Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: yonoi    21/02/2019    11 recensioni
La mattina del 19 maggio 1845, due velieri della Marina Britannica, la Her Majesty’s Terror e la Her Majesty’s Erebus, salparono in direzione del Mar Glaciale Artico: scopo della spedizione, tracciare la rotta del passaggio a nord ovest, e aprire una nuova via di comunicazione tra l’Atlantico e il Pacifico.
Inviate sotto il comando del capitano John Franklin, la Erebus e la Terror scomparvero insieme a tutti i componenti dei due equipaggi.
Numerose spedizioni di ricerca furono inviate sulla rotta di Franklin, senza riuscire a ritrovare alcun superstite e riportando in patria notizie sconvolgenti sul destino dei dispersi. Da ultimo, quando ormai Franklin e i suoi marinai erano stati dichiarati ufficialmente caduti al servizio di Sua Maestà, una donna tenace decise di giocare la sua ultima carta: acquistare una nave e inviarla sulle tracce dei marinai scomparsi in quelle terre di ghiaccio e di oscurità.
Primo classificato al contest "I doni della medicina" indetto da Dollarbaby e valutato da Shilyss sul Forum di EFP a pari merito con "La verità su Ingeborg Barrow" di Old Fashioned.
Genere: Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“A cosa potrei
paragonare questo mondo?
alla scia bianca
dietro la barca
nella debole luce dell’alba”
(Mansei, VIII secolo)
 
4.
 
Villaggio inuit di Gjoa Haven, maggio 1859
 
“Al giorno d’oggi, si sono fatti furbi anche gli indigeni”, brontolò McClintock rigirando tra le mani un’edizione economica di Cime Tempestose, con la rilegatura che cadeva da tutte le parti e le pagine arricciate, sfinite da almeno dodici anni di convalescenza dentro a un igloo. “Trenta cani da slitta in cambio di un libercolo che si può acquistare a Portobello da qualsiasi rigattiere.”
“Siete scozzese, per caso?” s’informò Nanouk, sornione.
“Perbacco, sono irlandese!” McClintock era quasi offeso.
“Allora siate furbo come ogni irlandese che si rispetti, e guardate con attenzione.”
La visita dell’equipaggio a Gjoa Haven aveva fruttato, com’era prevedibile, un altro servizio da tè, un kit da barbiere completo di pennelli e rasoi, nessun rullo da pianola e questo era già sorprendente. Ma il vero imprevisto, che suscitò in McClintock il brivido dell’esploratore di fronte a una scoperta, fu proprio quel volume dall’apparenza insignificante: tra le pagine erano ripiegati numerosi fogli scritti in lingua inglese. Alla stessa maniera, quella calligrafia ordinata e pignola occupava le ultime pagine dell’edizione economica.
Il capitano cominciò a leggere e i fumi dell’ultima sbornia svanirono all’istante. Davanti ai suoi occhi si dispiegava il resoconto degli ultimi giorni della spedizione Franklin, redatto da un certo Christian Fraser, bibliotecario a bordo della Her Majesty’s Terror.
“Qui ci sono le cinquemila sterline promesse da Lady Franklin” brontolò, per non dare a vedere che era commosso. “Ci sono proprio tutte, fino all’ultimo penny.”
Mentre a Nanouk, a Marlowe e al giovane Henry fu affidato l’incarico di setacciare Gjoa Haven in cerca di ulteriori testimonianze, McClintock si chiuse in cabina dopo aver impartito l’ordine tassativo di non disturbare per nessun motivo.
“Stasera non darò udienza neanche a John Torrington”, precisò il comandante dando un doppio giro di chiave.
Si immerse nella lettura degli scritti di Fraser.
John Torrington venne ugualmente, ma si limitò a sedere accanto alla stufa, soffiando a tratti il naso e alzando un sopracciglio quando il capitano tentò di versarsi l’ennesimo bicchiere dalla bottiglia ormai vuota.
“Qui si parla anche di quel tenente Colby”, disse a un tratto McClintock, senza sapere più se parlava a se stesso o al suo visitatore dell’oltretomba. “Da quel che si dice, non ne esce affatto bene. Che cosa ne pensate voialtri nell’al di là, dovrei fare leggere questo scritto al colonnello?”
John Torrington rispose con una doppia alzata di sopracciglia.
“Son cavoli di noi vivi, questi, non è vero? Immagino che di non ci siano più segreti.”
 Il fantasma si limitò a infilare il naso perennemente gocciolante nel fazzoletto.
“Chissà perché, me lo immaginavo. Però, siccome tra i vivi certe cose funzionano diversamente, ben lungi da me l’idea di far venire a Marlowe un altro infarto. Anche se questo significherebbe avere uno in meno con cui dividere quelle famose cinquemila sterline. Ti dirò di più, caro il mio spettro: a quanto pare, a un certo punto la spedizione si è divisa in due gruppi. Del primo, già sappiamo: chi prima e chi dopo, tutti hanno preso il traghetto per i morti di freddo qui a Gjoa Haven. Resta il secondo gruppo, quello di mister Colby. Per una volta che la fortuna tira dalla mia parte, e prima che venga anche a lei un attacco di polmonite, varcheremo lo stretto e andremo a ficcare il naso dalle parti del Great Fish River.”
John Torrington si limitò ad annuire.
“Però ti avverto, ragazzo: io dentro alle grotte non ci metterò piede. Neanche se le sterline diventassero settemila, o forse solo in quel caso.”
 
******
 
Penisola di Adelaide, lungo il corso del Great Fish River, giugno 1859
 
La fortuna smise di soffiare dalla parte di McClintock non appena l’equipaggio sbarcò sulla terraferma e il vasto territorio della penisola di Adelaide, ricoperta di fragili infiorescenze estive, spalancò i propri orizzonti di pini sghembi e paludi.
“Sarebbe più facile trovare un ago in un pagliaio”, osservò il capitano. Per quel che riguardava il gruppo di disperati che si era spinto fin là, agli ordini del visionario tenente Colby, aveva una sola certezza: A Fort Resolution, quella manica di ammutinati non era mai arrivata.
Gli ultimi rapporti della Compagnia della Baia Hudson parlavano dei resti di alcuni bivacchi trovati in zona, tra cui quello visitato da John Rae: queste erano le uniche coordinate disponibili per orientarsi in uno spazio che pareva infinito.
“Non mi stupirei se si fossero suicidati in massa”, pensò ancora McClintock mentre l’equipaggio della Fox affrontava i domini incontrastati della palude. “Questo posto pare fatto apposta per farti perdere la voglia di stare al mondo.”
Il sole di mezzanotte conferiva a quei luoghi un’apparenza irreale: da lontano, i sentieri tracciati da cacciatori di passaggio sembravano condurre a immensi prati in fiore, a praterie di erba lussureggiante e a radure boschive. Di fatto, man mano che ci si avvicinava si scopriva che i fiori erano in realtà placche di fango, mentre l’erba era un manto di mucillagine che ricopriva acquitrini a perdita d’occhio. 
Dopo quindici giorni di cammino accidentato, la spedizione raggiunse i resti di un bivacco che avrebbe potuto essere stato allestito da chiunque: inuit, inglesi, cacciatori della Compagnia della Baia di Hudson, gruppi di pellerossa. A quella scoperta ne seguirono altre dello stesso tenore: tracce di accampamenti, di fuochi accesi e resti di selvaggina consumata sul posto.
Nient’altro: né un rullo di pianola e neppure una saponetta.
“A questo punto, non mi dispiacerebbe se saltasse fuori un altro di quei maledetti servizi da tè”, brontolò McClintock, in preda all’incertezza. “Sarebbe una consolazione. Quanto meno, saprei che non sto andando completamente a lume di naso.”
Contrariamente ai buoni propositi formulati durante l’ultima conversazione con John Torrington, McClintock si convinse dell’opportunità di scambiare due chiacchiere col colonnello Marlowe. Se non altro per evitare che il vecchio s’intestardisse a voler inseguire Richard Colby fino al Capo di Buona Speranza, o magari fino all’inferno. Convocò il colonnello nella sua tenda, gli sottopose l’intero rapporto di Fraser e lo rese partecipe dei risultati delle ricerche effettuate lungo il Great Fish River: tracce di braci spente, qualche osso di lepre cucinata allo spiedo, nessun indizio certo.
Il tempo stringeva: ancora un mese e l’inverno sarebbe stato alle porte, e McClintock contava di goderselo a casa sua in Irlanda, con la sua parte di ricompensa nelle tasche. A quel punto, persino i belati delle pecore sarebbero risuonati alle sue orecchie come un concerto di violini e clavicembali.
Di fronte alle rivelazioni contenute nel manoscritto di Fraser, il colonnello Marlowe reagì con compostezza: non ebbe alcun infarto e si limitò a chinare il capo, soprappensiero.
McClintock provò a scuoterlo:
“Andiamo, colonnello: non so cosa speravate di scoprire riguardo a Colby, ma se ci pensate bene tutto questo era già scritto nella sua ultima lettera.”
“Non avrei pensato che potesse spingersi così in basso. Colby era mio figlio”.
Di fronte alla perplessità del capitano, Marlowe si affrettò ad aggiungere: “Era il marito di mia sorella, ma ancora prima io l’ho cresciuto come un figlio. L’ho educato secondo i principi dell’onore militare, o almeno così ho creduto”. L’anziano colonnello scosse il capo, amareggiato. “Chissà perché l’affetto ci rende così fragili: uno si aspetta sempre che quel che si è piantato possa dare dei frutti.”
McClintock decise ch’era giunto il momento di stappare un’altra bottiglia. Constatò con disappunto che la sua inesauribile riserva era ormai agli sgoccioli.
“Io ho imparato a non aspettarmi troppo dalle persone. Purtroppo, la delusione possiede molti volti, e se si va a stuzzicarla ne mostra sempre di nuovi.”
“Alla mia età, non ho ancora imparato a vivere di ricordi. Sono un vecchio che non riesce a trovare riposo.”
“A volte anche i ricordi diventano molesti.” Dopo il primo bicchiere, McClintock aveva come al solito l’impressione di riuscire a penetrare i segreti del mondo, e si trasformava inevitabilmente in un filosofo: “Probabilmente fa parte del destino dell’uomo non conoscere tregua a causa dei propri pensieri. Devo averlo persino letto da qualche parte: Ah memoria, nemica mortale del mio riposo!”
Un improvviso trambusto interruppe la discussione e costrinse McClintock a nascondere la bottiglia. Una squadra  di marinai inviati in perlustrazione stava rientrando in preda a una grande agitazione:
“Abbiamo trovato una strage”, annunciò il primo che riuscì a prendere fiato. “Una grotta piena di morti a cui hanno sparato. Saranno un centinaio.”   
McClintock non fece neppure in tempo a chiedere ulteriori dettagli, che subito un altro gruppo arrivò trafelato, al seguito di Henry Torrington:
“Mi sembrava di averlo veduto da lontano e infatti c’è davvero.”, ansimò il ragazzo, rischiando di strozzarsi con le parole. “A due miglia da qui c’è un cairn, con un fucile inglese piantato sulla cima.”
 
******
 
La grotta era precisamente quella del sogno: bassa e coperta da una coltre di muschio, possedeva un ingresso stretto a cui si poteva accedere solamente carponi.
McClintock si rassegnò a dover fare i conti con il proprio incubo peggiore: si concesse un lungo sorso dalla fiaschetta che ultimamente aveva cominciato a portarsi appresso - segno inequivocabile di un suo peggioramento sul versante alcolico - e si accinse a entrare in quell’anticamera dell’inferno.
Per via dell’umidità e dell’ambiente chiuso i corpi risultarono sigillati uno all’altro, sicché riuscire a frugarli in cerca di qualche segno di identificazione si rivelò un’impresa al di là del bene e del male. Quel mucchio di carne insepolta aveva attirato gli animali selvatici della zona, e ciò che non aveva seguito il corso del tempo era stato disfatto dall’opera di volpi, lupi e probabilmente qualche grizzly di passaggio.
Con un fazzoletto calato sul naso alla maniera di John Torrington, McClintock si limitò ad annotare i dati essenziali:
“Venti uomini in tutto, facciamo cifra tonda. Chi è quello sciagurato che ha parlato di un centinaio?”
Si fece avanti il giovane mozzo lentigginoso: “Al buio sembravano molti di più, sir. Al buio, e con la paura.”
“I morti non possono farci più nulla” osservò il capitano, notando sullo sfondo un paiolo rovesciato. “È piuttosto dei vivi che occorre avere paura.”
Uscito dalla grotta e dal lezzo insostenibile di quel verminaio, si concesse un paio di respiri profondi. Intorno a lui, la prateria sbocciava nella bellezza fuggevole dell’estate artica. L’aria era piacevolmente tonificante, e McClintock  scoprì un’infinita varietà di profumi e colori sotto a un cielo che, per una volta tanto, era completamente sgombro di nubi. Riconobbe l’aroma pungente del pino, il fruscio di un salice che catturava un filo di brezza, le macchie gialle e viola degli arbusti fioriti. Più in là i cuscinetti viola delle sassifraghe crescevano rasoterra per proteggersi dal vento. Appena un po’ più alti, i fragili fiori bianchi del papavero artico dondolavano il capo, alla ricerca di un raggio di sole.
McClintock non si era mai sentito così in forze: un incubo lungamente temuto era stato finalmente affrontato e superato. Se gli fosse toccato in sorte di conservare un solo ricordo di tutta la spedizione, avrebbe scelto quel singolo istante di beatitudine.
 “Il cairn scoperto da Henry sarà la nostra ultima tappa”, annunciò all’equipaggio. “Abbiamo raccolto sufficienti informazioni sulla spedizione perduta, e porteremo in patria notizie e prove certe che fino ad ora nessuno è riuscito a ottenere. Abbiamo avuto successo, uomini. Ancora pochi giorni, giusto il tempo di raggiungere la Fox, e ci imbarcheremo senz’altro per l’Inghilterra.”
 Di sottecchi, McClintock lanciò un’occhiata al colonnello Marlowe. Questi si limitò a mantenere lo stesso contegno impassibile che aveva già esibito durante la lettura del compendio di Fraser.
Poco distante dal cairn, gli uomini della Fox scoprirono un’altra caverna, un cunicolo che conduceva a un’autentica cattedrale di stalattiti. Gli uomini si diedero la voce l’un l’altro per invitarsi ad ammirare quel prodigio, finché la loro attenzione non fu attirata da qualcosa di ben più sconcertante.
“Possibile che in ogni maledetta grotta debba esserci almeno un cadavere?” inveì il capitano, facendosi largo a spinte per andare a verificare di persona.
Disteso sulla riva di un lago di cristalli, sotto a una vecchia coperta come se riposasse sereno nel suo letto, il corpo di un ufficiale giaceva così fresco che McClintock non esitò a chinarsi per controllare se respirava. Il capitano aveva ancora fissi negli occhi i volti dei numerosi morti incontrati lungo il percorso: lo sguardo fisso nell’eternità di Peglar e Armitage, i marinai senza nome trovati sulla spiaggia di Simpson Sound, tutti portavano i segni di un’agonia indicibile, del delirio dovuto alla fame, della quieta demenza dell’assideramento.
Ma il viso di quel giovane, dagli zigomi alti per essere un inglese e dai tratti troppo fini per essere un inuit, era la rappresentazione stessa della pace interiore. 
McClintock rimase lungamente a fissarlo finché la sua attenzione non fu distratta dalla presenza del colonnello: Marlowe si era spinto fin dentro alla grotta, affascinato dai giochi di luce e pulviscolo che un’apertura in alto creava in quel luogo fiabesco.
“La natura è un miracolo” aveva commentato, posando lievemente la mano sulla spalla del capitano. “Qui siamo veramente fuori dallo spazio e dal tempo”.
Lasciò vagare lo sguardo su quello spettacolo prodigo d’infinite suggestioni. Alcune stalattiti si saldavano al suolo come le colonne di un tempio, altre davano forma a figure eccentriche. Qui una piccola chiesa con tanto di campanile, a destra una forma tozza con orecchie e proboscide evocava i possenti elefanti delle Indie. Più in là una figura pareva assorta in preghiera, simile a un angelo alato che vegliava il corpo di un uomo. Quando gli occhi del colonnello erano scivolati sul volto che emergeva sereno dalle pieghe della coperta, fu McClintock a posargli la mano sulla spalla.
Dall’espressione che ora si dipingeva sul volto del colonnello - incredulità, stupore e infine dolore - il capitano comprese senza bisogno di parole.
“È lui?” si limitò a chiedere.
Marlowe assentì, austero: “Richard Colby, mio figlio.”
Senza badare alla gravità del momento, il solito mozzo lentigginoso entrò recando un brandello di uniforme sporca di terra:
“Questo è stato trovato sotto al cairn, sir. Probabilmente si tratta di un altro messaggio.”
McClintock aprì l’involto, diede una breve occhiata alle parole scritte con una calligrafia tremante, passò il brandello a Marlowe:
“Questo è per voi, colonnello. Per voi e nessun altro.”
 
******
 
Epilogo
 
Durante il viaggio di ritorno morì Henry Torrington. Se ne andò in silenzio, cogliendo tutti di sorpresa. I marinai lo trovarono disteso nella cuccetta che già aveva occupato nei difficili giorni della sua malattia. Tra la ciurma cominciò a girare la voce che fosse morto di dolore, consumato dal rimpianto di non essere riuscito a riportare in patria la salma del fratello. Già qualcuno giurava di aver visto il suo fantasma vagare senza pace sul ponte e nei meandri sottocoperta della Fox.
“Non dite fesserie”, li mise a tacere McClintock, con la coda di paglia. “Siete il solito branco di ignoranti superstiziosi. Henry Torrington si era reso conto personalmente di quanto fosse difficile scavare su quell’isola maledetta, e lui era del mestiere. Conoscete meglio di me le tempeste dell’inverno. Non possiamo permetterci di allungare il percorso, se non vogliamo esaurire le scorte di carburante e ritrovarci incagliati nei ghiacci. Né soste né deviazioni: lo avevo detto chiaramente al ragazzo, e quanto a voi aggiungo anche niente fantasmi. Non voglio più sentire parlare di spettri per tutto il resto del viaggio.”
McClintock era assillato dai sensi di colpa. A suo tempo aveva promesso a Henry Torrington un’altra ricognizione sulla spiaggia di Beechey Island, anche se solo per distoglierlo dal proposito di continuare a scavare in mezzo a una tormenta.
“Gli ho salvato la vita, a quell’imbecille. Se non se n’è reso conto prima, mi auguro che qualcuno, di là, l’abbia bene informato.”
Confidava che il suo amico John Torrington sarebbe presto venuto a cavargli ogni dubbio, ma lo spettro dell’ex fuochista della Terror non tornò più a fargli visita. Il capitano si rese conto che quella presenza silenziosa gli mancava. Non ebbe molto tempo per rimuginarci sopra: gli uomini brontolavano per la presenza di un cadavere a bordo, ritenendo che avrebbe portato scalogna e che il viaggio di ritorno rischiava di subire l’identico destino della Erebus e della Terror.
McClintock dovette ricorrere a tutte le risorse della sua già scarsa pazienza per dissuaderli dal gettare il corpo in mare.
“Tra poche settimane arriveremo a Disko Bay. Non abbiamo incontrato sulla rotta neppure un iceberg” dichiarò, sperando che nessuno notasse gli scongiuri che faceva con le due mani dietro alla schiena. “Nessuna tempesta ha finora ostacolato il viaggio di ritorno, sicché vi invito a comportarvi da uomini d’onore e a condividere il mio proposito di restituire il corpo di Henry Torrington ai suoi.”  
Una volta sbarcati in Inghilterra, dopo avere effettuato il suo rapporto a Lady Franklin e all’Ammiragliato, dopo aver presenziato a infinite cerimonie di commemorazione in onore dei caduti e in omaggio alla spedizione, dopo aver assistito con infinita tristezza alla messa in disarmo della Fox, troppo vecchia e provata per solcare altri mari, McClintock s’incaricò personalmente di far visita alla madre di John ed Henry Torrington.
Ottenne le autorizzazioni necessarie a caricare la rozza cassa da marinaio sul primo treno per Manchester. Faticò non poco a trovare un vetturino disposto a scarrozzarlo assieme a quel singolare bagaglio, e una volta sul posto scoprì che all’indirizzo fornito da Henry al momento dell’imbarco corrispondeva un’impresa di pompe funebri: già questo era molto strano, tuttavia McClintock pensò che potesse trattarsi del luogo in cui il ragazzo aveva lavorato prima della partenza.
Tuttavia, in quell’ufficio il becchino Torrington risultava essere un emerito sconosciuto.
“Non diciamo corbellerie”, s’intestardì McClintock, come al solito convinto che a essere picchiati in testa fossero gli altri. “Ho qui i documenti d’imbarco del fu Henry Torrington, che ha scritto di suo pugno proprio quest’indirizzo.”
“Ebbene, capitano,” s’intestardì a sua volta il becchino capo, “qui non c’è nessun Torrington. Di più, non c’è mai stato. Certo, se si tratta di un vostro caro estinto e siete interessato ai nostri alle nostre proposte, ritenetemi pure a vostra completa disposizione.”
McClintock era sul punto di perdere le staffe: “Evidentemente, non mi sono spiegato. Il caro estinto non è mio, ed è mia precisa intenzione riconsegnarlo a sua madre, Rosa Torrington, che abita a questo indirizzo. Forse al piano di sopra avete degli inquilini?”
L’uomo sbirciò la carta d’imbarco che McClintock si ostinava a sventolargli davanti al naso.
“Insomma, sir, in questo ufficio Rosa Torrington non c’è. A meno che non pensiate che per farvi dispetto io la tenga nascosta di proposito in qualche armadio, vi consiglio di orientare altrove le vostre ricerche. A Manchester esistono numerose strade intitolate all’ammiraglio Nelson. C’è addirittura una piazza, poco distante da qui.”
Al numero 49 di Nelson Place, McClintock trovò una rivendita di pianole meccaniche. In Nelson Avenue, una fabbrica di posateria d’argento.
“Mancano solamente i servizi da tè”. 
Una fabbrica di porcellane e mattonelle occupava il civico 49 di Nelson Boulevard.
A questo punto, il capitano  cominciava ad avere la netta sensazione che il suo destino lo stesse prendendo per il naso. Si recò al più vicino ufficio di polizia. Avvertito in fretta e furia, il giudice del tribunale locale prese in consegna la bara viaggiatrice di Henry Torrington, e come prima cosa ne ordinò la riapertura per verificare il contenuto. Con grande sorpresa dello stesso McClintock, che aveva insistito per presenziare all’operazione, una volta scoperchiata la bara risultò vuota. Un forte odore di rose si sprigionò dalla rozza cassa da marinaio, e per giorni interi nell’aula di anatomia patologica si dovettero tenere aperte le finestre prima di riuscire a dissolverlo del tutto.
Un altro strano evento occorse a McClintock in quel periodo: poiché era rimasto vivamente impressionato della dignità e del coraggio dimostrati da Edward Marlowe, si era preso la briga di inviare un resoconto degli esiti della spedizione alla Royal Army, auspicando che al vecchio colonnello in pensione fosse conferita una speciale onorificenza al merito. Inutile dire che la richiesta del capitano fu rinviata al mittente con l’espressa avvertenza che il soprannominato ufficiale risultava deceduto alla data del 13 luglio 1845: quando McClintock realizzò che si trattava dell’anno in cui la Her Majesty’s Terror e la Erebus erano salpate tra lanci di fiori e auguri dal porto di Greenhite, fu incerto se scoppiare a ridere o arrendersi all’idea di esser diventato pazzo.
Dopo molte difficoltà, riuscì a risalire al luogo in cui Edward Marlowe era stato sepolto più di quindici anni prima. Di fronte al mausoleo eretto in un piccolo cimitero dello Yorkshire, in mezzo alla brughiera battuta dal vento, di sforzò di non attirare l’attenzione di un gruppo di contadine venute a ripulire le tombe dalle erbacce e a cavare i fiori marci. Fuori dalla cinta muraria contornata di cipressi, si udivano i belati di un gregge di passaggio.
“A quanto parte, mi avete preso per i fondelli tutti quanti: voi per primo, colonnello, di seguito Henry Torrington e quella larva di suo fratello, con quel maledetto raffreddore e il fazzoletto al naso. Sarò anche uno che beve, ma qui la bottiglia non c’entra per niente. Ho attraversato l’Artico in compagnia di fantasmi, e adesso mi resta solo una bella camicia di forza i manicomio.”
Si riscosse dal suo sfogo quando una mano si posò sulla sua spalla. A quel contatto lo colse una viva emozione: si ricordò di quel giorno nella grotta sull’argine del Great Fish River, di fronte al volto addormentato e pacifico del fu tenente Colby.
Si voltò, ma lungo il viale scivolavano solo le prime foglie d’autunno.
Poco lontano, il gruppo delle pie donne seguiva la funzione nella cappella.  
Eppure per un attimo, irrepetibile e breve, gli era sembrato di cogliere nella brezza serale l’accenno di un sorriso.
 
******
 
Lady Franklin trascorse i suoi ultimi giorni in un piccolo cottage in Scozia, sulla propaggine più a nord della regione, quasi in vista dell’Artico. Fu il suo modo per rimanere accanto all’uomo che i ghiacci le avevano sottratto. Rifiutò di indossare gli abiti del lutto, perché il lutto si porta, diceva, quando c’è un morto, non quando al posto della persona amata resta una tomba vuota e una memoria fatta di ghiaccio e di oscurità.
I pastori che conducevano le greggi al pascolo su quel promontorio di erba tenera e di nebbie, la incontravano puntualmente mentre sedeva a ricamare di fronte al mare, oppure semplicemente con lo sguardo perduto nei misteri dell’orizzonte.
Anche dopo la sua morte, si continuò a narrare di lei e del suo dolore, dell’impresa con cui aveva tentato di sfidare il regno dei ghiacci per strappargli il suo amato. Forse fu per la suggestione di quel clima crepuscolare, in cui aleggiava sempre una densa foschia: fatto sta che Lady Franklin continuò a essere vista per molti anni ancora e per molte generazioni, di vedetta in quell’angolo sperduto del mondo, forse in attesa che due velieri spuntassero all’orizzonte.
Agli albori del nuovo secolo, l’esploratore norvegese Roald Amundsen scoprì la rotta del passaggio a nord ovest: con un piccolo equipaggio di soli sei uomini navigò per un tratto le medesime acque già percorse dalla spedizione perduta di sir Franklin. Alla data del 13 agosto 1905 varcò lo stretto di Simpson a sud della King William Island. Si dice che durante il passaggio sostò in silenzio a prua, dedicando il saluto agli eroi di quell’impresa: il comandante John Franklin, i capitani Crozier e Fitzjames, lo scrivano Christian Fraser, i tanti rimasti senza nome e senza sepoltura e anche il tenente Colby, perché la memoria era ormai depurata da qualsiasi traccia di ignominia e rancore.
Più di cent’anni dopo, nel mese di settembre 2014, una spedizione organizzata dal National Geographic annunciò il ritrovamento della nave da esplorazione Her Majesty’s Erebus al largo della costa occidentale della King William Island: il veliero giaceva in posizione verticale a dodici metri di profondità. Le alberature intatte parevano sul punto di spiegare le vele per riprendere la rotta e navigare ancora. Esattamente due anni dopo, le vestigia della Her Majesty’s Terror furono ritrovate a circa cinquanta chilometri di distanza, protette dall’insenatura di una piccola baia e in perfetto stato di conservazione. Le foto realizzate con apposite strumentazioni subacquee, divulgarono in tutto il mondo le immagini del timone coperto da una sottile patina di alghe e immerso in una fosforescenza bluastra. La campana di bordo pareva sul punto di suonare un’adunata.
Nelle lunghe notti dell’Artico, gli inuit narrano ancora certe vecchie leggende a questo proposito. Pare che nelle notti di cui il cielo è limpido e le costellazioni si toccano con la mano, quando la dea Sedna siede sulla scogliera in attesa di qualcuno che sia disposto a pettinare i suoi lunghi capelli, la campana dell’Erebus cominci a suonare.
È un suono dolce e armonioso ma anche molto lieve: per udirlo bisogna tendere bene l’orecchio, ma pare che chi abbia avuto la fortuna di sentirlo non lo dimentichi più per tutti gli anni a venire.
 
 
 
  
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: yonoi