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Autore: ChiiCat92    24/02/2019    1 recensioni
-SPOILER KH III-
"Dopo aver vissuto tanto nel buio non era strano che mal sopportasse la luce.
Non voleva che Lea cogliesse la sottile inquietudine che gli stringeva il petto, non voleva che percepisse la disagevole paura. Per questo annuiva e basta.
Ci avrebbe fatto l’abitudine, aveva ragione lui."
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix, Xemnas
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Kingdom Hearts
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-IMPORTANTE: La storia non contiene espressi riferimenti al finale di KH III ma è ambientata subito dopo la fine del gioco, per non sbagliare la considero come uno spoiler, se non avete finito il gioco non leggetela!-

 


06/02/2019

 

Moon Fall


A Radiant Garden c’era troppa luce. Durante il giorno si ritrovava spesso a strizzare gli occhi per mettere a fuoco cose e persone. Riusciva a riaprirli solo quando poi il Sole calava e il crepuscolo inondava d’oro scuro le strade.

Lea lo rassicurava dicendo che prima o poi ci avrebbe fatto l’abitudine. Dopo aver vissuto tanto nel buio non era strano che mal sopportasse la luce.

Non voleva che Lea cogliesse la sottile inquietudine che gli stringeva il petto, non voleva che percepisse la disagevole paura. Per questo annuiva e basta.

Ci avrebbe fatto l’abitudine, aveva ragione lui.

 

*

 

Nel pigro, ozioso pomeriggio, Isa aveva trovato la forza di sbrigare le faccende domestiche, e non solo perché se avesse fatto fare a Lea si sarebbero ritrovati presto sommersi dai piatti sporchi. Era soprattutto perché tenere impegnate le mani lo aiutava a mettere in ordine i pensieri.

Le piccole cose, i piccoli gesti quotidiani, i piccoli dettagli: era ciò in cui Isa si trovava più in difficoltà. Gli sembrava di non essere più in grado di fare nulla che non fosse combattere, uccidere, sopravvivere.

C’era un che di confortante nel rendersi conto, invece, di sapere ancora come si piegano le lenzuola, come si puliscono le macchie di olio sui vestiti, come si rattoppa un calzino bucato.

Le sue mani sapevano come muoversi, le dita danzavano leggere sugli oggetti ritrovando piaceri di un tempo passato, e lui poteva tornare a respirare.

Lo scroscio dell’acqua copriva il battito agitato del suo cuore. Da quando era tornato aveva l’impressione che battesse più forte, più doloroso contro lo sterno. Faceva male, ed era pesante.

Si morse il labbro inferiore, cercando di scacciare quel pensiero. Non voleva avere l’ennesimo segreto con Lea, non adesso che era così felice.

“Saïx.”

Uno spiffero gelido al suo orecchio. Si voltò, il cuore in tumulto (che dolore, che fastidio), e le dita persero la presa sul piatto che stava asciugando.

La casa era piccola, carina, arredata con i colori caldi tanto cari a Lea, due stanze da letto, un soggiorno, una cucina, un bagno. Ed era vuota.

Isa cominciò a respirare profondamente. La sensazione del cuore che cercava di fuggire dal petto non gli era nuova, solo che adesso lo spaventava.

Nella loro stanza da letto la finestra era aperta. Con le mani ancora umide andò a chiuderla, infischiandosene dei cocci del piatto che scrocchiavano sotto le ciabatte. Chiuderla, voleva solo chiuderla.

Rimase aggrappato alla maniglia della finestra per un tempo che gli parve interminabile e...sbagliato. Doveva essere stato il vento a causare quella corrente d'aria gelida, ma allora perché aveva l’impressione di aver sentito…

« Isa! » quando Lea lo chiamava con quel nome si sentiva come andare a fuoco. Era tutto rosso, intenso e caldo, e lo stomaco faceva un salto. Le spalle si rilassarono e fu in grado di scostarsi dalla finestra, anche se sentiva le mani formicolare, intorpidite. « Isa, oddio, che è successo? » probabilmente aveva visto i cocci del piatto rotto, e aveva seguito le gocce d’acqua sul pavimento fino alla camera da letto.

Quando si volse per guardarlo, Lea era sulla soglia, gli occhi verdi sgranati, le sopracciglia rosso scuro sollevate per la sorpresa, e le borse della spesa traboccanti ciuffi di verdure ancora tra le mani.

« Ho rotto un piatto. » riuscì a dirgli, straordinariamente atono.

Non era una cosa da lui, e non era solo per il piatto.

« Ho visto. » Lea piegò da un lato la testa, come se stesse cercando di cogliere qualcosa in Isa che le parole non potevano esprimere. « Ti senti...ti senti bene? »

« C’è troppa luce. » commentò solo lui, allontanando lo sguardo dal suo. Gli occhi di Lea erano sempre così insinuanti, così appuntiti, cunei per la sua anima.

Lea sbuffò, dolcemente, con un mezzo sorriso sulle labbra. Lasciò le buste della spesa e si avvicinò per tirare la tenda sulla finestra. La stanza piombò in una piacevole, delicata penombra.

« Meglio? »

« Sì. Grazie. » borbottò Isa con una smorfia.

Percepiva un fischio acuto nelle orecchie, l’urlo soffocato della sua stessa voce.

Lea lo abbracciò, caldo tanto quanto il Sole. Quando lo stringeva così, si sentiva una Luna al tramonto.  

« Va tutto bene, ci farai… »

« Ci farò l’abitudine, lo so. » ma il tono della sua voce aveva già perso metà della sua carica aggressiva. Non poteva fare altro che soccombere tra le braccia di Lea.

Ricambiò l’abbraccio stringendogli la vita, il volto affondato nell’incavo della sua spalla. Chiudendo gli occhi e premendo il viso contro di lui, l’oscurità aveva un altro colore, un altro sapore.

« Che hai comprato? » ovattata, la sua voce fece sorridere Lea, anche se Isa da quella posizione non poté vederlo.

« Tutta quella roba verde che mi hai chiesto di comprare, purtroppo. Non ho trovato i carciofi e non sapevo che altro prendere. La prossima volta potresti venire con me. »

« Non… »

« Isa. » Lea lo scostò leggermente, solo per poterlo guardare negli occhi. Il suo viso non era cambiato, eppure era totalmente diverso. La cicatrice a X che lo deturpava non sembrava più così terribile, non adesso che gli occhi erano tornati verdeacqua, profondi ma spaventati. « Non è rimanendo rintanato in casa che le cose miglioreranno. »

« Ho bisogno di...tempo. »

« Io, Roxas e Xion vorremmo andare a prendere un gelato, perché non vieni con noi? »

« Per...favore… » mormorò, stringendo appena i pugni. Dovette resistere all’impulso di alzare lo sguardo. Trovarsi nudo di fronte al giudizio verde smeraldo di Lea gli faceva male.

« Sono passate due settimane. Non puoi continuare a vivere così. »

« Io ero morto. » di nuovo, Isa sentì il dolore del cuore che batteva contro il petto. Avrebbe voluto scavare un solco con le unghie e strapparselo lui stesso. Almeno, avrebbe saputo dove riporlo. Al sicuro, al buio. « Mi devi dare...tempo. »

Lea respirò, a fondo ma piano. Era riuscito così perfettamente a limare la sua impulsività. Non prendeva più fuoco alla minima provocazione.

« Cosa mangiamo stasera? »

Isa sentì la tensione sciogliersi a quella domanda. Un giorno avrebbe trovato il coraggio di ringraziarlo per la sua pazienza, così come l’aveva trovato per confessare la sua gelosia.

« Fammi prima vedere cosa c’è in quelle buste. Senza carciofi niente sformato. »

« Mi piaceva l’idea dello sformato. » si lamentò Lea, mentre Isa andava a raccogliere le buste della spesa da terra. Non poté che sorridere a quel lamento, Lea sapeva essere così infantile.

« Vedrò cosa inventarmi. » sospirò Isa, fintamente deluso.

Posò le buste della spesa sul tavolo della cucina, e andò a prendere la scopa per raccogliere i pezzi del piatto rotto. Aveva quasi dimenticato della loro presenza, così come aveva dimenticato la causa.

Lea prese una mela dalla busta e sedette al tavolo mentre Isa puliva. Lo osservò a lungo, nelle movenze, nelle espressioni, in tutto, imprimendosi ogni dettaglio nella mente.

Con i capelli blu zaffiro legati in una coda alta e la tuta sembrava una persona normale, con una vita normale, magari con un passato noioso. Eppure, c’era una nota stonata in lui, qualcosa che arrivava all’improvviso, quando era convinto di aver finalmente ascoltato la risoluzione della melodia. Risuonava intensa, e vibrava a lungo. Cosa fosse, però, Lea non l’aveva ancora capito. Sapeva che era stonata, e non gli piaceva.

 

*

 

La notte, Isa rimaneva a lungo a fissare il soffitto scuro, finché i suoi occhi non vedevano strane immagini e ghirigori inesistenti. Lea stava accoccolato al suo petto, l’orecchio poggiato a sentire il battito del suo cuore. Per lui era un suono piacevole, mentre per Isa era a tratti insopportabile.

Con la mano affondata nei suoi capelli rossi, Isa aveva l’impressione di accarezzare un enorme, morbido gatto. Di tanto in tanto Lea emetteva dei versetti assonnati, parole smorzate che provenivano dai suoi sogni. Adorabile.

Stava per prendere sonno quando lo avvertì di nuovo: uno spiffero gelido e il sussurro di una voce.

“Saïx.”

Spalancò gli occhi nel buio, le iridi verde acqua saettarono da una all'altra della stanza. Il rosso dei capelli di Lea era più intenso nell'oscurità.

“Saïx.”

Avvertì il compagno agitarsi e mormorare qualcosa, infastidito forse dal tumulto furioso del cuore sotto il suo orecchio.

Isa respirava pesantemente, di nuovo. Non c'era abbastanza aria nella stanza per riempire i polmoni e il flusso di sangue alle tempie le facevano pulsare di dolore.

Le ombre, sul pavimento, si agitavano piano, come una nebbia venefica e pericolosa.

« È solo nella mia testa. » mormorò a se stesso.

Non c’erano ombre, non c’erano più, niente nel buio poteva fargli paura adesso.

Provò a chiudere gli occhi, si strinse di più a Lea. Una terribile nausea, però, gli prese lo stomaco. Per un attimo sentì il letto ondeggiare sotto di sé e una boccata di bile gli risalì la gola.

Scostò malamente Lea (che a dirla tutta si accorse a malapena della cosa) e corse in bagno.

Riuscì a tenersi la cena nello stomaco, ma rimase parecchio tempo in bilico sul water indeciso se infilarsi due dita in gola per vomitare: magari così la nausea sarebbe passata e avrebbe smesso di sentirsi come dentro una lavatrice.

“Ti prego, ti prego.” fu il suo disperato pensiero, mentre si appoggiava con la schiena al muro. Era coperto di sudore gelido, la maglia del pigiama gli si era incollata addosso.

Pian piano il malessere passò e riuscì a tornare lucido, presente a se stesso.

Si terse il sudore dalla fronte con il dorso della mano e andò al lavandino per sciacquarsi la bocca.

L’acqua scrosciò fredda e riposante, se la fece scorrere sulle mani, se ne gettò un po’ sul volto.

Era passato, era tutto passato.

Ora più sereno, tirò un sospiro di sollievo.

Nella fretta di raggiungere il bagno non aveva neanche acceso la luce, ma in ogni caso non ne aveva bisogno per riconoscere le forme degli oggetti, i profili del mobili. Avrebbe saputo orientarsi in quella casa ad occhi chiusi, ci aveva passato anche troppo tempo dentro.

Per questo, quando nel buio scorse una figura umana, capì subito di essere in pericolo.

Il primo istinto fu quello di evocare la sua arma, la claymore a lui tanto cara, ma si ritrovò a stringere il nulla, mentre un sorriso denso di oscurità si apriva su un volto fin troppo noto.

« No. » mugolò, spingendosi indietro, un animale messo all’angolo. Si ritrovò contro il muro senza neanche sapere come. In trappola, in trappola.

« Saïx. » il modo di pronunciare ogni lettera come se avesse un peso, l’accento morbido sulla “ï”, il sospiro indulgente sulla “x”.

Quella voce, gli armonici di profondità spaventosa, le vibrazioni dentro le sue ossa.

Isa sentì le labbra tremare per l’orrore mentre scuoteva la testa, negando a se stesso quella visione, l’incedere dell’uomo, del mostro, che popolava i suoi incubi.

« Non sei reale. » mormorò, con un filo di voce spaventato. Il pavimento sotto i suoi piedi era reale, il muro freddo contro la schiena era reale, il gocciolio dell’acqua nel lavandino era reale, non lui, non lui, non lui.

« Mi rinneghi, Saïx? » l’uomo piegò di lato la testa, i capelli d’argento splendettero in quell’oscurità come se ne fossero pregni, gli occhi d’oro vivo apparvero divertiti.

« Tu non sei qui. » Isa avrebbe voluto ringhiare quelle parole, ma uscirono dalle sue labbra come un pigolio. Si odiò, odiò la propria debolezza, odiò essere succube delle proprie paure. Di lui, di nuovo.

L’uomo aprì le braccia, le catenelle che pendevano sul cappotto di pelle nera tintinnarono leggermente, un sorriso di velluto piegò all’insù le labbra scure. « Sono qui. » poi tornò serio, il sorriso svanì, l’espressione si fece truce. « Per te. »

« NO! »

Isa portò le mani al viso, nella speranza che quella visione scomparisse, che bastasse nasconderla alla vista perché tutto tornasse come prima.

Non seppe esattamente quando aveva cominciato a singhiozzare, né quando si era raggomitolato a terra, le gambe strette al petto.

Divenne consapevole del suo stato pietoso solo quando la luce del bagno si accese e Lea si precipitò al suo fianco.

Le mani calde sciolsero la rigida posizione che aveva assunto ma Isa rimase con gli occhi chiusi, incollati dalle lacrime e dalla presunzione.

« Isa. » Lea lo scrollò, gli prese il viso tra le mani, cercò di capire cosa stesse succedendo.

L’unica cosa che lui riuscì a dirgli, però, fu: « Spegni la luce. »

Lea ubbidì, per poi tornare a sedersi al suo fianco, un braccio intorno alle sue spalle.

« Va tutto bene, sono qui. » mormorò il rosso.

La sua voce era così diversa da quella di…

Non voleva neanche pensare quel nome, lo voleva fuori dalla sua testa, fuori dal suo cuore, fuori dalla sua vita.

Appoggiò la testa sulla spalla di Lea e lasciò che la stanchezza avesse la meglio.  

 

L’indomani mattina Isa si svegliò a letto. Per un confuso momento non capì come ci fosse arrivato, poi ricordò Lea che gli sussurrava parole dolci all’orecchio, che lo convinceva ad alzarsi, che lo accompagnava tenendolo per mano.

Lui si era già alzato e probabilmente stava preparando la colazione perché sentiva rumori proveniente dalla cucina. Aveva lasciato le tende tirate, così che la stanza fosse ancora semibuia al suo risveglio.

Isa si mise a sedere solo per constatare di avere un terribile mal di testa.

Fu con circospezione che evitò di pensare a quello che era successo la notte precedente. Lo ignorò, così come si ignorano i brutti sogni.

Si alzò dal letto stropicciandosi gli occhi nella speranza di cacciare via l’emicrania, e per un attimo schegge di luce si proiettarono nel buio delle palpebre chiuse.

Riuscì a trascinarsi fino in cucina, patetico e scarmigliato come non era mai stato.

Lea aveva tenuto le tende chiuse anche lì, e Isa per un momento, solo per un momento, realizzò che forse lo stava sottoponendo a troppa pressione. Prima o poi si sarebbe spezzato, o l’avrebbe lasciato solo.

« Buongiorno. » esordì, con voce roca. Chissà se dipendeva dal fatto che aveva singhiozzato come un bambino tra le braccia di Lea.

Il rosso si voltò per guardarlo. Gli rivolse un sorriso pallido, poi tornò a badare alle uova che stava cucinando.

La tavola era già apparecchiata con succo di frutta e latte fresco. Isa sentiva ancora il sapore della bile in bocca, e cercò di cancellarlo bevendo un lungo sorso di succo.

Lea gli servì un piatto di uova e pancetta che aveva tutta l’aria di essere squisito, poi gli lasciò un bacio sulla fronte e si sedette al proprio posto.

Isa sapeva che voleva spiegazioni ma...non avrebbe saputo cosa dirgli. Perché avrebbe dovuto ammettere di essere ancora perseguitato dal fantasma di…

« È la terza volta. » disse all’improvviso Lea, senza guardarlo, senza guardare niente o nessuno in particolare. Prese una forchettata di uova, la portò alla bocca, finse di assaporarla e poi continuò. « È la terza volta che succede. Che hai gli incubi intendo. »

« Può capitare. » rispose Isa, scrollando le spalle. Tutto d’un tratto non aveva più voglia di mangiare. Si obbligò soltanto per far credere a Lea che fosse tranquillo, che avesse già dimenticato la cosa.

« A te sta capitando spesso. »

« Passerà. »

« Perché non mi racconti? »

« Non mi va di parlarne. »

Lea prese un profondo respiro. Di nuovo, Isa ammirò il modo gentile in cui lo trattava, quasi avesse paura di romperlo. Si chiese se in fondo non avesse ragione: si sentiva pronto a cadere in frantumi.

« D’accordo, d’accordo. »

Finirono di mangiare in silenzio, perché Lea non avrebbe sopportato di chiacchierare del più o del meno.

Poi il rosso si alzò, evitando accuratamente di incontrare lo sguardo di Isa, e cominciò a sparecchiare. Impilava i piatti nel lavandino sempre allo stesso modo, uno sull’altro e sopra essi le posate. C’era una strana ricerca dell’ordine in quei gesti.

« Pensi di uscire oggi? » glielo chiese leggero, come fosse un pensiero casuale e non una domanda di rilevanza oggettiva, appoggiato contro il lavello della cucina, le mani strette al bordo.

« Ho bisogno… »

« Di tempo. Ho capito. » finì per lui Lea. Anche se voltato di spalle, Isa intuì la smorfia sul suo volto.

Quanto mancava alla rottura?

« Ci vediamo più tardi allora. »

« Vuoi...che prepari qualcosa in particolare? »

Lea scrollò le spalle in risposta.

Poco, mancava poco.

 

*

 

Isa dedicò la sua giornata alle pulizie. Lavò le lenzuola, gli asciugamani, i pavimenti. Avrebbe tanto voluto poter fare lo stesso con se stesso, i suoi pensieri, le sue azioni, la sua anima.

Ma per quanto sfregasse, per quanto le mani si arrossassero per l’acqua fredda, i vecchi pensieri, i vecchi ricordi rimanevano, grondanti e miserabili.

La casa, avvolta nella penombra, silenziosa e confortante sembrava un rifugio sicuro dall’esterno, da qualsiasi cosa. Forse anche da se stesso.

Ma Lea non avrebbe voluto che rimanesse relegato lì per sempre. Se non voleva farlo per il proprio bene, almeno doveva farlo per lui.

Isa piegò l’ultimo asciugamani, lo ripose con cura tra gli altri, chiuse lo sportello, tutto con estrema lentezza, il corpo immerso come nella melassa.

Per Lea, solo per lui.

Mentre si avvicinava alla porta d’ingresso, alla maniglia, sentì formicolare la nuca. Conosceva quella sensazione, la sensazione di uno sguardo intenso sulla pelle.

« Non puoi uscire. » sussurrò la voce. Come sempre, il suo corpo la riconobbe, come la notte prima, il giorno prima, e tutti gli altri. « Dovresti saperlo. »

« Posso fare quello che voglio. » si ritrovò a dire Isa. Senza voltarsi, terrorizzato alla sola idea di vedere il suo volto. Finché di lui rimaneva solo la voce poteva credere, o almeno sperare, che fosse nella sua testa. Lì dentro poteva controllarlo.

« Il mio è un ordine, Saïx. »

« NON MI CHIAMO COSÌ. » urlò Isa, fino a graffiarsi la gola. « Isa. » continuò, più piano, pensando ai vicini. Cosa avrebbero detto a Lea vedendolo tornare a casa? Il tuo ragazzo non sta bene, parla da solo e urla come un pazzo. « Mi chiamo Isa. » strinse i pugni e si volse. Non si stupì di trovare Xemnas, in piedi, lo sguardo intenso e doloroso come un pugnale d’oro rovente. « E tu non puoi più darmi ordini. »  

Xemnas rimase qualche istante in silenzio, come se meditasse, come se pensasse a quale punizione dare a quel sottoposto indisciplinato.  

Isa tremò sotto quello sguardo, come tremava sempre, ma rimase immobile, fiero, la testa alta. Non era mai stato così con lui, non ne aveva mai avuto il coraggio.

Prima di poter anche solo difendersi, Xemnas gli fu addosso.

Fu con sgomento che Isa sentì le sue mani sulla pelle, il calore del suo respiro, la pesantezza del suo corpo. Cadde a terra, perché non era pronto a difendersi.

Com’era possibile? Lui non doveva essere lì, non poteva.

« Evidentemente hai bisogno di ricordare come si ubbidisce agli ordini. »

Isa sentì lo sfrigolare nell’aria prima ancora di vedere la lama rossa emergere dal palmo della mano di Xemnas.

Il fiato gli si bloccò in gola, non fu in grado né di gridare né di divincolarsi, mentre nella mente tornavano le immagini di quella stessa lama, dieci anni prima, che lo sfregiava per sempre.

L’uomo si avvicinò, i capelli caddero in avanti solleticandogli il collo. Le labbra erano morbide, umide, nascondevano appuntiti canini da predatore.  

« Finché avrai il marchio mi apparterrai. » disse, gentilmente, al suo orecchio.

Isa avvertì lo scricchiolare delle ossa sotto il peso dell’uomo, la paura che gli inondava le vene come un fiume non gli permise di ragionare lucidamente.

Era di nuovo quel bambino, quel bambino che aveva appena perso l’anima. Lo sarebbe sempre stato.

« Lasciami. » riuscì a dire, di nuovo solo con un filo di voce. Xemnas alzò il braccio, preparò il colpo, la lama era così calda. « LASCIAMI! »

Allora cominciò a dimenarsi, scalciando come un cavallo imbizzarrito.

Il dolore lo ricordava bene. Ricordava come bruciava la carne quando il calore arrivava fino all’osso, ricordava la pelle che bruciava e il puzzo che entrava nelle narici. Non voleva più provare quel dolore.

Scalciò e scalciò, e urlò fino a non avere più fiato nei polmoni.

I muscoli gli facevano male, la testa gli scoppiava. E lì non c’era nessuno.

Xemnas era sparito e lui era disteso sul pavimento di fronte alla porta di casa in una pozza di sudore e paura.

Tremante, si volse su un fianco e strinse le gambe al petto, il volto premuto contro le ginocchia.

Fu così che Lea lo trovò quando tornò a casa.  

 

*

 

“Sta peggiorando.” i piedi penzolavano nel vuoto, ma ormai da tempo aveva sconfitto la paura dell’altezza. E poi, sapere di poter cadere gli dava una strana consapevolezza: aveva in pugno la sua vita nel punto in cui poteva porvi fine. “Sta peggiorando e io non so cosa fare.”

Lea non era salito sulla torre dell’orologio per mangiare il gelato, non stavolta. Aveva solo bisogno del confortante lucore rossastro di Twilight Town, del calore di quel tramonto infinito. Un mondo strano, un mondo crepuscolare, mai davvero luminoso e mai davvero oscuro: così com’era lui.

Benché sentisse di dover aiutare Isa non aveva davvero idea di come fare, e non perché non fosse paziente, non perché non l’amasse, ma perché lui non glielo permetteva.

Era più che ovvio cosa nascondesse, eppure si ostinava a tacerglielo.

Quel testardo sarebbe arrivato ad uccidersi piuttosto che ammettere di avere un problema.

Sospirò, non poteva lasciarlo solo troppo a lungo. Non voleva che avesse un’altra delle sue...come definirle? Crisi?

In più, quando gli stava lontano, c’era una irrequieta stanchezza che lo prendeva, punzecchiando il suo senso di colpa.

Doveva prendersi cura di lui, doveva farlo stare meglio, nient’altro contava davvero. Non avrebbe potuto vivere a pieno quella nuova vita se Isa non ne avesse fatto parte e, ora come ora, lui era assente, un fantasma sbiadito.

Certo, c’era il suo corpo, c’era il suo cuore, ma la sua mente era altrove, impegnata in una ridicola battaglia contro se stesso.

Testardo, testardo Isa.

Lea aumentò il passo, perché come ogni volta che si assentava aveva come il terrore di non trovarlo più a casa.

Riaverlo con sé era una gioia effimera, forse perché così era Isa.

Cosa sarebbe successo se fosse scomparso? Non riusciva neanche a pensarci.

Le mani gli tremavano ancora la notte, quando lo stringeva tra le braccia. In quel momento prima che il sonno prendesse il sopravvento lo rivedeva a terra, esalare l’ultimo respiro con il sorriso. E poi scomparire, forse per sempre.

Aprì la porta in tutta fretta, ad accoglierlo la solita, pigra penombra. Così diversa da quella di Twilight Town, perché questa serviva a nascondersi alla vista.

« Isa? »

Impiegò pochi istanti a capire, e prima ancora che la sua mente desse l’ordine, il suo corpo si era già gettato in ginocchio al suo fianco.

Isa, rannicchiato sul pavimento di fronte la porta d’ingresso, mugolante come un animale ferito.

Il cuore prese a battergli in petto tanto forte che non poté evitare di sibilare un “Basta!”, come se servisse.

Lo scosse leggermente, terrorizzato, ma poi lui alzò la testa e allora poté tirare un sospiro di sollievo.

Aveva gli occhi grandi, come quando era bambino, ingenui e pieni di stupore. Quanto tempo era passato da quando aveva visto quegli occhi! Verdi, il colore dell’acqua del mare nelle giornate di bonaccia.

« Oh Isa. » Lea sentì le lacrime pungere, ma si trattenne. Lo sollevò quanto bastava per poterselo stringere al petto, forte. Come quando l'aveva visto morire. Ignorò con tutte le sue forze la tenaglia rovente che gli serrò lo stomaco. « Cos’è successo? » mormorò, sapendo già che lui non avrebbe risposto. Non lo faceva mai.

« Niente, va tutto...bene. » fu la sua tremula risposta.

Lea sentì il bisogno di gridare. Ne aveva abbastanza di negare l’evidenza. Ma non lo fece, strinse Isa più forte, gli baciò la fronte. Per l'ennesima volta inghiottì l'amaro, ma lo sentì scendere lungo la gola per andare a intorbidire l'anima.

« Riesci ad alzarti? » gli chiese, atono.

Isa annuì, ma Lea sapeva che anche quello faceva parte della ragnatela di bugie che tesseva ormai da settimane.

 

*

 

Isa si aggirava per casa come uno spirito inquieto. Non aveva pace, forse non la voleva neanche.

Da quando Lea l'aveva trovato rannicchiato sul pavimento come un animale spaventato non era più uscito, a malapena lo lasciava solo in una stanza.

Ma per Isa avere la consapevolezza di stare relegando in casa il compagno per un suo capriccio era anche peggio.

Sarebbe passato, sarebbe passato tutto con un po’ di tempo.

Seguì Lea con lo sguardo mentre andava alla porta ad aprire al fattorino con la loro spesa. Per un attimo la lama di luce filtrata dalla porta aperta tagliò l'ingresso come fosse fatto di oscurità solida.

« Wow, che buio. » commentò il fattorino, mentre porgeva le buste a Lea.

« Già. » fu la secca risposta del rosso. Prese le buste con un po’ troppa foga, strattonandole dalle mani curiose del ragazzo alla porta.

Isa poteva vedere tutto dal suo angolo seminascosto, come un bambino che spia gli adulti.

« Come mai le imposte tutte chiuse? Se posso chiedere. » insistette il fattorino.

A quel punto, Isa fu sicuro di vedere scintille accendersi tra le mani di Lea. Il fuoco dentro di lui non si spegneva mai.

« Non puoi chiedere. Buona giornata. » gli ficcò una manciata di munny tra le mani e poi quasi gli sbattè la porta in faccia.

Solo quando fu sicuro che se n'era andato si consentì di tornare a respirare.

Isa, colpevole, scivolò fuori dal suo anfratto per raggiungerlo sulla porta. Lea aveva l'aria così dimessa da sembrare sul punto di scoppiare a piangere.

« Lascia, faccio io. » gli sussurrò, prendendo le buste della spesa dalle mani calde. Un modo come un altro per voltargli le spalle e non essere costretto a guardarlo negli occhi. Non l'avrebbe retto.

Sentì Lea alle sue spalle, seguirlo a passi leggeri, e poi rimanere appoggiato sulla soglia della cucina.

Isa si impegnò a fondo per sistemare i barattoli, la frutta, la verdura: tutto pur di non doversi voltare verso di lui.

« Isa. » chiamò debolmente Lea, stanco. Eccolo, quel tono di voce. Lo riconosceva.

Il cuore prese a battere più forte in petto e lui temette per un attimo che Lea potesse sentirlo.

« Guarda, ci sono i carciofi. » Isa ne prese uno dalla busta per farglielo vedere, ma non sollevò gli occhi sui suoi. Che codardo.

« Isa. » riprovò Lea.

Se possibile, Isa abbassò ancor più la testa, fintamente concentrato su quello che aveva davanti.

« E...le uova, i peperoni, è fantastico, posso preparare qualcosa di buono. »

« ISA. » l'urlo lo fece sobbalzare, tanto che gli sfuggì di mano un peperone che non ebbe il coraggio di riprendere. « Per quanto ancora vuoi fare finta di niente? » la voce di Lea tremava, sottile, eppure era venata di fuoco vivo. « Perché io non ce la faccio più. Sono arrivato al limite. Quindi adesso...adesso mi devi dire cosa sta succedendo. »

« Niente. » fu l'insignificante risposta di Isa.

La vampata di calore che gli prese il volto fu colpa del fuoco improvviso che accese Lea di sfumature rosso ardesia. Così com'era arrivato, però, il fuoco si spense.

« Non vuoi proprio capire. » fu l'asciutto commento di Lea, anche se i suoi occhi erano pieni di lacrime. Forse il fuoco aveva bruciato l'emozione nella sua voce. « Me ne vado. »

« Cosa…? » patetico. “Fa’ qualcosa! Parla!”

« Me ne vado. Non riesco più a vivere così. Non sopporto il tuo silenzio, non sopporto questo buio. »

« No, aspetta… » “Parlagli di Xemnas, del suo fantasma, di quanta paura hai.” La lingua era incollata al palato.

E Lea stava aspettando, immobile sulla soglia. Solo il velocissimo sollevarsi e l'abbassarsi del suo petto rendevano visibile la sua agitazione. Aspettava, per l'ultima, disperata volta, che lui gli dicesse qualcosa. Qualcosa che fosse diverso dalle bugie che aveva sentito in quelle settimane.

« Niente. » sfuggì però dalle labbra ad Isa.

Se ne pentì un istante dopo, perché Lea si volse, raggiunse la porta a grandi passi, lasciandosi dietro impronte bruciate sul pavimento.

« Lea! »

Non ascoltò il suo richiamo, spalancò la porta, e lui non riuscì ad avvicinarsi alla luce del giorno, spaventato di bruciarsi e scomparire come fosse fatto di carta da zucchero.

« Lea, per favore. » lo supplicò, dalla distanza di sicurezza che lo separava dalla luce.

Il rosso si volse solo per un attimo, il viso contratto nello sforzo di non piangere.

Non disse nulla, neanche ci provò, tutto quello che poteva dire Isa lo conosceva già.

Se ne andò via senza chiudere la porta. Rimase spalancata, con le propaggini del giorno che avanzava, finché il sole non tramontò su Radiant Garden. L'oscurità consentì a quell'essere miserabile che era Isa di richiuderla, di scivolarvi sopra con la schiena fino a sedersi a terra. E di diventare consapevole che adesso era davvero solo con lui.

 

Quando sentì i passi lungo il corridoio Isa alzò la testa, senza sobbalzare, senza stupirsi: sapeva che insieme alla notte sarebbe arrivato anche lui.

Le ossa gli facevano male per le ore passate raggomitolato sul pavimento. Non si era mosso, si era obbligato a rimanere seduto davanti alla porta. Se si fosse alzato da lì avrebbe dovuto accettare che Lea se n'era andato e che era solo colpa sua. Non era forte abbastanza per sopportarlo.

« Sei patetico. » la voce di Xemnas, profonda ma soave, gli arrivò all'orecchio come da molto molto lontano.

« Tu sei morto. » riuscì a sussurrare in risposta. Aveva gli occhi gonfi di pianto e nel tessuto sbrindellato della realtà che aveva davanti la figura dell'uomo gli apparve sfocata, tremolante.

Ma era , era davvero lì. Come poteva essere morto se lo vedeva, lo sentiva, se lo poteva toccare e...essere toccato?

Un brivido gelido gli percorse la schiena quando l'uomo si avvicinò di più.

Isa lo guardò dal basso e si sentì di nuovo come quando era ragazzino, la prima volta che l'aveva incontrato. Quando lui gli aveva dato il suo nuovo nome.

« Non sei altro che oscurità, Saïx. » continuò Xemnas, come se stesse terminando un discorso inizato in precedenza. « Cosa ti aspettavi da questa vita? Felicità? Amore? Luce? » Isa lo seguì con gli occhi mentre si fletteva sulle ginocchia per essere alla sua altezza. « Non esistono queste cose per te. »

Isa sentì il labbro inferiore tremare, ma riuscì a chiudere la mano a pugno e scagliarsi contro il volto dell'uomo.

Lui, però, come se si aspettasse quella mossa, si limitò ad afferrarlo per il polso, scuotendo la testa con disappunto.

« Quando smetterai di combattere? È quello che ti riesce meglio. »

« Mai. » ringhiò Isa.

Troppo rumore, il cuore in petto gli faceva male, risuonava nelle tempie come un gong.

Xemnas rise, di gusto. Amava quel piccolo animaletto riottoso. L'aveva addestrato una volta, non sarebbe stato difficile farlo ancora.

Lo schiaffeggiò così forte che Isa per un momento perse ogni cognizione, il sangue che gli riempiva la bocca era l'unica cosa a cui aggrapparsi.

« Tu sei mio. »

Dopo lo schiaffo, Xemnas gli carezzò il volto. Sulla pelle Isa sentiva come degli aghi, lì dove lui l’aveva colpito.

« Io non sono tuo. » gli disse. Anche se gli tremava la voce, anche se aveva paura non abbassò lo sguardo. « Non sarò mai più tuo. »

Seguì un altro schiaffo. Isa mugolò per il dolore, dovette sputare un grumo di sangue da un lato per non doverlo inghiottire.

« Saïx, da bravo. Non costringermi a sciuparti. » Xemnas gli afferrò il viso, così forte da lasciare i segni delle dita sulla pelle diafana. « Sei ancora il mio braccio destro. »

Per tutta risposta, Isa gli sputò in faccia saliva e sangue.

L’uomo rimase immobile, sorpreso per un lungo attimo. Poi gli lasciò il polso, che stava ancora tenendo in una morsa, per asciugarsi il volto con il dorso della mano.

« Da dove viene tutta questa insubordinazione? » non era neanche una vera domanda, anche se ne aveva l’intonazione.

« Forse dal fatto che non sono più un tuo sottoposto? »

Xemnas scoppiò a ridere. Isa conosceva quella risata, priva di allegria, priva di qualunque emozione, perché lui non poteva provarne. Era una gorgogliante, spaventosa recita. Perché il suo volto tornò ben presto serio, gli occhi d’oro intenso brucianti come una fornace.

La luce della lama eterea che emergeva dalla mano di Xemnas era rossa, sanguigna, illuminava l’ambienta in modo irregolare, creando strane forme contro il muro.

Per un attimo, uno spaventato attimo convulso, Isa desiderò non avere più un cuore per non essere costretto a provare tutto quel terrore. Conosceva il dolore, come un cane conosce il bastone del padrone, sapeva come bruciava la carne, sapeva quanto forte l’avrebbe fatto urlare.

Le labbra di Xemnas si sollevarono in un sorriso storto, crudele. Era il sorriso di una creatura crudele, venuta dal profondo di un baratro senza nome.

« Forse dovremo ristabilire la gerarchia. »

La lama era calda, la carne di Isa riportava alla memoria il formicolante ricordo di quel calore, ed era vicina, sfrigolante.

L’avrebbe colpito, l’avrebbe marchiato, sarebbe caduto, la sua nuova vita sarebbe tramontata così, alla luce di un’alba rossa fuoco.

“Lea.”

Era l’ultima cosa a cui avrebbe pensato prima di sparire nell’oscurità.

Il calore di un fuoco così diverso, il bruciare di un’anima ardente che non faceva male quando toccava la sua.

“Lea.”

« No. » disse, sottovoce, le mani che tremavano, strette contro il nulla alla spasmodica ricerca di qualcosa. « No. » ripeté, più forte, anche se era rauco, anche se ogni lettera gli graffiava la gola. « No, non stavolta. Mai più. Io non ho paura di te. »

Avvertì la presenza della sua arma prima che questa si manifestasse, ma le sue mani erano pronte: si chiusero entrambe sul manico della claymore e con un movimento che gli costò tutte le sue energie menò un fendente verso l’uomo.

Lui non si difese.

La claymore falciò l’aria, trapassandolo. Cambiò espressione, solo per un attimo. Per un impercettibile momento sembrò accusarlo, le labbra si mossero come per dire qualcosa, mentre gli occhi si riempivano di sgomento.

Poi svanì, divenne polvere nera e Isa dovette serrare le palpebre perché non gli entrasse negli occhi.

Rimase così, ansante, per quelle che gli sembrarono ore, con le mani strette sul manico della claymore.

Si arrischiò ad aprire gli occhi quando la luce tentò di penetrare la barriera delle palpebre: la tenda scura che Lea aveva tirato sulle finestre dell’ingresso era leggermente scostata e lasciava che un raggio di sole entrasse all’interno.

Isa si arrischiò a sollevare una mano per sfiorare quel raggio tiepido, prima con la punta delle dita, poi immergendovi tutto il palmo. La pelle era lattea, spettrale e bianca, ma la luce gli conferiva sfumature di un delicato rosa che lui non aveva mai notato.

Quando si alzò, barcollante, la claymore sparì, sapeva che avrebbe potuto richiamarla quando voleva ma non ne avrebbe avuto bisogno: non c’era più nessuno da cui doveva difendersi.

Aprì la porta d’ingresso con un gesto deciso, e si immerse nella luce del mattino.


Lea aveva in bocca un saporaccio amaro che avrebbe volentieri scacciato con qualcosa di dolce. Come un gelato ad esempio. O un bacio.

Con la lingua continuava a percorrere il profilo dei denti, come a voler cancellare, inghiottendolo, quel sapore.

Sulla cima della Torre dell’Orologio l’aria era sottile ma calda, sotto di lui la vita continuava placida.

Agitò le gambe nel vuoto, come faceva sempre, perfettamente padrone del suo equilibrio, chiedendosi se in fondo valesse la pena. Mantenerlo, mantenere quell’equilibrio.

Di nuovo, la lingua raschiò il palato, toccò ogni dente. Cos’era rimasto in bocca che andava imputridendo tutto il resto di lui?

L’abbandono.

Avrebbe dato tutto per…

Si voltò perché all’improvviso un oggetto entrò nel suo campo visivo. Teso come la corda di un violino sarebbe saltato su preparandosi a difendersi da un attacco se il suo cervello non gli avesse comunicato che si trattava solo di un gelato, un comunissimo gelato al sale marino.

Lo prese dalla mano che glielo stava porgendo, incredulo, e lo osservò a lungo mentre sulla superficie azzurra si formavano piccole gocce di condensa.

« Dimmi che sei qui davvero. » gli uscì dalle labbra, rabbiosamente, ma anche tremolante.

« Sono qui davvero. »

Allora Lea alzò gli occhi.

Incontrò il volto sereno di Isa, perso in ammirazione del crepuscolo, una gamba oltre il bordo, sul vuoto, l’altra piega sul muretto.

Quando si voltò, l’acquamarina delle sue iridi sembrava più brillante.

Lea diede un morso al gelato, ignorando la fitta gelida dei denti e masticando fino a farsi male alle mascelle. Nonostante il groppo che aveva in gola riuscì ad ingoiare il boccone.

« Era Xemnas. » iniziò Isa, calmo, la mano che non stava stringendo il bastoncino del gelato cercò timida quella di Lea, abbandonata di fianco a lui. « Lui…è tornato per prendermi. Non potevo permetterglielo. »

« Perché non mi hai detto niente? » biascicò Lea, odiandosi perché irrimediabilmente le sue dita si erano intrecciate a quelle di lui.

« Avevo paura. » Isa diede un morsetto al gelato, lo fece sciogliere sulla lingua, gustandolo fino in fondo prima di mandarlo giù. « Non sapevo se fosse reale o solo nella mia testa. Non lo so neanche adesso. »

Lea non poté trattenersi oltre. Mollò il gelato che, mezzo mangiato, volò giù oltre il parapetto, e si lanciò su Isa, gettandogli le braccia al collo.

Isa, preso quasi alla sprovvista, rischiò di perdere l’equilibrio. L’odore di terra bruciata che impregnava i capelli di Lea si mischiava con quello salmastro del gelato.

« Non farlo mai più. » mugolò il rosso, il viso schiacciato contro la sua spalla. « Non lasciarmi mai più fuori, non impedirmi mai più di aiutarti. »

Ricambiò l’abbraccio piano, quasi avesse paura di rompere il fragile calore di Lea.

« Mi dispiace. » non fu neanche così difficile dirlo. Processare quei sentimenti era estremamente naturale, il cuore conosceva risposte che non era dato sapere alla mente.

Lea allungò la mano e gli strappò dalle dita il gelato a cui, come prima aveva fatto con il suo, diede un grosso morso.

Isa si trattenne dal ridere, ma lo lasciò fare.

« Torni con me? » gli chiese dopo un po’, quando Lea stava succhiando le ultime tracce di gelato dal bastoncino.

Non gli rispose, non ce ne fu bisogno, perché il bacio che lasciò sulle sue labbra valeva più di ogni risposta. Era dolce, un po’ salato, avvolto di fiamme danzanti.

« Andiamo a casa. » mormorò Lea, allontanandosi quel tanto che bastava per far capire a Isa di non poter fare a meno di lui, di non poter alimentare la sua esistenza senza di lui.

A Radiant Garden c’era troppa luce, ma la più brillante, per Isa, sarebbe sempre stato Lea.


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The Corner 

Di tanto in tanto torno con qualche piccola shot. Era da un po' che non mi facevo sentire, vero? A chi sono mancata? Ahahahah.
Dopo KH III non potevo fare a meno di scrivere qualcosa, e se tutto va bene non sarà neanche l'ultimo lavoro. 
Ma chi lo sa? 
Sono così incostante! 

Come sempre,
alla mia Musa, a cui devo tutto.

Chii






 
   
 
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