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Autore: Ryo13    21/02/2019    9 recensioni
La vita di Kaylee Turner subisce un brusco cambiamento: costretta a contare sulle sue sole forze per tirarsi fuori dai guai in cui si ritrova a causa dell'ignobile patrigno, forgia il proprio carattere per diventare una regina oscura, ed ottenere una posizione dalla quale può auspicare di gestire la propria esistenza. Ma quando si stringe un patto con le forze del male non tutto va come si desidera: ci potranno essere cose che non valgono il prezzo di un'anima.
❈❈❈Seconda classificata e vincitrice del premio speciale "Miglior dialogo" al Contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La regina nera'
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Capitolo I

♛♚♛
 

Kaylee Turner si trovava a bordo di una sgangherata Ford Taunus del ‘59 e stava percorrendo Michigan Ave lasciandosi alle spalle i quartieri più poveri della città. 

Non le capitava spesso di trovarsi da quelle parti: i tetti bassi delle case e degli sporadici negozi e la scarsa vegetazione avevano ceduto il passo a strade illuminate da grandi insegne, grattacieli e parchi. Aveva appena superato il Meridian, di cui ne aveva ammirato l’imponente struttura, e si trovava a Woodward Ave, ma non aveva ancora capito dove fosse diretta. Sapeva solo che le sudavano i palmi delle mani e che avvertiva indubbiamente una strana tensione nell’abitacolo.

Si girò a sbirciare con ansia sempre maggiore l’uomo che era alla guida: Ian Parker era massiccio, dai capelli a spazzola grigi e gli occhi spenti cerchiati da pesanti occhiaie. Aveva lasciato crescere la barba da qualche giorno e questo, unito ai gesti un po’ nervosi delle dita sul volante e agli sbuffi che regolarmente mandava fuori, indicava che non era di umore raggiante.

Kaylee tornò a guardare fuori dal finestrino sperando con tutta se stessa che quella sera non si verificasse uno dei soliti incidenti con qualcuno dei suoi soci in affari. Ian infatti era uno spacciatore: era dotato di sufficiente intelligenza da gestire modestamente il traffico illegale di un certo numero di quartieri, ma non di abbastanza astuzia da tenersi lontano dalla merce che vendeva.

Non era mai riuscito a mantenere un vero lavoro per più di qualche settimana e tirava avanti scucendo soldi allo Stato con la disoccupazione e sbarcando il lunario coi traffici illegali.

Blaterava sempre di un colpo che un giorno avrebbe fatto per allargare i commerci e salire di “livello” nella malavita organizzata: abbandonato sulla poltrona logora e circondato da bottiglie di birra vuote, sembrava un grottesco re in mezzo ai suoi sudditi di vetro. Ma quelle erano le serate tranquille. Kaylee aveva paura delle volte frequenti, peraltro in cui era irrimediabilmente strafatto: allora alzava la voce e tendeva a sfogare su di lei tutte le sue frustrazioni, soprattutto quella di doversi occupare di una mocciosa che non era sua e serviva solo a succhiargli soldi dal suo già esiguo patrimonio.

Maya Leah Turner, la madre di Kaylee, era stata una ragazza povera, fuggita di casa in tenera età e finita nelle grinfie di un uomo che l’aveva trattata per tutta la vita come una puttana. Ritrovatasi incinta, aveva ricevuto poche, logore banconote per “eliminare il problema”, ma lei si era rifiutata di sbarazzarsi del suo bambino ed era scappata dal suo magnaccia trovando rifugio in Ian, un uomo non molto migliore. Lui l’aveva presa con sé, nonostante lo sgradito ‘carico’, poichè Maya rappresentava del comodo sesso senza pagamento: il problema si presentò quando ebbe il cattivo gusto di morire per overdose, lasciandolo a sobbarcarsi di una bambina del tutto inutile. O almeno, inutile fino a quel momento: quella sera, infatti, in maniera del tutto inaspettata, si sarebbe servito di lei per avere salva la vita.

Questa volta, Ian aveva fatto il passo più lungo della gamba e si era invischiato con la mafia russa, la quale gli aveva passato un grosso carico di roba e che, in parte, era andata persa in una rapina e non aveva modo di ripagare.

Aveva precedentemente tentato di scendere a patti con questi nuovi illustri soci, ma aveva rimediato solo di essere malmenato e non troppo sottilmente minacciato.

Adesso le brevi proroghe che gli erano state concesse per racimolare il denaro o rintracciare la droga erano definitivamente scadute. Da settimane si trovava sull’orlo di una crisi di nervi e non ne era venuto a capo se non prendendo in considerazione un’ineluttabile fuga. 

Finalmente Ian accostò la Ford di fianco al Crowne Plaza e spense il motore. Il tic delle dita sul volante non fece che intensificarsi fino a quando non sbuffò per l’ennesima volta prima di volgersi finalmente verso Kaylee.

«Ho un compito per te, Key», esordì, schiarendosi la gola.

La ragazza lo fissò sgranando leggermente gli occhi. Non era certo la prima volta che lui le affidava piccole faccende: a dirla tutta, negli ultimi mesi non aveva fatto altro che mandarla in bettole e vicoli isolati a raccogliere della grana, o in locali poco raccomandabili per delle consegne. Ma quello era un quartiere ricco e non immaginava cosa avrebbe dovuto fare né con chi avrebbe avuto a che fare.

Senza aspettare una replica, Ian frugò nella tasca della camicia consunta e tirò fuori una busta gialla. Lisciò la carta per rimediare alle pieghettature e gliela allungò senza guardarla in faccia.

«Lì c’è il Crowne Plaza. Entra, chiedi di Kudryashov. Di’ che ti mando io, che hai qualcosa per lui», le afferrò il polso strattonandolo con più forza del necessario. «Non consegnarla a nessuno se non a lui, hai capito? Kudryashov. Ripetilo!»

«Kudryashov», ripetè Kaylee in un soffio. Abbassò lo sguardo sulla busta che adesso aveva in mano. Strano, non sembrava nulla di pericoloso eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Ian si comportava in maniera insolita: non era così nemmeno quando faceva uso di droga. «Devo fare solo questo? E poi potrò andare?»

«Sì». Guardava fuori dal finestrino, verso l’entrata dell’hotel.

«E tu mi aspetti qua?»

Sollevò la spalla nervosamente e poi rispose: «No, ti sto lasciando perché ho degli altri affari da sbrigare. Ti prendo dopo».

Prima che lei potesse chiedere ulteriori chiarimenti, Ian si spazientì e, allungandosi oltre il suo sedile, aprì lo sportello e la spinse fuori dall’auto. Le disse aspramente di darsi una mossa, perché non aveva tutto il tempo del mondo. Poi sgommò via.

Kaylee lo guardò allontanarsi nel traffico di Washington Boulevard poi fissò il Plaza, dall’altra parte della strada, che appariva maestoso per quella struttura a vetri così alta. Si strinse lo zainetto sulla spalla e un po’ incerta si diresse all’entrata.

Nella hall, trovò due graziose dipendenti e decise che la cosa migliore fosse chiedere aiuto a loro.

«Salve», apostrofò quella più vicina. Indossava una blusa formale da lavoro e teneva i capelli raccolti sulla nuca. «Cerco il signor Kudryashov. Sa dove posso trovarlo?»

Quando sentì pronunciare quel nome, la donna boccheggiò incerta. «Chi devo dire lo sta cercando?»

«Sono qui per conto del signor Ian Parker.»

«Attenda.»

La donna si voltò brevemente verso la sua collega e dovette farle qualche tipo di segnale perché l’altra abbandonasse ciò che stava facendo e si avvicinasse. Parlottarono in modo da non essere udite, poi la seconda sollevò la cornetta e compose un numero.

«Sono Mr.Williams, dalla hall». Breve momento di pausa. «Sì. Una ragazzina chiede di vedere il signor Kudryashov. Dice che viene per conto del signor Ian Parker». Il silenzio da questo lato del telefono si prolungò tanto che Kaylee si convinse che l’avrebbero mandata via senza darle la possibilità di incontrare la persona che cercava. Stava già pensando a cosa potesse dire per giustificare la  sua presenza in quell'edificio o a come avrebbe spiegato che aveva fallito nel suo compito, quando infine la donna chiuse la comunicazione e, tornata a parlarle, le diede il permesso di raggiungere l'appartamento del loro ospite.

«Ti accompagnerà quel signore», spiegò, indicandole un uomo vicino gli ascensori che era chiaramente una guardia del corpo: alto e muscoloso, in giacca e cravatta con tanto di auricolare all’orecchio.

Non appena raggiunse l'omone che le indicava l'entrata dell'ascensore si sentì sollevata, poiché non era stato poi così complicato. Svelta si infilò dentro e lui pigiò il tasto dell'ultimo piano. Quando arrivarono sul pianerottolo, Kaylee notò quanto l'ambiente intorno a lei fosse sfarzoso.

Tutto era arredato con un gusto d'alta classe, nei toni dello zebrato sui pavimenti e tonalità neutre alle pareti. Le luci erano soffuse e rendevano l'aria dorata, dando un ulteriore tocco di splendore.

L'attico sembrava organizzato per contenere una serie di camere a disposizione di un unico ospite, quasi fosse un appartamento. A piantonare la porta di ingresso della suite c'erano altri due uomini vestiti come il primo, dallo sguardo fermo.

La guardia che l'aveva accompagnata scambiò un'occhiata coi colleghi e attese che gli aprissero la porta; poi la guidò all'interno tenendola per una spalla. 

Al centro di uno spazio enorme vide un gruppo di persone. Un uomo biondo era seduto alla scrivania posta davanti a una vetrata, dalla quale si ammirava una parte della città. Un altro più giovane e di carnagione scura era adagiato con apparente noncuranza in una poltrona di fronte, mentre il terzo, che dava le spalle alla porta, stava in piedi a parlare animatamente con l'uomo biondo.

Kaylee non poté fare a meno di notare che aveva una pistola e non si curava di nasconderla. Tutto il nervosismo che aveva avvertito fino a quel momento di colpo si acuì e desiderò voltarsi e scappare, senza fare più ritorno. Inoltre aveva notato che parlavano una lingua straniera: doveva essere russo, giudicò dai pochi film che aveva visto, e dalla loro fisionomia.

“Che cosa ha a che fare Ian con questa gente?”, pensava freneticamente. “Perché ha mandato me e non è venuto di persona?” Ma queste domande non ebbero pronta risposta.

Gli uomini si accorsero del loro arrivo e si voltarono a studiarla. 

Infine, l'uomo alla scrivania fece un cenno alla guardia e questi spinse Kaylee fin davanti al tavolo dove si trovò a essere valutata da due occhi color del ghiaccio che trasmettevano pari calore: erano leggermente infossati in una struttura ossea sopraccigliare prominente. Aveva anche un velo scuro sotto agli occhi, come se non dormisse abbastanza; il naso e il mento erano marcati ma si sposavano bene con le proporzioni del viso affilato. Inoltre, tra la barba corta e curata, Kaylee distinse una fossetta sul mento che denotava un carattere dominante.

Dopo un lungo momento, l’uomo decise di rompere il silenzio.

«Hai detto che sei qui per conto di Ian Parker.»

La voce cavernosa, priva di qualsiasi inflessione che la identificasse immediatamente come straniera, fece increspare la pelle della ragazza che si riscosse con un brivido, ricordando all’improvviso il motivo per cui era lì.

«Sì», rispose, a corto di fiato. Poi inspirò profondamente cercando di darsi un contegno. Non era una ragazzina particolarmente timida, anche se la si sentiva parlare di rado: la vita le aveva presto insegnato quanto fossero inutili le parole in certi frangenti e, al contrario, l’aveva spinta a fare affidamento sulla propria capacità di osservazione, perché non si poteva mai sapere da dove sarebbe sopraggiunto il pericolo.

Era un tipo molto attaccato alla propria esistenza, contrariamente a quanto si potesse credere. Il mondo non l’aveva accolta col più caloroso dei benvenuti e negli anni sembrava, anzi, volersi accanire su di lei, strappandole con regolarità tutto quello che poteva, anche solo lontanamente, darle una parvenza di sicurezza: non aveva mai avuto un padre ed era cresciuta nell’indifferenza dell’uomo che avrebbe dovuto ricoprire quel ruolo.

Successivamente era venuta a mancare sua madre, l’unico essere al mondo che, a modo suo, l’aveva amata veramente; inoltre era sempre stata sballottata da un luogo a un altro perché la disastrosa situazione economica di Ian li teneva costantemente sul lastrico, obbligandoli a traslocare di frequente, ma solo in bettole scadenti di quartieri malfamati.

Neanche a scuola aveva amici: tutti la evitavano perché di un livello sociale troppo basso.

Tutto questo, unito alla tenacia che contraddistingueva il suo carattere, l’aveva resa un’adolescente atipica: schiva e silenziosa, con uno sguardo fin troppo adulto sul piccolo viso smunto.

Aveva anche imparato a essere prudente in qualsiasi situazione, senza mai far trasparire all’esterno quando qualcosa la faceva sentire nervosa o la spaventava.

«Mi ha chiesto di consegnare una cosa al signor Kudryashov.»

«Sono io», rispose l’uomo, stendendo i gomiti sul tavolo. Si poggiò un dito sul naso, come meditando, mentre finse di cercare qualcosa attorno alla ragazza. «Ma non vedo nessuna borsa o valigetta con te. E quello che mi deve dare il signor Parker non può certo entrare in una tasca.»

«Non so cosa le dovesse consegnare», aggiunse in fretta Kaylee, per nulla rassicurata da quelle parole. 

«A me ha dato solo una busta. Eccola.»

Tirò fuori la carta stropicciata allungandola verso di lui.

Il signor Kudryashov la fissò con un sorrisino enigmatico e glaciale prima di raccoglierla e aprirla. Nel frattempo, nessuno degli altri uomini presenti emetteva un fiato.

Si concentrò brevemente su quanto vi era scritto, poi passò il messaggio alla persona alla sua sinistra, l’uomo armato, che lesse a sua volta. 

«Tsk!», sbuffò, lasciando cadere con disprezzo il foglio sul tavolo. «Etot mudak!»

«Calma, Alek.»

D’improvviso il ragazzo seduto sulla poltrona, che fino a quel momento non aveva aperto bocca, cominciò a ridere. «Che vi avevo detto?», gongolò, schioccando la lingua sul palato. «Era chiaro che se la sarebbe data a gambe.»

Kaylee quasi collassò. Qualunque cosa ci fosse scritta nel biglietto, aveva fatto irritare enormemente quella gente. Di colpo, comprese perché quel compito era toccato a lei: Ian aveva combinato un altro dei suoi guai e questa volta l’aveva abbandonata a vedersela con le conseguenze, senza curarsi del fatto che quei tipi avrebbero potuto rivalersi su di lei.

Non disse niente, aspettando di vedere come si sarebbero messe le cose.

«Devo riconoscergli una certa originalità, tuttavia», disse Kudryashov. «Nemmeno tu puoi immaginare cosa ci sia scritto in questo foglio, Sergej.»

Intrigato, il ragazzo lanciò un'occhiata alla carta incriminata. «Si è per caso offerto di ripagare il debito in futuro?»

«Oh, no. Ha trovato, diciamo così, una forma alternativa di pagamento.»

«Non potrebbe arrivare alla somma nemmeno se mettesse in vendita  per strada il suo culo.»

Il signor Kudryashov sorrise beffardo, grattandosi il mento. «Deve averlo pensato anche lui. Infatti ci ha offerto la ragazzina come indennizzo.»

Sergej strabuzzò gli occhi, sinceramente sorpreso. Non erano molte le cose in grado di coglierlo impreparato. Aveva infatti una naturale tendenza a comprendere le motivazioni profonde della gente e a prevedere gli eventi in termini probabilistici.

Rivolse un'ulteriore occhiata alla ragazza, come a rivalutarla da una prospettiva differente.

Lei dal canto suo si sentì pietrificare, mentre il cuore saltava qualche battito e cominciava a pompare irregolarmente. “Non è possibile! Non può essere!”, continuava a pensare. “Nemmeno Ian può essere arrivato a tanto! Non può avermi lasciata in questa situazione”. Ma i secondi si susseguivano e nulla cambiava.

Il signor Kudryashov non sembrava intenzionato a dichiarare che fosse tutto uno scherzo.

Lei non riusciva a credere nemmeno che ci fosse stato un malinteso: questo non era che l'ennesimo colpo basso offertole dalla vita. Come si era mai potuta aspettare qualcosa di meglio? Aveva solo toccato un altro livello di profondità: venduta come un animale, senza la minima considerazione per i suoi diritti. Che avrebbero fatto quegli uomini di lei? Le possibilità erano molteplici, ognuna più raccapricciante dell’altra.

Nonostante la tempesta emotiva che si era scatenata dentro, Kaylee riuscì a mantenere uno sguardo vago, assolutamente impersonale. Sapeva, infatti, che reagire a sproposito non le avrebbe giovato: quello era il momento più cruciale in cui doveva stare attenta a raccogliere tutte le informazioni che avrebbero potuto tornarle utili per la propria salvaguardia.

Paralizzata nel corpo, ma non nella mente, cominciò a catalogare con ordine tutto quanto aveva notato dalla sua entrata nella suite d’albergo fino a quel momento.

Il capogruppo era senza dubbio il signor Kudryashov, altrimenti Ian non le avrebbe detto di consegnargli il messaggio: anche la loro disposizione nella camera, con lui seduto alla scrivania, in posa apparentemente rilassata, da uomo d’affari, indicava che nella piramide di potere stava in cima.

L’uomo armato chiamato Alek, sembrava avere un temperamento nervoso ma sapeva prendere ordini e stare al proprio posto. Era sulla cinquantina, calvo, sul viso aveva una cicatrice che faceva ipotizzare un passato militare e l’aria sfatta di chi aveva ecceduto in più di un vizio.

Non guardò il ragazzo alla sua sinistra, che adesso si era impercettibilmente teso verso di lei, mettendole inquietudine. Era il più giovane fra tutti, sembrava avere almeno venticinque anni ed era scuro, anche se non troppo: capelli e occhi erano neri e la carnagione sembrava quella di una persona abbronzata, anche se, sospettava, quel colorito sarebbe rimasto invariato anche in pieno inverno.

Kudryashov lo aveva appellato col nome di Sergej e sembrava esserci confidenza tra i due: che fossero in qualche modo parenti? La loro fisionomia sembrava escluderlo ma la rilassatezza della posa di Sergej, unita a quella sua certa irriverenza dei modi, indicava tutt’altro.

Ad ogni modo la questione non aveva importanza, ad attirare la sua attenzione fu quanto disse successivamente.

«Potrei averla io?»

Sergej si leccava un labbro come a pregustare la sua preda e allungò finanche una mano a sollevarle una ciocca dei lunghi capelli che portava sempre sciolti e poco curati sulla schiena.

«Credo che mi divertirei con questa bambina, Rafail.»

Il signor Kudryashov non rispose, intento com’era a studiare la reazione di Kaylee. Era sorpreso che ancora non avesse dato di matto o non avesse tentato la fuga, come probabilmente avrebbe fatto chiunque altro al suo posto. Ma lei non reagiva.

O era troppo stupida o troppo spaventata.

Ad ogni modo, era stanco di continuare a perdere tempo.

«Aleksandr, chiama Marc», disse secco. «È arrivato il momento di fare una chiacchierata col nostro simpatico signor Parker.»

♛♚♛

Kaylee era stata lasciata in una delle camere adiacenti del salotto, con la sola compagnia della guardia del corpo di prima. Non sapeva cosa stesse succedendo, ma il fatto che la trattenessero non era un buon segno.

Si era guardata intorno con apparente noncuranza, cercando in realtà qualcosa che potesse tornare utile. Tuttavia l’ambiente non forniva alcun vantaggio: c’erano solo un letto e un bagno in camera, nessun oggetto che potesse usare come arma e nessuna via di fuga, non che avesse sperato diversamente trovandosi in un attico.

Attese un’eternità, poi la porta si aprì. Sergej congedò la guardia, si chiuse la porta alle spalle e venne avanti con un ghigno sul volto.

«Bene, bene… eccoti qui.»

Kaylee che era su una poltrona raddrizzò la schiena. Ma non fece in tempo ad alzarsi che Sergej la bloccò al suo posto. «Dove vorresti andare, malinki

«Non lo sai che adesso appartieni a noi? Parker si credeva furbo, ma non ha ancora capito con chi ha a che fare», disse, con sguardo divertito. «Davvero strana l’idea di cederti a noi in cambio dei soldi che ci deve… non ha proprio idea di quanto poco valga una donna nel mercato della prostituzione, non è così?» 

«Io non lo so.»

«Già, ne sono certo, malinki», ridacchiò. «Ma potresti avere l’occasione di fartene una, che ne dici?» 

Senza preavviso le afferrò una coscia, costringendola ad allargarla. Fece risalire le dita lentamente, solleticandola attraverso i jeans scoloriti.

«Potrei insegnarti qualche trucchetto per guadagnare un sacco di bei soldoni, eh? Saresti una putàna davvero molto carina.»

Kaylee osservava pallida la mano di Sergej sulla sua gamba.

«Potresti anche rivelarti brava, chissà… in tal caso potrei tenerti per un po’, potresti essere la mia šljàhi», sembrava divertito da qualcosa di più del semplice piacere che doveva provare nel bullizzarla. 

Più che per un reale interessamento, continuò a dargli corda per prendere tempo. 

«Cos’è una šljàhi? Un’amante?» 

«Quasi...», mormorò, compiaciuto del suo interesse. «Significa ‘puttana’ ma originariamente si usava per le donne della nobiltà che tenevano un comportamento dissoluto e provocatorio. Anziché darti in pasto a chiunque voglia averti, potresti diventare il mio animaletto da compagnia. Ti offrirei un certo tipo di protezione, almeno.»

La sua mano era arrivata quasi all’inguine. «Che ne diresti?»

Kaylee sollevò il volto e lo fissò dritto negli occhi. «Direi che se mi volessi non potrei fare molto per oppormi».

Si avvicinò all’uomo, con la stessa lentezza che aveva impiegato lui per stuzzicarla. «La vera domanda, Sergej, è che tipo di predatore tu sia.»

Socchiuse le palpebre e piegò impercettibilmente il capo sulla spalla. «Forse… sei uno che caccia le prede più semplici?»

Aveva intenzionalmente usato il suo nome e scelto le parole per sfidarlo, non gli aveva ceduto lo spazio che con prepotenza si era preso, anzi, aveva ricambiato la piccola invasione. 

Sergej perse tutto il divertimento e corrugò la fronte.

«Quanti anni hai? Non sembri averne più di quattordici», chiese, sospettoso.

«Ne ho sedici.»

Fece una smorfia. «Non li dimostri affatto.»

Era seccato per essere stato fuorviato dal suo aspetto. Solitamente non falliva in simili valutazioni.  

«Devi essere malnutrita.»

«Forse. Una šljàhi ha diritto agli alimenti?»

Sergej scoppiò a ridere suo malgrado, lasciandosi andare sul pavimento. Si stropicciò il viso mentre esauriva con un colpo di tosse l’ilarità che quella ragazzina gli aveva suscitato.

Sicuro come la morte, quando era entrato in quella stanza si era aspettato di tutto, sicuramente molte urla e vani tentativi di sfuggirgli, ma non che lo divertisse così tanto.

Era furba, doveva riconoscerglielo. Questo però non fece che aumentare il suo interesse ad averla. In qualche modo, Kaylee si era salvata da un immediato stupro ma aveva anche alzato la posta. E Sergej non era il tipo da accettare quietamente un insulto, seppur sottile, alla sua capacità di conquistare una donna con mezzi più sofisticati della mera violenza. 

«Qual è il tuo nome, ragazzina?»

«Kaylee. Kaylee Turner.»

«Bene, Kaylee...», si mise in ginocchio davanti alla sua poltrona e con un gesto rapido la afferrò per la gola, senza stringere troppo. Quasi una carezza, solo leggermente rude. 

«Un giorno sarai mia.»

♛♚♛

Rafail Kudryashov faceva parte di un’associazione di assassini a pagamento che ultimamente aveva esteso i propri traffici anche al campo della droga.

Il gruppo, capeggiato da alcuni degli uomini più letali al mondo, aveva messo a punto una strategia che avrebbe permesso loro di inserirsi nel nuovo mercato raggiungendo in breve tempo ottimi risultati: incaricati i migliori come delegati, dotati delle giuste capacità carismatiche, erano stati inviati in diverse parti del mondo.

Kudryashov aveva il compito di imporsi e conquistare il traffico illecito di Detroit: erano arrivati da poco meno di due mesi ma era già stata eliminata la concorrenza e si accingevano a conquistare la piccola criminalità da asservire a proprio vantaggio.

Ian Parker aveva sfruttato questa coincidenza di eventi per proporsi in qualità di smerciante e realizzare in tal modo il sogno di assumere una posizione di rilievo all'interno di un’organizzazione di una certa importanza. Tuttavia, abituato com'era a muoversi nel mondo della piccola delinquenza, non aveva intuito quanto i suoi soci fossero in realtà pericolosi.

Non aveva previsto, nel suo brillante piano di fuga, che l'albergo, il quale fungeva da base operativa temporanea, fosse tenuto sotto stretto controllo e che, non appena si fosse presentato con l'inzaccherata Ford, uno degli uomini di Kudryashov si sarebbe messo alle sue calcagna: non aveva fatto in tempo a lasciare il centro città che, al comando di Rafail, era stato fermato e trascinato indietro.

Adesso si trovava al cospetto dell’uomo, il volto già illividito dalle prime percosse, a rispondere alle domande che gli venivano poste. Ansimava e sudava copiosamente, abbandonato sul pavimento in posa patetica.

Aveva detto loro tutto quanto del fallito piano di fuga, perché non sopportava nemmeno il pensiero del dolore che avrebbero potuto infliggergli.

Non sapeva di aver perso molti punti con la propria codardia: i russi potevano ammirare un nemico a terra ma che mostrasse con ardore il proprio orgoglio; quando la morte di qualcuno era già stabilita, mostrare un coraggio fuori dal comune poteva significare guadagnarsi quel rispetto necessario a volgere a proprio favore una situazione disperata; ma Ian Parker mancava di carattere e questo era forse più imperdonabile del tentativo di fregarli.

«Vi prego, vi prego...», mugolava, inghiottendo sangue dalle labbra spaccate, «giuro che vi restituirò tutto! Datemi l’ultima possibilità! Mi serve solo più tempo!»

«Hai già avuto del tempo e guarda come lo hai impiegato», constatava Rafail, allargando le braccia; non poteva proprio farci niente. Era appoggiato alla scrivania con una gamba; aveva anche tolto la giacca ed era rimasto in gilet, informale.

«E poi guarda questo...», mostrò il foglio incastrato tra indice e medio. Strabuzzò gli occhi, sbuffando, come se non potesse credere a ciò che aveva visto.

«Per curiosità, amerikanskiy, ma è questo il vostro modo di saldare un debito? Credi che per noi la pizda di una ragazzina valga qualcosa?»

«P-pensavo solo...»

«Sbagliato!», lo interruppe Rafail, secco. «Tu. non. pensavi».

Abbandonò il biglietto sul tavolo e si fregò il mento. «Altrimenti ti saresti reso conto che l’unico modo per venirne fuori fosse pagarci quanto dovuto. Ma una krysa come te non poteva capire nemmeno una cosa così semplice». Aveva concluso in tono monocorde, quasi dolce e, per questo, più terribile.

«Che cosa mi farete? Che mi farete?!», Ian si agitò, tentando di sfuggire alla presa delle guardie che lo trattenevano senza troppi sforzi. Ricevette un colpo alle costole che gli tolse il respiro e stramazzò sul pavimento.

«Fate venire la ragazza», comandò Rafail.

«Ma...». Sergej, che per tutto il tempo se n’era stato buono a osservare lo spettacolo, si oppose al comando saltando in piedi. «Non c’è bisogno di eliminare anche lei. Possiamo tenerla», suggerì nella loro madrelingua.

Rafail lo guardò con sufficienza, quasi seccato. «Sai che creerebbe solo problemi. Una ragazzina americana pronta a fuggire non appena voltiamo le spalle… e un milione di altre complicazioni che è superfluo elencare.»

«Ce l’ha offerta come un pacco regalo, Raf», disse indicando con un gesto la figura accovacciata di Ian, «e io la voglio.»

Vedendo l’indecisione degli occhi di suo cugino, continuò: «È un tipetto interessante, te l’ho detto. Fuori dal comune, diciamo.... hai visto anche tu quanto è stata coraggiosa finora, no? E poi è più grande di quanto sembri, capirà subito che restare con noi le conviene più che morire; non darà problemi.»

«Dici cose incredibili di quella bambina, ma non la conosci che da meno di un’ora», rispose scettico l’uomo.

«Perché allora non la metti alla prova tu stesso?», lo sfidò. «Dici sempre di non trovare che di rado uomini capaci di tenerti testa; quella ragazzina ha tenuto testa a me e glielo riconosco come merito.»

Rafail lo fissò corrucciato ma si arrese alla sua insistenza. «Andrò a parlarle e valuterò la tua richiesta. Ma non ti prometto niente. Se ho anche solo il sospetto che possa portare guai, la togliamo di mezzo assieme a Parker.»

Fece un cenno alla guardia a cui aveva precedentemente impartito l’ordine: sarebbe entrato da solo.

Era infastidito dal fatto che suo cugino volesse complicargli il lavoro, eppure intrigato dalle lodi tessute per quell’americana: si era accorto di quando il ragazzo si era intrufolato nella stanza intenzionato a violentarla, ma la cosa non gli importava; l’avrebbe lasciato intrattenersi un po’ per ingannare il tempo. Ma quando, col trascorrere dei minuti, non aveva sentito levarsi nemmeno il più lieve dei gemiti né le urla disperate della ragazzina, si era chiesto cosa non andasse. Poi, a sorpresa, lo aveva udito ridere al di là della parete.

Questo, più di tutto, l’aveva lasciato perplesso: oh, non era insolito suscitare l'ilarità di Sergej che, convinto com’era di essere più intelligente della maggior parte della gente, guardava con divertito disprezzo quasi tutti; tuttavia, non aveva sentito la sua risata privata del consueto scherno da non ricordava più quanto tempo.

Aveva promesso di esaminare la ragazza, così dunque avrebbe fatto, soddisfacendo al contempo la propria curiosità.

Quando entrò in camera, si aspettava di trovarla già in lacrime, il viso congestionato dall’ansia, pronta a promettergli mari e monti pur di lasciare quel luogo incolume, proprio come aveva fatto il suo patrigno: era indubbio infatti che avesse seguito tutta la conversazione attraverso il legno della porta. 

Ma non andò così.

Kaylee stava in piedi, rigida, vicino alla vetrata della camera. Teneva le braccia incrociate, strette al corpo, e gli dava le spalle. Si era accorta che qualcuno era venuto per lei e stava cercando di ricomporsi nella solita espressione di neutralità, che nascondesse completamente il suo terrore. Senza ancora voltarsi, domandò: «Siete venuti a prendermi?».

«Esatto», rispose la voce che non avrebbe potuto confondere con altre.

Kaylee a questo punto si mosse lentamente sapendo che, in qualche modo, avrebbe dovuto affrontare il signor Kudryashov: il problema era che non aveva ancora deciso come.

«Ucciderete Ian», soffiò tra le labbra, constatando un fatto inoppugnabile. 

«Anche te», disse con dolcezza Rafail, quasi paterno.

«Lo immaginavo.»

L’uomo sollevò un sopracciglio per quel tono dimesso: sembrava quasi che non le premesse la vita. Le si avvicinò con tranquillità, come se non le avesse appena annunciato l’intenzione di ucciderla. 

«E sei pronta?»

«Avete detto che Ian mi ha ceduto a voi. Perché allora volete sbarazzarvi di me? Non credete che possa tornarvi utile in alcun modo?»

Aveva evitato di rispondere direttamente alla sua domanda, ponendone un’altra.

Rafail cominciò a intuire cosa avesse tanto affascinato il cugino: non erano molte le persone che riuscivano a conservarsi fredde e lucide in simili frangenti; lei sembrava pronta a contrattare anziché pregare, e lui le diede, per la prima volta, la sua piena attenzione.

«Secondo la mia esperienza, se le persone che vengono 'cedute’ in questo tipo di trattativa non conoscono già il giogo della schiavitù, raramente si rendono utili; o comunque lo rendono difficile col loro continuo ribellarsi per riguadagnare la propria libertà. Io ho altro da fare che preoccuparmi di ricavare  un qualche guadagno da te, ragazzina…», lasciò passare qualche secondo di silenzio sospeso, prima di continuare: «Tuttavia, c'è chi si è espresso in tuo favore».

«Sergej», dedusse Kaylee.

Rafail non poté fare a meno di notare l'uso del nome; nonché del tono cupo. «Esatto.»

«Potrei offrirti a lui e farlo contento. Credo che spenderebbe delle energie per renderti inoffensiva… kak znat', magari sarà una soluzione che apprezzerai anche tu», ghignò.

«Ma per essere realmente inoffensiva servirebbe una mia collaborazione, o sbaglio? Se fossi io  stessa a proporre un accordo e vi mantenessi fede, per voi non rappresenterei più una minaccia...»

Rafail sorrise. «Tu per noi non sei una minaccia in nessun caso; al massimo, potresti arrecare fastidio, se non sapessi comportarti», disse, come parlando di un cucciolo non ancora ben addestrato a non sporcare per terra.

Kaylee pensò in fretta a quali fossero le sue alternative: non erano molte, doveva ammettere, ma tra le poche a disposizione, era necessario valutare attentamente quale le avrebbe garantito la posizione più auspicabile.

«Cosa scegli?», incalzò Rafail. «Credi che Sergej possa essere la soluzione?»

A Kaylee non serviva riflettere molto su quella domanda: aveva riconosciuto nel giovane un'attitudine a ottenere inesorabilmente quello che si prefiggeva ma, con altrettanta ineluttabilità, era chiaro come in breve qualsiasi cosa perdeva di interesse ai suoi occhi. La sua grande intelligenza doveva costringerlo a trovare sempre nuovi escamotage al tedio imperante, e Kaylee non poteva rischiare di essere solo un giocattolo da mettere da parte dopo essercisi trastullati per un po’: aveva bisogno di stabilità e di relativo potere per negoziare eventualmente in futuro.

«E lei, signor Kudryashov?»

«Io cosa?»

«Non potrebbe essere lei la migliore alternativa?»

Rafail si sorprese a ridere un'altra volta. «Non vorresti capitare nelle mie mani, devushka.»

«Perché no?», domandò.

L'uomo modificò impercettibilmente il proprio atteggiamento e le elargì uno sguardo vacuo, carico di significato.

«Io compro anime, bambina.»

La parole sussurrate con un tono roco diedero un terribile brivido a Kaylee che sentì in fondo alla sua mente il raccapriccio: qualcosa di così oscuro che, sapeva, non riusciva del tutto a comprendere. Ma quella era l’unica strada che aveva intravisto per avere salva la vita.

Venduta, ma al miglior offerente; non più padrona del proprio destino, ma nelle mani della persona che, almeno, avrebbe potuto accordarle le condizioni migliori per la sopravvivenza.

Se era solo una merce, avrebbe fatto di tutto per contrattare per il prezzo più conveniente. 

«Saresti più contenta di finirla qua. Posso darti una morte pulita», la vezzeggiò. «Posso fare in modo che tu non senta niente.»

Kaylee si permise per un momento di pensare alla tranquillità della morte: la fine di ogni affanno, un sonno eterno che l’avrebbe sottratta per sempre a ogni ulteriore sofferenza. Ma persino mentre vi rifletteva, una parte di lei non credeva che niente avrebbe potuto distruggere quel nodo di rabbia che provava sin da quando ne aveva memoria.

No, per lei, qualcosa come la serenità non esisteva, semplicemente: era una mera illusione, per poveri creduloni. Dietro quel muro di silenzio e impassibilità che aveva costruito per separarsi dal mondo e dal dolore ruggiva un fuoco di furia inestinguibile.

Kaylee odiava la sua vita, odiava Ian, odiava quella città. Era quest’odio ad alimentare le sue giornate: il motore che la spingeva ad alzarsi ogni mattina per sfidare con l’onta della sua mera esistenza tutto quanto più disprezzava.

In un istante di profonda introspezione, intuì quale fosse la strada che avrebbe potuto condurre la trattativa secondo i suoi piani: era un azzardo perché non poteva dire di conoscere Rafail, ma si affidò all’intuito che l’aveva sempre guidata.

Era un uomo di potere, abituato ad avere solo il meglio. Per lui, le persone non dovevano contare molto, dubitava la giudicasse degna di offrire alcunché per averla, ma qui stava il punto: era imperativo che aumentasse il proprio valore agli occhi di lui, spingerlo a credere che avrebbe potuto offrirgli qualcosa che non chiunque sarebbe stato in grado di dargli.

Doveva mostrare una sfrontatezza venata di sottile disprezzo che la ponesse in una condizione superiore: non un essere in ginocchio che pregava disperatamente per la propria vita, ma un’anima preziosa e rara che un collezionista come Rafail avrebbe bramato possedere.

«Cosa siete disposto a offrire per comprare la mia anima, signor Kudryashov?»

Kaylee socchiuse gli occhi e cercò di infondere alle proprie parole un’aria di sufficienza.

«Sicché, intendete venderla a me?»

«Solo se il prezzo sarà equo.»

Rafail sollevò nuovamente il sopracciglio, scettico. «Posso permettermi pressoché qualsiasi cosa. Ma tu… cos’è che mi offriresti esattamente? Prestazioni sessuali?»

Kaylee sbuffò, mostrandogli di aver capito la sua trappola. «Avete chiesto un’anima, non il mio corpo, mi pare; il che significa che sto offrendovi la mia fedeltà incondizionata. Io vi apparterrò completamente e sarete voi a stabilire cosa vorrete prendere da me, ogni volta che vi aggraderà… se vi aggraderà», specificò in ultimo, sollevando il mento e poi interrompendo il contatto visivo.

Guardò fuori dalla finestra: era ormai buio e si scorgevano dappertutto le luci della città che la facevano apparire scintillante. Naturalmente, Kaylee era cieca a quella bellezza abbacinante; l’unico motivo per cui si era voltata era che se avesse continuato a fissare l’uomo con troppa intensità gli avrebbe trasmesso con chiarezza quanto contasse quella trattativa per lei; ma distogliendo lo sguardo dava l’impressione di un leggero disinteresse: l’importante era non abbassarlo a terra, doveva solo cambiare focus.

«E cosa vorreste in cambio di questa fedeltà

«Rispetto», annunciò, spiazzando ancora una volta Rafail che mai, in un negoziato, aveva ricevuto richiesta per una simile merce. «Naturalmente, tutta la roba più ovvia: ricchezza, agio, istruzione...»

«Istruzione?», soffiò l’uomo, ironico. «Ti assicuro che “l’istruzione” non è annoverata tra la roba normale che una donna pretende da un uomo!»

Kaylee si permise un sorriso per costruire una piccola complicità. «Istruzione, dicevo… e qualsiasi cosa mi possa venire in mente per il mio personale benessere; ma tutto può essere riassunto nella mia prima richiesta: voglio rispetto.»

«’Rispetto’ può essere una parola infida… che succederebbe se tu decidessi che non ti rispetto abbastanza?»

«Voi potete fare di me quello che volete, eccetto togliermi la vita o infliggermi un dolore maggiore di quello che io, per natura, possa sopportare… se la vostra intenzione, ovviamente, sarà quella di vedermi soffrire. Devo ammettere che non mi piace il dolore e mi piacerebbe che vi astenesse se non si ritenesse proprio necessario.»

«Interessante… dunque, questo rispetto?»

«Lo voglio per la mia posizione: a prescindere da quale deciderete che sia, io mi sto dando per voi, e voi solo. Pretendo che nessuno abusi di me, nessuno mi comandi come una serva, mi usi; sarò come la regina degli scacchi; l’unico a cui mi sottometto siete voi.»

Kaylee lo fissò ancora, eliminando qualsiasi emozione, inflessione, dubbio o ansito dalla sua espressione. Era granito: non contava che avesse solo sedici anni, che fosse misera, malvestita, denutrita… Lei era la regina di scacchi. Se lo era nella mente, lo sarebbe stata nei modi e lo sarebbe conseguentemente diventata agli occhi di quell’uomo potente, da cui dipendeva tutto.

«Pretendete davvero molto», commentò Rafail dopo un lungo momento. «Essere regina significa essere l’unica: è questo che mi state chiedendo?»

Kaylee si permise di allungare mollemente una mano a sfiorargli il gilet elegante. «Conoscete il rompicapo delle otto regine, signor Kudryashov?»

«Ti riferisci a quel problema matematico... quello in cui si deve trovare un modo per posizionare otto regine nella scacchiera in modo tale che nessuna possa catturare l’altra, se ricordo bene.»

«Esatto. So che un uomo come voi non si legherebbe in modo permanente a un’insignificante donna… no, non voglio quel tipo di fedeltà da voi: vi sono subalterna, non pretenderei mai nulla che voi stesso non voleste darmi.»

«Allora cosa?»

«Come le otto regine… a nessuna dovrete mai dare il potere di mangiarmi.»

Rafail a quel punto le catturò il mento tra pollice e indice e si soffermò a studiare ogni tratto del suo viso. «Sergej mi aveva detto che hai qualcosa… ma non avevo voluto crederci. Non fino a ora.»

Lei rimase in silenzio sotto quell’esame.

«Mi hai convinto… Kaylee». Era la prima volta che pronunciava il nome della ragazza; era stato Parker a menzionarlo durante l’interrogatorio. Ovviamente, prima non era stato affatto importante, ma adesso le cose sarebbero cambiate.

«Andiamo» disse, voltandosi verso la porta.

«Dove?»

«A siglare il nostro accordo.»

Quando comparvero nell’elegante salottino, tutti si girarono a guardarli. Eccettuato Ian, che versava ancora a terra, piegato su un fianco, ansimante e sudato, nessuno suggeriva col proprio atteggiamento o nell’espressione del volto che si sarebbe presto consumato un omicidio.

Rafail sollevò nella propria la mano della sua nuova protetta, e la condusse al centro della sala, esattamente come un cavalier servente scorta una nobildonna.

Sergej ghignò soddisfatto perché aveva capito alla prima occhiata che Rafail aveva cambiato idea e che avesse invece accolto la sua richiesta. Prima che chiunque altro potesse proferire parola, si avvicinò alla coppia, le mani in tasca e disse: «Mi pare si sia arrivati a un accordo».

Il cugino assottigliò lo sguardo e rispose: «Sì, infatti, dvoyurodniy bra, ma la ragazza ha fatto un accordo con me.»

Sergej sussultò e il suo volto si oscurò mentre fissava Kaylee con disprezzo.

Lei percepì il suo sguardo, ma non volle ricambiarlo: continuava a fissare davanti a sé vacuamente. Per un lungo istante temette sarebbe esploso, ma infine il ragazzo rilasciò la tensione e decise di stare al gioco; l’avrebbe affrontato come un ulteriore ostacolo da superare per raggiungere i propri scopi.

«Ma certo… è stata furba. Non è così, Kaylee? Hai scelto di gettarti tra le fauci del capobranco.» 

Tagliò il discorso e chiese che ne dovevano fare di Parker: sentire i suoi lamenti continui gli dava il mal di testa.

Rafail si fece passare una pistola da Aleksandr e montò un silenziatore. Poi tornò dalla ragazza e gliela tese, con un gesto d’invito. 

Kaylee sgranò gli occhi, allarmata, e perdette momentaneamente la propria freddezza, mostrando sbigottimento, paura, orrore… Rafail la guardava con assoluta serietà, nelle pupille lo stesso vuoto che aveva percepito quando le aveva detto che comprava anime.

D’improvviso, dalla fredda consistenza del calcio della pistola, dalla sensazione del pavimento duro sotto ai piedi e dal colore del sangue rappreso sul naso di Ian, capì che era tutto reale.

Fissò l’arma soppesandola nel palmo, mentre il suo cuore e soprattutto la mente, venivano a patti con quanto stava per fare.

Il prezzo di un’anima. 

Vedendola impalata e pallida, Rafail la riscosse con un tono duro: «Forse ci hai ripensato?». 

Kaylee si dominò, ricomponendo anche la propria espressione. «Vuoi che lo uccida qua sulla moquette?»

Lui scrollò le spalle. «Abbiamo chi pulisce. Non faranno domande.»

Ostentando una determinazione che era lungi dal provare, avanzò fino a stare davanti a Ian. 

Questi si era sollevato in ginocchio, gli occhi strabuzzati in un’espressione di puro orrore. 

Rise, non potendo credere ai propri occhi. «Kay, che fai? Non vorrai farmi fuori? No… non ne avresti il coraggio, vero, piccola?»

La voce era supplichevole e ridotta, una grottesca imitazione del suono vezzoso che gli adulti usano per blandire i bambini: un tono che con lei non aveva mai usato.

Kaylee rivide in flash quell’uomo che tirava per i capelli Maya e la trascinava nella camera da letto, mentre lei piangeva in un angolo del piccolo salotto; risentiva il freddo che le aveva congelato le dita dei piedi mentre lo attendeva in un vicolo buio perché doveva recuperare un po’ di roba; lo specchietto che aveva rotto con un pugno, appena prima di colpirla; udì di nuovo le sue risate quando un suo socio, ubriaco, aveva provato a violentarla e lei, spaventata, aveva gridato.

Quei pensieri fluirono fuori, svuotandola.

Sollevò il braccio armato, la mente vuota: non udì le parole dell’uomo che si erano d’improvviso trasformate in terribili insulti. Si accorse solo del silenzio che seguì all’impercettibile rumore sordo dello sparo; lo stesso silenzio attonito che regnava dentro di lei.

“Dunque è questo il vuoto che si sente, quando non si ha più un’anima”, pensò in un frangente.

Rafail si avvicinò e le tolse la pistola, consegnandola a uno dei suoi uomini. Si sfilò un anello che portava all’anulare, e lo infilò al suo pollice, piegandosi poi a baciarlo, da perfetto gentiluomo.

Kaylee scorse il piccolo monile, sorprendentemente aggraziato per appartenere a un uomo: era placcato in oro all’interno e completamente nero all’esterno; dalla semplice fascia nera protrudevano come una corona, alternandosi, le teste del re e della regina degli scacchi. 

«Non poteva essere più adatto alla situazione», commentò Rafail, mentre lei studiava il gioiello; sorrideva perversamente, eccitato come non lo era da tempo immemore di avere acquisito una piccola anima rara.

«Hai chiesto di essere la mia regina...», sussurrò, vicino al suo viso.

Kaylee riportò gli occhi annebbiati sul cadavere mentre la pozza di sangue si allargava sulla moquette zebrata.

«Adesso sarai la mia regina nera.»

 

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AGGIORNAMENTO DEL 31/08/2020: Ho pubblicato una shot su Kaylee e Sergej che si posizione tra il primo e il secondo capitolo. Se sei curioso, leggi  La regina nera: La promessa che ti ho fatto
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GLOSSARIO (In ordine di comparsa):
Этот мудак!, Etot mudak = Quel coglione!;
маленький, Malinki = Piccola;
шляхи, šljàhi = Nobil donna di facili costumi, disprezzata agli occhi della società russa. Si tratta di un gioco di parole con la parola шлюха, šljùha = puttana;
американский, Amerikanskiy = Americano;
пизда, Pizdà = Figa;
крыса, Krysa = Ratto;
kak znat’ = Chissà;
девушка, Devushka = Ragazza;
двоюродный брат, Dvoyurodniy brat = Cugino;
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NOTE:
Storia partecipante al Contest "Patti oscuri, alleanze di ferro e promesse vincolanti" indetto da Shilyss sul forum di EFP.
Pacchetto scelto: Patti oscuri o patto di perdizione. (Tentativo di ribellione + scena di notte)
Bonus A: Anello
Bonus B: Il patto non viene rispettato
Link al contest: *CLICK*

 
   
 
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