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Autore: Cress Morlet    30/01/2019    28 recensioni
[Alice Kingsleigh/Cappellaio Matto]
Lei aveva un livido allo stomaco, lui un taglio tra le vertebre.
E l'amore è un insieme di increspature e di cigolii.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alice Liddell, Cappellaio Matto
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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alice

Ringrazio infinitamente chi ha letto questa storia in anteprima, perchè senza il vostro supporto e aiuto non avrei mai pubblicato questa storia. 
Voi sapete quanto siete preziose.
E chiedo scusa a chi vorrà leggere questo racconto, avviso già che troverà una storia ricca di imperfezioni, di sbagli, e non so neppure io di cosa. 
Cercate solo di provare a capirmi, mi sono innamorata follemente di loro e non sono riuscita a calmarmi fino a quando non ho scritto questo delirio. 
Spero possa comunque risultare piacevole :)






Ad Alice, al Cappellaio Matto. Miei amati.

                   


                                  BLACK HOLES AND REVELATIONS






“Mi vedi? Alice, riesci a vedermi?”
La faccia del Cappellaio era mal celata dalle fasce rosa del suo copricapo, la voce rimbombava nella corona cilindrica e il mento compariva e scompariva al pronunciarsi di ogni sillaba versata via velocemente dalla bocca sanguigna.
Lei rise e spostò il cappello da dinanzi al suo viso, acciuffando le falde stinte con le dita e tirandolo verso di sè. 
Si coprì la faccia e la sua risata riecheggiò tra le stoffe, in un’ovatta di cuciture.
“E tu? Adesso tu riesci a vedermi?”
Aspettò una sua risposta e lui non disse nulla. Aspettò una sua parola e la aspettò invano. 
Il mondo intorno a lei continuava a rimanere muto. Vuoto e distante, in una crescente agonia. Agghiacciante, un mondo spezzato in cocci rotti di specchi calpestati da ciocche di capelli biondi tagliati, belle trecce che cadevano giù e che l’aria tingeva di nero.
Glielo domandò ancora e il cuore nel suo petto si stropicciò in petali bianchi dipinti con sottili ciuffi rossi. 
Chiamò il suo nome, lo sussurrò a fior di labbra contro le rughe del ruvido cappotto.
“Cappellaio? Cappellaio?”
Sollevò il capo e i rumori iniziarono a fluire nuovamente nelle sue orecchie, a cascare nei suoi padiglioni piccoli piccoli chiusi in bolle trasparenti di tè. 
Tè, sapone, zollette di zucchero al posto di occhi stanchi e spiritati. Le sue mani strisciarono fino alle impiastricciate guance scavate del Cappellaio e il suo tocco lo trasportò via, lo strappò con violenza, dalle immagini fugaci di fuoco e cenere che spesso tornavano a tormentarlo e a giocare con la sua mente provata. Fatui fumi di sporco azzurrognolo, lunghi e sinuosi fiumi attorcigliati in funi.
Arrivò ad accarezzargli l’angolo dell’occhio sinistro e solo allora, solo in quel momento, lui sembrò risvegliarsi da un faticoso torpore. 
Sbatté le ciglia e si imbronciò, scuotendo testa e collo.
“A cosa stavamo giocando?”
“A vederci, Cappellaio. L’hai inventato tu, ricordi? Fino a quanto riusciamo a vederci”, gli rispose e ticchettò contro la sua tempia e poi contro lo spazio in mezzo ai suoi occhi.
Lui si offese e le strinse il mento e la fronte, parlando svelto e mordendosi più volte la lingua.
“Ma è un gioco stupido. Io riesco a vederti, riesco a vederti sempre. Anche se tutto nella tua faccia ha dimensioni piuttosto sbagliate, pare quasi che tu ti sia messa di impegno per risultare talmente tanto imperfetta e asimmetrica.”
La sua voce squillante le avvitò le orecchie e il suo giudizio la divertì, scucendole dalle labbra un sorriso lungo fino alle sopracciglia e fino alla punta delle orecchie. Non riusciva mai a smettere di ridere quando era in sua compagnia, non poteva mai pensare di allontanarsi più di qualche passo distratto - avanti e indietro, avanti e indietro - da quei suoi sguardi sognanti e penetranti. La sua presenza era il brivido e il divertimento di mille bollicine d’acqua che si rincorrevano lungo tutta la sua lattea pelle di giovane donna, i suoi respiri - rosse, rosse labbra di garofano - erano un marchio indelebile, attorcigliati nei suoi riccioluti capelli di cenere che le incorniciavano il viso e i fianchi.
“Tanto imperfetta e asimmetrica?”
Si aggrappò a lui, al bavero mal piegato e slavato del cappotto, e lì affondò le unghie che aveva mangiucchiato, quando era stata nervosa, agitata e sola.
“Non corrispondi minimamente alle fattezze della mia faccia, non corrispondi minimamente.”
“Che cosa?”, gli domandò, e poi rise. Una risata aperta, un suono che curava le pieghe tristi delle espressioni troppo pensierose di Tarrant e i suoi incubi in grado di mangiare intere teste di uomini buoni e cuori pulsanti, grondanti oscura pece.
“Te lo dimostro subito. Alice, Alice.”
Avvicinò le loro fronti e gesticolò frettolosamente con le braccia, arrivando a stringerle il petto e la schiena libera dalla costrizione del corsetto.
“Noti? La tua fronte non riempie tutta la mia. È troppo piccola.”
Fece toccare le punte dei loro nasi, rossi e buffi, buffissimi, e subito dopo le calpestò le scarpe azzurre, senza scusarsi e senza spostarsi da quella assurda posizione.
Il freddo pungente della foresta era in briciole intorno ai loro piedi, i rami scheletrici degli alberi rinsecchiti erano piegati dal vento e dalle nuvole pesanti che attraversavano pezzi di terra verde e terra nera.
“E adesso? Non puoi non notare come i nostri nasi siano differenti. Il tuo naso è troppo piccolo.”
Lei rise, un insieme di note calde arrotolate sulla pelle cadaverica di Tarrant, tra i grumi dei suoi occhi, sulle sue pupille roteanti e screziate dall’oro e dalla follia, appena nascoste da un bel verde di germogli colpiti dai raggi del Sole. Sulla sua risata le posò le labbra e le parlò sulla bocca.
“Senti? Senti come sono diverse? Non combaciano. Non combaciano neanche un po’, non combaciano.”
Percepì solo umido e saliva, un sapore nuovo in gola e nel punto in cui si era creato un contatto. Gocce di lapilli sulfurei sulle sue guance, amaro sale tagliuzzato sulle sue stanche palpebre, viola veleno colato lungo la sua lingua rimasta immobile tra i denti e il palato. La bocca del Cappellaio si era mossa sul suo labbro inferiore e allora le costole si erano spalancate frenetiche ad abbracciare le sue, ad intrecciarsi in una coda di ossa, un ponte tra i loro cuori e le loro pance di bruchi blu e di farfalle di metallo arrugginito. 
Lui si scostò e avvicinò i loro menti, ma lei non seguì più il suo gioco. Cercò il suo incastro perfetto, gli rubò le parole e la volontà.
Lo baciò e si sentì male.
Lo baciò e decise di accogliere gli errori e le imperfezioni di entrambi, di accogliere le occasioni della sua esistenza bugiarda, di accogliere lui in lei, ovunque in lei, in ogni parte di se stessa. Consumò la sua bocca, la massacrò, e costrinse i polmoni a vivere con qualcosa di diverso dall’aria e dall’ossigeno. Imparò a baciarlo con la guancia destra posata sulla sua spalla sinistra, vicino alla linea del collo, imparò a baciarlo con il corpo tremante e le gambe molli. Imparò a baciarlo e a convivere con il dolore della perdita di un tassello di quello che era stata e di quello che non avrebbe mai più potuto essere.
“Riflettevo sulle parole che iniziano con la lettera emme. Ricordi?”
Si ostinò ad appropriarsi di ogni movimento della sua lingua, di ogni suo sussulto. 
Lei aveva un livido allo stomaco, lui un taglio tra le vertebre.
E l’amore è un insieme di increspature e di cigolii.
“Magia. Meraviglia. Miracolo.”
Tarrant allontanò il viso e la osservò sbattendo le palpebre, sfarfallando con le ciglia.
“Miracolo. Vorrei che tu fossi davvero qui con me”, le disse, e poi chiuse gli occhi.
“Io sono qui.”
“Lo dici ogni mattina.”
Prese le sue mani fasciate da bende consumate, le congiunse alle proprie e le portò sul suo corpo, una sul seno e l’altra sulla pancia. Lui non le mostrò le iridi e allora lei mosse le loro mani unite, tra le sue scapole, la base della schiena, le cosce.
“Alice. Sei come un becco di corvo che preme, costantemente, nel mio cuore gonfio di sangue. Non te ne vai mai, Alice. Sei la mia illusione più bella. Il mio delirio più gratificante. Alice, Alice.”
“Sono reale, non è un sogno”, lei tentò di rivelargli, di mormorargli tra i pensieri e le idee che fuggivano via e si precipitavano lontano.
“E chi può dirlo?”
Il Cappellaio sollevò le palpebre e sorrise.
“Mi tocchi. Esisto, sono reale.”
“Alice, la mia Alice”, le cantilenò, piano. 
Tarrant sfiorò con due dita il suo corpo ingabbiato da un vestito blu, di boccioli neri a ghirigori merlettati, mentre lei gli accarezzava il profilo della mandibola con l’indice e l’anulare.
“Sei tu? Sei tu tu?”
“Sì. Sì, sì, sì sono io.”
“Alice. Non sono mai riuscito a dirti di essermi innamorato di te. Mi sono sempre dimenticato.”
Ma io l’ho sentito. Ho sentito il tuo amore ogni giorno, in ogni istante in cui avrei potuto sentirmi abbandonata, ho sentito il tuo amore e l’ho seguito fino a quando non mi ha ricondotta qui. Qui, da te.
“Alice. Sei davvero la mia Alice.”
Le infilò le mani tra i capelli, le ingabbiò le orecchie tra i palmi, e allungò il collo verso di lei. Il mondo era una bambagia di melodie e sinuose composizione drammatiche, il cielo viola era spaccato in due dall’incudine di una qualche divinità furiosa e vendicatrice. 
E loro, umani, perdevano il conto delle foglie calpestate e del numero dei frammenti dispersi.
“Mi lascerai di nuovo solo? È così?”
In un delirante aprirsi di cicatrici dorate lei comprese che non avrebbe mai più potuto vivere in un mondo senza Tarrant. Il suo respiro, la sua vita, la sua mente tanto diversa da quella di tutte le altre persone che aveva incontrato in venti anni di mera illusione ottica, di statica diffrazione delle aspettative altrui: non voleva mai più essere divisa da lui.
Perché se davvero esisteva ancora un mondo del genere, un mondo senza il Cappellaio, allora non era degno di essere vissuto, allora non era reale, allora non era il suo mondo. Risplendevano due universi di possibili scelte, tra le nebbie dell’oppio, e lei aveva un cuore soltanto.
È così? Alice, è così?
Scosse il capo.
Scosse il capo e sussurrò ‘no’, lo mimò con le labbra, lo sillabò tra due lacrime.
Due gocce di pianto dolce, due archetti tramutati in spade d’alabastro, due cerulee iridi vergate da rossi uncini.
Disse ‘no’ e la terra tremò quando gli porse la mano, in un movimento di polso che la faceva essere - la faceva assomigliare - ad una sposa con il velo bianco scucito e logorato dalle tarme.
“E sei felice? Perché sembri tanto triste?”
Una tempesta di sensazioni, emozioni, sentimenti folli e smisurati. Oltre il concetto stesso di tempo e spazio, oltre il suo palmo teso e i baci che Tarrant lasciava sui suoi polpastrelli e le dita, le linee della mano, il polso. Oltre l’altalena delle sue vene e la tenerezza della concretezza delle labbra del Cappellaio che sfioravano il suo corpo e il suo amore più profondo.
Attraversare a piedi una tempesta di chiodi, saltellare in una cascata di fuoco, distruzione e dolore con le braccia e le ginocchia legate. Mangiare briciole di sonno, infreddolite e spaventate, in un diluvio di sogni e improbabili realtà. Tra vapori blu e corolle di fiori color pesca, lei non aveva mai pianto in sua presenza, lei non era mai stata spaventata. Il volto ancora stupito, l’espressione estatica, le labbra tese in un sorriso di speranza: la stessa spossante aspettativa di un animo che ha appena espresso un desiderio, le braccia aperte verso una torta di compleanno e gli occhi chiusi dal fumo delle candele spente.
“Non me ne vado, non ti lascio più”, gli promise e la musica continuò a suonare.
Note bellissime di un violino rotto e privo di corde tese. Solo capelli argentati e forbici protese a spezzare le loro vite disperate.
“Sono triste perché mi dispiace averti reso infelice in passato, Cappellaio. Succede questo quando si ama qualcuno, no? Si soffre insieme, si è felici insieme.”
Si gettò sul suo petto e si strinse a lui, lo abbracciò racimolando ogni briciola di forza. 
Intrecciò le dita, le une alle altre, dietro alla grande schiena di Tarrant e affondò il naso al centro del suo sterno.
La fronte contro il cuore.
La bocca contro il cuore.
“Ti prego. Lasciami vivere tra le tue braccia, lasciami restare qui per sempre.”
Serrò le palpebre e si arrossò i palmi.
Il Cappellaio le sciolse i nodi dei capelli con i polpastrelli, toccò il suo collo, allontanò le falangi e poi rimase in bilico un momento, la pausa di tre battiti.
Si avvicinò al suo orecchio sinistro e immerse le nocche tra i suoi ricci biondi.
“Ti vedo. Alice, io ti vedo.”
Continuò a lisciarle le ciocche, a massaggiarle il capo, a baciarle il lobo e la guancia. 
Lei sentì il suono dei suoi respiri sulla pelle e tra le vene, sulle tempie e tra i nervi.
“Non ti ho mai persa.”
Il cuore si scontrò contro le costole del seno sinistro e la gola cominciò a pizzicare, a solleticare le stanche pupille.
“Non mi hai mai persa”, gli confermò, e fu lei a sporsi verso di lui e a baciarlo, a bocca aperta e con una mano intrecciata ai capelli della sua nuca. Per incontrarsi insieme, per vivere insieme in una corona di fulmini e macabre sinfonie di incubi che si tramutavano in meravigliose realtà. Lui continuò a stringerla tanto forte da farle dimenticare di avere un corpo, da sottrarle i respiri, in un rincorrersi che aveva il gusto della disperazione, in un insieme di parole dette o forse solo immaginate. 

Nella follia della lontananza, tra goffi scontri di labbra e denti, tra desideri e immaginazioni magnifiche, i sogni assumono la forma di noci spezzate in cui rigirarsi e in cui si spera di ritrovare se stessi, inciampando nei lacci slacciati delle bugie del caos.
Eppure non esiste altro posto in cui vorrei essere.
Perchè Alice Kingsleigh amava davvero il Cappellaio Matto. Con una tale profondità che, ne era certa, tempo prima l'avrebbe spezzata.
L'ho compreso solo adesso.
Amare lui significava guardare ogni giorno il proprio riflesso e non averne paura. Sentire la vita in maniera profonda, completa, totale. Scegliere di essere e non di apparire. E credere a sei cose impossibili prima di colazione.
Ci fa male stare lontani. Ci fa proprio male.

   
 
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