terror scomparvero insieme a tutti i componenti dei due equipaggi.
Numerose spedizioni di ricerca furono inviate sulla rotta di Franklin, senza riuscire a ritrovare alcun superstite e riportando in patria notizie sconvolgenti sul destino dei dispersi. Da ultimo, quando ormai Franklin e i suoi marinai erano stati dichiarati ufficialmente caduti al servizio di Sua Maestà, una donna tenace decise di giocare la sua ultima carta: acquistare una nave e inviarla sulle tracce dei marinai scomparsi in quelle terre di ghiaccio e di oscurità.
Primo classificato al contest "I doni della medicina" indetto da Dollarbaby e valutato da Shilyss sul Forum di EFP a pari merito con "La verità su Ingeborg Barrow" di Old Fashioned.
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Di ghiaccio e di oscurità
 
 
“Finora ignoravo che cosa fosse
il terrore: ormai lo so.
È come se una mano di ghiaccio
 si posasse sul cuore.
È come se il cuore palpitasse,
 fino a schiantarsi,
in un vuoto abisso”
(O. Wilde)
 
1. Alla ricerca del passaggio a nord ovest. Il viaggio della Erebus e della Terror
 

King William Island, arcipelago del Mar Glaciale Artico, mese di giugno 1848.
La testimonianza di Christian Fraser, bibliotecario a bordo della nave da esplorazione Her Majesty’s Terror.
 
Eravamo poco più di sessanta uomini dell’equipaggio, più otto ufficiali, quando arrivammo su quella spiaggia battuta dal vento, che al posto della sabbia aveva increspature di neve e di vento.
Ovunque, a perdita d’occhio, una distesa candida che diventava appena più lucente nel cielo, dove il sole era in equilibrio sull’orizzonte e anche nella notte emanava un tenue chiarore fosforescente.
Quello strano fenomeno l’avevamo osservato più volte, nel corso della navigazione: per circa due settimane, dalla metà di giugno fino ai primi di luglio, il sole non tramontava ma si posava sul pelo rosso dell’acqua.
Il cielo permaneva in un crepuscolo sanguinoso, che tornava a schiarirsi all’inizio del giorno: la luce riprendeva la sua consistenza gelida e le nuvole il bianco che ovunque ci circondava, imperturbabile e uguale. Sempre più insistente, si faceva strada l’idea che fosse proprio il bianco il colore del panico.
Anche durante la breve estate dell’Artico, appena un mese e mezzo di temperature diurne al di sopra dello zero, il sole non scaldava e appariva distante: un semplice riflesso che da altri continenti giungeva fino a noi, senza più forza né calore, né spirito.
Il buio dell’inverno, invece, era una morsa che stringeva le navi con scricchiolii sinistri, e una volta incagliate le spezzava per sfinimento.
Quando l’Ammiragliato del Regno Unito autorizzò i preparativi per una nuova spedizione alla ricerca del passaggio a nord ovest, due velieri da guerra erano stati attrezzati per far fronte alle insidie di un nemico imponderabile: in entrambi gli scafi, la prua era stata rinforzata con piastre di ferro adatte a vincere il ghiaccio, e un motore possente faceva da contraltare alle fragili vele montate su due alberi. Di ferro erano anche le eliche e i timoni, all’occorrenza in grado di riparare dentro ad appositi alloggiamenti.
I nomi delle navi risentivano del loro passato guerresco, dell’intento di infondere timore agli avversari: Terror come la forma più estrema di spavento, quella che paralizza e spoglia il corpo e la mente delle ultime forze; Erebus come l’oscurità della notte dei tempi, nata dal Caos primordiale, tenebrosa dimora dei morti.
Non sapevamo ancora, quando prendemmo il largo da Greenhithe sul Tamigi la mattina del 19 maggio 1845, che il nemico che eravamo destinati a incontrare non era soltanto il gelo, e che i morti eravamo noi, ancor prima di partire. Il nostro tentativo di varcare l’Atlantico e raggiungere le Indie, le terre delle spezie, della giungla e delle colonie, si smarrì in un labirinto che nessuna mappa era in grado di decifrare. Una volta salpati dall’ultimo avamposto in Groenlandia, dinanzi ai nostri occhi si aprì un mare insidioso, costellato da isole che parevano sorte dal nulla.
Alcune erano addirittura in movimento: gli speroni degli iceberg ci venivano incontro, scivolando sul pelo dell’acqua e celando vertiginose montagne sottomarine.
Le nostre mappe non tenevano conto della necessità di correggere continuamente la rotta per evitare quei blocchi che, nonostante la mole, fendevano le onde rapidi e inarrestabili.
  Avanzare di un miglio significava indietreggiare di almeno altri due per evitare gli iceberg, ma anche di incagliarsi nei ghiacci della banchisa: lastroni galleggianti che nello spazio di una notte riducevano lo spazio percorribile dalle navi a paludi cristalline e a tortuosi rigagnoli.
Quando infine la Terror, e a breve distanza l’Erebus, si arenarono al largo della King William Island, nell’arcipelago canadese, per più di un anno la spedizione rimase bloccata, essendo fallito qualsiasi tentativo di disincagliarci. Nella notte polare, mentre il carburante per il riscaldamento si esauriva rapidamente e il gelo cominciava ad annerire i nostri volti, ascoltavamo con inquietudine crescente i crepitii dello scafo e i cigolii dei telai che iniziavano a cedere all’assedio, alla terrificante pressione del pack: strati di acqua marina che gelavano in superficie e cominciavano a stringere con sempre maggior forza.
  Durante l’ultimo inverno, quelli che conservavano un residuo di forze s’impegnarono a lungo nel tentativo di disincastrare le navi, scavando nella neve che nel frattempo aveva depositato altri strati, e compattato altro ghiaccio. Ben presto ci accorgemmo dell’assurdità dell’impresa, perché quel che si riusciva a scavare a colpi di vanga e alla luce delle lanterne, fino a che il freddo non ci ricacciava sottocoperta, veniva cancellato da nuove nevicate.
Tormente colme di gemiti turbavano i nostri sonni. Parevano lamenti di anime senza pace, sbattute qua e là dal vento proprio come le nostre.
Per lungo tempo continuammo a scavare con la stessa perseveranza, più simile alla follia, e lo stesso frenetico andirivieni degli animali in gabbia: perché non riuscivamo a farci venire in mente un’altra soluzione, oppure solamente per non abbandonarci alla disperazione.
Di quei giorni io, Christian Fraser, aspirante scrittore nonché bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror, riporto su questo scritto la memoria di ciò che accadde nel bene e nel male. Impegnandomi a dire il vero per rispetto dei tanti che non sopravvissero, e a beneficio di coloro che in futuro saranno inviati sulle tracce dei dispersi: per conoscere il nostro destino o, più semplicemente, per completare la mappa del passaggio a nord ovest.
Una volta esaurite le scorte di combustibile, quando ormai la Terror e l’Erebus iniziavano a inclinarsi e a mostrare i segni dell’imminente naufragio, riunimmo i due equipaggi.
Fu deciso l’abbandono dei due natanti e la rinuncia definitiva alla spedizione.
Il giorno 22 aprile 1848 ci mettemmo in cammino, con l’obiettivo di raggiungere l’estremità sud della King William Island e di là, attraverso uno stretto braccio di mare, l’estuario del Great Fish River nei territori del Canada. Attraversando le rapide del Great Fish River, contavamo di raggiungere Fort Resolution, avamposto della Compagnia della Baia di Hudson sul Grande Lago degli Schiavi, e ottenere un soccorso che, col passare dei giorni e ormai delle ore, si faceva sempre più urgente.
Nel nostro immaginario, ridotto al lumicino e incline alle visioni per via della fame, Fort Resolution era un luminoso e accogliente bivacco fornito di ogni sorta di cibo e di conforto: in realtà, l’avamposto era situato a centinaia di miglia nell’entroterra, e pensare di superare le cateratte del Great Fish River con le nostre scialuppe era pura follia.
Eppure, tra la follia dichiarata e attendere la morte nel ventre della Terror, ormai ridotto a una spelonca di oscurità sottozero, sapevamo di non avere altra scelta: già molti di noi giacevano assiderati nelle cuccette, trapassati nel sonno sotto a mucchi di stracci ricoperti di brina. 
Quei corpi così rigidi, che a portarli parevano assicelle di legno, appartenevano a ufficiali e a uomini della ciurma: a parte i diversi fregi dell’uniforme, tutti avevano gli occhi spalancati nel buio, e fini ricami di neve al posto delle ciglia. La stessa sorte toccò al nostro comandante, sir John Franklin, esperto navigatore ed esploratore dell’Artico: il suo funerale fu l’ultimo ad essere celebrato a bordo del relitto spettrale della Terror, le vele ormai irrigidite e spiegate in eterno, gli alberi ridotti a stalattiti di ghiaccio.
Sul ponte, accendemmo lanterne che ottennero l’unico effetto di rendere la nebbia più compatta e più gialla: sicché sul ponte ci si muoveva a tentoni, e stentavamo a riconosce le nostre facce allucinate dal riverbero. Dai locali sottocoperta provenivano le note di una pianola a rullo, che tra garbugli metallici e meccanismi inceppati faceva ruzzolare le note di un inno sacro.
Le parole del cappellano uscivano già congelate, e bisognava spezzarle e riscaldarle a lungo tra le mani e nelle orecchie per poterle sentire: nelle orecchie, che eravamo costretti a tenere sotto alle sciarpe per evitare che diventassero nere e poi si staccassero, arrivava soltanto un crepitio di aghi di ghiaccio, come un ronzio di mosche. Tra i bastioni di neve che stringevano la Terror, al punto che per scendere non erano più necessarie le passerelle, la bara di sir Franklin, coperta dalla bandiera, si trasformò in un tumulo per gli effetti di una bufera improvvisa, ancor prima che noi potessimo seppellirla.
 
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Fummo costretti ad attendere ancora un altro inverno, prima di abbandonare definitivamente la spedizione e affrontare il lungo tragitto che ci avrebbe condotti a Fort Resolution disponendo delle ore di luce necessarie.
All’inizio del mese di aprile 1848, agli ordini del comandante in seconda Francis Crozier, iniziammo a caricare sulle scialuppe tutto ciò che poteva tornare utile durante il nostro improbabile esodo tra i ghiacci: dapprincipio usammo un certo discernimento, considerando che sarebbe spettato a noi rimorchiare le scialuppe, e spingerle nella neve su slitte rudimentali.
Si cominciò ammassando le ultime provviste. Alla data della nostra partenza dall’Inghilterra, potevamo contare su scorte calcolate, a titolo precauzionale, per tre anni di viaggio: non contavamo di restare per mare così a lungo, ma per maggiore prudenza la cambusa della Her Majesty’s Terror e quella della Erebus stivarono in totale 8.000 scatolette di carne conservata, 1.000 libbre di uva passa e 58.000 galloni di sottaceti. In seguito, nel corso di una sosta a Disko Bay in Groenlandia, furono erano aggiunti ulteriori rifornimenti di carne fresca.
Nonostante ciò, al momento di approntare le scialuppe constatammo che i viveri scarseggiavano, e in realtà restava ben poco da portar via. Fu forse per questo che gli uomini cedettero all’impulso di ammucchiare freneticamente gli oggetti più disparati. Gli ufficiali ammassarono le uniformi di gala, più adatte alle sale da ballo che a una trasferta nell’Artico, servizi da tè in porcellana e posateria d’argento di loro proprietà o appartenuta a sir Franklin, come attestavano i monogrammi con le iniziali in rilevo. Su una delle scialuppe vidi con i miei occhi stivare addirittura quella pianola a rullo che aveva suonato alle esequie di sir John, col relativo corredo di rotoli forati per ascoltare la musica.
Probabilmente, lo scopo era servirsi di quelle zavorre in occasione di qualche scambio con i nativi: o forse si sentiva semplicemente il bisogno di salvare qualcosa della vita di prima, e fu per questo che anch’io cedetti all’impulso e nascosi sul fondo di una delle scialuppe alcuni libri rari, più qualcuno a cui ero particolarmente affezionato.
Meno sentimentali e dotati di maggior senso pratico, gli uomini dell’equipaggio ammassarono tutto ciò che poteva tornare utile durante il tragitto: qualsiasi stoffa adatta a ricavare delle coperte, dalle tende ai sacchi ormai da tempo svuotati dalle provviste; tutto ciò che era adatto a bruciare nei falò, dai tavoli alle assi smontate dallo scafo, e persino le cattedre di mogano lucidato sopra a cui gli ufficiali insegnavano a leggere e a scrivere ai marinai.
In breve, la Terror fu spogliata e ridotta a un simulacro ancor prima di inabissarsi definitivamente.
A beneficio di coloro che fossero giunti in quei luoghi, inviati in nostro soccorso, il capitano Crozier lasciò un resoconto dei fatti degli ultimi tempi, indicando la data della nostra partenza e l’intenzione di dirigerci verso il Great Fish River procedendo lungo la costa.
Il messaggio del capitano fu posto sotto a un cairn, una di quelle strane piramidi di pietre che molto spesso si incontrano sulla King William Island. Secondo alcuni si tratta di idoli dei nativi, ma più probabilmente fungono da segnali per orientarsi in quel deserto di ghiaccio.
Custodito in un cofanetto e segnalato da una delle nostre bandiere sulla cima del cairn, il messaggio di Crozier correva lungo i margini di una pagina strappata dal diario di bordo. Il suo contenuto contrastava apertamente con quanto annotato sul medesimo foglio, con una calligrafia larga e tranquilla, meno di un anno prima.
In data 28 maggio 1847, si leggeva infatti che le navi Sua Maestà Erebus e Terror avevano svernato sulla costa nord occidentale della King William Island, dopo avere trascorso l’inverno precedente sull’isola di Beechey, più a settentrione. La nota terminava con un tono rassicurante: “Sir Frankin comanda la spedizione. Tutto bene”.
Le parole “all well” erano state addirittura sottolineate.
Di tutt’altro tenore era invece l’appunto del capitano Crozier: da mesi ormai le navi erano intrappolate dai ghiacci, e l’equipaggio aveva decretato il loro abbandono il giorno 22 aprile 1848.
A quella data, ventiquattro uomini di cui nove ufficiali e quindici membri dell’equipaggio, risultavano ufficialmente deceduti. Lo stesso John Franklin era morto il giorno 11 giugno 1847, appena due settimane dopo la stesura del primo bollettino. Crozier aveva quindi assunto il comando, e i sopravvissuti si erano risolti a partire quella stessa mattina del 22 aprile, diretti verso il Great Fish River.
 
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Aprile era solo un’illusione di primavera. Le ore di luce si allungavano, ma il ghiaccio manteneva intatta la sua presa su quelle terre remote.
Atterriti all’idea di smarrirci nell’entroterra ci mettemmo in cammino lungo il tratto costiero, seguendo un ipotetico e frastagliato percorso delineato su mappe che, in alcuni punti, non erano solo imprecise ma completamente errate.
Quando calava la notte montavamo le tende. Osservando le costellazioni fredde del cielo, ben più affidabili delle carte se non c’era la nebbia, cercavamo di capire dove ci trovavamo. In breve, ci rendemmo conto che durante un’intera giornata di cammino riuscivamo a coprire soltanto poche miglia. Per raggiungere il luminoso e accogliente bivacco di Fort Resolution occorreva percorrerne parecchie centinaia, sicché a quel punto il nostro morale crollò.
Trainare le scialuppe, su slitte rudimentali e per di più appesantite dal carico, si rivelò un’impresa al di là delle nostre forze.
Di lì a poco, quando le slitte cedettero alle asperità del terreno, all’attrito della neve e all’estenuazione delle salite, fummo costretti a trascinare le scialuppe a forza di braccia: alcuni di noi al giogo con corde rudimentali, altri a spingere dietro, a far forza per liberarle dai cumuli in cui finivano puntualmente per incagliarsi.
Aprile non risparmiava le bufere improvvise, che gelavano le lacrime e impedivano di tenere gli occhi aperti, perché i fiocchi di neve li foravano come proiettili: le schiene dei compagni che avanzavano chine diventavano allora l’unico punto di riferimento, e chi rimaneva indietro in breve si smarriva, cancellato dal bianco della terra e del cielo.
Anche nei giorni in cui il cielo era sereno, una lastra d’azzurro placido e indifferente sopra alle nostre teste, c’era sempre qualcuno che a un certo punto si rifiutava di proseguire. Li riconoscevi subito, i candidati alla morte del giorno, perché il loro sguardo si faceva distante e assumeva quella consistenza vitrea che è propria dei morti.
Di lì a poco, inevitabilmente, si fermavano. A parte quelli che cadevano e non riuscivano più a rialzarsi - e noi eravamo troppo sfiniti per aiutarli - i più si limitavano a rompere le righe e a mettersi da parte: le braccia lunghe sui fianchi e le forze ormai esaurite, restavano ad osservare con i loro occhi vacui quell’assurda carovana di uomini e di barche che sfilava nella neve.
Rimanevano là fino a che la colonna svaniva nella nebbia e anche noi, a quel punto, non li vedevamo più.
Così andò perduta la maggior parte dei componenti della nostra spedizione, senza che quasi ce ne accorgessimo, in silenzio e senza rumore: cancellati semplicemente dai mulinelli di una tormenta, scomparsi dietro al dorso di una collina di neve fresca, piantati senza riuscire a muovere più i piedi. Come se il ghiaccio a un tratto avesse cacciato fuori le sue grinfie e li avesse afferrati senza lasciarli più andare.
Dopo oltre un mese di viaggio, arrivammo all’estremo sud di quell’isola di fame e di sgomento, ormai ridotti a un equipaggio dimezzato: circa sessanta uomini e otto ufficiali, da più di cento che eravamo alla partenza, al traino di una sola scialuppa malconcia.
Di fronte a noi quel braccio di mare cinereo, che affiorava in pozzanghere tra i lastroni della banchisa: rari uccelli marini si posavano su quegli isolotti trasparenti, senz’altro segno di vita.
Al di là dello stretto, segnato sulla carta col nome di Simpson Sound, l’estuario del Great Fish River avrebbe sicuramente mostrato uno spettacolo altrettanto deprimente: acqua e terra fradicia, imbevuta dalla salsedine e dalla desolazione. Eppure ai nostri occhi, trasfigurati da una speranza ch’era poco più di un miraggio, il Great Fish River somigliava al Tamigi e scorreva tra i prati verdi della primavera inglese: ci pareva addirittura d’intravedere le luci di Fort Resolution scintillare da lontano, e l’odore del pudding arrivare sin qua.
Durante tutta la notte il sole rimase fisso sull’orizzonte, quasi affiorando sul pelo dell’acqua.
Accovacciati l’uno contro l’altro nelle tende, con addosso ogni straccio che potevamo trovare, avevamo l’impressione che quel sole di ghiaccio ci stesse scaldando: alcuni di noi sognarono con tale intensità le colline dell’Inghilterra e della Scozia, le costiere del Galles, le brughiere d’Irlanda, che il mattino seguente altri cinque marinai non si destarono più.
 
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Quella notte, nella tenda del comando ebbe ulteriore seguito una disputa che già negli ultimi giorni si era accesa tra il capitano Crozier, il comandante in seconda tenente Richard Colby, e gli ufficiali che tenevano le parti dell’uno o dell’altro.
La questione riguardava il passaggio dello stretto, e l’ulteriore prosecuzione lungo il corso del Great Fish River. Durante il cammino avevamo perso praticamente tutte le scialuppe: alcune erano rimaste incagliate, e il gelo della notte le aveva saldate così fortemente che non c’era stato verso di smuoverle. Altre le avevamo abbandonate di proposito, per eccesso di sfinimento, dopo che si erano capovolte in cima a un crinale precipitando a valle. Molte di più erano servite come legna da ardere, e ora contavamo una sola imbarcazione in grado di portare al massimo quaranta uomini, oltre al peso del carico.
Per questo, il tenente Colby proponeva che il superamento dello stretto fosse effettuato dai soli ufficiali, che una volta giunti a Fort Resolution avrebbero allertato i soccorsi per il recupero del resto dell’equipaggio.
“L’avamposto dista da qui più di seicento miglia. Prima che voi possiate raggiungerlo, tutti gli uomini saranno morti, se verranno abbandonati su questa spiaggia. Né è escluso che sarete voi a morire prima di loro, perché ciò che ci attende al di là del Simpson Sound non è dato saperlo.”
Il capitano Crozier era del parere che, comunque andassero le cose, dovevamo restare uniti:
“Tutt’al più, potremmo varcare lo stretto in due gruppi distinti: una volta che il primo avrà raggiunto la terraferma, qualcuno tornerà indietro a recuperare gli altri. Me ne incaricherò io stesso insieme a voi, tenente Colby.”
“Con questo sistema, moriremo tutti di certo.”
“Vi ricordo, tenente, che il primo dovere di un ufficiale è tutelare i propri uomini. Questo non ve l’hanno insegnato al Royal Naval College?”
Il tenente Colby era il tipico prodotto delle accademie frequentate dagli aristocratici: evidentemente convinto che la sua vita valesse più di quella dell’intero equipaggio.
Diffidavo di lui: il suo sguardo vacuo mi aveva sempre messo a disagio. Tra i marinai girava voce che fosse una mente distorta, non un esploratore ma un avventuriero senza nessuno scrupolo e, come se non bastasse, senza nessuna esperienza dell’Artico: ed è chiaro che tutte queste cose messe assieme non lasciavano presagire nulla di buono.
Nessuno accettava di buon grado di avere a che fare con lui: sprezzante verso la ciurma, specialista nell’impartire ordini insensati - era stato lui a far caricare la pianola su una scialuppa, per allietare le sue serate a suon di musica - era anche stupidamente feroce nei confronti degli indigeni.   
I nativi del luogo, gli inuit, sulla neve non camminano ma scivolano rapidi e leggeri sulle loro slitte. Questi piccoli uomini coperti di pellicce e dagli occhi ridotti a fessure per resistere alle intemperie, li abbiamo incontrati spesso, lungo il nostro tragitto: all’inizio sostavano sbigottiti e un po’ incerti, assistendo al passaggio della nostra carovana, allo strano spettacolo di fantasmi che spingevano scialuppe in un mare di neve.
A metà circa del viaggio, quando le nostre file si erano già assottigliate, alcuni inuit arrivarono fino a noi scaricando dalle slitte involti di cibo: carne e pesce essiccato, addirittura volatili lasciati a macerare dentro a pelli cucite e coperte di grasso, che emanavano un fetore pestilenziale.
Fu il tenente Colby a dire che quel popolo di elfi minuti, dallo sguardo enigmatico e i sorrisi affilati, volevano in realtà catturarci e usare noi come cibo. Insieme ad altri ufficiali, e prima che Crozier potesse intervenire, diede mano al fucile e cominciò a sparare. 
Per effetto del gelo, dell’incuria e di ben altre preoccupazioni, da mesi le nostre armi non erano più in grado di esplodere un solo colpo. Solo il fucile di Colby era sempre ingrassato e carico: sicché due inuit, un anziano e un ragazzo, caddero a faccia in giù in un boato di colpi che rimbombò per tutta l’isola, rompendo il silenzio dei ghiacci.
Quando l’eco si affievolì, restò il lamento che una donna riversava a capo chino sulle grosse manopole foderate di pelo: fine come il rumore di un cristallo infranto, durò solo un istante prima che gli altri inuit la conducessero via, e subentrassero i passi pesanti e le urla di Crozier.
Fu allora che iniziarono i primi feroci alterchi tra il capitano e il suo secondo, e fu allora che il gruppo degli ufficiali si spaccò in due: chi sosteneva Crozier, e chi invece era ormai impazzito a sufficienza per tenere la parte di Colby.
Quanto a noi, non appena quelle pacifiche creature si allontanarono, subito ci gettammo sulle loro provviste: divorammo persino i cibi più ripugnanti e addirittura la pelle di foca in cui erano ammassate quelle centinaia di uccelletti, crudi e lasciati a rammollire nel grasso.
Secondo alcuni più esperti dello strano mondo di qui, quella strana pietanza si chiamerebbe kiviak: sarebbe la quintessenza della cucina inuit, richiede un lungo tempo di preparazione e si offre soltanto alle persone importanti.
  Sicché i piccoli elfi intendevano probabilmente onorarci con le loro offerte, ma una cosa è certa: non li incontrammo più. Anche se talvolta il nostro cammino sempre più stanco e dimezzato finì per incrociare qualche gruppo di nativi, li vedemmo fuggire lanciando in velocità quella strana razza di cani, simili a lupi dagli occhi azzurri, che gli inuit allevano per trainare le loro slitte.
 
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Alla data di oggi, 3 giugno 1848, io Christian Fraser termino la prima parte del mio resoconto mentre la spedizione - o meglio, ciò che ne resta - si prepara a varcare lo stretto di Simpson con l’unica imbarcazione a nostra disposizione: secondo gli ordini impartiti da Crozier, un primo gruppo di ufficiali e marinai partirà oggi stesso insieme a parte del carico. Una volta raggiunta la terraferma, il capitano tornerà qui a riprenderci. Sarà questione di poco, un giorno o due al massimo: in questa stagione il sole non tramonta per diverse settimane, il che rende possibile mettersi in viaggio nelle ore più improbabili.
Il tenente Colby è stato tra i primi a imbarcarsi.
Evidentemente, Crozier preferisce tenerlo d’occhio.
A mio parere, invece, sarebbe stato più prudente lasciarlo sull’isola, ad attendere insieme a noi il ritorno della scialuppa. Ho un brutto presentimento, e il silenzio che ora avvolge l’accampamento non fa che accentuarlo. I compagni sostengono che non dovrei preoccuparmi, che Crozier sa il fatto suo, che sono un bibliotecario e quindi cosa posso saperne di come si conduce una spedizione nell’Artico. In fondo, non sono meno inutile della pianola di Colby, che questa sera stessa ci fornirà il giusto tributo di legna da ardere, a compenso della fatica per averla trascinata fin qui.
Ma forse proprio perché sono un uomo di lettere, un amante dei libri, conosco profondamente la realtà dell’animo umano. Non esito quindi a lasciare in questo scritto traccia e testimonianza delle vicende occorse fin qui, e financo dei miei sospetti: affinché possano servire per ristabilire la verità degli eventi nel caso in cui di noi, per disgrazia o per altra ingiuria del destino, non resti traccia alcuna.
 
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Sede dell’Ammiragliato britannico, mese di gennaio 1856
 
Percorrendo per l’ennesima volta, avanti e indietro, il lungo corridoio rivestito di tappezzerie e pesanti cornici dorate, Lady Jane Franklin si rese conto che a forza di sfilarli e infilarli di nuovo, i morbidi guanti in pelle avevano ceduto in più punti. Due dita piccole e bianche facevano capolino dalle cuciture saltate.
Nascose i guanti nella borsetta, e a dispetto delle indicazioni ricevute da chi l’aveva condotta in quell’anticamera felpata, si diresse decisa verso una porta di legno scuro: massiccia a sufficienza per non lasciar sfuggire, all’esterno, neanche un sussurro.
Si fece strada fino all’immensa scrivania che campeggiava in fondo a una passatoia di tappeti pregiati, e colse di sorpresa Lord Alistear Wood, Secondo Segretario dell’Ammiragliato, mentre era assorbito nel rituale di caricare la pipa. L’odore del tabacco ricordò a Lady Jane le serate trascorse davanti al caminetto in compagnia del marito: sir John Franklin risultava disperso in mare da più di dieci anni, ed era stato dichiarato ufficialmente morto al servizio di Sua Maestà, insieme al resto dell’equipaggio, alla data convenzionalmente stabilita del 13 marzo 1854. 
“Salute a voi, Lady Franklin”, sospirò Lord Wood, già sapendo che il colloquio sarebbe stato difficile, e avrebbe richiesto nervi saldi e perfetto aplomb. “Mi stavo giusto preparando a ricevervi.”
Come di consueto, Lady Jane era intenzionata a saltare a piè pari tutti i preamboli, e a venire subito al dunque. Recuperò dalla borsetta i guanti sdruciti, per il bisogno istintivo di stringere qualcosa. O forse per non cedere alla tentazione improvvisa di acchiappare per il bavero l’ineffabile Lord. 
Ma il Secondo Segretario, stavolta, la prevenne:
“So bene perché siete qui, Lady Franklin. Permettetemi solo di farvi notare che in questi anni l’Ammiragliato non è rimasto indifferente alle vostre richieste, e tanto meno ai propri doveri. Abbiamo organizzato ben quattro spedizioni di ricerca dei superstiti, e alla luce delle informazioni raccolte, peraltro note anche a voi, l’Ammiragliato ritiene ormai acquisita la certezza in merito all’infelice compimento della vicenda.”
Malgrado il suo aspetto da signora dell’alta società, del genere che amava dedicarsi al ricamo e allo studio di sonate al pianoforte da eseguire all’ora del tè, Lady Franklin era un’appassionata viaggiatrice: nella sua giovinezza aveva percorso quasi tutta l’Europa al seguito dei viaggi d’affari di suo padre, produttore di seta; il suo instancabile desiderio di conoscenza l’aveva condotta nelle terre dell’Asia, nel Nord America ancora in parte inesplorato, nelle steppe dell’Australia e della Nuova Zelanda.
Alle Hawaii s’era calata nella bocca di un cratere, e quando sir John Franklin era stato nominato governatore della Terra di van Diemen, all’altro capo al mondo, non aveva esitato a seguirlo e a inaugurare una nuova stagione di attivismo e filantropia.
Nella Terra di van Diemen, ultimo avamposto tra la civiltà e l’inferno delle colonie penali, Lady Franklin aveva cavato fuori dal vulcano sempre in attività della sua testa così tante iniziative da perderne il conto: aveva aperto scuole, un presidio sanitario per gli aborigeni, si era interessata alle condizioni dei deportati. Per liberare l’isola dal flagello dei serpenti, aveva offerto uno scellino per ogni testa di vipera che le venisse recapitata a domicilio.
Tra lo sconcerto dei coloni e l’ironia della stampa locale, alla quale Lady Franklin fece sempre spallucce dimostrando un’autonomia che neppure il marito possedeva fino a quel punto, aveva fornito ago e filo alle donne detenute, e s’era inventata un commercio di trapunte.
A quanto pareva, le trapunte continuavano non solo a fruttare bene, ma erano diventate l’articolo da esportazione per eccellenza, famose in Australia e in tutto il Regno Unito.
Indubbiamente John Franklin condivideva la stessa malsana inclinazione di Lady Jane per le imprese epocali: non si spiegava altrimenti perché a sessant’anni, dopo avere condotto numerose spedizioni nell’Artico, invece di infilare le pantofole accanto al camino avesse acconsentito a mettersi nuovamente per mare.
Dal tempo in cui la Erebus e la Terror erano letteralmente svanite nel nulla, ingoiate dalla nebbia, dai ghiacci e da chissà che altro, Lady Jane aveva praticamente piantato le tende all’Ammiragliato: stringendolo d’assedio col supporto della stampa, di una quantità di associazioni nautiche e di beneficienza, della Chiesa e probabilmente del diavolo in persona.
Non da ultimo, era diventata l’incubo personale di Lord Alistear Wood, che ora si trovava a doverla ascoltare per l’ennesima volta. La comoda poltrona su cui il Secondo Segretario stava seduto di punta, cominciava sempre più ad assomigliare a uno strumento di tortura: una sorta di puntaspilli, un sedile pieno di lame che trafiggevano a Lord Wood la pazienza, la spina dorsale e tutti gli argomenti a sua disposizione.
Quella mattina in particolare, in barba al suo aspetto da tranquilla vecchietta, Lady Jane era più combattiva che mai:   
“A quanto mi risulta, solamente tre membri dell’equipaggio risultano ad oggi effettivamente deceduti. Mi riferisco alle tre sepolture ritrovate dai vostri esploratori sull’isola di Beechey. Per quanto riguarda il resto della spedizione, sapete bene che gli abitanti del posto hanno riferito alla Compagnia della Baia di Hudson di aver incontrato una colonna di uomini in movimento lungo la costa della King William Island, e in seguito alla foce del Great Fish River.”
Lord Alistear Wood sospirò. Tirò una lunga boccata dalla sua pipa, prima di provare a rispondere.
“Le notizie riportate dalla Compagnia della Baia di Hudson risalgono all’anno passato, e più precisamente parlano di un gruppo di bianchi che secondo gli indigeni sarebbe morto di stenti lungo il Great Fish River. Voi sapete che le successive ricerche effettuate sulla base di questi indizi non hanno dato alcun riscontro. Il più recente rapporto a nostra disposizione, inviato da sir John Rae per conto della Compagnia, non fa che confermare le ipotesi sulla morte dell’intero equipaggio, dovuta al freddo e alla mancanza di mezzi.”
Sir Wood evitò di aggiungere gli inquietanti particolari letti nel resoconto trasmesso da John Rae, sulla base di informazioni acquisite presso gli inuit di Pelly Bay, in Canada.
Oltre ad aver acquistato dai nativi diversi oggetti - cucchiai e forchette d’argento - che in seguito e risalendo ai monogrammi incisi risultarono effettivamente appartenuti a John Franklin e ad altri ufficiali, Rae si era spinto oltre: aveva visitato il luogo in cui gli ultimi membri della spedizione si erano presumibilmente accampati, lungo il corso del Great Fish River.
Ciò che aveva trovato, e dettagliatamente descritto nel suo rapporto, erano i resti di numerosi cadaveri smembrati in una maniera che non lasciava adito a dubbi: “dalle mutilazioni di molti di quei corpi, e dal contenuto di una marmitta trovata sul luogo”, concludeva John Rae, con gli opportuni giri di parole “appare evidente che i nostri infelici connazionali sono stati spinti a fare ricorso alle risorse più estreme.”
 Nel tentativo di evitare che una simile notizia diventasse di dominio pubblico, gettando il discredito sulla Marina, l’Ammiragliato versò prontamente a John Rae la favolosa somma di diecimila sterline per comprare il suo silenzio, auspicando che l’intera vicenda fosse dimenticata.
Ma non aveva fatto i conti con la tenacia di Lady Jane:
“Se non è vostra intenzione, come mi pare, promuovere altre ricerche, provvederò io stessa a organizzare una spedizione. Sono venuta apposta per informarvi al riguardo.”   
Il fair play di Lord Wood venne decisamente meno: non sapeva se ridere di quell’anziana signora oppure se era il caso, conoscendo Lady Franklin, di preoccuparsi sul serio.
Quella donna aveva acquisito un peso notevole presso la stampa e l’opinione pubblica: sin dall’inizio era stata lei a mettere sotto pressione l’Ammiragliato, e grazie alle sue insistenze nell’arco di dieci anni erano state organizzate quattro missioni ufficiali di soccorso, per il costo complessivo di migliaia di sterline.
La vicenda di Lady Franklin aveva acquisito uno spessore romantico nell’immaginario della gente comune, al punto che in suo onore era stata composta persino una canzone, “Il lamento di Lady Franklin”: la cantavano per le strade, nelle taverne dei porti, la strimpellavano al piano persino nei salotti.
“Nel mare di Baffin / è il fato di Franklin che nessuno conosce / diecimila sterline vorrei dare / per saper che il mio uomo vivere ancora. / Per ricondurlo in una terra amica / dove una volta ancor sarei sua sposa, darei tutti i tesori che possiedo / ma temo ahimè che morte l’abbia preso”.
“E ditemi, di grazia”, s’informò a quel punto il Segretario, recuperando il suo aplomb con un autocontrollo a dir poco stupefacente, “come intendete mettere in piedi questa vostra iniziativa così personale?”
Lady Jane non si scompose:
“Ho già avviato una pubblica sottoscrizione per l’acquisto di una nave sufficientemente robusta e attrezzata. Non temete, Lord Wood: non ho alcuna intenzione di pesare ulteriormente sulle casse dell’Ammiragliato.”
“Non troverete nessuno disposto ad imbarcarsi, se mi concedete il gioco di parole, in un’impresa tanto folle” osservò Wood, indispettito. Nuovamente, il suo aplomb iniziava a vacillare: “sono trascorsi più di dieci anni dalla partenza della Erebus e della Terror, e non vi è alcun sensato motivo di ritenere che uno solo dei membri dell’equipaggio sia ancora in vita. Non tra i ghiacci dell’Artico.”
“C’è un tempo per arrendersi, un tempo per rassegnarsi, persino un tempo per piangere” osservò Lady Franklin, ricacciando i guanti sul fondo alla borsetta e percorrendo a ritroso la lunga passatoia di tappeti preziosi. “Per quel che mi riguarda, e finché resterò al mondo, quel tempo deve ancora venire.”
 

 

  
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