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Autore: Caterina_98    19/02/2019    0 recensioni
Louis non riesce a far durare le relazioni, Harry soffre di vertigini ma dal tetto di casa sua si vede tutta Manhattan e non tutte le partite di biliardo terminano quando la palla nera viene imbucata.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! Eccomi con l'ennesima Larry, questa voltaun amorenato tra una partita a biliardo e una vista mozzafiato di New York.
Spero possa valere il vostro tempo.
Grazie e Buona lettura.
Cate xxx


C’era qualcosa di straordinario in New York: nonostante il tempo trascorso a camminare per le sue strade, la metropoli sembrava mutare di giorno in giorno e appariva sempre diversa agli occhi dei suoi spettatori.

Louis odiava la monotonia, odiava frequentare sempre gli stessi luoghi, parlare con le medesime persone, vedere i soliti volti.

Certe volte il desiderio di allontanarsi dalla quotidianità era così impellente che faticava ad accettare la presenza nel soggiorno del suo appartamento del suo coinquilino e amico, che non poteva stare da nessun’altra parte se non nella casa che condividevano.

Per questo motivo Louis si era appassionato alla musica: perché non era mai la stessa e bastava qualche nota per andare dovunque.

 

Per la stessa ragione, appena aveva terminato gli studi aveva abbandonato il suo piccolo paese natale e si era spostato nella ‘città che non dorme mai’.

E sempre per questo quella sera di inizio ottobre, invece che chiedere al tassista di svoltare all’incrocio di sempre per raggiungere il ponte di Brooklyn che lo avrebbe portato nella caotica Manatthan, aveva deciso di proseguire diritto e raggiungere il quartiere di Brooklyn Heights.

 

Tutti conoscevano la Brooklyn Promenade, tutti almeno una volta nella vita dovevano attraversarla e Louis lo aveva fatto decine di volte, con lo sguardo rivolto ai mastodontici edifici, lontani solo un paio di chilometri.

 

Pensò di raggiungerla, ma ancora una volta lo assalì la tentazione di scoprire qualcosa di nuovo.

Camminò a vuoto, mescolandosi tra persone che non conosceva, osservando le loro andature, i cappotti nei quali erano stretti, gli schizzi che le suole delle loro scarpe provocavano ad ogni passo, infrangendosi contro le pozzanghere che il recente temporale aveva lasciato sui marciapiedi.

Lesse distrattamente il cartello sul lato dell’edificio all’incrocio con Henry Street mentre attendeva che il semaforo dell’attraversamento pedonale scattasse sul verde, e raggiunse Montague Street.

Si fermò poche centinaia di metri più avanti, dove i bagliori azzurri di un elegante locale si specchiavano sulla stoffa nera delle sue scarpe.

 

Osservò l’interno e vi scorse un lungo banco bar e un’ampia sala nella quale decine di giovani ondeggiavano a ritmo di musica, seduti ai loro tavoli in stile minimal. Sull’angolo della stanza, in disparte rispetto al grande ammasso di corpi, un tavolo da biliardo, attorno al quale un gruppo di uomini discutevano con i loro bicchieri tra le mani e le giacche eleganti che li fasciavano.

 

Fu proprio questo dettaglio che spinse Louis a varcare l’ingresso: quel tavolo in ardesia foderato di panno verde sulla quale lui era così maledettamente bravo a far rotolare le palle a colpi di stecca.

Dentro faceva tremendamente caldo, infatti in pochi minuti sostituì la giacca- che conservava appena il ricordo del vento freddo di ottobre- con una maglia a maniche corte del suo guardaroba monocromatico, che lasciava libertà agli innumerevoli tatuaggi che gli decoravano le braccia.

Aveva una particolare passione per il nero e i tatuaggi.

 

Si concesse una birra per sciogliere i nervi e rilassarsi, ma solo dopo averla bevuta in lunghi sorsi si avvicinò al gruppo di persone che aveva adocchiato dall’esterno.

“Qualcuno gioca?” aveva chiesto, osservandoli.

Gli uomini si erano guardati tra loro, con un cipiglio divertito sui volti.

 

“Abbiamo qualcuno che può fare al caso tuo.” aveva detto qualcuno, facendo un gesto con la mano verso una delle poltroncine in pelle che percorrevano il perimetro della stanza.

 

Si alzò un giovane dalle gambe chilometriche, si avvicinò a Louis con un sorriso sornione che gli attraversava il volto, la camicia azzurra con stampe floreali, aperta fino a metà torace, sul quale si intravedevano ritagli di tatuaggi che Louis non riuscì a decifrare.

E poi i ricci, lunghi fino alle spalle, che ondeggiavano ad ogni suo passo.

“Vuoi giocare?” chiese con voce rauca e ferma mentre scrutava i lineamenti del volto dell’avversario.

 

“Sì, giochiamo.”

Louis gli diede le spalle e sfilò dal porta stecche una delle classiche da centocinquanta centimetri.

“Non è un po’ troppo lunga per te?” chiese il ricco con tono divertito, alludendo alla sua altezza mentre afferrava una stecca di qualche centimetro più lunga della sua, che uno degli stessi uomini che lo aveva chiamato gli stava mettendo tra le mani.

 

Una risata aveva accompagnato le sue parole, ma non c’era stata cattiveria nella voce e Louis non reagì alla provocazione. Posizionò il triangolo con le quindici palle nel centro del tavolo. Dopo averle stabilizzate lo sfilò dall’alto.

 

“Chi apre?”

“Prego, in fondo sono un gentiluomo.”

Louis divaricò leggermente le gambe, piegò il busto in avanti e posò l’estremità della stecca tra il pollice e l’indice della mano sinistra.

Con un movimento rapido e deciso del braccio, colpì la bianca che distrusse l’ordinata serie di palle facendole rotolare in ogni direzione.

Imbucò la numero dieci, blu a strisce.

Si concesse solo un sorriso frettoloso prima di girare attorno al tavolo e riposizionarsi di fronte al suo bersaglio.

Colpì ancora, con precisione, e trattenne il respiro mentre la palla bianca si scontrava con la numero tredici - perfettamente allineata- e la imbucava.

 

Questa volta sollevò lo sguardo allegro verso il suo avversario.

“È il tuo turno”.

Osservò il riccio flettere all’indietro il braccio destro, piegare il torace in avanti e puntare gli occhi sulla palla che doveva colpire. Aveva il volto concentrato e sulla mano sinistra, tesa a sostenere la punta della stecca, si intravedevano le vene gonfie.

 

Si soffermò per un solo istante ad osservare quelle mani grandi dalle unghie smaltate di nero e le braccia, ricoperte di inchiostro che prendeva vita ad ogni movimento dei muscoli.

Colpì con precisione e senza difficoltà imbucò la palla sei, piena, verde.

Fu nuovamente il turno di Louis e nonostante l’accuratezza del colpo nessuna palla venne imbucata, mentre il riccio nel suo secondo tiro riuscì a far entrare in buca la palla numero cinque, arancione.

 

Con un tiro calcolato e fortunato Louis mandò in buca un’altra palla e rimase con quattro ancora sul tavolo, mentre dentro di lui cresceva l’eccitazione e la concentrazione per quella partita in cui sembrava aver trovato un avversario al pari livello.

 

Il riccio fece due ottimi tiri e anche Louis esibì tutta la sua capacità in materia, mentre una dopo l’altra le palle scomparivano oltre il bordo del tavolo, colpite con precisione dalle punte solide delle loro stecche.

A questo punto avevano imbucato lo stesso numero di palle e ne restavano sei sul tavolo, più l’intoccabile nera, la numero otto, che avrebbe decretato il vincitore.

Louis sbagliò un secondo tiro, e non poté negare nemmeno a se stesso che la motivazione di quell’errore erano gli occhi dal colore brillante del suo avversario, che rilucevano sotto le luci fredde del biliardo e scrutavano ogni sua mossa, facendolo sentire un pesce indifeso davanti ad uno squalo affamato.

 

Era sempre stato orgoglioso dell’azzurro intenso e lucente dei suoi occhi, ma difronte al verde delle iridi del riccio pensò di non poter reggere minimamente il confronto.

L’avversario non perse il colpo e dopo aver messo in buca la sua quinta palla, con un sorriso tirato fece posto a Louis, che si rimise in posizione, cercando di non pensare ai due smeraldi che lo seguivano attorno al tavolo e intenzionato a rimediare al precedente errore.

Imbucò la palla nove, gialla.

 

Il tiro successivo fu un successo per lo sconosciuto del bar, e il numero delle palle rimanenti scese a tre.

Era bravo, molto più di quel che si era aspettato all’inizio, aveva la precisione di chi conosceva l’arte del biliardo, la costanza di un amante del gioco, le braccia forti e ferme di chi aveva fatto anni di pratica.

Louis si piegò e con un colpo secco- alimentato probabilmente dalla delusione per i suoi errori precedenti che lo mandava ogni volta sopra le righe- imbucò la sua penultima palla, 11, rossa a strisce. 

 

Il riccio sbagliò il primo tiro della partita ed emise un grugnito di disapprovazione mentre faceva un passo indietro e lasciava al compagno l’onore di imbucare la sua ultima palla, numero quattordici, a strisce verdi.

 

E Louis non pensò assolutamente che quel verde un po’ sbiadito si abbinava perfettamente agli occhi dell’uomo in piedi dal lato opposto del tavolo.

 

Il riccio riuscì a sua volta, con l’eleganza e la continuità che lo aveva caratterizzato durante tutta la partita, ad imbucare le sua ultima palla con un colpo e non appena queste cadde nella buca, l’aria attorno a loro si fece densa di adrenalina.

Il più alto rise. “Che vinca il migliore!”

 

Con lo sguardo sicuro di chi, non perdeva mai.

Louis sbagliò il colpo e la palla nera non fece altro che attraversare il tavolo e scontrarsi a pochi millimetri da una buca. L’avversario prese posizione e, per la prima volta da quando il gioco era iniziato, Louis si concesse il tempo di ammirare la sua postura elegante, i lineamenti perfetti del viso, le ciglia sottili e le guance che apparivano così soffici e delicate nonostante i muscoli facciali tesi.

 

Anche il riccio mancò la buca, sotto gli occhi attenti degli stessi uomini che avevano dato inizio a quella partita e che ora, alle sue spalle, attendevano con il fiato sospeso il momento in cui la palla nera sarebbe stata imbucata.

 

Louis si trattenne dal sogghignare: non voleva apparire maleducato di fronte a quel branco di uomini di classe, ma pensò che il karma, a volte, faceva il proprio lavoro.

 

Fu Louis, con la precisione che caratterizzava i suoi colpi migliori a farla rotolare fino alla buca dalla parte opposta della quale si trovava, e a farla cadere con un lento movimento all’interno di essa.

Esplose in un esulto mentre alzava le braccia al cielo in segno di vittoria, per poi voltarsi verso il suo avversario e con un sorriso gli allungò la mano.

“Bella partita, complimenti.”

 

Poté tastare la consistenza della sua pelle morbida e calda, in contrasto con gli anelli vistosi che portava alle dita. Fu una stretta gentile, quasi una carezza.

“Vieni, ti offro da bere.” disse l’altro.

 

Lo seguì verso in bancone del bar e lo guardò ordinare due Gin Tonic.

“Certo Signor Styles, arrivano subito.”

“Allora signor Styles, qual è il suo nome?”

Il riccio fece una risatina, mentre si accomodava su uno degli alti sgabelli attorno al lungo tavolo: era rivolto verso di lui e aveva posato la punta consunta dello stivaletto destro sul poggiapiedi dello sgabello di fronte a se, sulla quale si era seduto Louis.

 

“Harry. Mi chiamo Harry. Tu?”

“Louis.” rispose sollevando il bicchiere che il barista gli aveva appena posto di fronte e bevendone un sorso.

In pochi minuti Louis constatò che il compagno aveva perso l’arroganza che lo aveva caratterizzato durante la partita, e si era sciolto in sorrisi allegri e modi affabili.

 

“Che fai nella vita, Louis?”

“Ho un negozio di musica. Sai, vinili, dischi, qualche strumento...”

Scoprì che anche Harry amava la musica, che sapeva suonare il piano e la chitarra e che quando non giocava abiliardo, cantava.

Si fece promettere che sarebbe passato a vedere il suo posto sicuro, tappezzato di poster di band e copertine di dischi ingiallite dal tempo.

 

Il riccio frequentava l’università di ingegneria e Louis provò con tutto il cuore a cercare di capire i dettagli del suo indirizzo, ma la lingua rossa che a intermittenza scivolava sul suo labbro inferiore per inumidirlo, rese ancora più incomprensibili i paroloni tecnici che uscivano dalla sua bocca.

Scoprì che era nato lontano migliaia di chilometri da lì e che, nonostante amasse New York, a volte gli mancavano la tranquillità e il cielo plumbeo che caratterizzavano la quotidianità britannica.

Questa volta fu Harry che ebbro di risate e di alcool chiese a Louis di andare a visitare prima o poi nella vita, il suo amato Cheshire.

 

Ordinarono altri Gin Tonic.

Louis era incerto sul numero di bicchieri che il barista gli aveva servito, ma gli piaceva quella sensazione di gioia appagata e leggerezza che si presentava quando alzava un po’ il gomito, ma non abbastanza da essere totalmente ubriaco.

Scoprì che anche il riccio era single e Louis pensò fosse un bene perché, proprio mentre lo diceva, si sfilò un elastico per capelli dal polso e si legò i lunghi boccoli in una crocchia disordinata lasciando libere le spalle atletiche.

Bastò un occhiata alla pelle pallida del suo collo e il liscio poté sentire chiaramente il suo cuore fermarsi per qualche attimo e un ondata di caldo invadergli il corpo.

 

“Devo andare al bagno.”

“Ti accompagno, devo usarlo anche io.”

Harry lo precedette facendogli strada e quando la porta si chiuse alle loro spalle la musica si attenuò, si separarono nei due cubicoli e si trovarono pochi minuti più tardi a sorridersi nei riflessi dello specchio davanti ai lavandini, con le mani insaponate e le gote rosse per l’alcool ingerito.

 

Fu Louis che afferrò il polso di Harry per impedirgli di uscire dal bagno e lo guidò all’indietro fino a che le sue spalle non collisero con il muro di piastrelle azzurre lucide.

Si avvicinò lentamente e senza chiudere gli occhi, alla ricerca di un segnale da parte del compagno, ma nell’esatto momento in cui entrambi sembrarono capire cosa stava per succedere avanzando con i volti l’uno verso l’altro, la maniglia della porta si abbassò e furono costretti a separarsi velocemente, interrompendo il momento di intimità che si stava per creare.

 

Uscirono dal bagno ad occhi bassi ed Harry si avvicinò al liscio per sussurrargli in un orecchio di accomodarsi su una delle poltrone in pelle dove lo aveva visto la prima volta. Ordinò un altro giro di drink al bancone e tornò da Louis, per sedersi al suo fianco.

“Ecco a lei, signore.”

Un uomo di mezza età interruppe il loro silenzio confortevole- fatto di sguardi e pensieri poco casti- per consegnar loro da bere.

 

“Perché tutti ti chiamano signore in questo posto? Hai più anni di quelli che dimostri?”

“Perché, uh, ecco...” una risata nervosa scappò dalle sue labbra. “Sono il proprietario.”

“Tu... cosa?” fece Louis portandosi una mano di fronte alla bocca e arrossendo leggermente per l’imbarazzo.

 

“Non ti caccerò per avermi battuto a biliardo e nemmeno per aver tentato di baciarmi, non preoccuparti.” rise Harry portando una mano verso il braccio di Louis e accarezzandolo appena nel tentativo di farlo rilassare.

Non ottenne il risultato sperato, perché sotto quel tocco appena accennato, Louis sembrò bruciare e il rossore sulle sue guance non accennò a scomparire.

 

“Ho ventiquattro anni comunque e non ti ho mentito sui miei studi, questo locale è solo un progetto nato da mio padre.” specificò poi.

Louis si rilassò visibilmente “Pensavo di avere a che fare con un trentenne in carriera.” rise “Mentre invece sono più vecchio di te.”

Si abbandonarono contro gli schienali morbidi delle poltrone.

“Mi aspetti dopo la chiusura?”

 

Era normale sentire calore nel petto per una richiesta come quella?

 

“Ha intenzione di organizzare un appuntamento romantico, signor Styles?”

Harry rise, coprendosi la bocca con una mano.

“No, Louis, il romanticismo non era nei miei piani.”

E il calore nel petto potrebbe essersi propagato ulteriormente, a quella frase.

 

Quando anche l’ultima persona lasciò il locale non ci fu più nessun motivo per trattenersi.

Harry chiuse la porta d’ingresso con due giri di chiave e nel momento in cui si voltò per godersi la compagnia solitaria del maggiore, quest’ultimo  lo tirò contro il proprio petto con un movimento rapido.

 

Lasciò una mano a vagare sul suo fianco, mentre con l’altra cercò di districargli la crocchia disordinata di capelli, per poter infilare liberamente le dita tra i ricci setosi.

Prima ancora che potesse rendersene conto si gettò sulle sue labbra e sentì i muscoli del compagno rilassarsi improvvisamente, lasciando che i loro corpi combaciassero alla perfezione mentre gli cingeva le spalle con le lunghe braccia, rispondendo al bacio con la stessa energia.

 

L’impacciata timidezza che li aveva caratterizzati nel bagno poche ore prima era ormai solo un ricordo che aveva lasciato il posto ad una passione senza inibizioni.

Louis si rese contro di star indietreggiando solo quando il suo fondo schiena colpì qualcosa di duro dietro di sé e Harry lo sollevò di peso reggendolo per i fianchi, senza smettere di stuzzicargli le labbra.

 

Quando venne adagiato sulla superficie, Louis poté sentire sotto le cosce la depressione del piano sulla quale era seduto e capì in pochi secondi di star pomiciando sul tavolo da biliardo sul quale, poche ore prima, si erano scontrati.

 

Nel locale ormai vuoto rimbombavano i loro respiri pesanti che si infrangevano uno sulla pelle dell’altro e le luci spente li nascondevano nel buio della notte mentre i bagliori tenui dei lampioni della strada li rendevano ombre sinuose.

 

Louis sfilò alla cieca la camicia dalla testa di Harry, e ringraziò il cielo per la scelta del riccio di non allacciare buona parte dei bottoni.

Si staccò dal bacio e si concesse qualche minuto per ammirare i tatuaggi che fino a quel momento aveva solo intravisto.

Non colse il significato di nessuno di loro, ma percorse con le punte delle dita quelle linee nere dal torace al pube, come un bambino che imparava a disegnare, mentre sotto i suoi polpastrelli poteva percepire la morbidezza della pelle del riccio e i muscoli contrarsi al suo passaggio.

 

Si sfilò a sua volta la maglia e aggrappandosi alle spalle forti di Harry si sollevò per dare al compagno l’onore di togliergli anche i pantaloni e la biancheria.

Mugugnò contrariato per la sensazione ruvida che il panno verde gli provocò sulle natiche nude, quando si riappoggiò al tavolo.

Harry impiegò un tempo considerevolmente corto per spogliarsi a sua volta e riprese a baciarlo con foga ancora maggiore, preoccupandosi anche di accarezzare con mani bollenti ogni angolo del corpo del maggiore e renderlo argilla morbida sotto i suoi palmi.

 

Quando il minore mosse il bacino in avanti e le loro erezioni tese si scontrarono, tutto divenne confuso e famelico: gli ansimi si fecero gemiti e le mani abbandonarono i fianchi per cercare le intimità e stuzzicarsi.

Louis indietreggiò sdraiandosi supino e fece appoggiare Harry sul suo petto, gli accarezzò la schiena ampia e si aggrappò con forza alle sue spalle quando un dito varcò delicatamente la sua apertura.

Nonostante le ore passate a mangiarsi con gli occhi e la passione che infiammava i loro visceri, fu delicato: ci furono spinte veloci e scoordinate ma senza causare dolore, succhiotti senza denti e braccia che si stringevano per non perdere il contatto.

 

I cuori che battevano sincronizzati, uno contro l’altro, separati solo dalle gabbie toraciche.

 

Gli occhi serrati, le labbra bagnate di saliva.

 

A contenersi, a conoscersi, a scontrarsi, ad abbandonarsi senza permettere di perdersi.

 

“Harry.”

“Lou.”

“Siamo sul tavolo da biliardo e io sto per venire.” disse tutto d’un fiato, mentre lottava contro la tentazione di spingersi contro il sesso del minore e lasciarsi andare.

“Tanto ne ho ordinato uno nuovo.” poi rise, e Louis si chiese dove avesse trovato il fiato. “Non te lo avrei permesso altrimenti.”

 

Strinse l’anello di muscoli che Harry aveva tanto accuratamente allargato facendolo boccheggiare.

“‘Sta zitto e baciami.” ed era pienamente consapevole di apparire come un adolescente in piena crisi ormonale, ma ne valeva la pena.

 

Harry stava pensando di voler restare così per sempre, in un bar deserto e buio, affondato nelle carni dell’uomo più bello di Brooklyn mentre si respiravano addosso, ma in quel momento Louis fu attraversato da un fremito e si svuotò tra i loro corpi gemendo il suo nome.

 

Bastò quello: cinque lettere rese roche dalla mancanza di fiato, e si riversò nel solco pallido delle natiche di Louis.

Si rimise in piedi con i capelli umidi di sudore, l’addome appiccicoso e gli occhi languidi.

 

Aiutò Louis a sollevarsi a sua volta ed era stravolto tanto quanto lo era lui, ma quando i loro sguardi si incrociarono ci lesse tutta la gioia di essersi trovati nel posto giusto al momento giusto.

 

Il maggiore, seduto sull’orlo del tavolo da biliardo, si lasciò cadere in avanti e affondò con il viso nella curva del collo di Harry, si concedettero un momento di pura tenerezza non esattamente idoneo a due semi sconosciuti che avevano appena consumato la loro prima notte di sesso, ma, alla luce della luna, nessuno dei due sembrò curarsene.

 

Ripresero fiato in quell’abbraccio pelle contro pelle, con le mani di Harry che percorrevano la schiena di Louis senza volgarità e le braccia del maggiore aggrappate al suo busto.

“Sai come tornare a casa?” chiese Harry dopo un po’.

In risposta ricevette un alzata di spalle.

 

“Lou?”

“Chiamerò un taxi Harry, non preoccuparti.”
“Non dovrai camminare da solo, vero?”
“Non sono un bambino.”

Non aveva ancora sollevato il volto dalla sua pelle, il profumo intenso della sua colonia mischiato all’odore di sesso era l’unica cosa che gli interessava al momento.

 

“Louis.”

“Dimmi, Harry.”

“Vuoi venire da me per la notte?”

“Faremo sesso di nuovo?”

“Solo se lo vorrai.”

“Dormiremo abbracciati?”
Non c’era nulla di consueto in tutto quello: il proprietario di un locale che otteneva la sua scopata dopo una notte di agonia non doveva invitare la fonte del suo desiderio a passare la notte nel suo letto, e mai e poi mai ‘il desiderio’ avrebbe dovuto accettare, soprattutto non mentre si scambiavano effusioni romantiche.

 

“Sì, dormiremo abbracciati.”

E magari per questa volta sarebbe andata bene comunque, perché loro erano Harry e Louis, prima di essere una scopata e un desiderio.

 

Tornarono a casa sulla macchina di Harry, mentre Louis pensava al fatto che i giovani di New York non avevano un auto, perché era la Grande Mela e non era umanamente concepibile guidare per quelle strade, a meno che non fossi pagato per farlo.

 

Ci misero poco meno di trenta minuti: attraversarono un ponte e il liscio capì che la destinazione finale era Roosevelt Island. 

Piccola, accogliente e tranquilla: un’oasi di pace nella metropoli.

 

“So a cosa stai pensando.” la voce del riccio interruppe i suoi pensieri.

“Non sono il figlio viziato di una famiglia di rango elevato. Non troverai una villa moderna e una vita preconfezionata. Sono solo... Harry.”

Louis rimase in silenzio per svariati secondi e “Stavo pensando che ho voglia di mangiare un gelato, Harry, e di baciarti di nuovo.”

 

Non fu certo che Harry avesse capito ciò che intendeva, ma la risata del riccio bastò per rallegrale l’atmosfera.

“Siamo ad ottobre.”

“E quindi? Il gelato è buono tutto l’anno!”

“Appena arriviamo a casa ci mettiamo a cercare qualche reperto dell’estate nel congelatore.”

 

Parcheggiarono l’auto lungo la strada e presero una piccola ascensore per raggiungere il quinto piano di un palazzo sulla via principale.

L’isola era minuscola.

Louis ci era stato poche volte, ma oltre a qualche prato verde, una chiesetta e una manciata di bar non c’era molto da fare.

 

La cosa più straordinaria di quel luogo era la collocazione: si trovava esattamente in mezzo tra Brooklyn e Manhattan s se ti mettevi sulle punte dell’isola con l’oceano ai tuoi fianchi, potevi ammirare le sponde dei due distretti, collegati dal ponte più famoso del mondo che ti sfilava di fronte.

 

Trovarono una vaschetta mezza vuota di gelato alla vaniglia nei meandri del congelatore di Harry, e Louis parve tornare bambino mentre affondava il cucchiaio nella crema morbida e si guardava intorno nel modesto appartamento del riccio.

Era tutto ordinato e confortevole, con il parquet in legno chiaro e i muri tinti di bianco candido.

Le tende scure alle finestre e i mobili laccati davano un’aria moderna alla casa.

E Harry si ritrovava in ogni angolo di quel rifugio: nei quadri colorati alle pareti, nella coperta soffice e un po’ sbiadita dai lavaggi posata sul bracciolo del divano, nei libri di ricette impilati sul piano cottura, nelle foto che lo ritraevano nei momenti della sua vita.

 

Si spostarono nella camera da letto e Harry frugò nel suo grande armadio alla ricerca di qualcosa da prestare al compagno per la notte, ma quando si voltò nella sua direzione per lanciargli dei vestiti puliti, lo trovò con la bocca piena di gelato e gli occhi incollati alla finestra da cui si scorgeva un angolo di Manhattan.

 

“Rimettiti la giacca, ti faccio vedere una cosa.”

Lo trascinò fuori dalla porta e poi nuovamente in ascensore, salirono per soli due piani prima di fermarsi e proseguire la salita a piedi lungo una scala stretta e ripida.

Varcarono una porta in ferro altrettanto stretta, ma una volta sul tetto Louis riuscì a dimenticare l’odore della polvere che gli aveva invaso le narici.

 

Louis si stancava di tutto: delle persone, dei vecchi oggetti, delle canzoni, dei vestiti, ma mai in tutti quegli anni si era stancato di guardare New York di notte.

Si avvicinò al bordo del tetto e, gettando le gambe oltre il perimetro, si sedette sul cemento freddo per rilassarsi difronte a quella vista.

Si aspettò che Harry lo raggiungesse, che si sedesse accanto a lui e lo baciasse davanti agli occhi di tutta la Grande Mela, ma dopo un paio di minuti Louis era ancora solo

 

Si voltò a controllare e vide Harry in piedi nello stesso punto in cui lo aveva lasciato.

“Scordatelo, non verrò mai lì con te.” scosse forte il capo per evidenziare il concetto.

“Hai paura delle altezze?”

“Sì”

“Vieni, ti tengo io.”

“Lou, non penso di farcela.” fece un piccolo passo in avanti, ma li dividevano ancora un paio di metri.

 

“Non ti succederà nulla. Non ti distrarrò, bacerò o toccherò più del necessario.”

Tese una mano verso di lui, sperando con tutto il cuore l’accettasse.

Harry si avvicinò piano, centimetro dopo centimetro fino a trovarsi inginocchiato con il petto contro la schiena del maggiore.

Non sporse le gambe oltre il bordo, ma si sedette poco più indietro del compagno, ad un passo dal vuoto, mentre abbracciava Louis da dietro e lo teneva stretto al petto.

Louis aspettò che Harry si abituasse, gli accarezzò le mani che lo stringevano, mentre si abbandonava totalmente contro di lui.

 

“Vivi qui da solo?”

Harry mosse il capo in segno affermativo.

“Avevo diciotto anni quando mi sono trasferito qui con la mia famiglia. Mio padre è un imprenditore e aveva trovato un socio in affari. All’epoca l’America era il mio sogno proibito, non sono mai stato così felice di qualcosa come quando mi è stato detto che ci saremmo trasferiti.”

Una pausa, cercò la mano di Louis nel groviglio di arti e incrociò le dita alle sue.

 

“Dopo due anni ho iniziato l’università, il lavoro di papà andava bene, tutto sembrava proseguire nel giusto ordine e noi eravamo felici.

Una notte c’è stato un incidente, come di frequente in questa città, ma quella volta toccò a... mia madre.” sospirò profondamente.

 

“Quando tornò in forze decise di tornare a casa perché New York non faceva per lei e le mancava l’Inghilterra. Io dovevo finire gli studi e avevo creato la mia vita qui, così ci rimasi. Mio padre vendette la sua attività e mi lasciò il bar, dicendo che mi avrebbe fatto comodo e che il suo socio mi avrebbe aiutato con la gestione del locale. Lui e la mamma sono tornati.”

 

Louis se lo strinse addosso un po’ di più: sapeva cosa si provasse ad essere soli in una città come quella.

“Li rivedo a Natale e qualche settimana durante l’estate. A volte vorrei prendere un aereo e tornare da loro, ma ormai la mia casa è qui.”

Louis schioccò un bacio a fior di labbra, anche se gli aveva promesso che non lo avrebbe fatto.

“Tu, invece?”


“Sono venuto qui da solo, sono nato in Minnesota, in uno di quei paesi in cui non c’è niente di niente. Me ne sono andato appena è stato possibile. Ho imparato ad amare la musica perché era l’unica cosa che mi permetteva di viaggiare. Ci ho messo poco a trovare lavoro perché nessuno sano di mente vorrebbe stare chiuso per ore in un negozio polveroso a riordinare dischi, e il proprietario non aveva più l’età per farlo da solo.”

“E poi c’è Niall, che è il mio coinquilino, e che in questo momento penserà che sono morto perché non sono ancora rientrato. Lui voleva qualcuno con cui fare colazione e 

guardare film la sera e io volevo una casa con un affitto economico. Era tutto perfetto!”

 

L’ottimismo del maggiore lo fece sorridere.

“Chi hai lasciato in Minnesota?”
“Mia mamma e troppe sorelle. Ci torno qualche volta per vedere come stanno e se si ricordano ancora di me. Pochi amici e nessun ragazzo perché non sono capace di far durare le relazioni.”

 

Restarono abbracciati per un po’,

contemplando la maestosità degli edifici che poco alla volta si spegnevano davanti a loro, mentre il cuore di Harry aveva smesso di correre per la paura e si era rilassato sotto le carezze di Louis.

 

Si stavano preparando per andare a letto quando Louis si bloccò, la maglietta che gli aveva prestato Harry attorno al collo e le braccia flosce lungo i fianchi.
“Che succede?”
“Come fai ad andare sull’Empire se soffri di vertigini?”

Harry rise mentre alzava le spalle.

“Non ci vado.”
“Cioè, non ci sei mai stato?”
“Una sola volta, anni fa, ma non sono arrivato all’ultimo piano.”
“Ma c’è il parapetto!” Louis sembrava sconvolto dalla notizia.

“Lo so, non ho mai trovato il coraggio di rifarlo.”


Lo stesso silenzio denso di quando erano sul tetto calò tra loro.

“Con me saliresti?”
“Potrei pensarci.” sussurrò, e lo baciò davvero questa volta, con la lingua, i denti, le mani attorno al viso e tutto il resto.

E Louis giurò su Abbey Road che lo avrebbe convinto.

 

Andarono a letto, non fecero sesso e si strinsero in un abbraccio confortevole mentre rilassavano i muscoli per concedersi al sonno, con Harry che nonostante il suo metro e ottanta abbondante di altezza aveva insistito per essere abbracciato da dietro.

Louis stava per chiudere gli occhi quando si sollevò appena dal cuscino e, sussurrando al suo orecchio, gli disse quello che non aveva avuto il coraggio di dirgli prima.

“Quello che volevo dirti in macchina è che mi piace che tu sia ‘solo Harry’, che è abbastanza essere ‘ solo Harry’ e che non vorrei essere con nessun altro che non sia ‘solo Harry’.”

 

Si svegliarono il mattino dopo con i raggi pallidi del sole che illuminavano la stanza, le romanticherie notturne avevano lasciato il posto ad un velo di imbarazzo: non avevano una quotidianità da condividere, una routine di azioni e sguardi che li caratterizzava, ma erano ancora stesi tra le stesse lenzuola mentre i loro polpacci nudi si sfioravano.

 

Harry si alzò per preparare la colazione lasciando un bacio leggero sulla fronte del maggiore.

Louis lo raggiunse poco dopo con i propri vestiti indosso, combattuto a causa della maglietta intrisa del profumo del riccio ma anche determinato ad evitare di fare la figura dell’idiota.

 

Si separarono dopo la colazione e Louis non si trattenne dal baciarlo sulle labbra nell’uscio di casa, sperando di poterlo vedere la sera stessa e quelle a venire, mentre non lo sfiorava nemmeno il pensiero di potersi stancare di lui.

 

Dovette aspettare quattro giorni.

Stava catalogando una pila infinita di album quando sentì lo scampanellio della porta dell’Antiques Records che annunciava l’ingresso di qualcuno. 

Sollevò lo sguardo e lo trovò di fronte a lui, con un sorriso dolce e un beanie a coprirgli i ricci.

 

“Harry.”

“Buongiorno anche a te!”

“Ti sei davvero ricordato dove lavoro?” lo stupore non lasciò il suo sguardo mentre usciva da dietro il bancone e si avvicinava al compagno.

“Me lo sono segnato.” rise mentre sollevava la mano che stringeva il cellulare in mezzo a loro.

Louis pensò di baciarlo in quel preciso istante, in mezzo a tutta quell’arte.

 

Nei giorni precedenti aveva rischiato di fondersi il cervello a furia di ripensare ai momenti trascorsi insieme, e sicuramente l’aveva fuso a Niall con l’irrefrenabile necessità di parlare di lui.

Ma in quel momento Harry decise di dargli le spalle per analizzare il piccolo negozio stracolmo di musica.

  

Louis tornò al suo lavoro, con solo un briciolo di delusione nel cuore, ma si bloccò nuovamente pochi minuti più tardi quando le prime note di una canzone iniziarono a diffondersi nell’aria.

Il minore aveva imbracciato una delle chitarre classiche esposte in vetrina e, posato contro uno degli scaffali, aveva iniziato a strimpellare in bella vista davanti a lui l’ultimo vinile che si era trovato sotto gli occhi.

 

Il liscio per poco non rise per la coincidenza che tra tutti, avesse scelto proprio il suo preferito.

Era cresciuto con i Beatles e anche grazie alle quattro figure immobili sull’attraversamento pedonale più famoso al mondo si era appassionato alla musica.

Rideva ancora all’immagine di se stesso, un giovane cresciuto a cavallo tra gli anni novanta e i duemila, che nel buio della sua cameretta nel Minnesota riportava in vita i Beatles.

 

Prese la sua chitarra, quella che teneva sempre dietro il bancone della cassa, e se la mise al collo con un sorriso che gli tirava le guance.

Bastò uno sguardo d’intesa e ricominciarono a suonare, sincronizzati, mentre le note dolci di ‘Here comes the sun’ riempivano il silenzio del negozio.

 

Il resto venne quasi naturale, Harry iniziò a cantare con la sua voce profonda e melodiosa e Louis lo seguì poco dopo, preoccupato di non essere all’altezza del compagno ma con un sorriso malcelato dietro ogni parola.

 

...Here comes the sun
Here comes the sun, and I say
It's all right
It's all right

 

“Non mi avevi detto sapessi cantare, Lou.”

“Infatti non lo so fare.” fu felice di sentire ancora quel soprannome sulle sue labbra.

“Per me sei bravo.” rispose mentre risistemava la chitarra in vetrina e si avvicinava alla cassa con il disco in mano.

 

“Ti prego non dirmi che non lo hai in casa.”

Harry rise. “È legale non averlo?”
“Perché ne compri uno uguale, allora?”

“Perché questo è il nostro.”

 

Alla fine ottenne anche il bacio tanto bramato e quando respirò a contatto con le labbra del riccio, si sentì nuovamente bene.

La porta suonò quando Harry varcò la soglia e, guardando il pacchetto che teneva tra le mani, Louis pensò che quel disco gli aveva portato davvero fortuna nella vita.

 

Aveva una tecnica infallibile, Louis, quando si trattava di flirtare con dei ragazzi: non lo faceva e aspettava che loro facessero la prima mossa.

Decise di tentare la sorte il giorno in cui Harry si presentò in negozio.

 

Il solito vecchio trucco del numero di telefono scritto sullo scontrino- che aveva visto usare l’ultima volta negli anni novanta- si era rivelato ancora una mossa vincente, perché Harry gli scrisse nell’esatto momento in cui entrò in casa(Louis non aveva assolutamente misurato il tempo che ci avrebbe impiegato) e gli chiese addirittura di aspettarlo il mattino seguente nel bar dall’altro lato della strada, per una colazione assieme.

 

Fu delizioso il cornetto al cioccolato che scelse Louis e lo fu ancora di più il miscuglio con la crema del cornetto di Harry, che assaggiò direttamente dall’angolo della sua bocca.

Era strano, stare seduti difronte in un tavolino anonimo di un bar newyorkese e scambiarsi effusioni come due fidanzati, dopo solo una settimana dal loro primo incontro.

 

Harry si chiedeva in continuazione se non fosse troppo, ma ogni volta che vedeva Louis perso nei suoi pensieri, o con gli occhi brillanti per qualcosa che aveva visto o quando lo scopriva a guardarlo e si sorridevano dolcemente, in quei momenti pensava solamente che ne valesse la pena. 

In quei momenti pensava che avrebbe accettato anche una fine rovinosa, purché non avesse sprecato nemmeno un momento del tempo che gli era stato concesso insieme.

 

La quarta volta che si videro avvenne nello stesso luogo in cui si erano conosciuti, appena due settimane più tardi.

Louis aveva ritardato fino all’ultimo la partenza, un po’ perché non voleva fare la scelta sbagliata e presentarsi nella tana dei lupi senza essere il benvenuto, un po’ perché non avrebbe saputo resistere tutta la sera senza baciare Harry difronte a tutti i clienti.

 

Ci mise più tempo del previsto a trovare Montague Road- lui e la sua cattiva abitudine di camminare senza prestare attenzione a dove stava andando!- e, quando spinse la porta in vetro del locale, la lancetta dei minuti sull’orologio aveva già compiuto un giro e mezzo dopo la mezzanotte.

 

Si sedette al bancone del bar e ordinò da bere.

Molti dei clienti dovevano essersene già andati e non fu difficile adocchiare una camicia rossa eccentrica che svolazzava nell’angolo destro del locale, là dove lo aveva visto per la prima volta.

Non aveva ancora finito il suo drink quando sullo sgabello accanto al suo apparve il riccio.

 

“Pensavo non arrivassi più.”

“Perché, mi stava aspettando signor Styles?”
Harry si limitò ad accarezzargli il ginocchio con due dita, mentre lo guardava negli occhi e Louis desiderò che tutte le persone nel locale sparissero improvvisamente per lasciare spazio solo a loro due.

“Ho vinto a biliardo.” disse il riccio dopo un po’. “Due giorni fa è arrivato il nuovo tavolo, ed è una meraviglia!”

 

A Louis quasi si illuminarono gli occhi.

“E quello vecchio lo hai messo in camera al posto del letto?”

“È in magazzino, pensavo di fartelo recapitare non appena avessi scoperto l’indirizzo di casa tua.”

 

Dopo qualche minuto i due furono raggiunti da un ragazzo di qualche anno più grande di loro.

“Harry ti stiamo aspettando, vieni o no?” quando spostò lo sguardo sul viso di Louis parve riconoscerlo “Oh ehi, ciao, unica persona che abbia mai vinto contro Harry a biliardo!”

 

Louis gli sorrise. “Louis, piacere.”

“Nick, piacere mio, Harry ti avrà parlato di me!”

Louis lo guardò, incerto se fosse ironico o meno, ma ben convinto a non voler ripetere la figuraccia che aveva fatto con Harry.

“Sei il solito stronzo!” disse rivolto al riccio “Sono il suo socio in affari.”

 

Era piacevole Nick, con il suo accento marcato e quella risata rumorosa e inconfondibile era quel tipo di persona innamorata della vita e socievole anche con i muri.

Era piacevole Nick, ma lo era molto di più baciare Harry e farsi baciare mentre il pensiero dell’interessante compagnia notturna veniva accantonato in un angolo del cervello di Louis quando fu libero di impossessarsi nuovamente delle labbra del minore.

 

Niente tavolo da biliardo, non quello nuovo.

Niente poltrone in pelle, si macchiano.

Niente bancone del bar, troppi bicchieri di vetro.

E decisamente niente pavimento, in nome della schiena di Louis.

 

Restò ancora una volta l’appartamento di Harry, maledetto Niall e alla sua abitudine di non uscire di casa il giovedì sera.

Ci misero un tempo record per arrivare a Roosevelt Island e Louis non si lasciò sfuggire l’opportunità di stuzzicare il riccio con una mano calda nell’interno coscia, durante il viaggio in auto.

Si concesse un solo istante per pensare al gelato freddo e all’abbraccio caldo della settimana passata, ma Harry aveva consumato tutta la sua pazienza durante il tragitto dal bar, e non avrebbe accettato di attendere oltre.

 

Aveva tutto un altro sapore il letto ampio del riccio ora che dormire era l’ultimo dei loro pensieri. Le coperte erano diventate solo un ingombro e così i vestiti, che si impegnarono di far sparire al più presto.

Louis non si era reso conto di quando gli erano mancate le mani di Harry sul corpo fino a quando non erano tornate ad accarezzarlo e l’attesa di ciò che stava per accadere gli aveva fatto mancare il respiro.

Stava gemendo sotto di lui, con la testa gettata all’indietro e i capelli sciolti del riccio che gli solleticavano il viso, quando qualcosa sulla parete attirò la sua attenzione.

 

Abbey Road.

Non uno qualunque, ma il loro Abbey Road, con ancora l’etichetta del negozio attaccata, li guardava fieramente con uno spago che lo trapassava da lato a lato con cui Harry lo aveva attaccato al muro.

“Hai appeso l’album.”

“Si intonava con l’arredamento.”

Non gli fu dato di replicare, perché il riccio aumentò l’intensità delle spinte, e lui divenne un ammasso indistinto di ansimi e brividi di piacere.

 

Lo fecero un’altra volta quella notte e poi dormirono abbracciati, perché quello era un piacere di cui non si sarebbero privati.

 

Louis era rientrato dal lavoro sfinito, si era fatto una doccia e aveva chiesto a Niall di ordinare la cena, perché il suo stomaco brontolava da ore e meritava di mettere sotto ai denti qualcosa di caldo e sostanzioso.

Si prospettava una serata rilassante: lui, il suo coinquilino, un paio di birre e una serie tv su Netflix.

 

Aveva appena fatto il suo ingresso in cucina, con i capelli ancora bagnati e il profumo intenso del bagnoschiuma sulla pelle, quando il campanello aveva suonato.

Il fattorino delle pizze era l’unico uomo al mondo che sapeva portare gioia anche nei giorni più stressanti, pensò Louis girando la chiave nella porta con i soldi già in mano.

Soldi che per poco non sfuggirono alla sua presa quando invece che l’uomo delle pizze si trovò davanti Harry.

“Non pensavo facessi entrare tutti in casa tua.”

“Tu. Le pizze- uh, ma...” Harry rise mentre Louis lo guardava tra l’incredulo e l’imbarazzato.

“Devo andare a comprarti la cena?”

“No... entra.” gli indicò la porta mentre si spostava per farlo passare e proprio in quel momento un’auto si fermò davanti a casa, perciò Louis si precipitò a ritirare il cibo tanto atteso.

 

Quando rientrò in casa si chiese quante ore avesse impiegato per pagare il giovane fattorino: Harry e Niall erano già seduti alle due estremità del divano, ognuno con una birra tra le mani e la tv accesa a basso volume mentre ridevano di qualcosa.

Erano passati poco più di tre minuti e sembravano già a proprio agio insieme.

 

Louis avanzò nel soggiorno e posò le pizze al centro del tavolino di fronte al divano, già ricoperto di riviste, mazzi di chiavi e oggetti di ogni tipo.

Prese posto sul divano tra i due ragazzi e alzò il volume della tv per godersi la cena e non essere costretto ad inventarsi argomenti di conversazione con la bocca piena e rischiare di flirtare accanto a Niall.

 

Non servì a nulla- per inciso- perché a metà episodio Harry aveva posato il mento sulla spalla di Louis, facendo in modo che il suo respiro si infrangesse proprio sulla sua pelle scoperta del collo e, prima dell’inizio del secondo, gli aveva circondato il busto con le braccia e aveva preso ad accarezzargli il ventre da sotto la felpa calda che indossava.

Niall da buon amico qual era aveva fatto finta di niente senza staccare gli occhi dal televisore, per poi fingere uno sbadiglio e dichiarare il suo ritiro in camera da letto.

 

Louis aveva riso sguaiatamente scusandosi con lui e promettendo che quel malcapitato non si sarebbe più ripresentato a casa loro senza preavviso, ma l’amico aveva sorriso e affermato che gli piaceva e che poteva tornare ogni volta che avesse voluto.

 

Nessuno si preoccupò di dar voce a questo pensiero, ma tutti avevano capito che quello di Niall altro non era che un gesto di sconsiderato affetto.

Harry rimase per la notte, e sarebbe stato moralmente scorretto non testare la resistenza del letto del maggiore.

Venne spontaneo invertirsi le posizioni e fu quasi più un atto di fiducia che di sperimentazione, ma quando ancora vestiti Louis infilò una mano dentro i pantaloni di Harry e poi nella biancheria, il riccio non oppose resistenza e lasciò che le dita fini del compagno percorressero il solco delle sue natiche e il fascio di muscoli anali.

 

Fu come una boccata di aria fresca, un temporale estivo, una bevanda ghiacciata nei pomeriggi d’agosto.

Ricominciarono da dove avevano lasciato la volta precedente: affondati uno nell’altro, mossi dal desiderio di avere di più, con i visi a pochi centimetri di distanza e le braccia incastrate per non allontanarsi più di quanto non fosse strettamente necessario.

 

Bastava quello, stare carne contro carne, e carne dentro carne, fiati mischiati e labbra umide.

Bastava che, finito tutto. Harry si voltasse e gli chiedesse di abbracciarlo da dietro.

Bastava che Louis gli sussurrasse melodie di canzoni per farlo addormentare.

Solo quello,

tutto quello,

era sufficiente perché fossero felici.

 

E poi arrivò anche il grande giorno, quello in cui Louis rese onore al loro album, e con gli auricolari dello smartphone in tasca e una sciarpa di lana al collo, uscì di casa per portare Harry in cima al mondo.

 

Che poi non era nemmeno la cima del mondo, ma era abbastanza sicuro che più in alto di così, il riccio, non sarebbe salito.

Andò a prenderlo a casa dopo cena, perché Louis le cose le faceva per bene, e se quella fosse stata la sola occasione per trascinarlo fino lì, non l’avrebbe sprecata nelle ore di sole.

 

Harry capì cosa stava per succedere ancora prima di salire in metro e non si scompose, ma afferrò con forza la mano di Louis e la strinse tra le proprie.

“Se muoio me la pagherai.”

Ci misero poco più di mezz’ora, mischiati nella folla di persone che si godevano quella notte limpida in centro, tra migliaia di luci e volti sconosciuti.

Percorsero la 5th Avenue, senza che Harry gli lasciasse la mano, uno accanto all’altro e con i passi sincronizzati, finché non arrivarono ai piedi del terzo edificio più alto degli Stati Uniti.

 

“Non posso farcela.”

Visto da lì sotto, anche a Louis metteva soggezione: sembrava spezzare il cielo e attraversarlo.

“Io dico di sì.”

“Lou, mi verrà un attacco di cuore, non voglio.”


“Non dobbiamo per forza arrivare fino in cima, possiamo guardarlo da dentro la stanza dell’osservatorio.”

Uno sguardo combattuto attraversò il viso di Harry, ed era come se già sentisse la stretta allo stomaco, l’aria mancargli nei polmoni, nonostante il suo cervello gli ripetesse in continuazione che non sarebbe successo nulla, che nessuno era mai precipitato di sotto a causa di un incidente.

 

“Prometto di baciarti davanti a tutta New York quando saremo là.” il maggiore indicò con un dito un punto nel cielo. “Chiunque alzerà gli occhi in quel momento potrà vederci.”

 

Lo convinse senza sapere nemmeno lui come, ma alla fine si trovarono nell’atrio del piano terra. Aveva già acquistato i biglietti quindi fu sufficiente mettersi in coda per la salita.

Louis estrasse le cuffie del telefono dalla tasca, le collegò al suo cellulare e le porse al minore.

“Che fai?”

“Mettile e basta.”

Cercò nella raccolta di musica e nel momento esatto in cui l’ascensore si azionò, fece partire “Here comes the sun”.

 

Era una stronzata degna di un adolescente alla prima cotta, ma aveva pensato- o sperato- che Harry si sarebbe concentrato sulla canzone, piuttosto che sui numeri dei piani che aumentavano a velocità impressionate.

In poco tempo furono all’ottantaseiesimo piano, la prima fermata, un ampio terrazzo all’aperto che permetteva ai visitatori di girare attorno all’edificio e ammirare la vista dall’esterno, ma dalle vetrate già si scorgeva il panorama mozzafiato di una New York senza contorni e illuminata solo dalle luci artificiali.

 

“Vuoi restare qui?” chiese il liscio guardando il compagno negli occhi.

“No, possiamo uscire se ti va, ma non voglio avvicinarmi alle ringhiere.”

Il terrazzo era ampio almeno un paio di metri e la vista senza i vetri di fronte fece provare a Louis un senso di profonda libertà.

 

Rimase insieme ad Harry, godendo dello spettacolo e reprimendo l’impulso di incollarsi alla balaustra e infilare il viso nel vuoto, mentre il vento e il freddo di fine ottobre gli facevano tremare le mani e lacrimare gli occhi.

Si voltò verso il riccio, nei suoi occhi brillanti si rispecchiavano i bagliori della città mentre la luce del pinnacolo sopra di loro li colorava di un acceso violetto

 

Non si sarebbe mai abituato alla bellezza disarmante di Harry: i lineamenti dolci, le labbra carnose e così diverse dalle sue, il fisico slanciato, i capelli soffici e poi tutto quello che ora era celato dai vestiti pesanti, ossia le curve sinuose dei suoi fianchi, il sedere tondo e sodo, le gambe muscolose.

 

Chissà cosa doveva aver fatto nella vita precedente per meritarsi tanto.

 

Fu soddisfatto di se stesso, Louis, per essere riuscito nonostante tutto a portarlo lì.

Era pienamente consapevole del fatto che non aveva sconfitto la sua paura, ma quello di Harry fu il più grande gesto di fiducia che avesse mai visto e, come promesso, per ringraziarlo di averlo accompagnato il quella scalata in cima al mondo lo baciò, infilando una mano nei suoi ricci e stringendoselo addosso.

“Grazie di avermi permesso di portarti qui.”


Non ci furono parole adatte, ma erano insieme, all’ottantaseiesimo piano di uno degli edifici più amati nel mondo, in una notte senza nuvole, le labbra ancora umide di baci, e le parole non servirono.

 

Quando Louis si svegliò quella mattina, uno spesso manto di neve aveva imbiancato i tetti delle case e un silenzio ovattato aveva coperto anche i rumori incessanti della metropoli.

Era nel suo letto, troppo stretto perché due persone potessero essere comode, ma il giusto affinché ogni parte del loro corpo fosse a contatto.

 

Harry dormiva ancora al suo fianco perché ormai si era abituato a svegliarsi con le sue braccia attorno ai fianchi, o ai suoi ricci sparsi sul cuscino, ai buongiorno contro le orecchie e al profumo invitante delle colazioni che preparava nei giorni in cui non andavano di fretta.

 

La loro era diventata una relazione vera e propria solo da poco.

Stavano passeggiando per Central Park in una sera qualsiasi, in quell’oasi di verde che tutto il mondo gli invidiava.

Harry lo aveva guardato negli occhi, con le mani che tremavano un po’ per il freddo e un po’ per la tensione e glielo aveva chiesto.

L’altro aveva accettato, ovviamente, con un sorriso che raggiungeva gli occhi blu e un bacio che sapeva di freddo e di amore.

 

“Lo so che sono un casino e che cambio idea continuamente, ma non lasciare che mi stanchi di te.” gli aveva sussurrato, fronte contro fronte. “Non voglio perderti.”

e poteva sembrare egoistico, infantile, pessimista, ma Harry aveva accettato quella sfida due mesi prima, alzandosi dalla sua poltrona in pelle e raggiungendolo per la partita a biliardo che avrebbe cambiato le loro vite, e non si sarebbe tirato indietro.

 

Allora lo aveva baciato di nuovo, per suggellare quella promessa, perché di una sola cosa era certo, nemmeno lui avrebbe voluto perderlo.

 

Il telefono sul comodino emise una vibrazione prolungata e Louis o afferrò in fretta prima che il rumore potesse svegliare il compagno.

“Ciao mamma. Anche tu mi manchi tanto. È una cosa meravigliosa! No mamma, non sono arrabbiato. No, te lo giuro. Sì, mi organizzo appena posso e ti faccio sapere. A presto, ti voglio bene.”

 

Quando aveva interrotto la chiamata si era reso conto che il riccio al suo fianco aveva aperto gli occhi e lo guardava a metà tra l’incuriosito e l’assonnato, così Louis si era abbassato per lasciargli un bacio sulla punta del naso. “Buongiorno, non volevo svegliarti.”

 

“Buongiorno, devi mancare davvero molto a tua mamma perché ti chiami la domenica mattina.”

Le loro risate si mischiarono.

“Mi ha detto che lei e le mie sorelle non saranno a casa per Natale, perché una zia in Colorado le ha invitate a passare le feste da lei, o qualcosa del genere.”

 

“Non andrai con loro?”

“Vuoi scherzare? Cosa vado a fare per dieci giorni in Colorado in casa di una signora così vecchia che deve aver conosciuto anche Thomas Jefferson? Andrò a trovarle per qualche giorno prima della partenza.”

“E dove passerai il Natale?”

Louis fece un gesto con le mani indicando l’ambiente in cui si trovavano. “New York non è niente male durante il Natale.”

 

“Lou?” Harry si mise in posizione seduta, con la schiena appoggiata contro la testiera del letto e le mani impegnate a lisciare le pieghe del piumone sulle sue gambe.

“Che succede?”

“So che ci conosciamo solo da pochi mesi, e che non sappiamo ancora come andranno le cose, quindi non voglio... insomma, non voglio affrettare le cose e organizzare una vacanza romantica o cose di questo genere.”

“Harry.”

“Vuoi venire in Inghilterra con me?”

 

Era stata la più bella delle casualità e, nonostante Louis amasse follemente la sua famiglia e l’atmosfera natalizia che accompagnava il suo rientro a casa, quel giorno fu felice di salire su un aereo e accanto ad Harry, osservare l’America farsi sempre più piccola sotto di loro e l’Inghilterra farsi sempre più vicina.

Non era mai stato in quella piccola isola nel nord Europa, non era mai stato in nessun luogo che non fosse l’America ad essere sinceri, era un mondo totalmente diverso, era tutto più piccolo, più personale, più silenzioso.

 

Perfino nel suo paese in Minnesota c’era un supermarket grande quanto due campi da calcio pieno di ogni tipo di cibo o bevanda immaginabile, ma non lì, non nel paese di Harry.

Lì c’erano solo negozi discreti, strade a due corsie e case a due piani.

 

Era strano e straordinariamente bello.

Si presentò ai genitori di Harry, nonostante l’imbarazzo iniziale e le preghiere che aveva rivolto al riccio di non farlo alloggiare nella sua casa natale.

Li guardò abbracciare il figlio e farsi raccontare di come andassero le cose dall’altra parte del globo, seduti difronte ad una tazza di tè inglese, di quelle che Louis fino a quel momento aveva visto solo nei film.

 

Prese posto nella camera di Harry e “Mamma, so che la camera per gli ospiti è fatta per gli ospiti, ma o vado io in quella o viene Louis nella mia.”

 

Il primo posto in cui lo portò, fu il suo luogo preferito.

Tecnicamente non c’era nulla di straordinario, era solo una panchina solitaria su una strada di terra battuta difronte ad un campo incolto e umido della pioggia che gli aveva dato tregua ma che presto sarebbe tornata.

 

Forse furono gli occhi luminosi di Harry a renderla speciale, o forse il fatto che Louis non avesse mai visto un luogo simile ai verdeggianti campi del Cheshire- che potrebbero sembrare uguali ai prati che si susseguivano per chilometri in America, ma che erano totalmente diversi-.

Si sedettero sulla panchina, uno di fianco all’altro, con le gambe che si sfioravano e rimasero in silenzio per lunghi minuti, immersi nei loro pensieri e in quella calma che sembrava tangibile.

 

“Non esiste nessuna cosa al mondo che mi rilassi come sedermi su questa panchina a pensare.”

“Inizio a capire perché ti mancasse tanto questo posto.”

Aspettarono il tramonto, che fu solamente un insieme degli ultimi raggi di un pallido sole che riusciva a penetrare la coltre di nuvole grigie.

 

Se lo dedicarono in silenzio, tra un bacio e l’altro, con le mani infilate sotto le magliette per combattere il freddo gelido di fine dicembre.

La sera Harry lo trascinò in un pub, perché era il ventitré dicembre e a mezzanotte avrebbe compiuto gli anni e, secondo il riccio, la legge inglese vietava di restare sobri la notte del proprio compleanno.

 

Il locale era completamente diverso da quello che gestiva il più piccolo in America: il bancone del bar era in legno lavorato e tutti gli interni erano arredati in un trasandato stile vintage che fece sentire Louis un gentiluomo nell’Inghilterra dell’Ottocento.

 

Pochi secondi dopo il loro ingresso Harry era stato assaltato da due corpi maschili che lo ricoprirono di smancerie e domande: Zayn e Liam, due compagni dei tempi della scuola, gli unici con i quali avesse mantenuto un contatto, e a Louis bastarono pochi minuti per leggere nei loro occhi tutto l’affetto che li legava.

 

Nella sala del vecchio pub, in un angolo sgombro di sedute, c’era un tavolo da biliardo con le palle sparpagliate sulla superficie e il telo verde un po’ logoro.

Ad Harry venne da ridere per le condizioni che il suo tavolo da biliardo aveva assunto dopo la prima notte di fuoco con Louis, e con uno sguardo capì che il compagno aveva pensato la stessa cosa.

 

“Ti va una partita? Giusto per appurare che sei ancora più forte di me.”

“Accetto, ma se vinco dovrai offrirmi da bere.”

   
 
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