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Autore: Dark Sider    28/01/2019    4 recensioni
Quando la linea di demarcazione tra realtà e delirio si fa sottile, è allora che comincia la lenta discesa nella follia.
[Terza classificata al contest "Terapia d'urto" indetto da molang sul forum di EFP e vincitrice del riconoscimento speciale "Fino alla fine"]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Not Insane
 



James si accomodò con lentezza sul divanetto dalla lisa stoffa vermiglia.
Il giovane uomo, seduto compostamente al suo fianco, lasciò scivolare verso di lui un bicchierino di plastica, che produsse un lieve grattare sul legno scheggiato del basso tavolino. «Sei in ritardo» osservò, atono, ritraendo la mano.
«Chiedo scusa, Adam: ho avuto molto da fare a lavoro» si giustificò James, con un lieve sorriso mesto.
«Come no» borbottò l’altro, abbassando lo sguardo sul bicchiere dinanzi a sé, identico a quello che aveva passato al proprio interlocutore; la bevanda nerastra all’interno era ancora calda e rilasciava pigre volute di fumo, che s’attorcigliavano e piegavano sinuose, prima di disperdersi.
Adam afferrò di malagrazia il bicchiere di plastica, portandoselo alla bocca e sorseggiandone il contenuto. Una smorfia di disgusto gli fece arricciare il naso.
«Il caffè fa veramente schifo, qui. Io non capisco per quale cazzo di motivo continuiamo a venire in questa topaia.»
James gli lanciò un’occhiata bieca. «Siamo di cattivo umore?» domandò, tra l’ironico ed il sinceramente interessato.
«Non portarmi per il culo!» esclamò l’altro, sbattendo sul tavolo il bicchierino, che si lasciò sfuggire un po’ del suo contenuto.
«Non ti sto prendendo in giro» lo rassicurò dolcemente James; un grugnito, pericolosamente simile ad un ringhio, fu l’unica risposta che ricevette. L’uomo non si scompose affatto, anzi: un sorriso cordiale andò dipingendosi sul viso che il tempo stava lievemente segnando con le prime rughe. «Vogliamo cominciare?» domandò all’amico dall’umore cinereo, compiendo un ampio gesto verso una vecchia scacchiera collocata ad uno degli estremi del tavolo.
Adam lasciò correre gli occhi cerulei sui pezzi in legno, disposti per iniziare una nuova partita, e si ricordò perché effettivamente continuava a venire in quella topaia: probabilmente, la possibilità di poter giocare a scacchi, tra un sorso e l’altro di caffè scadente, era il motivo principale per cui il locale non aveva ancora chiuso. Persino lui e James lo frequentavano per quel motivo: fino a quando l’altro non glielo aveva rammentato, non ci aveva pensato. Spesso, aveva la tendenza a non ricordare le cose: gli sfuggivano dalla mente come voli leggiadri di farfalle, come labili sogni di fantasmi; ad esempio, non riusciva proprio a rimembrare, per quanto si sforzasse, dove, come e quando avesse conosciuto James, il suo più caro – nonché unico – amico. Le amnesie, tuttavia, non lo preoccupavano: sapeva che si trattava di loro trucchi e manipolazioni e non di una qualche pazzia della sua mente.
Adam spostò lo sguardo sul grande orologio appeso alla parete dall’intonaco scrostato dinanzi a lui. «Cominciamo» concesse a James, riportando l’attenzione sull’amico. «Ti concedo persino di prendere i bianchi» aggiunse, beffardo.
«Che onore!» ironizzò l’altro, tirando la scacchiera verso di sé.
«Vediamo di non metterci troppo: ho solo mezz’ora, poi devo andare a lavoro. Non siamo tutti scansafatiche come te» grugnì Adam, drizzando la schiena. Ogni settimana, svolgeva un impiego diverso dalla precedente: in quella attuale, se James non andava errando, faceva l’operatore ecologico.
Iniziarono la partita e non dovettero passare più di dieci minuti perché Adam gridasse, trionfalmente: «Scacco matto!» attirando l’attenzione di tutti i presenti nella stanza. Il giovane uomo si stiracchiò, con un sorriso sornione stampato in faccia: il suo umore era decisamente migliorato nel corso della partita. «Sono troppo intelligente per te, amico: non riesci mai a spuntarla contro di me» osservò, beffardo.
James sorrise affabilmente. «Come darti torto» concesse, con un lieve svolazzo della mano. Adam assottigliò lo sguardo: probabilmente stava decidendo se l’altro lo stesse prendendo in giro o meno e, altrettanto probabilmente, avrebbe optato per la prima ipotesi, così sospettoso ed ossessionato com’era.
Non si poteva mai essere davvero amici di Adam, e questo James lo sapeva bene: non poteva negare che l’altro provasse un profondo affetto per lui, ma la sua paranoia gli impediva di fidarsi davvero di qualcuno. Un attimo prima, James era il migliore amico che si potesse desiderare, e quello dopo era un maledetto cospiratore; lui non s’offendeva: era una condizione che aveva imparato ad accettare dal momento in cui aveva deciso di rimanere accanto al giovane, che ancora lo stava fissando intensamente.
Alla fine, Adam si rilassò, e la sua espressione tornò distesa ed amichevole. «Non capisco che gusto ci trovi a giocare contro di me, se poi puntualmente perdi» borbottò, portando lo sguardo sul bicchierino di caffè, che ormai s’era raffreddato.
«Perché sei tu» rispose James, con dolcezza.
Adam risollevò lo sguardo verso l’altro, interrogativo. «Cosa?»
«Gioco contro di te anche se non vinco mai, perché sei tu il mio avversario. Perdo una partita a scacchi, ma guadagno molto di più: guadagno del tempo passato con te, e sai che mi fa sempre piacere la tua compagnia.»
Adam rimase perplesso per alcuni istanti, poi scosse la testa. «Sei un leccaculo, amico» concluse, afferrando il bicchierino e trangugiandone il contenuto in un unico sorso, come si fa con una medicina amara. «Ora devo andare» aggiunse, dopo aver lanciato un’occhiata all’orologio. Afferrò delicatamente qualcosa che era rimasto posato al suo fianco per tutto quel tempo, poi s’alzò.
James lanciò un’occhiata all’oggetto in questione, e vide che si trattava di un barattolo di sott’aceti, a cui era stata accuratamente tolta l’etichetta, pieno di terra: vedendolo e riconoscendolo, si lasciò sfuggire un sospiro. «Chi hai ucciso, oggi?» domandò, laconico.
Il giovane uomo strinse convulsamente il contenitore di vetro e s’avvicinò all’altro, guardandosi intorno con circospezione. «Quella puttana della barista. Come si chiama? Sally? Kelly?» mormorò.
«Kathy» puntualizzò James, portando lo sguardo verso la bella ragazza in questione, intenta a fissare con intenso interesse il programma trasmesso sulla televisione appesa alla parete, giocherellando con una ciocca di capelli biondi e mormorando qualcosa tra sé e sé.
«Sì, quella. Lei fa finta di ignorarmi, vedi? Finge che io non esista, ma lo so che mi spia: controlla tutto quello che dico e che faccio, ogni volta che vengo qui. Sono sicuro che poi passa loro tutte le informazioni.»
James sollevò le mani, come in segno di resa. «Ne abbiamo già parlato: Kathy è innocua ed è una brava ragazza. Devi smetterla di credere che chiunque voglia farti del male.»
Adam digrignò i denti, mentre il suo viso s’arrossava. «Non farmi incazzare: qui dentro c’è posto solo per una persona alla volta, ed ora è occupato!» sbraitò, sventolando il contenitore di vetro davanti al viso dell’amico, con fare minaccioso.
Il barattolo era un’altra delle tante stranezze di Adam: quando credeva che una persona lo stesse spiando, o stesse complottando contro di lui, oppure, più semplicemente, quando qualcuno lo faceva adirare, riempiva il contenitore di terra, sostenendo di avervi seppellito il cadavere del malcapitato in questione, e lo portava con sé finché il suo malumore non si placava; solo allora lo svuotava e se ne separava. James trovava quel comportamento divertente, ma al contempo inquietante, tuttavia sembrava essere terapeutico per il suo amico, perciò non diceva nulla, neppure quelle volte in cui era lui a finire nel barattolo ed Adam non gli rivolgeva la parola finché non lo vuotava.
«D’accordo» sospirò James, abbandonandosi contro lo schienale del divanetto. «Ti chiedo scusa per averti fatto innervosire.»
Adam si mise sottobraccio il barattolo, poi annuì con convinzione. «Sei proprio un leccaculo. Mettiti in fila, perché il prossimo a finire qui dentro sarai tu» ringhiò, per poi avviarsi a grandi falcate verso l’uscita.
 
Adam se ne stava seduto sul proprio letto, immerso nelle tenebre, rigirandosi tra le mani il barattolo pieno di terra scura. “Quella puttana”, pensava rabbiosamente, “quella maledetta cospiratrice”. Una parte di lui, quella malsana, sapeva che Kathy doveva essere morta: l’aveva uccisa, sotterrata in quel piccolo contenitore di vetro; un’altra parte, tuttavia, quella ancora più malsana, era più che consapevole che lei fosse ancora viva, ancora al suo posto.
Non è morta abbastanza.
Un lieve bussare alla porta lo distrasse dai suoi pensieri. «Chi è?!» ringhiò, stringendo ancora più forte il barattolo di sott’aceti, come a volerlo proteggere.
«Sono James, posso entrare?» La voce dall’altra parte della porta lo confortò, ma al contempo lo fece trasalire.
«Potresti essere o non essere tu» borbottò Adam, facendo roteare gli occhi. Ci fu il rumore di una chiave che sferragliava nella serratura, poi la porta si aprì. James comparve con un sorriso appena accennato e due bottiglie di birra in mano. Il giovane seduto sul letto lasciò ciondolare la testa, come se fosse estremamente stanco.
James si diresse lentamente verso di lui, poi si sedette al suo fianco e gli porse una bottiglia già stappata, che Adam afferrò senza guardarlo.
«È da qualche giorno che non ti fai vedere» osservò James. «È ancora per quella storia di Kathy?»
«Tutti bugiardi» mormorò Adam, la bottiglia in una mano ed il barattolo nell’altra. «Tutti traditori.»
«Hai mangiato, almeno?» proseguì James, ignorando le farneticazioni dell’altro. Adam tacque, sospeso in un silenzio meditabondo, il viso nascosto dai folti capelli scuri. Poteva star pensando qualsiasi cosa, oppure nulla. Poteva, pesino, essersi addormentato, e James lo credette davvero, tanto a lungo si prolungò quel tetro silenzio. Poi lui parlò. «Chi ti ha mandato?» sussurrò, le dita contratte sul barattolo di vetro.
«Come, scusa?» mormorò James, perplesso.
Adam si voltò finalmente a guardarlo, i grandi occhi cerulei che rilucevano nella penombra della stanza, sgranati come quelli di un pazzo. Un pazzo impaurito. «Chi ti ha mandato ad uccidermi con questa bevanda avvelenata?» ringhiò, sollevando la bottiglia di birra come a voler fare un bizzarro brindisi.
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo di James, e l’uomo si lasciò andare ad una lieve risata. «Non mi ha mandato nessuno. Sono venuto di mia spontanea volontà: ero preoccupato per te.»
«Tutti bugiardi» piagnucolò Adam, lasciando di nuovo ciondolare il capo. «Tutti traditori.»
James scosse la testa ed afferrò la bottiglia che l’amico teneva in mano: quello oppose una debole resistenza, prima di lasciarla andare e voltarsi a guardarlo. L’uomo se la portò alla bocca e bevve un’ampia sorsata di liquido fresco. «Vedi?» fece, poi. «Nessuna bevanda avvelenata per ucciderti» aggiunse, porgendogli di nuovo la bottiglia: quello la fissò per un istante, poi la afferrò con poca convinzione.
«Lo sai che ti voglio bene» sussurrò James, dopo alcuni minuti di silenzio. «Sai che puoi fidarti di me.»
«Ho lasciato quello stupido lavoro» sibilò Adam, come se non avesse udito affatto le parole dell’amico. «Il mio capo, i miei colleghi: tutti traditori e cospiratori. Come questa puttana!» esclamò, scagliando il barattolo contro il cuscino e rimanendo poi a fissarlo come se non riuscisse a capacitarsi di chi l’avesse gettato lì. Dopo alcuni istanti, trangugiò un sorso di birra. «Non posso bere questa roba, lo sai» osservò, passandosi la lingua sulle labbra, per meglio cogliere il sapere della bevanda.
James sogghignò. «Sì, lo so: ma se non diremo niente, non lo verrà a sapere nessuno, dico bene?»
Adam proruppe in una risata sguaiata. «Pensavo che fossi una persona ligia al dovere ed alle regole. Credevo di essere io quello che se ne frega, tra i due.»
«Magari mi stai contagiando» osservò James, portandosi la bottiglia alle labbra, come a voler sottolineare il concetto. Adam storse la bocca: evidentemente quella frase non gli era piaciuta.
«C’è una persona che mi manca» sussurrò il giovane così d’improvviso da far trasalire il proprio interlocutore. Gli occhi di James si accesero di trionfante interesse: Adam non riusciva mai a ricordare nulla del suo passato; i ricordi partivano da quando aveva lasciato la sua vecchia casa ed era arrivato in quel luogo. Tutto il resto pareva essere stato rimosso.
«Una persona che ti manca?» lo incalzò James, nel tentativo di incitarlo a continuare.
«Una persona che mi manca» confermò Adam. «Ma non riesco a ricordare chi sia, o che faccia abbia. Non se nemmeno se sia un uomo, oppure una donna. Potrebbe anche essere un bambino. Potrebbe, persino, essere me stesso: che dici, è assurdo sentire la mancanza di se stessi?»
«Non lo è» lo rassicurò James. «Forse è qualcuno della tua famiglia» suggerì.
Adam parve riflettere per un momento, poi abbassò di nuovo la testa. «Tutti bugiardi» riprese a dire. «Tutti traditori.»
«Nessuno è un bugiardo e nessuno è un traditore» lo rimbeccò James, strappandogli la bottiglia di birra di mano ed alzandosi in piedi. «Vuota il barattolo» aggiunse, dirigendosi verso la porta, mentre ancora Adam mormorava il suo mantra, dondolandosi lentamente avanti ed indietro.
 
«Mi ha detto che c’è qualcuno che gli manca» esultò James, con un sorriso soddisfatto ad illuminargli il volto pallido. «È un grande passo avanti: non mi aveva mai detto una cosa del genere, prima.»
L’uomo seduto dinanzi a lui intrecciò le dita e sospirò. «Questo vostro rapporto mi sembra pericoloso. Non so se me la sento di continuare ad appoggiarti: dovresti davvero considerare l’idea di prendere seri provvedimenti.»
James s’accigliò. «Lui non vuole, ed io non credo che occorra. Sta migliorando molto, ed io so che lo sto aiutando: è mio amico, e si fida di me. So quello che faccio» osservò, non riuscendo a nascondere il malcontento nella sua voce.
L’uomo assottigliò lo sguardo. «Tuo amico?! Spero che ti renda conto di ciò che dici» lo rimproverò.
«Me ne rendo conto benissimo» ringhiò James, sentendo la rabbia crescere ad ogni parola pronunciata. «So quello che faccio» ripeté, sforzandosi di non alzare la voce.
L’uomo sospirò. «Proprio in nome della vostra sedicente amicizia, dovresti capire cos’è meglio per lui. La sua situazione è… Delicata. Ha bisogno di trattamenti adeguati, prima che faccia del male a se stesso, a te e a qualcun altro.»
James si alzò di scatto dalla sedia e sbatté un pugno sulla scrivania in legno massiccio. «Non trattarlo come un pazzo! Ha le idee un po’ confuse: ha solamente bisogno di qualcuno che lo aiuti a capire come stanno le cose, tutto qui!» gridò, senza rendersi nemmeno conto di essersi sporto talmente tanto verso il proprio interlocutore, da avere il bordo del tavolo dolorosamente premuto contro lo stomaco.
L’uomo scosse la testa e fece un cenno stizzito con la mano verso l’uscio. James vi si diresse a grandi passi, i denti digrignati ed i pugni serrati; quando richiuse la porta, sbattendola, desiderò che la stanza trangugiasse l’uomo che vi era all’interno.
 
Adam mangiò uno dei cavalli di James con una delle sue torri. «Il cavallo è il pezzo più difficile da usare, negli scacchi» osservò, poggiandolo delicatamente dal suo lato della scacchiera, accanto ad un pedone. «Molti credono che non serva a granché e lo sacrificano con troppa facilità: la verità è che non sanno come servirsene.»
«Hai ragione» concordò James, muovendo un alfiere. «Ma io preferisco la regina.»
Adam sbuffò. «Sei sempre stato un semplicione» considerò, spostando un pedone.
«Ti è venuto in mente chi è quella persona che ti manca?» provò James, indugiando su una torre, prima di optare anche lui per un pedone.
«No, ma forse è qualcuno che ho ucciso» osservò Adam, con una certa tranquillità, spostando innocentemente un altro pedone.
«Vuoi dire qualcuno che hai messo nel barattolo?»
Adam sollevò gli occhi dalla scacchiera, ed un sorriso bieco gli illuminò il volto dai tratti delicati. «Oh, no» ghignò. «Qualcuno che ho ucciso davvero.»
James s’irrigidì. «Non mi risulta che tu abbia ucciso qualcuno» osservò, seppur con poca convinzione.
«Nemmeno a me» ghignò il giovane. «Ma ho come la sensazione che questo qualcuno mi manchi perché mi sento in colpa nei suoi confronti.»
«Ci sono molti motivi per i quali qualcuno potrebbe sentirsi in colpa nei confronti di qualcun altro, non solo perché lo ha ucciso» sentenziò l’uomo, mangiando la regina dell’amico con un alfiere.
Adam sorrise. «È vero, ma io ho come la sensazione di aver fatto qualcosa di male a questa persona che mi manca, e che mi sia anche piaciuto» cantilenò, sornione, spostando un cavallo. «Scacco matto» trillò, soddisfatto.
James batté le palpebre, poi sbuffò. «Mi hai indotto a mangiarti la regina così da lasciare scoperto il re per il tuo cavallo?!» sbottò, punto sul vivo.
«Certamente: lo hai detto tu, che preferisci la regina. Abbiamo la fastidiosa tendenza a credere che ciò che sia importante per noi, lo sia anche per gli altri. È per questo che ho vinto. Ed anche perché sono troppo intelligente per te» ridacchiò il giovane, alzandosi ed accennando un saluto all’amico.
«Dove te ne vai?» gli chiese James, accigliandosi.
«A lavoro» rispose l’altro, quasi offeso, inarcando un sopracciglio.
«Ma non avevi detto di esserti licenziato?»
«Ne ho trovato un altro» spiegò Adam, con noncuranza ed uno svolazzo della mano.
James inclinò la testa da un lato. «La rapidità con cui riesci a trovare nuovi lavori è sorprendente» scherzò.
«È che non si può fare a meno di me» spiegò Adam, per poi scoppiare in una risata divertita. «Ci vediamo domani. Non stressarti troppo, a lavoro, mia regina» aggiunse, sghignazzando, per poi avviarsi verso l’uscita. Quando passò di fronte a Kathy, le lanciò una rapida occhiata ricolma d’odio sospettoso.
Maledetta puttana cospiratrice”.
 
«Guardali bene, tutti quelli che sono qui dentro. Non vedi che ci stanno fissando? Che cercano di origliare quello che ci diciamo?» Adam bevve lentamente un sorso di caffè, assottigliando lo sguardo come a voler sottolineare le sue parole, gli occhi cerulei annegati nel sospetto.
James sospirò pesantemente: per quanto ci riflettesse, non riusciva proprio a comprendere quale strategia stesse usando questa volta il suo amico per batterlo a scacchi; erano anni che giocava contro di lui, eppure non era ancora in grado di afferrarne gli schemi mentali.
«Ehi, rintronato, mi stai ascoltando?» abbaiò Adam, quando l’altro non si degnò neppure di alzare lo sguardo su di lui.
James sollevò la testa e si grattò dietro l’orecchio destro. «Credo che sia la torre» bofonchiò.
Adam sgranò gli occhi. «Come?!» domandò, tra il confuso e lo scocciato.
«Credo che tu voglia che io ti mangi la torre, così…»
«Non hai capito una sola parola di quello che ho detto!» urlò Adam, interrompendo la pacata constatazione dell’amico. «E poi non è come dici tu: la torre non c’entra nulla. Vuoi finire nel mio vaso, per caso?!»
James batté le palpebre, poi scosse la testa. «Ero convinto di aver capito, questa volta» mormorò, fissando perplesso la scacchiera, dopodiché riportò di nuovo lo sguardo sul proprio avversario, ed abbassò ancora di più la voce. «Ho capito perfettamente cosa mi hai detto: me ne sono accorto anch’io, ma non dobbiamo far capire loro che li abbiamo scoperti, altrimenti diventeranno ancora più cauti e noi non riusciremo più a comprenderne le intenzioni.»
Adam si piegò in avanti di scatto, avvicinando il proprio viso a quello dell’amico. «Dici sul serio?» domandò, elettrizzato.
«Certo» confermò James, passandosi una mano tra i capelli brizzolati. «Non dobbiamo farci fregare, quindi continuiamo a giocare» aggiunse, annuendo brevemente, come se fosse profondamente convinto di ciò che stesse dicendo: in quell’ultimo periodo aveva riflettuto molto a lungo sulle parole di Adam e sui suoi sospetti di essere spiato; per molto tempo, li aveva ritenuti farneticazioni, fantasie di un ossessionato con deliri persecutori, tuttavia ultimamente non aveva potuto fare a meno di notare che, forse, i sospetti dell’amico avessero dei fondamenti. Ovunque andassero, chi li circondava spostava lo sguardo su di loro, li fissava, ne indagava i gesti ed i comportamenti e, a volte, li seguiva per brevi tratti, soprattutto nel luogo che Adam amava definire topaia.
Col tempo, James s’era convinto che il suo amico non fosse pazzo, ma che nei suoi sospetti ci fosse un fondo di verità, ed era intenzionato ad aiutarlo a scoprire cosa stesse accadendo e cosa volessero quelle persone da lui; aveva deciso di iniziare ad indagare per conto suo, nella speranza di riuscire a raccogliere qualche informazione utile, ma fino ad allora non era riuscito a scoprire nulla di rilevante. Aveva tentato di parlare con Kathy, la barista, per farsi dare il nominativo di qualche frequentatore assiduo, ma lei s’era chiusa in un silenzio ostinato, continuando a giocare con i suoi capelli e a fissare il televisore, finché, probabilmente infastidita dall’insistenza di James, s’era alzata e se n’era andata, mormorandogli un’unica frase, per lui del tutto priva di significato: «Io alle cinque.»
James non aveva detto nulla di quell’episodio all’amico, per non metterlo ulteriormente in allarme, ma era stato sicuramente un accadimento bizzarro, che non aveva fatto altro che convincerlo ancora di più che Adam avesse ragione. Era necessario, tuttavia, che il giovane ricordasse il suo passato, altrimenti sarebbe stato impossibile comprendere chi fossero quelle persone che lo spiavano e perché.
Quella stessa sera, mentre James si stava dirigendo verso casa di Adam, s’accorse di essere seguito da uno strano individuo avvolto in un impermeabile bianco; quello non sembrava star tentando alcuno sforzo per nascondersi, anzi: passeggiava con lenta tranquillità, come se non stesse facendo nulla di particolare. James s’arrestò di colpo e s’appoggiò contro una parete, aspettando che il misterioso uomo lo raggiungesse: quando gli passò dinanzi, questo lo salutò amichevolmente, come se fosse un conoscente di vecchia data, poi proseguì per la sua strada, non senza aver lanciato un’ultima occhiata a James, prima di svoltare l’angolo.
Trascorse una quantità di tempo indefinita prima che James riuscisse a staccarsi dalla parete, scosso per l’avvenimento. Con passi incerti ed instabili riprese il proprio cammino e, quando Adam se lo ritrovò davanti, era pallido e tremante e solo parecchi minuti e respiri profondi dopo riuscì a spiegare all’amico cosa fosse accaduto.
Adam non parve affatto sconvolto dalla notizia; si limitò ad appoggiare una mano sulla spalla di Adam e a sussurrare: «L’uomo che hai visto si aggira sempre nei pressi di casa mia, lo fa tutti i giorni. Non è nulla di nuovo.»
James si strinse le braccia intorno al corpo. «Io non l’ho mai visto, eppure vengo a trovarti spesso» osservò, abbassando lo sguardo.
«Vediamo solo quello che vogliamo vedere» gli rispose l’amico, con un ghigno divertito. Dopodiché gli diede una pacca sulla spalla e si lasciò cadere all’indietro, sul letto. «Ho sonno» bofonchiò. «Sparisci.»
James gli lanciò un’occhiata carica di preoccupazione, dopodiché, notando che l’altro aveva chiuso gli occhi e non sembrava intenzionato a proseguire quella conversazione, s’alzò mesto e si diresse verso la porta. Prima di uscire, si voltò indietro a guardare Adam e lo vide immobile, che respirava profondamente e regolarmente. S’era addormentato.
 
Quel giorno pioveva.
James era arrivato bagnato fradicio all’incontro quotidiano con l’amico, che già lo stava attendendo al solito tavolo, con due bicchierini di caffè, e che non poté fare a meno di lasciarsi andare ad una risata sguaiata alla vista delle sue condizioni.
«Un ombrello non sarebbe stato una cattiva idea» osservò Adam, quando l’altro gli si sedette accanto e si strofinò i capelli, liberando un ventaglio di gocce gelate, che investirono il volto del giovane.
James sbadigliò e si strofinò gli occhi arrossati ed infossati dalla mancanza di sonno. Nell’ultima settimana aveva dormito davvero poco: la sera faceva sempre tardi, di fronte al suo portatile, nel tentativo di raccogliere informazioni su Adam e sulle persone che lo seguivano; quando finalmente decideva di coricarsi, l’insonnia lo colpiva, costringendolo a rigirarsi nel letto per ore, con l’angoscia ad attanagliargli il cuore e la preoccupazione a rodergli l’anima come un tarlo particolarmente fastidioso.
«Hai un aspetto orribile: sei più brutto del solito» lo incalzò Adam, spingendo uno dei due bicchierini verso di lui.
James si voltò stancamente a fissarlo e, per un istante, il viso dell’altro fu solo una macchia indistinta nel mondo, prima di tornare nitido. «Sono solo un po’ stanco» borbottò, bevendo un sorso di caffè.
«Lo vedo» rispose Adam, dopodiché parve immergersi in una profonda riflessione. «Qualcosa non va?» domandò, quando riemerse dalla sua concentrata meditazione.
Ci furono degli istanti di silenzio, ed Adam si convinse che James non gli avrebbe risposto, perciò allungò una mano per prendere la scacchiera, ma quello parlò così d’improvviso da farlo bloccare col braccio a mezz’aria. «Dormo poco: sto cercando di scoprire qualcosa sulle persone che ti spiano, perché sono convinto che tu dica la verità ed è anche evidente, eppure qualcosa mi dice che non dovrei darti retta, che c’è qualcosa che non va in tutto ciò, e questo è l’altro motivo per cui non dormo» mormorò, come se ogni parola gli costasse un immenso sforzo per essere pronunciata.
«Perché non dovresti darmi retta?!» domandò Adam, la voce colma di un’indispettita delusione. «Ti ho forse mai mentito? Ti ho forse dato mai motivo di dubitare della mia amicizia? Se non fosse per me, tu saresti solo come un cane e nessuno si preoccuperebbe per te.»
Questo non è vero” pensò immediatamente, di rimando, James, ma la chiara convinzione che lo aveva spinto a formulare quel concetto si spense rapidamente, soffocata nella stanchezza e nel tentennamento. “Non è vero, oppure lo è? Ho davvero solo lui al mondo?
«Hai detto delle parole che mi hanno ferito ed offeso davvero molto. Pensavo di potermi fidare di te, e che almeno tu mi avresti creduto e mi saresti rimasto accanto.»
«Ma io ti credo» gracchiò James, prendendosi la testa tra le mani: improvvisamente, gli doleva come se qualcuno gliela stesse sbattendo ripetutamente contro un muro di cemento.
Adam assottigliò lo sguardo, poi chiuse gli occhi; quando li riaprì, erano ricolmi di una bieca determinazione, che molto poco aveva di rassicurante. «Normalmente ti avrei immediatamente ucciso e sepolto nel mio vaso. Tuttavia, credo di sapere di chi è la colpa della tua condizione e non devi preoccuparti: ci penserò io a risolvere la situazione. Vedrai che poi starai bene, amico.»
James, la testa tra le mani tremanti, avvertì un fruscio al suo fianco e seppe che Adam s’era alzato. Ne sentì i passi lievi e lenti allontanarsi da lui e seppe che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma la testa gli faceva troppo male e non riuscì davvero a realizzare di cosa si trattasse, perciò si limitò a rimanersene così, immobile sul liso divanetto dalla stoffa vermiglia.
Non seppe capire per quale motivo cominciò a piangere.
 
Quando calò la notte, pioveva ancora.
Adam se ne stava seduto sul bordo del suo letto, immobile e con gli occhi chiusi, ad ascoltare le gocce gelide picchiettare regolarmente sul vetro della finestra: quel rumore lo rilassava e gli donava tutta la concentrazione di cui aveva bisogno. Il cuore, dal battito lento e regolare, gli rimbombava cadenzato nelle orecchie, come un vecchio orologio.
Non era nervoso, non era spaventato. Piuttosto, si sentiva elettrizzato, esaltato: presto avrebbe eliminato quei maledetti cospiratori, la causa di tutti i suoi problemi, e soprattutto avrebbe cancellato dall’esistenza quella che era la peggiore tra loro: colei che, da tempo immemore, si frapponeva tra lui e James, cercando di convincere quest’ultimo della pazzia di Adam e tentando di farlo desistere da un qualunque tipo di rapporto con lui. Dalle parole pronunciate dall’amico quel pomeriggio, sembrava molto vicina al suo obiettivo. Non poteva permettere che accadesse.
Adam spalancò gli occhi, due lucidi ovali nella penombra che lo avvolgeva. Era il momento.
Il giovane fissò il vaso pieno di terra poggiato sul comodino, poi si alzò con assoluta lentezza e si avviò verso l’uscita. Tirò fuori dalla tasca una chiave: la infilò nella toppa e girò. La serratura scattò, lui abbassò la maniglia e la porta si aprì con un lieve cigolio.
Non è morta abbastanza.
Fuori lo accolsero buio e silenzio: solamente il rumore della pioggia battente osava rompere quella sacralità.
Adam prese un profondo respiro, mentre il cuore accelerava il proprio battito, facendogli pulsare il sangue nelle vene e donandogli una scarica d’adrenalina che lo esaltò.
Tutto, in quel momento, era più vivido e chiaro: i suoni, gli odori, i contorni delle cose, i suoi movimenti sicuri e rapidi. Le sue convinzioni.
Il giovane s’avviò speditamente, seppur con attenta prudenza, verso la propria meta. I suoi passi gli rimbombavano nella testa come se stessero gridando il loro inesorabile incedere; li contava silenziosamente, mentre il battito del cuore accelerava man a mano che si avvicinava alla destinazione.
Trentasei, trentasette, trentotto…
James sarebbe senza dubbio stato compiaciuto nel sapere che lui aveva risolto la questione; non avrebbe potuto fare altro che essere felice nell’apprendere che Adam era finalmente libero e che nessuno l’avrebbe più perseguitato, o gli avrebbe potuto fare del male.
Cinquanta, cinquantuno, cinquantadue…
La soluzione era così semplice che non sapeva proprio spiegarsi come non ci fosse arrivato prima.
Sessantotto, sessantanove, settanta…
Probabilmente era stato il prolungato contatto con James a renderlo così ottuso, ad accecarlo. C’era stato un periodo, grazie alla vicinanza dell’amico, in cui aveva creduto che avrebbe anche potuto essere una persona normale senza troppo sforzo. Avrebbe potuto ignorare quei maledetti cospiratori, avrebbe potuto lasciarli alle loro macchinazioni e dimenticarsene. Fingere che non ci fossero. Avrebbe potuto cercare un lavoro che gli piacesse davvero, e fare quello per tutta la vita. Avrebbe potuto iniziare ad uscire con qualche bella ragazza, costruirci una relazione e farci un famiglia. Avrebbe potuto vivere una vita ordinaria, come chiunque.
C’era stato un periodo in cui l’aveva creduto davvero possibile.
Novantatré, novantaquattro, novantacinque…
Ma poi s’era risvegliato dall’illusione, soprattutto quando anche James aveva iniziato a notare il comportamento di quei maledetti cospiratori; s’era quasi convinto che avrebbe potuto lasciarseli alle spalle, ma poi il suo amico lo aveva riportato sulla retta via, esattamente come, fino a quel momento, lo aveva deviato. Ora tutto era chiaro, tutto s’era svelato ai suoi occhi. Tutto era definitivo.
Centosette, centootto, centonove.
Adam si fermò dinanzi ad una porta bianca. Quella maledetta puttana cospiratrice si trovava dall’altra parte, probabilmente immersa in un ignaro e tranquillo sonno, che presto sarebbe diventato eterno.
Adam sorrise e strinse i pugni, nel tentativo di contenere la subitanea eccitazione che lo aveva assalito nel constatare quanto fosse vicino al suo obiettivo.
Prima questa, poi l’altra” pensò, rilassando i muscoli ed infilando una mano in tasca per estrarne un mazzo di chiavi. Un rumore di passi, ovattati e lontani, lo riscosse dalla sua bolla di esaltazione e trionfo, costringendolo a muoversi con rapidità: se fosse stato scoperto in quel momento, non avrebbe mai più potuto portare a termine il proprio progetto. Non sapeva dirsi perché ne fosse sicuro, ma non dubitava della veridicità di quella convinzione.
Scelse la chiave giusta, la infilò nella toppa ed aprì, infilandosi nella stanza con silenziosa sveltezza. Prese un profondo respiro, riempendosi i polmoni dell’aria pesante della stanza, poi si richiuse la porta alle spalle con accorta lentezza ed inchiavò, lasciando la chiave nella serratura.
Dinanzi a lui, a pochi passi di distanza, una figura dal respiro regolare giaceva nel suo letto, immersa in un sonno profondo. Adam si leccò le labbra, compiaciuto di quella vista, ed il suo sorriso s’allargò in un ghigno di folle piacere, mentre prendeva ad avanzare lentamente verso la propria vittima.
Si fermò accanto al bordo del letto e rimase in contemplazione per un istante, lasciando scorrere gli occhi sulle ciocche bionde della ragazza e sul suo viso disteso nell’inconsapevolezza dell’incoscienza.
Si concesse solamente alcuni istanti di compiaciuta estasi, prima di far scattare le mani intorno al collo di Kathy, che spalancò istantaneamente gli occhi e cacciò un grido, soffocato a metà dalle dita forti di Adam che la strinsero con maggiore vigore.
«Maledetta puttana cospiratrice» le sussurrò, a pochi centimetri dal viso, per poi esplodere in un’incontrollabile risata sguaiata. «Prima tu, e poi quella troia che si scopa James. Così rimarremo solo noi due» aggiunse, tra un singulto e l’altro, mentre la presa sul collo della giovane s’allentava e si rinsaldava a seconda di quanto intense fossero le risate.
Scoprì che uccidere gli piaceva. Gli piaceva davvero immensamente. Era esaltante, eccitante, inebriante: brividi di malsano piacere gli correvano lungo il corpo, mentre guardava la propria vittima dibattersi con sempre minore convinzione nella sua stretta forte. L’avrebbe rifatto ancora ed ancora, pur di continuare a sentire quell’elettrizzante sensazione di godimento e potere.
Non lasciò la presa nemmeno quando Kathy smise di muoversi del tutto ed i suoi occhi sbarrati di confuso terrore rimasero spalancati a fissare il vuoto. Non smise di ridere nemmeno quando le mani cominciarono a dolergli e la presa ad indebolirsi. Non smise di ghignare felice nemmeno quando delle braccia forti lo afferrarono e lo staccarono dalla sua vittima, impresa che non si rivelò affatto facile.
Col respiro accelerato e pesante, e l’adrenalina ad annebbiargli la mente con un malsano piacere, non smise di gioire ed urlare esaltato neppure quando percepì qualcosa pungerlo sull’incavo del collo. Nemmeno quando avvertì le forze abbandonarlo ed il mondo farsi confuso, la trionfante esaltazione per ciò che aveva fatto lo abbandonò. Neppure quando scivolò nelle tenebre, smise di sorridere.
Si chiamava Alice” rifletté, stancamente. E fu il suo ultimo pensiero.
 
James se ne stava seduto, rigido e tremante, di fronte all’uomo.
Il sole era sorto da poco, ma lui era stato convocato con una certa urgenza ed, una volta arrivato, era stato messo al corrente immediatamente degli avvenimenti di quella notte.
«Non capisco come sia potuto accadere» mormorò James, dopo lunghi attimi di silenziosa meditazione. «È sempre stato una persona pacata e tranquilla» aggiunse, mentre le dita si distendevano e contraevano spasmodicamente sulle sue cosce. E poi c’era il mal di testa: quel maledetto mal di testa che continuava a tormentarlo, annebbiandogli la mente.
L’uomo dinanzi a lui sospirò e scosse la testa, per poi spingere una cartella di cartoncino, abbastanza consistente, verso di lui. «Perché non dai un’occhiata?» suggerì.
James fissò il fascicolo azzurrognolo, poi scosse la testa, riluttante.
«Se non vuoi vederlo da solo, te lo dico io» lo incalzò l’uomo, alzando la voce di un tono, e di nuovo James scosse la testa. L’altro parve non curarsene, e continuò a parlare: «Adam Smith, trent’anni, affetto da disturbo schizoaffettivo di personalità, con tratti ossessivi e pranoidi. In cura presso di noi da dieci anni, da quando, all’età di vent’anni, ha ucciso la madre Alice strangolandola, perché convinto che lei passasse informazioni su di lui ai servizi segreti.»
«No» pigolò James, più rivolto a se stesso che a qualcuno in particolare.
«Il caso è stato affidato a te, perché ti ho sempre ritenuto lo psichiatra migliore, qui, e lui era un soggetto particolarmente difficile. Hai svolto bene il tuo lavoro, per i primi cinque anni, finché non ti è venuta una bizzarra e brillante idea. Ricordi?»
«No» ripeté James, sempre rivolto a nessuno in particolare.
«Sei venuto da me e mi hai chiesto il permesso di poter tentare una cura sperimentale, così l’hai definita. Mi hai domandato l’autorizzazione a sospendere la terapia farmacologica ad Adam, perché volevi cercare di guarire i suoi deliri in maniera differente: volevi indurlo a credere di trovarsi in un ambiente amichevole, e non in un istituto psichiatrico; volevi diventare tu stesso suo amico, ed aiutarlo ad elaborare la realtà tramite le sue esperienze. Eri convinto che avrebbe funzionato: col tempo lo avresti portato a rendersi conto dell’insensatezza delle sue credenze, solamente spingendolo a rielaborare i suoi vissuti tramite l’inserimento in un contesto che simulava la sua vita prima che fosse inserito presso di noi. Ti ho dato il mio consenso, perché inizialmente non ci ho visto nulla di male.»
James rimase in silenzio, lo sguardo ancora basso. Straniato.
«All’inizio ha anche funzionato, in parte: Adam sembrava star facendo dei lievi miglioramenti» proseguì l’uomo. «Con il tempo, però, credo che anche tu ti sia lascito trascinare in questa farsa e che ti sia immedesimato un po’ troppo.»
«No» mormorò James con un certo stanco malcontento, sollevando gli occhi vitrei sul proprio interlocutore.
«Nell’ultimo periodo hai sviluppato un rapporto morboso con Adam: hai iniziato a passarci molto tempo, a farci discorsi strani; hai cominciato, persino, ad avere alcuni suoi atteggiamenti. Sei diventato complice dei suoi deliri.»
«Non è così» si difese James.
«Ah, no? Sai com’è riuscito ad uscire Adam dalla sua stanza e ad entrare in quella di Kathy?» domandò l’uomo, con affabilità.
James tentò di riflettere davvero su quella domanda; cercò sul serio di trovare una risposta, ma non ci riuscì: non aveva idea di come Adam fosse stato capace di uscire dalla sua stanza, e non capiva nemmeno dove fosse la stranezza. Non era certo di aver afferrato del tutto il senso di quel discorso. Perciò, alla fine, si limitò a mormorare: «Non lo so.»
L’uomo si lasciò andare ad un sospiro rassegnato. «Aveva le chiavi delle stanze: potrebbe avertele rubate senza che te ne sia accorto, oppure potresti avergliele date direttamente tu e non ricordartene nemmeno; qualunque sia il motivo, lui ne era in possesso.»
«Non sono stato io» mormorò James, scuotendo la testa.
«Tra una frase sconnessa e l’altra che ha pronunciato quando si è risvegliato, ha anche detto di voler uccidere pure, testuali parole, quella puttana cospiratrice di tua moglie. Lo sapevi, questo?»
James s’irrigidì ancora di più, le mani ad artigliare rabbiosamente la stoffa dei pantaloni. Davvero aveva una moglie?
«Vorrei che tu ti sottoponessi a degli esami» proseguì l’uomo, con cautela. «Giusto per essere sicuri che sia tutto a posto» si affrettò ad aggiungere, come a voler giustificare con l’apprensione quell’amara proposta.
Gli occhi di James si sgranarono e lui s’alzò in piedi di scatto. «Io non sono pazzo!» gridò, talmente forte da farsi dolere la gola. Un pesante silenzio calò nella stanza, mentre i due uomini si fissavano, uno con desolata rassegnazione, l’altro con trasognata costernazione.
James sentì mancargli le forze d’improvviso e si lasciò ricadere pesantemente sulla sedia. «Non sono pazzo» ripeté, in un sussurro.
Non seppe capire per quale motivo cominciò a piangere.
 
James, due bicchierini di plastica colmi di caffè fumante in mano, si dirige verso il divanetto dalla lisa stoffa vermiglia; raggiuntolo, vi si siede con misurata lentezza, appoggiando uno dei bicchieri dinanzi a sé e l’altro di fianco.
«Chiedo scusa per il ritardo, Adam: ho avuto molto da fare a lavoro» mormora, con un bieco sorriso colpevole; per sottolineare il concetto, si liscia il camice bianco che indossa, spiegazzato come se non lo cambiasse da giorni. Alla sua affermazione, segue il silenzio.
L’uomo si schiarisce la gola, a disagio, ed afferra di malagrazia il bicchierino, portandoselo alla bocca e sorseggiandone il contenuto.  Una smorfia di disgusto gli fa arricciare il naso.
«Il caffè fa veramente schifo, qui» osserva irritato, voltandosi a guardare il proprio interlocutore con la serena inconsapevolezza che questo non ci sia. Nessuno sta occupando il posto accanto al suo. «Io non capisco per quale cazzo di motivo continuiamo a venire in questa topaia.»
 
  
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